"This Is P.I.L.", più che un titolo un proclama e vorremmo anche noi, sig. Rotten, che il Pil fosse questo e non quello di cui ci si ritrova a leggere quotidianamente. Anche se.... sin dal primo titolo ci viene detto, manco a volersi autoconvincersi del fatto, che sì, questi sono i PiL, no? Stessa idea minimale e seriale nell'organizzazione del suono e della forma-canzone, dove la costruzione, tanto più a trent'anni di distanza, viene percepita come frammentazione e dunque paradossalmente, "decostruzione" ma... Ciò che balza subito all'orecchio è un suono davvero tanto debole a fronte di un Lydon aggressivo e a suo modo credibile come sempre, cui si aggiungono gli slanci lirici da lui maturati negli ultimi anni. Nessuna batteria dal suono industriale o chitarre a fendere l'aria con sciabolate, contro le reiterate urla "we cannot change us" di "One Drop" in cui il canto sposa cadenze reggae a declamazioni punk (di post-punk, qui, neanche l'ombra).
Va appena un po' meglio con "Deeper Water", dove la melodia è piacevole per quanto ripetitiva (non avevamo certo paura di dimenticare il bridge anche se questo fosse stato cantato una decina di volte in meno) e l'arrangiamento con qualche guizzo, anche di suono. Avremmo fatto a meno dei coretti, ma tant'è... e certo, la produzione poteva essere molto, ma molto più curata - qui come nel resto del disco, con la voce in massima evidenza e le chitarre che sembrano un'eco a se stesse.
"Terra-Gate" è invece un episodio davvero convincente e ispirato, senza riserva alcuna. La fredda e passionale aria da Sturm und Drang torna a spirare e forte, tra grandi riverberi, suoni diretti e lancinanti, un'interpretazione vocale superlativa.
Il tentativo di svecchiamento di cliché passati in "Human", pur con il classico impegno socio-politico del testo, mai più indicato in questo buio maggio, non funziona del tutto. Rimane il "solo" di chitarra di Lu Edmonds al minuto 2' 32 a riaccendere gli animi. "I Must Be Dreaming" punta a un rock radiofonico ben sostenuto dal basso trattato di Scott Firth, ma nulla di che, anche qui con dovizia di coretti ad annacquare un brano di per sé null'affatto memorabile.
"It Said That" è invece un episodio di ottimo livello, capace di aprirsi a melodie arabeggianti su ritmiche e cantato post-punk. Questo appare sì come un possibile e interessante nuovo volto nella storia di questa band. "The Room I Am In" è altrettanto interessante, con la sardonica declamazione del testo in forma recitata, associata all'ipnosi lisergica dell'impianto strumentale. Qui riconosciamo la band nella sua dimensione autenticamente avant che le fu propria.
"Lollipop Opera" gioca con il punk, l'elettronica, l'hip-hop, in maniera curiosa ma tale da risultare un po' cartonata in studio. Sarei curioso di ascoltare il brano dal vivo. Una sorpresa, comunque. Non male "Fool" e "Reggie Song", insopportabile "Out Of The Woods", alleggerita appena da un banjo nella sezione centrale che allenta l'eccesso radiofonico del brano, esasperato per giunta dai suoni elettronici (fuori luogo) di Firth alle tastiere.
Un ritorno che non esalta né delude, meglio di quanto fatto dai Bauhaus con "Go Away White".
Saranno anche i PiL, ma il furore sonico degli esordi è un ricordo lontano e non nego che avrei voluto ascoltare quest'album con Rotten accompagnato da un'altra band. Un album con due-tre buoni momenti, qualcuno dignitoso, altri tremendi e che dunque non riesce minimamente a reggere il confronto con il passato glorioso di questo ensemble, che dal vivo saprà certamente regalare ancora emozioni, ma che su disco autoproclama la sua vitalità su binari antichi e tenta nuove strade sfiorando a malapena una buona resa, tanto nell'una che nell'altra direzione.
Torno ad ascoltarmi "Metal Box", sperando che il nuovo Dead Can Dance giunga sotto ben altri auspici. Ah, sig. Rotten, non me ne voglia, ma evidentemente anche "questo" Pil è in ribasso...
22/05/2012