Simple Minds

Simple Minds

Il sogno dorato degli anni 80

Le sperimentazioni intraprese da Kerr e compagni all'inizio degli anni Ottanta hanno rappresentato una delle vette del filone "elettronico" della new wave europea. Poi, la progressiva discesa, seguita al grande successo internazionale di "Don't You". Oggi, però, i Simple Minds rispolverano il loro glorioso passato...

di Claudio Fabretti

La parabola dei Simple Minds è quella di tante band della new wave partite da ambizioni sperimentali e approdate a un pop-rock da classifica (e non), inesorabilmente condannato all'oblio. Come per tanti di questi gruppi, nati all'alba degli anni 80, in piena era "new romantic", anche a loro resteranno attaccate nei secoli dei secoli le odiose etichette di "vacui", "pomposi", "insinceri", in opposizione alla musica "dura e pura" delle band alternative del periodo. Scopo di questa scheda, invece, è cercare di sfatare i luoghi comuni della critica indiesnob, rivalutando il senso di una carriera che - almeno nella prima parte - ha offerto notevoli spunti d'interesse, e non solo sul piano della ricerca melodica e della cura negli arrangiamenti.

Danze e cacofonie

La fiammata punk che incendia Londra nel 1977 si propaga rapidamente anche nella vicina Glasgow (Scozia), dove un anno dopo, dalle ceneri di Johnny & The Self Abusers (autori del brioso singolo "Saints And Sinners") nascono i giovanissimi Simple Minds. La formazione, che prende il nome da un verso della "Jean Genie" di David Bowie ("He's so simple minded"), è inizialmente un terzetto: al cantante e leader Jim Kerr (1959), si affiancano il chitarrista Charlie Burchill (1959) e il tastierista Mike McNeil (1958). I tre hanno già un contratto con la Zoom, una piccola etichetta di Edimburgo distribuita dalla Arista, per la quale pubblicano l'album d'esordio Life In A Day (1979). Come per i loro "cugini" Magazine, Ultravox e Japan, però, del (post-)punk resta solo un'ombra, destinata a essere presto seppellita sotto massicci strati di synth. In realtà, i veri numi tutelari di questa nidiata sono soprattutto i pionieri elettronici tedeschi (Kraftwerk, Neu!) e l'immancabile David Bowie. Dei primi, i Simple Minds riprenderanno soprattutto le sonorità pulsanti e ossessive, del secondo l'attitudine glamorous e lo straordinario talento melodico.

Grezzo come quasi tutti gli esordi, ma illuminato da una brillante verve compositiva, Life In A Day è uno dei dischi più interessanti di questo primo scorcio di new wave. Kerr e compagni (cui si aggiungono Derek Forbes al basso e Brian McGee alla batteria) riescono a costruire eleganti architetture elettroniche attorno a un pugno di melodie romantiche, via via stravolte da arrangiamenti sempre fantasiosi e sovraccarichi, nel senso più Roxy Music del termine. La title track, ad esempio, è un piccolo capolavoro, con il canto struggente di Kerr e la chitarra tesa di Burchill a disegnare la linea melodica di base, e McNeill a impreziosirla con intricati ghirigori di organo e tastiere. Questo uso fantasioso dell'elettronica, abbinato all'incredibile facilità nel cesellare ritornelli pop, torna nell'altro gioiello "Someone", dal piglio fatalista e decadente alla Bowie, ma anche nella languidamente ultravoxiana "Destiny", nella orecchiabile "All For You" e nella più complessa "Sad Affair", che alterna le sferragliate di chitarra a inserti di synth e sassofono.
La vena sperimentale del gruppo si esprime al meglio anche sulla lunga distanza, negli otto minuti della teatrale "Pleasantly Disturbed", forte di un uso straniante degli archi e di un tamburo incessante, e negli oltre sei minuti di "Murder Story", versione oscura del glam-rock dei Roxy Music, con un testo che sembra quasi rievocare le sindromi claustrofobiche del Bowie berlinese: "I get nightmares of places people go to meet/ It's so apparent when I walk in the door, That I'm all alone/ There's no one home and no one wants me anymore/ So claustrophobic if I stand in one place". L'incalzante "No Cure", invece, rielabora un precedente brano chiamato "Cocteau Twins" e al quale si ispirerà per la scelta del nome proprio la band di Elizabeth Fraser. Il singolo è però "Chelsea Girl", che ruba il riff alla "Temporary Thing" di Lou Reed, un altro riferimento-cardine della band.

Griffato da una copertina monocromatica nera, il successivo Reel To Real Cacophony (1979) vira verso un sound più ostico e minaccioso à-la Wire, meritando la definizione di "album meno commerciale mai distribuito dalla Arista". Il tentativo di conquistare una reputazione di band d'avanguardia, con i piedi piantati nell'art rock dei 70 e lo sguardo proiettato in un futuro techno, dimostra un'invidiabile coraggio. Anche se due strumentali come "Cacophony" e "Veldt" appaiono più che altro sterili esercizi d'avanguardia (meglio, semmai, su questo versante, "Film Theme"). Ma la stupenda melodia ipnotica di "Factory", la raggelante "Reel To Real" e la suadente "Changeling", sospinte da incessanti folate di synth e da una sezione ritmica implacabile, lasciano già presagire la traiettoria lungo la quale si muoverà il gruppo negli anni a venire.

L'insuccesso commerciale di Reel To Real Cacophony induce però la band a correggere la rotta. Nel 1980 esce così Empires And Dance, l'album più "dark" dei Simple Minds. Manifesto di questo nuovo corso è il travolgente singolo "I Travel", che, dietro le cadenze da discoteca, nasconde un certosino lavoro sul ritmo, tra percussioni ossessive, pulsazioni reiterate di synth e vortici elettronici d'ascendenza kraut-rock (Neu!, Faust). L'altro singolo estratto, "Celebrate", ha una struttura più lineare, con i timbri possenti del basso e la voce tetra di Kerr in primo piano, ma testimonia appieno il clima decadente e paranoico che si respira nell'album. Un clima che passa anche attraverso le tastiere tecnotroniche e i saliscendi thriller di "Capital City", il duetto da cabaret surreale tra Kerr e il recitato femminile in francese di "Twist/Run/Repulsion", le percussioni orientaleggianti di "Today I Died Again" e l'allucinazione para-industrial di "Room". L'abisso "oscuro" del disco, però, sono i sette minuti di "This Fear Of Gods", un cerimoniale straniante che si consuma tra tintinnii di campanelli, tastiere marziali, ritmiche tempestose, chitarre acide e un sax sintetico, con il canto di Kerr quasi soffocato nei riverberi. Solo il breve interludio di "Kant-Kino" allenta per un attimo la tensione. Empires And Dance segna un altro passo avanti nella sperimentazione della band, oltre ad attirarle le simpatie di Peter Gabriel, che la porta con sé nel suo tour europeo.

Fascinazioni elettroniche

La prima fase della carriera dei Simple Minds si chiude idealmente nel 1981 con il divorzio dalla Arista (che racchiuderà questo periodo nell'antologia Celebration) e con il passaggio alla nuova etichetta, la Virgin. La prima mossa è la pubblicazione di due album gemelli, Sons And Fascination e Sister Feelings Call, entrambi prodotti da Steve Hillage e venduti dapprima insieme, poi separatamente. Il progetto è ambizioso, ma non sempre sorretto da un'adeguata ispirazione in fase di scrittura. L'idea di fondo è coniugare la vena art-rock degli esordi con i groove funky-dance già abbozzati su Empires And Dance. Brani come "Love Song", "Sweat In Bullet" e "The American", se non altro, centrano l'obiettivo; "Seeing Out The Angels" dimostra che il gruppo sa essere a suo agio anche nel formato della ballata; ma le vere perle del disco sono "This Earth That You Walk Upon", con un basso cupissimo e un tappeto di tastiere lussureggiante su cui si adagia la cantilena di Kerr, e lo strumentale "Theme For Great Cities", saggio d'elettronica sinuosa e scintillante.

Seppur discontinui, tutti questi dischi avevano confermato l'evoluzione del suono dei Simple Minds verso una forma di elettronica sì accattivante e pregna di melodismo pop, ma anche permeata da una malia oscura e sostenuta da un piglio intellettuale degno dei loro nobili maestri.
New Gold Dream (1982) è l'approdo finale di questa ricerca, l'esaltazione di entrambi gli aspetti della loro musica, come testimoniano i contemporanei successi di pubblico e di critica. Con il nero Mel Gaynor al posto di McGee dietro i tamburi (anche se nella registrazione del disco si alterneranno vari sessionmen), la band sprigiona un sound ancor più potente e maestoso, in cui il dialogo tra la batteria e il basso di Derek Forbes conta quasi quanto i magnifici arabeschi delle tastiere di McNeil, il prezioso ricamo effettistico di Burchill e il canto epico e disperato di Kerr.
L'iniziale "Someone, Somewhere In Summertime" è il primo inno del disco. Su un serrato tappeto ritmico che pulsa sui quarti, il riff della chitarra introduce la strofa che si apre sui caratteristici tappeti di tastiere dell'epoca. La canzone sale avvolgente fino ad approdare al ritornello con Kerr che lancia lo slogan che dà il titolo alla canzone. "Colours Fly And Catherine Wheel" è dominato dal bel riff plettrato di Forbes, con ricami e intarsi di tastiere e chitarre. La strofa gira concentricamente su se stessa, simulando il lancio in un ritornello che di fatto non esiste. Altro hit del disco è "Promised You A Miracle", che si apre con un fresco e invitante inciso ripetuto più volte nello sviluppo del brano: anche qui paradigmatico il lavoro di tastiere di MacNeil. "Big Sleep" si regge sull'intreccio del semplice riff di tastiere e del bel giro di basso slappato, su cui si riversa come una polvere magica la pioggia di note della chitarra e, su tutto, il martellante incedere della batteria sui quarti: uno dei più begli esempi di song ipnotica prodotta dalla new wave.
"New Gold Dream (81-82-83-84)" è la canzone-manifesto del disco. Si parte con il serratissimo pulsare del basso sul riff delle tastiere e poi è tutta una fantastica galoppata con un epico Kerr a inneggiare al sogno dorato di quei primi anni 80. "Glittering Prize" vede ancora protagonisti Forbes, con il bellissimo riff di basso che regge l'intera canzone, e un sempre saltellante MacNeil, con le sue tastiere che lasciano spazio nel ritornello ai ricami chitarristi di Burchill. L'episodio forse più intenso resta però "Hunter And The Hunted", con la magica intro del solo di Herbie Hancock alle tastiere. Il disco si chiude con la tenebrosa "King Is White And In The Crowd", con un gioco di tastiere che sembra rievocare i Kraftwerk, e con Forbes che ammicca all'immenso Mick Karn (Japan).
New Gold Dream è una sintesi perfetta del suono a forti tinte elettroniche e tentazioni dance che passa sotto il nome di "British Invasion".

Dopo una stagione di fortunati concerti in giro per l'Europa, il gruppo compie un'altra brusca virata, stavolta verso il rock, iniziando una, tutto sommato ingiustificata, competizione con gli astri nascenti dell'epoca, gli U2. Affiancati proprio dal produttore della band irlandese, Steve Lillywhite, Kerr e soci si cimentano con sonorità più irruente e metalliche su Sparkle In The Rain (1984).
L'esito lascia per un attimo perplessi i fan della prim'ora, ma conferma la solidità di un gruppo che, mediando tra synth-pop e "guitar rock", riesce a offrire ancora qualche scampolo di gloria. Troneggia l'ammaliante incedere di "Up On The Catwalk" tra i tumulti del drumming, i rintocchi del piano e il canto evocativo di Kerr, che imbrocca un'altra delle sue melodie-prodigio, assecondato dai preziosi ricami tastieristici. L'energia travolgente di "Speed Your Love To Me" partorisce un nuovo cavallo di battaglia per le esibizioni live. E riscuote buoni consensi anche l'altro (più convenzionale) hit "Waterfront".
Non mancano anche composizioni ambiziose, nel solco dello sperimentalismo degli esordi: dalla melodrammatica "East At Easter" allo strumentale "Shake Off The Ghosts" (oltre alla prescindibile cover della reediana "Street Hassle"): brani sempre ben confezionati, anche se non sempre pervasi da quella forza ipnotica e visionaria che aveva illuminato i loro predecessori.
In generale, l'irrobustimento del sound sembra potenzialmente in grado di nuocere alla loro musica, alterandone l'elegante equilibrio che l'aveva finora contraddistinta.

Il patto col diavolo

Il 1984 porta altre due novità: Kerr si sposa con la cantante dei Pretenders, Chrissie Hynde, e il bassista Forbes lascia la band, sostituito da John Giblin. Quando sembrano ormai in un vicolo cieco, i Simple Minds imbroccano il brano che garantirà loro la fama mondiale e un'agiata vecchiaia. Inciso per la colonna sonora del film "Breakfast Club", "Don't You (Forget About Me)" è un motivetto accattivante (e non molto di più) che diventa un hit colossale in tutto il mondo, proiettando i Minds da band di successo, ma pur sempre di nicchia, a fenomeno di massa. Come in una sorta di faustiano patto col demonio, però, da quel brano in poi il gruppo perde per sempre la sua identità, finendo progressivamente stritolato negli ingranaggi della stardom. Il paradosso è che quel brano non era neanche stato composto dai Simple Minds, bensì dal duo Steve Schiff-Keith Forsey...
Inebriata dall'improvvisa popolarità, la band parte per gli Stati Uniti dove partecipa a Live Aid (a Philadelphia) e registra Once Upon A Time, album di appena dignitoso Aor che, inopinatamente, vende più di tutti i dischi precedenti messi assieme. Il singolo "Alive And Kicking", pur enfatico e pomposo, segna uno degli episodi migliori, assieme alla malinconica "I Wish You Were Here".
Per il resto, il disco oscilla tra pomposi numeri pop-rock melodici che tutto sommato funzionano ("Sanctify Yourself", "All The Things She Said") e anthem decisamente scipiti (la title track, "Oh Jungleland").
Come per gli U2 da "Ruttle & Hum" in poi, il processo di "americanizzazione" nuoce ai Simple Minds, che rinnegano le radici electro-wave per compiere il classico tuffo nel vuoto di chi ha perso la sua identità e insegue qualcosa che sa di non poter mai raggiungere. Perché o si è Dylan e Springsteen, oppure non ci si può improvvisare tali. E Kerr nei panni della rockstar populista non appare credibile.

Il successo, comunque, continua ad arridere al gruppo per qualche tempo. Il lungo tour del 1987 spopola in tutto il globo ed è documentato dal doppio live In The City Of Lights, dove anche i magici brani del passato vengono sciaguratamente stravolti.
In piena confusione, Kerr si butta nell'impegno politico, tra sincere partecipazioni a progetti di ampio respiro (il tour "Conspiracy Of Hope" per Amnesty International e il concerto per la liberazione del leader nero sudafricano Nelson Mandela) e improbabili predicazioni combat-folk, come quelle di Street Fighting Years (eccezion fatta, forse, per la ballatona sentimentale di "Belfast Child" e per la sincera ode "afro" di "Mandela Day"). Quest'ultimo disco, comunque, frutterà un altro fortunato tour promozionale, con il nuovo bassista Malcolm Foster e con Lisa Germano al violino.

In caduta libera

Negli anni Novanta, Kerr si fa ricordare soprattutto per la sua love-story con la sventola bionda Patsy Kensit (Eighth Wonder), mentre la discesa dei Simple Minds - con Peter Vitesse alle tastiere al posto del dimissionario McNeil - si fa ancor più rovinosa: Real Life del 1991 (con "See The Lights"), Good News From The Next World del 1995 (con "She's A River") e Neapolis del 1998 (con "Glitterball") sono le testimonianze di una band logora, che si trascina stancamente, incapace di dare un qualsiasi senso alle sue opere. Un altro album proposto alla Emi, Our Secrets Are The Same, non viene neanche pubblicato. Non resta, dunque, che un disco di cover come Neon Lights (Eagle, 2001), per tirare a campare e strappare magari qualche concerto qua e là (in particolare in Italia, dove Kerr collabora anche con Franco Battiato).
Questa sequenza di lavori insulsi spinge certa critica rock a compiere una delle sue più tipiche operazioni di mistificazione: rovinare la reputazione di una band rimuovendo dalla memoria i suoi lavori migliori. Ecco, allora, che anche la produzione degli anni Ottanta diviene "artificiosa", se non addirittura "patetica", che New Gold Dream diventa un disco muffoso, da seppellire negli armadi insieme ad altri imbarazzanti scheletri, e che l'influenza dei Simple Minds sulle band electro-pop del decennio successivo sparisce dai libri di storia.

Con molta onestà, Kerr ammetterà qualche anno dopo: "Senza McNeil smettemmo di essere una vera band. I Simple Minds non funzionavano più. Avremmo dovuto prenderci una pausa o almeno affrontare il problema, ma non lo facemmo. Ci sentivamo stanchi, disfatti, svuotati. Adesso siamo più rilassati: faremo solo le cose che ci piacciono. Non abbiamo bisogno che una casa discografica ci detti le sue priorità. Ce ne freghiamo se un album vende o meno. Abbiamo capito la lezione: non è necessario arrivare in cima alle classifiche tutte le volte". Frutto di questo nuovo approccio è Cry (2002), che esce per l'indipendente Eagle e annovera le collaborazioni di Vince Clarke degli Erasure e dei napoletani Planet Funk. Brani come "Disconnected" e "The Floating World" tentano di rigenerare il suono dei Simple Minds con robuste iniezioni di techno-dance, ma l'esito, nel complesso, è ancora una volta deludente. Nel frattempo, esce Silver Box, un cofanetto comprendente 5 cd e un booklet di 76 pagine, che ripercorre le tappe della carriera della band, con 24 tracce che vanno dal 1979 al 2000, inclusi inediti e incisioni live (il quinto cd contiene anche il mai pubblicato Our Secrets Are The Same).

Registrato in clima di dilagante revival new wave, Black & White (2005) riporta al banco di mixaggio Bob Clearmountain, già collaboratore della band ai tempi di "Once Upon A Time" e artefice di alcuni dei grandi successi di Nile Rogers, David Bowie e Brian Ferry. Con risultati tangibili: un suono tirato a lucido e (fin troppo) possente, che dona alle tracce un'indubbia patina di appeal. Poi però vai a scavare e... sotto il vestito niente. Il singolo "Home", che ha riportato la band in classifica dopo molti anni, scodella riff banalotti, un arredamento elettronico patinato e il vocione di Kerr, ormai stemperato dagli anni (simile a un Wayne Hussey in versione rassicurante). Sulla stessa falsariga anche l'ouverture di "Stay Visible", che parte con le cadenze della ballata atmosferica e con qualche promettente apertura melodica, prima di ingolfarsi in un chitarrismo saturo. E se Burchill ha ormai perso il tocco magico della sua chitarra, Kerr non ha perso il vizio di emulare il baritono enfatico di Bono: "Stranger" sta qui a ricordarcelo, con le sue velleità da anthem, affogate in un ritornello stantio e in un dubbio coretto finale. Il suono vuol essere energico, ma si rivela soprattutto bolso, come nell'inconcludente ballata della title track (sull'Olocausto) o in "Different world (Taormina.Me)", omaggio alla loro "patria adottiva" siciliana, tenuto in piedi dagli intrecci tra basso e batteria più che dai debordanti tappeti di synth. Meglio, semmai, i momenti più eterei e rarefatti, dove balena, a tratti, il vecchio talento melodico della band: soprattutto "Underneath The Ice", con un Kerr più in palla a declamare su un suggestivo arabesco di tastiere e un ficcante assolo centrale di Burchill, e la conclusiva "Dolphins", persa tra fluttuazioni elettroniche e tonalità soft. Ma è solo un bagliore nel deserto. E non aiuta nemmeno la nuova versione di "The Jeweller", brano originariamente inserito in "Our Secret Are The Same".
Black & White forse rilancerà le quotazioni commerciali dei Simple Minds, ma lascia il sapore amaro della grande occasione perduta.

Per la lavorazione del successivo album viene annunciata una reunion in grande stile della formazione originale, per suggellare al meglio il trentennale di attività della band. Ma il progetto evidentemente sfuma, perché Graffiti Soul (2009), oltre a segnare la seconda collaborazione con il produttore Jez Coad, porta ancora la firma del terzetto che mantenuto attivo il marchio nelle ultime produzioni: Jim Kerr, Charlie Burchill e Mel Gaynor.
Si tratta però dell'ennesimo buco dell'acqua, che conferma tutta la stanchezza di un gruppo che appare incapace di rivitalizzare il suo sound. La chitarra di Burchill regala qualche riff ad effetto ("Moscow Underground", "Rockets") e l'asse basso-batteria imbastisce solide architetture ritmiche. La voce intensa di Kerr, seppur lievemente corrosa dagli anni, è sempre un tuffo al cuore. Ma mancano del tutto i refrain epici che avevano sempre fatto la grandezza dei Simple Minds, finanche nel periodo della decadenza post-"Don't You". E troppi brani appaiono imbarazzanti imitazioni di un passato che non può tornare (la stucchevole "Stars Will Lead The Way", l'inutilmente aggressiva "This Is It", la bolsa title track). Anche i synth, relegati sullo sfondo, non riescono più a dipingere gli arabeschi suggestivi di un tempo, limitandosi ad assecondare strutture piuttosto convenzionali, quando non banalissime ("Kiss & Fly"). Fanno in parte eccezione "Light Travels" e "Blood Type O", con i loro rimandi alla Berlino elettronica di Bowie ed Eno, ma senza mai brillare.
Meglio, semmai, il cd di cover della deluxe version, in cui la band britannica rilegge con brio nove classici rock, dalla "Rockin' In The Free World" di Neil Young a "Teardrop" dei Massive Attack. Ma il fatto che i Simple Minds migliori del momento siano quelli in formato cover band lascia già riflettere.

Ritorno al passato

A prenderne atto, con apprezzabile onestà intellettuale, è lo stesso gruppo che, per risorgere, si rituffa nel passato. E che passato... I Simple Minds tornano alle origini, a quei cinque meravigliosi album che avevano lasciato tutti senza fiato, all'alba del decennio Ottanta. Ecco allora 5x5 live, un progetto dal vivo che li riporta sui palchi d'Europa con cinque canzoni da ognuno dei loro primi cinque album: Life In A Day, Real To Real Cacophony, Empires And Dance, Sons And Fascination/ Sister Feelings Calling e New Gold Dream (81, 82, 83, 84), che proprio nel 2012 celebra il trentesimo anniversario dalla pubblicazione.
E per celebrare l'evento viene pubblicato anche un box-set speciale: Simple Minds 5X5, contenente i cinque album rimasterizzati nella versione originale e materiale inedito tra b-side e remix.

Tenuti in vita dalla loro instancabile attività live, i Simple Minds danno segni di risveglio anche in studio, a giudicare dalla muraglia di sequencer e sintetizzatori con costruiscono la rinnovata grandeur del nuovo album Big Music (2014). Del resto, il titolo stesso tradisce il desiderio di tornare ad abbeverarsi a quel sound appassionato e ponderoso che nel 1984 i Waterboys definirono proprio “Big Music” e al quale furono accostati alcuni gruppi dell’epoca, dagli Alarm ai Big Country fino agli stessi Simple Minds.
Dodici canzoni (18 nella versione deluxe), molte delle quali già scritte nel corso degli ultimi sei anni di attività, che vedono la band britannica ricreare in laboratorio una sintesi tra il suono infervorato degli esordi e quello più tronfio di Once Upon A Time. Un impasto denso, stratificato, al quale si aggiunge, a tratti, una rinnovata ispirazione in sede di scrittura, a cominciare dall’electro pulsante di “Blindfolded”, che apre il disco all’insegna di nuove liriche misteriose e misticheggianti, e dalla successiva “Midnight Walking”, possente cavalcata sintetica sulle orme del groove del Sogno Dorato. Il singolo “Honest Town”, omaggio di Kerr alla madre e alla Glasgow dell’infanzia, azzecca il giusto feeling grazie anche al contributo di Iain Cook dei Chvrches, che co-firma “Blood Diamonds”, già inclusa con l’altro non meno nostalgico inedito “Broken Glass Park” nell’antologia Celebrate (2013).
Kerr, del resto, è uno dal cuore tenero, e in “Let The Day Begin” si ricorda persino dei Call, vecchi compagni di tour, omaggiando il cantante Michael Been, morto nel 2010, il quale aveva proprio scritto il brano rifacendosi alla “Waterfront” dei Simple Minds. È invece un concerto di Prince a Montreux – a detta dello stesso leader – il motivo ispiratore della nerboruta title track, che sprigiona grande potenza di fuoco, pur senza deflagrare mai. E se episodi non meno pomposi come “Human” e “Kill Or Cure” cercano – più o meno felicemente – di riaccendere la scintilla di Sparkle In The Rain, la conclusiva “Spirited Away” condensa tutta la malinconia in una confessione a fil di voce, più intima e rilassata.
Un passo avanti confortante, dunque, per Kerr e soci, anche se parlare di resurrezione suona ancora azzardato.

Nel 2018 è tempo di Walk Between Worlds, disco più pop e chitarristico del precedente (vedi il primo singolo "Magic"), con reminiscenze art-rock ("Utopia" e "Summer"), orchestrazioni registrate ad Abbey Road - grazie mamma BMG - e atmosfere dilatate, quasi cinematografiche. Per esempio nell'omonima che dà il titolo all'album, o in "Barrowland Star", uno dei brani di punta con assolone finale di Burchill, che prende il nome dallo storico club di Glasgow dove tra l'altro i Minds girarono il clip di "Waterfront". Brano che non è inedito in quanto già pubblicato, in veste solo strumentale, come lato B del singolo "She's A River" (1995).
L'episodio migliore però rimane "Signal And The Noise", uno splendido midtempo con suoni, noises e ritmiche totalmente wave e ritornello di impatto immediato, che avrebbe fatto ottima presa anche nel periodo d'oro. Sarebbe degno di nota anche il terzo singolo "Sense Of Discovery", che parte bene, ovattato, cresce nella strofa, poi arrivi al bridge e ti cadono le braccia, causa copia/incolla dal chorus di "Alive And Kicking". Autocitazione, ok, ma si poteva far meglio.
"Angel Underneath My Skin", che chiude il disco, fin dal titolo per arrivare a cantato e melodia rimanda direttamente a Le Bon e compari, con un ritornello che più Duran Duran non potrebbe.
La produzione è ben curata, il disco suona bene con arrangiamenti moderni e un buon equilibrio tra chitarre ed elettronica, e alla fine risulta una sorta di bignamino tascabile di quanto le menti semplici hanno fatto, nel bene e nel male, in 40 anni di storia. Certo, manca sempre quella hit inseguita invano da non-so-più-quanti-lustri e che probabilmente non saranno più in grado di scrivere. Ma considerato che "noi dieci anni fa eravamo praticamente morti, nessuno era più interessato alla nostra musica" (intervista recente su La Repubblica), la sufficienza si concede volentieri. E anche l'ingresso ai piani alti della Uk chart (#4), dopo anni di oblio, è comunque sintomo un rinnovato interesse intorno alla band.

 

Quattro anni dopo, ecco un nuovo disco, intitolato Direction Of The Heart (2022). Concepito in Sicilia, patria adottiva di Jim e Charles, e prodotto insieme agli altri membri attuali (Ged Grimes al basso, Cherisse Osei alla batteria e Berenice Scott alle tastiere), mostra la voglia di proporre buone canzoni e lanciare ancora messaggi di consapevolezza sociale.
“Vision Thing” apre le danze con strati di tastiere brillanti e si sviluppa in un rock ballabile che lascia poca traccia, anche perché Jim Kerr non esplode e lascia spazio ai synth. “Who Killed Truth” parla della perdita del significato di verità in un brano in cui Jim offre al ritornello tutta la sua energia e le chitarre prendono la guida. “Act Of Love”, non a caso uno dei brani più interessanti, è tratto dal materiale primigenio degli scozzesi ed è proposto in una versione in cui la chitarra detta le danze, lasciando l’elettronica a fare da tappeto. “Planet Zero” è energico e d’atmosfera e ci mette davanti al fatto che non abbiamo un pianeta zero di riserva, esiste quello che stiamo mandando a fuoco: “Do you ever dream of planet zero, and all those other mysteries”.
È però con una cover che l’album esplode e l’ascolto si fa appassionato: “The Walls Come Down”, brano anti-militarista del 1983 degli americani The Call rinasce potente, acquisendo nuovi significati nella complicata situazione in cui viviamo. “Direction Of The Heart”, invece, ha un giro di accordi oscuro e un uso post-punk delle tastiere che si appiccica immediatamente ai neuroni, soverchiati dagli strati di epici synth.
Allora, qual è la direzione del cuore per i Simple Minds di oggi? È fatta di messaggi di denuncia e speranza e dell’onestà di una band che sta nel presente senza ricercare il plauso di vecchi fan. L’album si fa ascoltare con piacere; i messaggi passano, le canzoni a volte stentano a farlo. Ma la scissione del fan ha funzionato solo in parte: rimane il piacere di vederli ancora in pista dopo 43 anni, ma per emozionarsi i territori musicali sono ormai altri.

Nel 2023 esce New Gold Dream - Live From Paisley Abbey, che altro non è che la testimonianza della recente esecuzione integrale del capolavoro del 1982 ad opera dei Simple Minds presso la Paisley Abbey, nella loro Glasgow, dove sono stati invitati da Sky Arts a registrare una puntata di “Greatest Album Live”.
Il disco – dal vivo, ma senza pubblico - ha, per l’appunto, un senso solo celebrativo, a suggello anche della consolidata armonia della nuova line-up, in cui i due vecchi marpioni superstiti del gruppo, Jim Kerr e Charlie Burchill, si fanno affiancare da Ged Grimes al basso (subentrato a Derek Fobes dal 2010) e da due più recenti new entry femminili: Berenice Scott alle tastiere (dal 2020) e Cherisse Osei che dal 2018 ha rimpiazzato Mel Gaynor alla batteria.
Un’onesta celebrazione, dunque, tra le tante portate a termine dalla band scozzese negli ultimi anni, in un percorso inevitabilmente rivolto più al passato che al presente, ma non privo di qualche piacevole guizzo.

Contributi di Sigfrido Menghini ("New Gold Dream"), Mauro Caproni ("Walk Between Worlds"), Luigi Zampi ("Direction Of The Heart")

Simple Minds

Discografia

Life In A Day (Zoom, 1979)

7,5

Reel To Real Cacophony (Arista, 1979)

6,5

Empires And Dance (Arista, 1980)

8

Sons And Fascination/Sister Feelings Call (Virgin, 1981)

7,5

Celebration (antologia, Arista, 1982)

New Gold Dream (A&M, 1982)

9

Sparkle In The Rain (A&M, 1984)

7

Once Upon A Time (A&M, 1985)

6

In The City Of Lights (2cd, live, A&M, 1987)

6

Street Fighting Years (A&M, 1989)

5

Real Life (A&M, 1991)

4

Good News From The Next World (Virgin, 1995)

4

Neapolis (Chrysalis, 1998)

5

Neon Lights (Eagle, 2001)

4

Cry (Eagle, 2002)

5

Silver Box (cofanetto, Virgin, 2004)

Black & White (Sanctuary, 2005)

5

Graffiti Soul (Universal, 2009)

5

X5 (box set, Virgin, 2012)

Celebrate (antologia, Virgin, 2013)
Big Music (Sony, 2014)

6,5

Walk Between Worlds (Bmg, 2018)6
Direction Of The Heart (Bmg, 2022)6,5
New Gold Dream - Live From Paisley Abbey (Bmg, 2023)6,5
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