Gang Of Four

Gang Of Four

L'intrattenimento al vetriolo

Pionieri del punk-funk, alfieri della cosiddetta "onda rossa" britannica, i Gang Of Four sono una delle band più imitate degli ultimi due decenni. Liars, Rapture, Franz Ferdinand, Futureheads & C. sono tutti, a vario titolo, figli loro. Di quell'incredibile impasto di ritmiche ossessive e schitarrate atonali, esploso con un disco del 1979 ("Entertainment!") e che ora sta per vivere un clamoroso ritorno in scena

di Lorenzo Salzano

2006: prima inquadratura del film "Marie Antoinette" di Sofia Coppola. La regina di Francia, impersonata da una conturbante Kirsten Dunst, sorride allo spettatore, mollemente stesa su un triclinio. Il lusso patinato ed erotico della scena viene però sconvolto dalla musica fuori campo, è una pulsione martellante e nevrastenica. È un uomo che grida frasi come "non c'è fuga dalla società/ la natura non c'entra niente/i vostri rapporti sono di potere/ tutti abbiamo buone intenzioni/ ma tutti siamo manovrati".
Sono i Gang Of Four.
1979: dopo un decennio di lotte sindacali e scioperi che sembrano paralizzare l'Inghilterra, viene eletta primo ministro Margaret Thatcher, leader del partito conservatore. È la fine del predominio del Labour Party, e l'inizio del progressivo smantellamento dello Stato sociale e delle conquiste ottenute dal movimento operaio.
Oggi: sul piatto, un vecchio disco tornato di gran moda, tutti lo citano, tutti lo copiano, Flea dei Red Hot Chili Peppers dice in un'intervista che è molto figo. La copertina promette bene, il titolo è "Entertainment!"...

La storia di questo disco inizia più di trent'anni fa nell'estate del 1977, quando Dave Allen risponde a un'inserzione da parte di tre ragazzi che, come lui, frequentano l'Università di Leeds, e sono in cerca di un bassista per una "band di r'n'b veloce". I quattro si battezzeranno Gang Of Four in riferimento al gruppo dirigente succeduto a Mao nell'opera della rivoluzione culturale cinese, e si spartiranno così i ruoli: John King alla voce, Andy Gill alla chitarra, Dave Allen al basso, Hugo Burnham alla batteria.
Alla radio imperversano i Sex Pistols con canzoni che definiscono la Storia una "mad parade" e ridicolizzano l'anniversario della monarchia britannica, le regole nel mondo della musica sono cambiate, e c'è spazio per dire la propria, per chi abbia idee e coraggio, se non una perfetta tecnica strumentale.
L'immaginario dei quattro va però oltre i provocatori e dirompenti richiami al Situazionismo e all'anarchia del gruppo di Mc Laren, mettendo insieme la pittura di Manet, i film di Jean-Luc Godard, l'r'n'b di George Clinton (Parliament-Funkadelic), il clima di violenza quotidiana in cui degenerano gli scontri tra manifestanti di sinistra, National Front e polizia per le strade di Leeds.

Gang Of FourÈ proprio nell'anno dell'elezione della Thatcher che i Gang Of Four esordiscono con quello che diverrà uno dei manifesti più eloquenti dell'impegno politico applicato al rock.
Entertainment! è questo, ma anche molto di più. Se l'album fosse stato una accozzaglia di slogan e ideologia rimasticata in chiave rock, un "neo-marxist funk", come una recensione disse, sarebbe bastata la Storia, con quella data impressa sulla copertina, a cancellarlo dalla memoria collettiva, con una smorfia di ironico compatimento. L'album invece ha avuto la forza e le idee per reggere l'urto della Thatcher, e per arrivare fino ai naufraghi del neo-liberismo globale del Duemila come una scheggia di lucidità dura, impietosa, una lezione che fa male.
Ad aprire le danze è "Ether", vero e proprio incipit programmatico, la ritmica marziale e geometrica di basso e batteria viene squassata dai taglienti interventi di una chitarra capace di riff ossessivi e minimali come di interventi più morbidi e minacciosi. Due voci rispondono l'una all'altra rivelando una verità scomoda: "Sporco dietro al sogno/ il finale felice/ è alla fine dell'arcobaleno". Al di là della facciata luminosa del sogno capitalista, sorretta dai mezzi d'informazione e dalla propaganda politica, c'è una realtà di sfruttamento, di rapporti di forza tra padroni e servi, una illusione cui tutti si conformano pur di non essere messi da parte. La tensione del pezzo scende e poi riesplode di nuovo, come una energia fredda e distruttiva, controllata ad alto prezzo dalla ragione. Quando il riff meccanico e ossessivo della successiva "Natural's Not In It" riprende il discorso, le coordinate musicali del lavoro sono abbastanza chiare: new wave pervasa da un funk duro, raggelato, allo stesso tempo trascinante e privo di concessioni alla semplice ballabilità.
È funk fatto dai bianchi, come quello dei newyorkesi Talking Heads (che hanno esordito due anni prima con "'77"), ma mentre il sound della band di Byrne è il ritratto della nevrosi urbana e stradaiola, della nuova Babele dei ritmi, la musica di Gill e soci ha lo scopo di mettere in scena un conflitto: lo scontro tra corpo e ragione, tra speranza e disperazione, tra illusione e devastante lucidità.
Di qui in poi si procederà sempre per antitesi, è funk ma non si balla, è una energia fisica squassante, ma non si libera mai del tutto, ingabbiata dalla ragione, è divertimento ma non semplice intrattenimento, serve soprattutto a porre dei dubbi. Qui sta la grandezza dei Gang of Fuor, non predicare alcunché, non trasmettere certezze, ma comunicare a tutti che il sipario delle illusioni si è strappato, e che per resistervi bisogna ingaggiare una lotta prima di tutto con se stessi, allo scopo di restare lucidi. Anche il premio dello sforzo, lo vedremo, sarà ambiguo.
È una disperata vitalità, per dirla con Pasolini, che guida i quattro giovani iconoclasti nella furia consapevole del loro primo album, nello smantellamento sistematico delle comuni certezze e illusioni attraverso le armi della parola e della musica: non ci sono pistolotti marxisti, ma solo la lucida consapevolezza della lotta in atto dietro la placida facciata del consumismo. Il primo dogma da sfatare è che "Natural's Not In It": la natura non c'entra, ma, per dirla con il loro esegeta Greil Marcus "gli stipendi, la propaganda ufficiale, il sistema consumistico, ma anche il modo in cui compri una maglietta, fai l'amore, guardi le news della sera o ti volti dall'altra parte, non è naturale, ma il prodotto di una mano invisibile. È una costruzione interessata, il progetto di qualcuno, un progetto di potere".

"I comportamenti e le credenze che la gente ritiene naturali" dice John King "sono state ereditate dalla struttura sociale in cui si è cresciuti". Quello che viene messo in scena in Entertainment! è il dramma dell'uomo che si è reso conto di questo e cerca di resistere, sia individualmente sia in ambito familiare, alle sirene simboleggiate dai televisori raffigurati nella copertina interna del disco, finalizzate a fargli credere che il sistema lavora nel suo interesse, per un futuro di progresso, quando invece lo sfrutta e lo usa per i propri fini.
La musica rappresenta il conflitto con l'alternarsi di pause ed esplosioni quasi di panico o di rabbia, soppressa da parte della chitarra di Gill, vero mattatore, capace di passare dalle ritmiche funky a momenti noise distorti e lancinanti fino a citazioni della psichedelia con grande fluidità. Intanto il basso, lineare e potente, a volte energico e altre solenne, tiene le fila del discorso, trattenendo nel proprio rigore l'energia deragliante del chitarrista e del cantante. Questi dà invece vita a veri e propri recitativi, a tratti isterici, lamentosi o raggelati, concedendo spazio alla melodia per gli efficacissimi ritornelli. Le rasoiate di chitarra, meccaniche e ossessive, del secondo pezzo, lo accompagnano nel suo allucinante slogan finale "this heaven gives me migraine": questo falso paradiso dà il mal di testa", è un mercato dove tutto ha un prezzo e tutto è un inganno, persino la passione diventa "repackaged sex"allo scopo di "mantenere l'attenzione", o meglio distoglierla.
"Not Great Men" è più cadenzata, e tempera la furia dei primi due pezzi, prendendosela con la Storia: prodotto non dell'azione di grandi uomini, come dicono i libri, ma delle masse, non teatro delle imprese dei condottieri, ma dell'imperitura oppressione: "The poor still weak, the rich will always rule". Ma è "Damaged Goods" ad alzare il tiro, su un incastro ritmico di nuovo trascinante: l'amore è ridotto a rapporto fisico spersonalizzante, così come gli stessi uomini sono alienati nella dimensione di oggetti: se non vanno più ("Bene danneggiato/ rimandami indietro, non funziono, non produco") possono essere scartati nella sicurezza che lo slogan da supermercato "a change can do you good" possa valere anche per loro.
"Return The Gift" presenta un racconto morale su una linea sinuosa del basso spezzata nel robotico ritornello: una donna ha vinto un premio a un concorso, e sono le sue parole che King ripete ossessivamente ("per favore mandatemi serate e week-end") a significare che il solo accettare il dono vuol dire essere arruolati nel sogno consumistico. La soluzione è una sola: "Return The Gift".
Dopo la convulsa "Guns Before Butter", si giunge all'unica oasi melodica del disco: il pop-rock trascinante e lirico di "I Found That Essence Rare", che mira al cuore del sogno televisivo, l'utopia di benessere degli anni Cinquanta, per scoprire che "vedi la ragazza in Tv che indossa un bikini/ non lo pensa ma è vestita per la Bomba- H". Soltanto gli illusi possono ancora pensare che i politici useranno bene i loro voti, solo guardando il mondo con lenti colorate si può sperare che "le cose miglioreranno molto per le classi lavoratrici", ma almeno qui il pessimismo della ragione è stemperato dall'ironia del gioioso ritornello.

Forse l'"essenza rara" che King ha trovato con gioia è solo un modo per combattere il sistema con le sue armi, così come intitolare un album "intrattenimento" pur presentando fin dalla copertina accattivante e colorata una scenetta di inganno. E se il matrimonio si rivela un contratto ("Contract") molto diverso dalle scene sognate leggendo le riviste, il conflitto si sposta tra le stesse mura di casa: "At Home He Is A Tourist". Il brano, nuovo picco dell'album, parte solenne, propulso da un basso dub rimbombante, per poi precipitare in un nuovo ritornello ossessivo e in un break-down di sola sezione ritmica, fino a esplodere in una nuova tempesta di disturbi chitarristici. A scontrarsi sono i desideri delle strofe con il cinismo del ritornello: il personaggio che ha "mangiato la foglia" cerca di difendersi riempiendosi la testa di cultura, ma diventa un estraniato dalla società, fuori luogo persino a casa propria. Per contro, l'industria dell'intrattenimento anestetizza la gente lucrando sulla voglia di distrarsi "down on the disco floor they make their profits".
Il nuovo intrattenimento è quello proposto da "5.45", dove all'inglesissimo rituale del tè si sovrappone la visione in tv di violenze e orrori da ogni parte del mondo, trasformati in rumore di fondo e privati della capacità di far indignare o riflettere: "guerrilla war struggle is the new entertainment".
L'album si chiude con l'olocausto chitarristico di "Anthrax", dove Gill recita su un ritmo lento, tra una vampata psichedelica e l'altra della propria chitarra, per proporre il sacrificio estremo alla causa: persino l'amore viene paragonato a un'infezione e scartato pur di "controllare ciò che faccio alla mia mente".
Ogni valore dell'intrattenimento musicale è quindi ribaltato e riaffermato allo stesso tempo, alla fine dell'ascolto si è spossati e scossi ma non privi di piacere e voglia di ricominciare.

La riedizione in cd dell'album ripropone anche alcuni pezzi usciti su Ep. "Outside The Trains Don't Run In Time" prova nuove elaborazioni della martellante trama ritmica proposta sull'Lp, "He'd Sent In The Army" vede un susseguirsi di pause guidate dalla chitarra singhiozzante di Gill fino a un crescendo di disturbi atonali, "It's Her Factory" crea invece un'atmosfera più morbida e sinistra, punteggiata da una fisarmonica straniata, per trattare il tema della condizione femminile: la casa è la fabbrica della donna.

Gang Of FourLa storia dei Gang Of Four continua con un altro album di pregevole livello, Solid Gold dell'81, che segue le stesse coordinate del primo con una produzione più curata. Emerge soprattutto il drammatico e raggelante recitativo di "Paralysed", che offre voce a uno dei tanti disoccupati dell'Inghilterra thatcheriana, una di quelle persone rese "ridondanti" da un sistema che le ha scartate, rese prive di vita, paralizzate. Il dramma è sempre interno all'individuo, non si parla di politica in astratto, ma di persone e dei loro sentimenti, per questo la portata di queste canzoni si mantiene attuale, anche senza contare lo sgonfiarsi della cool Britannia di Blair in questi anni Duemila, che vedono prospettarsi lo spettro di una nuova recessione persino in Inghilterra.
"What We All Want" mostra invece il picco della potenza fisica della band, con una sezione ritmica travolgente e un Gill letteralmente devastante, tra ossessioni ritmiche e vampate di noise lancinante. "In The Ditch" è sospinta da una ritmica di derivazione funk e jazz, sulla quale si svolge un cantato/parlato gelido e monocorde.
Rispetto all'esordio, i brani appaiono generalmente più cadenzati e meno feroci, senza però perdere in tensione, il tono raggelato di queste nuove escursioni aggiunge, anzi, un senso di lucida disperazione all'atmosfera complessiva dell'album. La chitarra è sempre tagliente e inesorabile, ma riesce anche a creare veri e propri paesaggi sonori, di grande emotività, grazie all'uso degli effetti e alla tecnica anticonvenzionale di Gill. Basti ad esempio la sequenza di singhiozzi e stridori che accompagnano "Capital (It Fails Us Now)".
Il tono dei testi si fa in generale più cupo, analizzando il ruolo delle donne in "Hole In The Wallet (Stay In Bed Or In The Kitchen)" o criticando il sistema americano ("a volte penso che il denaro sia il mio solo scopo") in "Cheesburger".

Certamente, però, il gruppo non ha la stessa incisività del Pop Group che nel 1980 ha pubblicato il capolavoro "How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?" e che, partendo da premesse musicali e ideologiche simili, giunge a risultati ben più estremi e apocalittici anche in termini di sperimentazione ritmica.

I Gang Of Four centrano ancora alcuni successi con la ballabile e trascinante "To Hell With Poverty", contenuta nell'Ep Another Day, Another Dollar, e dotata di basso slappato e vocalizzi graffianti per una litania sarcastica sullo stato delle cose ("To hell with poverty we'll get drunk on cheap wine").

L'album successivo, Songs Of The Free (1982), vede l'allargarsi di queste concessioni al facile ascolto con un sound patinato e un forte stemperarsi dei toni. Peggio ancora, Dave Allen viene allontanato in favore di Sara Lee. "Call Me Up" è un brano pop dalla leggerezza insostenibile.
Rimangono il sarcasmo antimilitarista e antimaschilista di una "I Love A Man In A Uniform" con coretti femminili, le atmosfere create da Gill in "I Will Be A Good Boy" e "The History Of The World", attraverso sparsi rumorismi, e soprattutto la poesia di "We Live As We Dream, Alone". Questa, su un basso slappato e una ritmica pesante, costruisce una vera e propria elegia della sconfitta sociale e individuale: "L'uomo non è nato per vivere in isolamento/ ma a volte sembra così... per rompere il guscio ci mischiamo agli altri/ alcuni flirtano col fascismo/ altri riposano tra le braccia degli amanti/ viviamo come sogniamo, da soli".

Il passo finale della prima fase dei Gang Of Four è l'ancor più banale Hard (1983), caratterizzato dal pop di brani come "Is It Love?", dove la band è semplicemente irriconoscibile.

Quella della formazione di Leeds, date le premesse, non poteva comunque diventare una carriera nel senso pop del termine, e si trasforma quindi in una storia "di culto", con sporadici ritorni sulle scene, uno negli anni Novanta caratterizzato anche da nuovi album (Mall, 1991, con inserti rap, Shrinkwrapped, 1995) e uno più vicino, nel 2005 (coi vecchi classici risuonati in Return The Gift e alcuni concerti in cui pare che John King si sia dimenato, saltando come un ossesso, come ai vecchi tempi).

Lo status di gruppo leggendario è assicurato dall'influenza indiscussa sull'indie-rock successivo (Gill ha prodotto il primo album dei Red Hot Chili Peppers, ma anche Peter Buck ha confessato l'influenza della Gang sui primi Rem) e dal plauso delle nuove generazioni di musicisti (di quanti gruppi degli ultimi anni avete letto che hanno ritmiche alla Gang Of Four?).
Rimane il fascino di un disco che è tanto del proprio tempo, un tuffo indietro nel 1979, quanto del nostro, una lezione di integrità artistica e di pensiero di cui non si può ancora fare a meno.

I Gang Of Four suoneranno per la prima volta in Italia, il 2 agosto, all'Indie Rocket Festival di Pescara, portando in tour il meglio del loro repertorio e un assaggio del nuovo, attesissimo album.
Dopo oltre venti anni, si ricomporrà la formazione originaria della band, quella che registrò Entertainment!.

Nel 2011 è tempo di una nuova reunion, il cui esito risponde al titolo di Content. Si parte con le chitarre nervose e i ritmi spezzettati di "She Said You Made A Thing Of Me" e "You Don't Have To Be Mad", pregne di richiami new wave, quindi in linea con i corsi e ricorsi storici attualmente in voga. Pare una buona partenza, ma di lì a poco iniziano ad emergere le prime magagne.
Ci si imbatte presto in tracce che fanno fatica a stare in piedi, come nel caso di "I Can't Forget Your Lonely Place", peraltro peggiorata da un lavoro di iper-produzione che rende il risultato fin troppo patinato, o in soluzioni dal ritornello troppo fastidiosamente canticchiabile, con esiti (pregasi ascoltare "Who Am I") che sanno di Duran Duran fuori tempo massimo. In "You'll Never Pay For The Farm" paiono invece dei cloni dei vibranti primi Simple Minds, e in "I Party All The Time" si intravede lo spettro di Bowie fra aloni glam Roxy Music-style.
Cercano di salvarsi in calcio d'angolo con la ballad indie sporcata di delay e riverberi "A Fruitfly In The Beehive", ma tutto continua a risultare terribilmente anemico. E il peggio deve ancora arrivare: lo si raggiunge per merito della successiva "It Was Never Going To Turn Out Too Good", elettro spazzatura nella quale Jon King duetta con un robotico vocoder, senza mai riuscire a delineare quell'atmosfera apocalittica che avrebbe desiderato. Nel resto delle tracce va un po' meglio, ma non vengono risollevate le sorti del disco. Anzi in "I Can See From Far Away" si finisce nuovamente a fondo con un ritornello che inizia come "I Was Made For Lovin' You" dei Kiss (e la cosa potrebbe anche non essere così malvagia) e un riff ripetuto all'infinito che fa il verso a quello suonato da Slash in "Black & White" di Michael Jackson!

Difficilmente fra trent'anni chi parlerà della parabola artistica della band, citerà Content fra gli indispensabili del gruppo, più probabile che lo ricordi come quello che riuscì seriamente a minare la reputazione del quartetto inglese.

A inizio 2015 esce il nono album in studio What Happens Next: della formazione originaria c'è il solo Andy Gill, autore di musiche e testi, mentre a completare la formazione sono il bassista Thomas McNeice, il batterista Jonny Finnegan e il cantante John Sterry.

 

Le undici canzoni in scaletta, quasi del tutto spogliate degli ardori post-punk che ancora echeggiavano in “Content” in favore di un alt-rock ostentatamente muscoloso e a sprazzi iniettato di inflessioni wave (“Isle of Dogs” e “Staubkorn” sono anche le migliori del mazzo).
La sensazione di artificialità è accentuata dalla qualificata lista di ospiti chiamati a dare un qualcosa in più alle canzoni: Alison Mosshart ci mette la voce in una “Broken Talk” che vorrebbe diventare un inno da dancefloor rock e invece sembra una versione caricaturale (e anfetaminizzata) dei Suede, nonché nell'insipido (seppur meno pretenzioso) mid-tempo “England's In My Bones”. Più calzante il contributo del compositore tedesco Herbert Grönemeyer, che prima declama a piena voce “The Diyng Rays” e poi declina in lingua madre la già citata “Staubkorn”. Chiudono la pletora di collaborazioni il chitarrista giapponese Tomoyasu Hotei, che timbra l'assolo di una “Dead Souls” immersa in atmosfere industrial, e Robbie Furze dei The Big Pink che ci mette a sua volta la voce in “Graven Image”, il brano più vicino alla concezione di pop in casa Gill.

Alla fine, però, in testa non resta nulla: un riff, una melodia, un guizzo, persino un'anima. Discorso a parte meritano infine i testi, questi sì in piena linea con la tradizione “politica” del sodalizio inglese, che vanno a comporre un dialogo aperto sul significato (e sul valore) dell'identità nel mondo globalizzato in cui viviamo.

Ancora più politico è lo scenario dipinto nell'Ep Complicit, pubblicato nella primavera del 2018. Tre canzoni più un remix, per un totale di diciotto minuti di musica nei quali Andy Gill, di nuovo unico timoniere, se la prende senza giri di parole o possibili fraintendimenti con Donald Trump e il suo entourage. In copertina spicca la figlia Ivanka, con la bandiera a stelle e strisce sullo sfondo, ed è ovviamente sempre lei la protagonista di "Ivanka (Things You Can't Have)", uno spaccato art-rock che tanto pretenzioso nelle velleità quanto piatto nel risultato effettivo.
"Lucky" è una denuncia al capitalismo che assume le sembianze di un dancefloor postmoderno che vorrebbe apparire come un luogo infernale in cui tutto si muove velocemente e le pareti sono fatte di plastica scadente. La chiusura industrial di "I'm A Liar" mette il sigillo su di un lavoro che conferma la nuova direzione sonora di un progetto che non ha ormai più nulla da spartire con ciò che era stato in precedenza.

A ulteriore conferma, a un anno da “Complicit” e a quattro da “What Happens Next”, nella primavera del 2019 esce Happy Now. Gli ingredienti sono quelli che abbiamo ormai imparato a conoscere: un alt-rock sintetico e sintetizzato che ciondola tra velleità da dancefloor algidi e timbri non troppo lontani da certi panorami industrial. Il tutto condito dalle ormai solite invettive contro l'amministrazione Trump, una battaglia che ormai si è presa anche le copertine – pure quelle alquanto discutibili, per usare un eufemismo - dei lavori.

 

A fare difetto è sempre la materia sonora, che semplicemente non si capisce dove voglia andare a parare. I brani in scaletta scorrono uno dopo l'altro senza un sussulto, un motivo d'interesse, una strofa o un ritornello che facciano venire voglia di rimettere su l'album, o che abbiano almeno il pregio – diciamo così – di rimanere in testa per più di cinque minuti. Proprio “Ivanka: My Name On It”, che dovrebbe (forse?) rappresentare lo snodo politico dell'opera, si accartoccia in un groviglio di suoni elettronici senza dare una forma compiuta ai suoi quattro minuti di parabola. Se l'intento era farci venire a noia il presidente americano e il suo entourage, probabilmente la missione è compiuta.

 

Tra un maldestro tentativo electro-pop ottantiano (“Alpha Male”), un insipido uptempo sintetico (“Don't Ask Me”) e una ballata da fine del mondo (“White Lies”) si arriva infine agli echi di new wave di “Paper Thin”, l'inattesa oasi che arriva al termine di una lunga traversata. A dispetto del titolo, “Happy Now” è un altro lavoro incolore e confuso, privo di una precisa direzione musicale. Un album che poggia sulla matrice politica del contenuto, ma a parte qualche invettiva non pare avere null'altro da offrire.



Contributi di Claudio Lancia ("Content") e Fabio Guastalla ("What Happens Next", "Complicit", "Happy Now")

Gang Of Four

Discografia

Entertainment (EMI, 1979)

9

Untitled 4-track "Yellow" (Ep, EMI, 1980)

Solid Gold (EMI, 1981)

7

Songs Of The Free (EMI, 1982)

6,5

Another Day/Another Dollar (Ep, Warner, 1982)

Hard (EMI, 1983)

5

At The Palace (live, EMI, 1984)

The Peel Sessions (Ep, Strange Fruit, 1986)

7

Mall (Polydor, 1991)

5

Shrinkwrapped (When, 1995)

5

Tattoo (Ep, Castle, 1995)

100 Flowers Bloom (doppio cd, antologia, Rhino, 1998)

Return The Gift (V2, 2005)

5

Content (Neu Groenland, 2011)

6

What Happens Next(Membran, 2015)

4,5

Complicit Ep(GO4 Music, 2018)

4

Happy Now (Gill Music, 2019)

3,5

Pietra miliare
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To Hell With Poverty (live, tv-show, 1983)
Not Great Men (live al FujiRockFest, 2005)