Nato a Freehold, nel Sud del New Jersey, il 23 settembre 1949, Bruce Springsteen è sicuramente una delle figure centrali del rock degli ultimi trent'anni, ancora in grado, nonostante l'età e i numerosi album alle spalle, se non di stupire, almeno di proporre una musica fatta col cuore, pregna di sostanza e sincera. La sua figura è atipica sia rispetto alla trita mitologia del rock 'n roller reietto e dedito all'abuso di alcol e droghe, sia rispetto alle mode musicali che lo hanno affiancato nel corso degli anni: quando l'America nixoniana soggiaceva al proprio fallimento e disillusa osservava marcire i propri sogni nel pantano vietnamita e nello scandalo Watergate, Springsteen riaffermava risoluto la fede americana nella possibilità del riscatto; quando l'esplosione punk e new wave invadeva l'Occidente con il proprio carico di rabbia, ribellione nichilista e ardore autodistruttivo, Springsteen incarnava i valori morali generatisi durante la lotta pragmatica e calvinista contro la wilderness tre secoli addietro; quando il mondo lo acclamava furente alla ricerca di un nuovo leader che sopperisse alla pochezza dell'era reaganiana, il rocker si rinchiudeva (temporaneamente, certo) nella propria solitudine desolata, facendosi specchio di una società in rovina, a dispetto del sicuro e millantato successo dei potenti. Questo è l'indubbio peso storico che "il Boss" ha avuto per due decenni (i 70 e gli 80), regalando speranza a migliaia di disillusi e continuando a rappresentare una sorta di "luce che non si spegne mai". Pur non essendosi mai invischiato direttamente nella politica, le sue storie, paradigmatiche delle dinamiche sociali, hanno sempre avuto un forte risvolto collettivo.
Bruce Springsteen è l'erede più diretto di quel filone musicale che, partendo da Woodie Guthrie e passando attraverso la rivolta del rock'n roll e la protesta dylaniana, racconta l'America (e, con essa, buona parte di noi stessi) attraverso una semplicità rivelatrice, in cui il singolo incarna la società tutta. La sua anima folk, apparentemente nascosta dietro le potenti elettrificazioni della E-Street Band, emerge chiaramente negli squarci acustici che, con cadenza quasi decennale, ci regala (Nebraska negli 80, The Ghost Of Tom Joad nei 90 e il recente Devils & Dust); a un più attento esame dei suoi momenti più gaudenti e corali, comunque, emerge perennemente quello sguardo malinconico sulla tempesta di sabbia cantata da Guthrie, che osserva il fiume arido del presente con sguardo critico e con la volontà di migliorarlo.
La sua attenzione alle problematiche della fasce più deboli (che gli è valsa il titolo di "Working-Class Hero") è certo in parte dovuta alle sue umili origini: la madre di discendenza italiana era casalinga e il padre, affettuosamente ricordato anni dopo nella lunga intro a "The River" contenuta nel triplo Live 1975-1985, era guidatore d'autobus. Sembra che la storica apparizione di Elvis Presley all'Ed Sullivan Show lo abbia convinto, ancora in tenera età, a imparare a suonare la chitarra; quest'ultima incarna per lui l'autentico grido di rivolta dei pionieri del rock (Elvis, Jerry Lee Lewis), rappresentando una potente possibilità di riscatto e fuoriuscita dalla miseria. Ad anni di distanza, quando quel sogno si è così magicamente avverato, individuiamo qui una delle tematiche principali dei suoi testi, quel messaggio di speranza sempre sotteso alla sua musica, quella fede venata di religiosità nei sogni e nella loro realizzabilità.
Il Greenwich Village e la generazione dei "Nati per correre"
Dopo aver suonato in varie formazioni musicali durante gli anni Sessanta (passando dal garage al blues-rock), nel 1971 Bruce Springsteen si trasferisce a New York, nel mitico Greenwich Village, dove sulle orme di Bob Dylan cerca di sfondare come cantautore folk. Destinato a diventare il legittimo successore proprio di quel Dylan che da ora in poi (a parte l'invettiva di "Hurricane" e il successo di "Desire") si sarebbe fatto da parte, abdicando al ruolo di guida generazionale (peraltro mai gradito), Springsteen deve ancora in quel periodo elaborare un proprio stile, cosa che avverrà compiutamente solo quattro anni più tardi. Nel 1972 riesce a strappare un'audizione alla Columbia Records (guarda caso l'etichetta di Bob Dylan), grazie all'intermediazione della Laurel Canyon Productions, società di Mike Appel e Jim Cretecos con cui aveva stipulato un accordo di management (che in futuro si sarebbe rivelato foriero di problemi). È fatta. Un contratto da 65mila dollari che lo impegna a pubblicare dieci album viene siglato poco tempo dopo nell'entusiasmo del manager dell'etichetta, John Hammond.
A dieci mesi di distanza l'uno dall'altro vedono la luce i primi due lavori di Springsteen: Greetings From Asbury Park e The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle, entrambi pubblicati nel 1973.
Greetings From Asbury Park è sicuramente un lavoro ancora acerbo, totalmente imperniato su una serie di canzoni dall'animo folk rese in forma elettrificata. Il titolo è un omaggio alla cittadina della East Coast in cui Bruce si era trasferito ancora adolescente, dove il rock'n 'roll nel 1956 era stato messo al bando in quanto musica "oscena". I tempi di registrazione estremamente brevi (circa una settimana) e una non ancora piena padronanza dei mezzi impediscono al disco di sfondare, e la ricezione da parte del pubblico è piuttosto scarsa (25/30mila le copie vendute). Nonostante ciò, alcuni degli elementi che caratterizzeranno il suono futuro del "Boss" sono già presenti: piano e organo ammorbidiscono la sezione ritmica, fungendo da base per i decolli del sassofono. "Blinded Up By The Light" e "Lost In The Flood" sono sicuramente i pezzi meglio riusciti del lavoro e il primo sarebbe divenuto nel 1977 un hit da primo posto in classifica. Le recensioni della critica sono alquanto lusinghiere e sembrano far intravedere il radioso futuro del rocker.
Nel settembre del 1973 viene pubblicato The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle, che dal punto di vista commerciale subisce la stessa tiepida sorte del predecessore. Musicalmente, però, l'evoluzione appare innegabile: le contaminazioni sonore con il jazz e il rock più puro mascherano ulteriormente le matrici folk del cantautore, supportato da una E-Street Band dalla line-up non ancora definitiva, che annovera Vini Lopez alla batteria e David Sancious alle tastiere (il quale vive proprio in quella E Street che aveva dato il nome all'album e al gruppo). Il mondo di strada della realtà suburbana attraversa dall'inizio alla fine il lavoro, e "Rosalita" diverrà un cavallo di battaglia nelle esibizioni live. Ma il lavoro non può dirsi compiuto, in Columbia già si pensa di scaricarlo per l'insuccesso commerciale dei due dischi; è necessario un restyling della line-up e un ulteriore, radicale balzo sonoro.
Un aiuto importantissimo viene dall'allora direttore di "Rolling Stone", Jon Landau, che dopo aver assistito alla performance di Springsteen all'Harvard Square Theatre di Cambridge, in Massachussets, scrive le famose parole: "Ho visto il futuro del rock'n'roll e il suo nome è Bruce Springsteen". La Columbia si vede servita su un piatto d'argento la possibilità di rilanciare il rocker e Landau ne diviene, tanto ne è rimasto impressionato, consigliere personale.
Nell'agosto del 1975 ecco giungere nei negozi il lavoro che avrebbe scagliato Bruce Springsteen definitivamente in orbita: Born To Run. Roy Bittan e Max Weinberg sostituiscono Sancious e Lopez, Clarence Clemons si posiziona al sassofono, Steve Van Zandt aka Little Steven si aggiunge alla chitarra, Danny Federici all'organo e Garry Tallent al basso. Ecco la definitiva e roboante E-Street Band, di certo tra le migliori macchine musicali che la storia ricordi, soprattutto in ambito live. Le prime note di piano di "Thunder Road", che apre le danze, invischiano irrimediabilmente nell'atmosfera sospesa tra speranza e nostalgia che caratterizza l'intero lavoro. "Well I'm no hero/ That's understood/ All redemption I can offer, girl/ Is beneath this dirty hood" canta l'amante di una donna persa nel dolore della frustrazione, invitandola a prendergli la mano per correre fuori verso la Terra Promessa. Ecco un topos tipicamente springsteeniano: il grigiore e la stanchezza della vita quotidiana di ogni emarginato della working class possono essere riscattati grazie alla possibilità della fuga, reale o fittizia che sia, verso un mondo migliore. Questa speranza si ciba soprattutto di quei momenti di trapasso che generalmente si colgono la sera, in compagnia dell'amore o su una strada deserta immersa in un'oscurità gravida di promesse; è quanto avviene al protagonista di "Night" che, vessato dal lavoro quotidiano, tiene duro, "Till you're out on a Midnight run/ Losing your heart to a beautiful one". Oppure è quanto fanno i due amici di "Backstreets", alla ricerca di un trapasso che è reale solo nelle loro menti, avendo scoperto l'irrealizzabilità dei sogni e la mediocrità della vita, ma che ai margini di vie secondarie ammantate dal buio possono, nonostante tutto, ancora credere di poter raggiungere la libertà.
La title-track è il manifesto di questa poetica: "Baby this town rips the bone from your back/ It's a death trap, its a suicide rap/ We gotta get out while we're young/ 'Cause tramps like us, baby we were born to run". La musica fa breccia nel cuore con la sua pienezza, riesce a dar corpo al sogno e Bruce trascina la corsa con convinzione, lasciando intravedere le infuocate performance live che lo renderanno famoso. La magniloquente "Jungleland", con i suoi quasi dieci minuti di durata, chiude degnamente l'album, tra fuoco, peccato e speranza, romanzando ancora la vita di adolescenti di strada, perdendosi nei sogni d'amore attorcigliati attorno al sassofono di Clemons o giacendo nel pianto di speranza del piano di Bittan. E' fatta: Born To Run raggiunge la Top Ten nelle hit parade e il tour che ne segue l'uscita assume le sembianze di una vera e propria marcia trionfale, caratterizzato da concerti dalla durata generosissima (il record verrà raggiunto il 31 dicembre 1980, al Nassau Coliseum di New York, con ben 38 canzoni eseguite in 4 ore!). Bruce Springsteen si vede ora aperte le strade di quel successo tanto sognato da ragazzino e, testimonianza vivente della veridicità del sogno americano, si fa latore di quel messaggio alle giovani generazioni senza ideali del periodo, perse nel nichilismo fatalista del punk o nell'esistenzialismo depresso della new wave.
Luci e ombre
Il successo raggiunto, incredibile e clamoroso, è però seguito da un periodo oscuro, vissuto in mezzo agli avvocati, che avrebbe ritardato l'uscita del lavoro successivo. Mike Appel infatti, indispettito dalla sempre maggiore ascendenza di Jon Landau sulle scelte artistiche di Springsteen, dà il via a una causa legale che arresta ogni ulteriore attività artistica. Il rocker, nel frattempo, compone numerosi pezzi per il nuovo album (e altri che vengono regalati, come la ben nota "Because The Night" a Patti Smith), mentre alcuni membri della E-Street band si dedicano all'attività di session-men. La vertenza si conclude nel 1977 con una buona uscita per Appel e la nomina ufficiale di Landau a manager di Springsteen; i lavori riprendono e Darkness On The Edge Of Town viene pubblicato nel giugno del 1978. Appare da subito chiaro che le atmosfere sono diverse da quelle di Born To Run: se quest'ultimo a tratti peccava di eccessivi barocchismi sonori e manierismi vocali, immerso com'era nel turbine delle emozioni adolescenziali, Darkness On The Edge Of Town segna la definitiva maturità cantautoriale del rocker; vediamo scorrere, in rapida sequenza, impietosi quadri di frustrazione domestica, infelicità adulta, recondite paure irrisolte. La speranza, ancora viva nonostante tutto, sembra essersi fatta più distante, come filtrata attraverso un disegno che della fabbrica fa il centro di ogni miseria umana. "Badlands" apre all'insegna della rabbia entusiasta e di quella inestinguibile voglia di libertà che ormai ben conosciamo; il titolo di questo brano non ha nulla a che vedere con l'omonimo lungometraggio del 1973 di Terrence Malick (da cui invece sarebbe stato influenzato l'eponimo pezzo d'apertura di Nebraska anni più tardi)."Something In The Night" sprofonda in un abisso di disperazione ("When we found the things we loved/ They were crushed and dying the the dirt"), "Candy's Room" rattrista con il suo infelice destino di prostituzione, mentre "Racing In The Street" rasenta la depressione con la sua essenzialità sonora e l'ineluttabilità di un fato inclemente. Il mondo industriale viene rappresentato come un inferno metallico che spezza la schiena ("Factory") e raggela l'anima, intorpidendola con la routine e la fatica, l'American Dream è una voce che emerge dall'oscurità, ancora presente nelle sole corse (fugaci) di due amanti ("Prove It All Night") o su una collina, lungo una linea immaginaria dove "i sogni vengono trovati" ("Darkness On The Edge Of Town").
Nell'estate del 1979 Bruce Springsteen aderisce alla serie di concerti organizzati dall'insegna Muse (Musicians United for Safe Energy), di natura antinucleare, iniziativa nata dopo l'incidente alla centrale di Three Miles Island; chiusa quell'esperienza, pubblica nell'ottobre del 1980 The River, un imponente doppio che a tutt'oggi appare il suo miglior lavoro, la summa delle sue capacità e dei generi da lui attraversati. Dal punto di vista musicale, il disco non presenta spunti originali degni di rilievo o ulteriori rivoluzioni rispetto al sound messo a punto già in Darkness: i perdenti della working class sono ancora al centro delle sue amare riflessioni, quegli stessi giovani che in strada sognavano amore e successo nei primi album; le venti canzoni che compongono il lavoro possono fondamentalmente suddividersi in due categorie: quelle dall'animo maggiormente scanzonato e festoso ("Sherry Darling", il pop rock di "Hungry Heart", primo singolo da Top Ten, il rock'n'roll di "I'm A Rocker"), e quelle attraversate dalla miseria suburbana e dalla disillusione della crescita ("The River", "Point Blank", "Stolen Car", "Indipendence Day"). Il Boss sembra qui riunire tutto quanto fatto sin'ora, anticipando addirittura la piega intimista del futuro Nebraska (la scabra e conclusiva "Wreck On The Highway"). Tra virate folk e corse fifties nella propria auto, feste in strada e sbandamenti amorosi, morti inspiegate e miseria senza uscita, emerge un quadro chiaro di come la vita risplenda di contraddizioni insanabili ma, in fondo, valga la pena di essere vissuta. In chiusura della seconda facciata si colloca forse il miglior pezzo mai scritto da Bruce Springsteen, quell'omonima "The River" il cui fiume si fa topos esistenziale, rappresentante i ricordi e i sentimenti, ma soprattutto la loro persecuzione su un presente pregno d'insoddisfazione; l'armonica intona un canto disperato che rapisce il cuore e il piano crea un soffice letto su cui versare le proprie lacrime. Da segnalare poi la grondante "Point Blank" ("Do you still say your prayers little darlin', do you go to bed at night/ Prayin' that tomorrow, everything will be alright") e la guida notturna, ancora in cerca di un passato irrimediabilmente perduto (la morte, in questo caso, ne è la causa) di "Drive All Night". Un ciclo si è ormai compiuto, e nuovamente, pur mantenendosi fedele al proprio stile, Bruce Springsteen sceglie una strada diversa, andandosene da solo, senza la roboante E-Street Band, verso lidi di inusitata e infinita solitudine.
La neve, il successo planetario e la crisi
Nel 1980 Ronald Reagan succede a Jimmy Carter alla presidenza statunitense, marchiando a fuoco un decennio caratterizzato da un generale riflusso reazionario che coinvolge sia gli Usa che, oltremanica, la Gran Bretagna (con Margaret Thatcher, la "Iron Lady"). Di fronte a una tale situazione, quei giovani che una volta correvano per strada pieni di sogni e che hanno poi scoperto la mediocre monotonia della vita in fabbrica si ritrovano ancora più soli, sprofondati in un vero e proprio abisso di follia. Ecco la ragione per cui un personaggio oramai famoso e dallo stile inconfondibile come Bruce Springsteen può decidere di pubblicare un album così anticommerciale e controtendenza come Nebraska (settembre 1982): semplicemente, il mondo intorno a lui è cambiato, e così il suo animo. Registrato in solitudine su un quattro piste casalingo e in realtà composto da demo di canzoni che avrebbero dovuto essere poi ampliate e rifinite, i dieci brani di questo lavoro incarnano, con la loro incompiutezza e la loro estetica lo-fi ante-litteram, l'imperfezione stessa di un'esistenza in cui la luce sembra essere completamente svanita.
Fratello cattivo e oscuro del ben più solare (soprattutto a livello musicale) Born In The Usa, Nebraska rappresenta l'altro apice creativo del rocker di Asbury Park, un grido di dolore proveniente dagli antri reconditi dell'animo in compagnia del caro Bob Dylan e dello spettro dei Suicide ("Johnny 99" appare come un Frankie Teardrop a cui hanno tolto la possibilità di suicidarsi, la stessa disperazione senza fine, la stessa mancanza di una via d'uscita dalla miseria). L'armonica detta il ritmo accompagnata dalla chitarra e dalla voce rotta, il freddo è palpabile, la solitudine eterna. "Atlantic City" è un quadro di disagio metropolitano, in cui la disoccupazione diviene una palude da cui uscire solo grazie alla delinquenza. La "magione sulla collina" è un luogo pieno di soli eco, impalpabili ricordi desolati e lontani. Nessun fiume sembra essere in grado di irrorare una tale aridità. "Highway Patrolman" è un altro agghiacciante racconto di morte causata dalla povertà, mentre "Used Cars" è vissuto attraverso gli occhi di un bambino che, ancora troppo piccolo, ha già capito come la vita sia dura per chi non è baciato dalla ricchezza. L'impossibilità di identificarsi nell'America del periodo, così distante dall'ideale patria di Springsteen, viene espressa metaforicamente come perdita irrimediabile del padre e con lui di ogni punto di riferimento ("My Father's House"). Alla fine del viaggio, è forte lo stupore di fronte alla pervicace voglia di vivere degli esseri umani: "Still at the end of every hard earned day/ people find some reason to believe"; ciò che prima era motivata speranza, appare ora come irrazionale attaccamento cieco al dolore.
L'album non viene seguito da alcun tour, in linea con la natura intimista dei brani ivi contenuti, e nel frattempo Steve Van Zandt abbandona la E-Street Band per dedicarsi alla propria carriera solista, sostituito da Nils Lofgren.
Di tutt'altra natura, registrato di nuovo con la band, è il successivo Born In The Usa, pubblicato nel giugno 1984, che scaglia il "Boss" nell'empireo della musica rock: con oltre dieci milioni di copie vendute, il jerseyiano compete con stelle planetarie quali Prince o Michael Jackson, e necessita di veri e propri stadi per allestire le proprie performance live. Nonostante l'accusa lanciatagli di eccessiva commercializzazione, l'album si mantiene fedele all'animo poetico del leader che, dal punto di vista musicale, ritocca in chiave maggiormente pop-rock il sound ma continua a farsi portatore di una grande consapevolezza sociale. L'astio sorto in tanti fan del primo Springsteen si radica nel tentativo (peraltro mai riuscito) di manipolazione politica cui viene sottoposto. L'uscita del disco coincide, infatti, con il pieno della campagna presidenziale in vista delle elezioni di novembre: Reagan, forte di un vasto consenso e pronto alla rielezione, interpreta l'omonimo pezzo d'apertura del lavoro come un incitamento patriottico alla difesa dei valori nazionali e tenta di utilizzarlo come colonna sonora per la propria campagna. "Il futuro dell'America […] è fondato sul messaggio di speranza contenuto nelle canzoni di un uomo ammirato da così tanti giovani americani - Bruce Springsteen del New Jersey", afferma il candidato uscente, evidentemente senza aver minimamente letto i testi dell'album. La risposta è chiara: "E' una delle solite manipolazioni e io mi devo dissociare dalle cortesi parole del presidente". Lo stesso diniego ottiene la controproposta del candidato democratico, Walter Mondale. La politica del Boss non passa per la stanza dei bottoni, ma per i proclami emessi di fronte alle folle, le uniche in grado di mobilitarsi per il bene collettivo. Non è un caso che, oltre alla già menzionata partecipazione all'iniziativa "No Nuke" nel 1979, presti la sua voce nel 1985 sia per "We Are The World" (Usa For Africa), sia per "Sun City" (l'iniziativa discografica dell'amico Van Zandt contro l'apartheid).
"Got in a little hometown jam so they put a rifle in my hand
Sent me off to a foreign land to go and kill the yellow man
Born in the Usa..."
L'evidente ironia del ritornello sintetizza senza ombra di dubbio come l'atteggiamento di Springsteen nei confronti di un America in cui è impossibile riconoscersi non sia cambiato. L'equivoco a riguardo, lo ripetiamo, deriva da un' innegabile scarsa attenzione al testo del brano e, bisogna ammetterlo, alla trascinante sezione musicale, tronfia, energetica. I vecchi eroi springsteeniani, i giovani di strada divenuti adulti nella miseria, perseguitati dai ricordi e sull'orlo della follia, sono ancora tutti qui; il messaggio positivo, comunque sotteso a ogni fase artistica del cantautore, riemerge in tutta la sua potenza catartica. I valori per cui lottare nella vita sono intatti: l'amicizia ("Bobby Jean", "No Surrender"), l'amore ("Cover Me", "Dancing In The Dark"), le proprie radici ("Hometown"). Musicalmente l'evoluzione rispetto ai precedenti album è evidente, oltre a un impatto maggiormente catchy e pop-rock (in linea con l'eroe muscoloso che di lì a poco conquisterà gli stadi del pianeta), si fanno vedere i sintetizzatori (Roy Bittan, sempre anche al piano comunque) e la base ritmica accentua maggiormente la potenza del binomio basso-batteria. Gli assoli pindarici di Clemens, l'organo di Federici, la rolling guitar di Van Zandt (presente solo in alcuni pezzi) e le notevoli incursioni nel rock'n'roll qui presenti testimoniano comunque della continuità rispetto ai periodi precedenti. Ciò che più colpisce di Born In The Usa è sicuramente la malinconia che serpeggia nel lavoro dall'inizio alla fine, accarezzando pezzi memorabili come il rockabilly di "Working On A Highway" o il pianto sontuoso di "I'm Going Down".
A coronamento del boom commerciale ottenuto e della trionfale tournée che segue la pubblicazione dell'album, Bruce Springsteen pubblica nel novembre del 1986 il quintuplo vinile e triplo cd Live 1975-1985, che mette in sequenza quaranta pezzi registrati nell'arco di un decennio memorabile (a tutt'oggi il suo migliore e forse irripetibile). L'unica pecca riscontrabile nel lavoro è sicuramente dovuta alla scelta dei brani: illustri esclusi e un eccessivo privilegiare la scaletta di Born In The Usa penalizzano il risultato finale. Degni di nota sono comunque "The River", con una lunga intro in cui il rocker abbozza dolci ricordi del padre, e le versioni full-band di "Nebraska" e "Johnny 99". Da ricordare l'accorata dichiarazione d'identità della cover "This Land Is Your Land", un omaggio al padre Woodie Guthrie, ma anche la descrizione della "promised land" in cui da sempre il cantautore crede.
I tempi si stanno però incupendo, come ben testimonia il successivo Tunnel Of Love, pubblicato nell'ottobre del 1987, dai toni più intimisti e segnato dalla burrascosa crisi con la prima moglie, che sarebbe sfociata in un divorzio l'anno successivo. "Ain't Got You", dall'appeal folk, apre proprio all'insegna del ricordo di un amore sfinito e morente: ""I got the fortunes of heaven in diamonds and gold/[…]But the only thing I ain't got honey I ain't got you". La malinconica "Tougher Than The Rest" continua l'esplorazione del tema amoroso, mai compiuto e sempre lacerato ("One Step Up"). In un certo senso, Springsteen ripete qui quanto già fatto anni prima, quando faceva seguire un album suicida come Nebraska al sontuoso The River. Di nuovo la chiusura dentro se stesso, questa volta in forma molto più personale e malinconica (oltre al matrimonio in disfacimento, ricordiamo "Walk Like A Man", indirizzata al padre), con screziature di un pop che potremmo definire crepuscolare. La potenza distruttiva della E-Street Band è fortemente contenuta, si intravede già la strada che il Boss cercherà di intraprendere nei faticosi e difficili anni Novanta. Il successo di Tunnel Of Love, che raggiunge i tre milioni di copie vendute, appare più che altro come un effetto scia della popolarità acquisita negli anni precedenti che come merito intrinseco dell'album: certamente una svolta intimista e personale non è quanto i fan dell'ultim'ora si attendono da lui. Sulle rovine di questi amori caduti, in cui la solitudine si fa ancora una volta metafora esistenziale, non sembra ergersi alcun baluardo in grado di sostenere il vento, nemmeno la bandiera americana che orgogliosa campeggiava sul palco della gloriosa tournée di Born In The Usa.
La fine del suo matrimonio e lo scioglimento della E-Street Band nel 1989 segnano il crollo definitivo di quanto Bruce Springsteen è stato sino a quel momento, l'inizio dello sbandamento che negli anni Novanta lo porta a pubblicare solo tre album (di cui due usciti contemporaneamente e complementari). L'America prende strade sempre più bellicose, la guerra nel Golfo e la politica nazionalistica e conservatrice di Bush senior segnano l'inizio di una nuova era, in cui allo spauracchio comunista (svanito con la caduta del Muro) si sostituisce quello altrettanto ingannevole del terrorismo. Trovare la forza di ricominciare a quarant'anni, fronteggiando un mondo diverso da quello di cui si è nutrita la propria arte, sembra quasi impossibile. Il rocker si sposa con la corista Patti Scialfa (recente acquisto della E-Street Band) e si dedica alla quiete familiare, in attesa che la musa torni da lui. Ma ci vorrà molto tempo prima che ciò avvenga compiutamente.
Gli anni Novanta
Il silenzio quinquennale successivo a Tunnel Of Love viene rotto solamente dalla pubblicazione, nel maggio 1988, dell'Ep Chimes Of Freedom, contenente quattro brani tra cui una versione live dell'omonima canzone di Dylan. Quando nel 1992 assistiamo alla contemporanea uscita di due album (in marzo), la delusione, acuita dalle forti aspettative, è grande. Senza l'apporto della E-Street Band (è presente il solo Roy Bittan), Bruce Springsteen si circonda di session-men validi e di varia provenienza (un nome su tutti, Jeff Porcaro) ma non riesce a ricreare la magia del passato, evidentemente a corto d'ispirazione. Human Touch è dei due il lavoro concentrato maggiormente su un appeal radiofonico, che penalizza la riuscita complessiva dei brani. Tra di essi risalta la violenta catarsi di "57 Channels (And Nothing On)", in cui il Boss si scaglia contro il fatuo mondo mediatico attraverso un gesto tanto simbolico quanto eloquente (la distruzione di un televisore), mentre la poesia vespertina di "The Long Goodbye" suona come un canto d'addio al vecchio Bruce. Lucky Town è invece un lavoro meno meditato e più diretto, registrato in un breve arco di tempo, ma che risulta infine gravato da un'eccessiva piattezza sonora: tutto ciò ovviamente non fuga i dubbi circa la crisi creativa dell'autore e produce un calo di vendite notevole per entrambi i lavori.
Al termine del tour mondiale seguito ai due album, viene pubblicato un altro live, tratto da un concerto commissionato da MTV ed eseguito senza la spina: In Concert/ Mtv Unplugged (aprile 1993). La scelta dei brani privilegia la recente produzione e mette ancor più in evidenza il differente livello qualitativo rispetto a capolavori passati come "Atlantic City", "Darkness On The Edge Of Town" e la sognante "Thunder Road". Il passo successivo è la pubblicazione, nel febbraio 1995, di un Greatest Hits, abile mossa della Columbia messa in atto per sfruttare il clamoroso successo commerciale di "Streets of Philadelphia", brano scritto appositamente per il lungometraggio di Jonathan Demme "Philadelphia" (1993), con Tom Hanks e Denzel Washington. La raccolta contiene quattro inediti: "Secret Garden", "Murder Incorporated", "Blood Brothers" e "This Hard Land", e colpisce per l'inaspettata reunion con la E-Street Band (compreso il transfuga di lunga data Steve Van Zandt); un documentario di due ore contenente materiale risalente proprio alle session per le tracce inedite di Greatest Hits verrà allegato al mini-cd "Blood Brothers" del 1996, composto da varie cover e un inedito, "Without You".
Distante da ogni tentazione di proseguire la propria carriera artistica con i ritrovati compagni (almeno per qualche anno ancora), Springsteen si ritrae di nuovo nell'intimismo bucolico della sua chitarra acustica, registrando in solitudine il suo miglior disco della decade: The Ghost Of Tom Joad (novembre 1995), premiato con un Grammy come miglior album folk dell'anno. Il lavoro presenta indubbie analogie con Nebraska: entrambi sono album pieni di solitudine e registrati senza il supporto di una band (o quasi, dato che nel caso del nuovo lavoro gli accompagnamenti strumentali, pur se minimalisti, sono presenti), entrambi sono pervasi dalla disperazione della miseria (come ben rappresenta la splendida copertina del nuovo nato, con uno Springsteen irriconoscibile, di spalle, con la schiena segnata da profonde ferite). Nonostante ciò, l'imperfetta perfezione di quel capolavoro è lontana, gli arrangiamenti troppo puliti e la ripetizione di temi già trattati risultano utili solo alle nuove generazioni che non hanno (ancora) incontrato il predecessore. Dal punto di vista dei testi, The Ghost Of Tom Joad segna comunque una ritrovata qualità, riuscendo a mettere in sequenza nuove storie di ordinaria povertà dal sapore universale, come il Boss non riusciva a fare da tempo. Vediamo l'ex-carcerato di "Straight Time", che, trovato un lavoro in fabbrica, sente il peso di una vita grigia e miserrima, e odora il sapore della libertà: "Got a cold mind to go tripping cross that thin line/ I'm sick of doin' straight time"; incrociamo la rinnovata coppia Bonnie e Clyde di "Highway 29", il rambling-man di "The New Timer Timer", la fuga verso una nuova vita di "Across The Border". Anche dal punto di vista musicale, il rocker attinge qui a piene mani dall'immaginario americano, il country e il folk sono i riferimenti primari, la polvere sotto le scarpe una condizione imprescindibile. Il titolo dell'album (ma anche il suo contenuto) è ispirato al romanzo "The Grapes Of Warth" di John Steinbeck e all'omonimo film di John Ford, ma anche a Woodie Guthrie, che nelle "Dust Bowl Ballads" aveva ripreso la figura di Tom Joad scrivendone una ballata in due parti. Il tour che fa seguito al disco ne preserva l'atmosfera, fa tappa solo in piccoli locali e teatri dove, con un pubblico raccolto, poter sussurrare quei canti disperati.
Tre anni dopo l'uscita di The Ghost Of Tom Joad, nel novembre del 1998, Bruce Springsteen pubblica un box-set da 4 Cd dal titolo Tracks, che si presenta come un vero e proprio compendio alla sua carriera discografica; il lavoro comprende infatti 66 inediti che attraversano l'intera storia springsteeniana, dalle prime mitiche session per John Hammond nel 1972 sino alle produzioni più recenti. Si tratta di scarti di lavorazione, demo e outtake dal valore comunque elevatissimo, che offrono una panoramica sull'evoluzione del suono del Boss: dal vitalismo delle prime composizioni all'intimismo più buio delle ultime, passando per il climax del periodo a cavallo degli anni 80 e il successo planetario. Una vera manna per gli appassionati e un'operazione che sembra dettata da ragioni più artistiche che commerciali. Nell'aprile dell'anno successivo, giunge nei negozi una versione ridotta del quadruplo, il fratello minore 18 Tracks, forse il tentativo di far assaggiare quelle atmosfere a coloro che non avevano avuto il coraggio (o le possibilità) di acquistare il predecessore; trovano qui posto tre inediti:"The Fever", uno dei più antichi brani di Springsteen, "Trouble River" e "The Promise", suonato dal vivo sin dal 1978 ma solo ora registrato su disco.
Terminate le retrospettive, è il caso di guardare avanti, ma bisogna ancora attendere qualche anno prima di vedere pubblicato un nuovo album di inediti; la fine dei travagliati anni Novanta è infatti segnata da un ritorno (questa volta più longevo) con i vecchi compagni della E-Street Band, per una serie di concerti che infiamma gli Stati Uniti e sembra rinverdire i fasti del passato. Il coronamento della tournee è la pubblicazione del doppio Live In New York City (marzo 2001), contenente alcuni brani registrati durante i concerti del 29 giugno e 1° luglio 2000 al Madison Square Garden. Nonostante il parto travagliato (originariamente era un progetto di supporto per uno special televisivo), il disco trasmette l'antica potenza di fuoco dell'ensemble, apparentemente intatta (almeno sotto il profilo live) a dispetto dell'età. Due gli inediti presenti ("American Skin" e "Land Of Hope And Dreams"), in una scaletta che finalmente ripesca nel repertorio meno recente del Boss, proponendo tra le altre un'ottima versione lenta e dilatata di "The River" e una "Tenth Avenue Freeze Out" con un intermezzo soul da brivido. L'episodio certamente più significativo è però la presenza di una "Born In The Usa" acustica, che simboleggia la caratteristica trasmutazione del rocker da trascinatore di stadi a cantore solitario del dolore.
La rinascita del nuovo millennio
L'esperienza con la E-Street Band questa volta prosegue e nell'estate del 2002 la riunita compagine pubblica il primo album studio da oltre quindici anni, The Rising, tristemente ispirato all'attentato alle Twin Tower, che l'11 settembre del 2001 cambia completamente il volto degli equilibri politici. La reazione americana a quell'evento così traumatico segna infatti un decisivo slittamento della politica mondiale verso la creazione di due fronti contrapposti: il mondo occidentale cristiano e quello orientale musulmano. La paura generata dall'attacco terroristico nel cuore degli Stati Uniti impedisce alle masse di scorgere la forte manipolazione politica dell'attentato e la menzogna sottesa a ogni atto di guerra preventiva (in Afghanistan prima e in Iraq poi). Bruce Springsteen, da sempre attento osservatore della sua America, sembra rinascere da questo clima di terrore e ritrovare una nuova vena ispirativa; il mondo intorno a lui, sempre presente nella sua arte, chiede di nuovo di essere affrontato e scosso attraverso l'unica arma di cui il rocker disponga: la musica. Dal punto di vista sonoro, The Rising segna un convincente ritorno alle sonorità più rock del cantante, che anche nei momenti più incalzanti non perde il mood da balladeer malinconico che ne caratterizza gli episodi migliori. Nulla di nuovo né rivoluzionario, comunque, semmai il valore del lavoro risiede proprio nel tipo di reazione mostrata di fronte alla tragedia: nessun irrazionale odio razziale, solo lampi emotivi di vita vissuta. L'iniziale "Lonesome Day" recita inequivocabile: "Better ask questions before you shoot", quasi prevedesse gli sviluppi della politica americana nell'era di George W. Bush, la belligeranza e l'irrigidimento delle misure di sicurezza. Per il resto, il disco alterna ballad crepuscolari a cavalcate epiche, che segneranno un altro grande ritorno dal vivo per un tour da stadi che farà tappa anche in Italia. La conclusiva "My City Of Ruins", un pezzo scritto tempo addietro ma tenuto nel cassetto, sembra dipingere lo scenario americano odierno, una moderna wasteland: "Young men on the corner/ Like scattered leaves/ The boarded up windows/ The empty streets".
Al termine della tournée, l'attesa per il nuovo album è grande, soprattutto data la speranza in un secondo capitolo con la ritrovata E-Street Band. Sul finire del 2003 viene però pubblicato solo un triplo Best Of, The Essential Bruce Springsteen, contenente versioni alternative e live di brani già noti; l'uscita è quasi contemporanea al Dvd "Live in Barcelona", che riprende la performance eseguita il 10 ottobre dell'anno precedente nella città spagnola ed è una splendida testimonianza di resa live. Fa seguito un anno dopo la versione in Dvd del concerto unplugged per Mtv dell'11 novembre 1992, con sei tracce in più rispetto alla precedente edizione su cd.
Il rocker di Asbury Park è però poco incline ad agire per il semplice soddisfacimento del proprio pubblico, e nell'aprile del 2005 torna con un nuovo album in studio acustico, Devils & Dust. Il lavoro segue di pochi mesi il termine del "Vote for Change Tour", promosso con altri famosi artisti tra cui Rem e Pearl Jam, per sensibilizzare gli Stati Uniti in prossimità delle nuove elezioni presidenziali del 2 novembre 2004; come già l'insegna suggerisce, la serie di concerti itineranti è volto a favorire l'ascesa di John Kerry, il candidato democratico contrapposto al presidente uscente Bush. E' sicuramente l'iniziativa più marcatamente politica mai promossa da Springsteen, evidentemente conscio del fatto che un cambio di rotta politica avrebbe forse potuto riavvicinare l'America che da sempre lui e i protagonisti delle sue canzoni portano nel cuore. L'intento, come è noto, è vano, e forse proprio in seguito alla sconfitta il rocker decide di fermarsi a meditare nella solitudine, la sua terza volta in trent'anni.
Devils & Dust ripropone nuovamente sonorità folk e country, in cui Springsteen, con la sua voce, l'armonica e la chitarra, si colloca sempre in primo piano, accompagnato in lontananza da lievi riempimenti strumentali che non inficiano l'essenzialità del lavoro. I pezzi non versano tutti, almeno a livello musicale, nella disperata solitudine dei predecessori, ma anzi sono presenti brani dall'incedere più veloce ("All The Way Home", "Maria's Bed") e in generale domina un'atmosfera che, a dispetto dei testi cupi, risulta maggiormente aperta e meno claustrofobica; forse ciò è merito di una produzione cristallina che accompagna il viaggio di un loner tra derive fideistiche ("Jesus Was An Only Son"), morti premature ("Silver Palomino") e sesso a pagamento ("Reno", che gli è valsa il primo "Parental Advisory").
La primavera del 2006 vede nuovamente il boss impegnato nell'uscita di un album: We Shall Overcome - The Seeger Sessions, di nuovo segnatamente ancorato alla tradizione folk che da sempre giace latente sotto le elettrificazioni del suo passato rock. Tredici pezzi più due bonus track inserite nel dvd allegato all'album, traditional dal sapore antico fatti rivivere grazie al tocco dell'artista contemporaneo. Registrato in tre sole session di un giorno ciascuna, l'album mostra un'urgenza espressiva votata alla più totale spontaneità, in cui le asperità di un suono per certi versi primitivo, immediato, non vengono minimamente smussate da alcun intento pop. La gioia danzereccia e trascinante di pezzi come l'apripista "Old Dan Tucker" e l'irresistibile "O Mary Don't You Weep" si alternano alla malinconia triste ma mai disperata di "Eyes On The Prize" e "Mrs. McGrath", alla solennità avvolgente di "Shenandoah", alla protesta di "Jesse James" (nella versione riadattata da Woody Guthrie) e "John Henry". Un caleidoscopico alternarsi di country, jazz, bluegrass, folk e gospel per un disco che, senza aggiungere nulla di nuovo, risulta comunque delizioso all'ascolto e magnificamente intriso della polvere delle antiche frontiere.
Sempre nel 2006, dagli archivi spunta la registrazione del primo concerto di Springsteen nel Vecchio Continente nel 1975: con la brillantezza di un suono tirato a lucido dal mix di Bob Clearmountain, Hammersmith Odeon, London 1975 è una testimonianza imprescindibile dell’esplosiva miscela sprigionata sul palco da Springsteen e dalla E Street Band. Non un qualunque concerto del rocker americano, ma una performance in cui la tensione febbrile che serpeggia sul palco sostituisce la consueta solarità con un più drammatico e catartico senso di urgenza.
La speranza, suscitata da The Rising, che la reunion con la E-Street Band non fosse stato un singolo episodio isolato, viene finalmente soddisfatta con l’uscita, nell’autunno del 2007, di Magic, un album che nonostante la perizia e l’esperienza cela un evidente calo ispirativo nella realizzazione dei nuovi brani. Il buon singolo “Radio Nowhere”, la sognante “I’ll Work For your Love” e la rolleggiante “Last To Die” non nascondono i difetti di un disco che, nonostante l’ottima fattura, si presenta forse come uno splendido pretesto per il lancio dell'ennesima tournée.
Nello stesso anno esce anche il Live In Dublin, che riesce a documentare solo parzialmente la festosa energia dei concerti al fianco della Session Band, in cui si mescolano standard folk e incursioni nel catalogo personale di Springsteen.
Galvanizzato dall’avvento dell’era Obama, nel 2009 Springsteen cede alla tentazione di dare voce al proprio personale inauguration address a poco più di un anno di distanza dall'album precedente. Il senso amaro di tradimento che percorreva la riflessione sull’America di Magic lascia così il posto a un ritrovato “I have a dream”: l’entusiasmo dei sogni, però, da solo non basta e Working On A Dream, nonostante la coincidenza tutt’altro che casuale con il cambio della guardia alla Casa Bianca, non riesce a riscattare gli scialbi risultati dell’ultima prova al fianco della E Street Band.
Working On A Dream sceglie di avventurarsi in un classicismo pop dalle aperture liriche, che adotta Elvis Presley e Roy Orbison come numi tutelari. A mancare, però, è quella sottile grazia capace di salvare l’ambizione dalla caduta nell’enfasi.
La E Street Band si distingue a malapena, la produzione di Brendan O’Brien plastifica ancora una volta ogni sfumatura. E' solo quando Springsteen torna a mettere a nudo la propria stoffa di songwriter che si respira una reale forza espressiva, come nel commiato di “The Last Carnival”, dedicato alla scomparsa del vecchio compagno d’avventura Danny Federici, o nella bonus track “The Wrestler”, già vincitrice di un Golden Globe per la colonna sonora dell’omonimo film di Darren Aronofsky.
Il tempo dei bilanci
A riconciliare con le canzoni di Springsteen ci pensa nel 2010 la pubblicazione di The Promise, il disco perduto che, in origine, avrebbe dovuto vedere la luce dopo Born To Run. La storia è nota: dopo aver conquistato le copertine di "Time" e "Newsweek", tra il 1976 e il 1977 Bruce Springsteen si trova invischiato in un contenzioso giudiziario con il suo ex manager, Mike Appel, e per un anno è costretto a non mettere piede in uno studio di registrazione. Non una semplice questione di soldi, ci tiene ancora oggi a precisare Springsteen, ma una lotta per avere il pieno controllo della propria musica. Una musica che, nel frattempo, continua a sgorgare senza sosta: alla E Street Band in esilio basta la stanza di una fattoria nel New Jersey per trovarsi a provare le nuove canzoni, con uno spirito quasi da "Basement Tapes".
Solo una volta raggiunto l'accordo con Appel, Springsteen può finalmente entrare negli Atlantic Studios di New York, al fianco di Jon Landau. Ma prima della pubblicazione di Darkness On The Edge Of Town passa ancora un altro anno: un anno di lavoro maniacale e ossessivo, in cui Springsteen arriva ad avere tra le mani oltre settanta brani. Ne sceglie soltanto dieci: dieci canzoni tese e sofferte, dieci capitoli di un'unica storia. "Era il mio disco samurai", ricorda: l'album in cui mettere tutto in gioco.
I due cd di The Promise non hanno niente a che vedere con le raccolte di scarti che ingombrano i negozi di dischi: quello che tracciano è un vero e proprio affresco del songwriting springsteeniano nel suo snodo decisivo (a compimento della monumentale retrospettiva di Tracks). Una serie di brani accomunati dalla ricerca di una scrittura più asciutta e personale, capace di far dimenticare l'ingombrante etichetta di "nuovo Dylan" affibbiata al primo Springsteen.
Per chi ha consumato i bootleg di queste registrazioni, The Promise è un sogno che si avvera: una collezione di brani riscattati dall'oblio che rinnova la stessa epica di Darkness On The Edge Of Town. "When the promise is broken you go on living / But it steals something from down in your soul", mormora Springsteen tra le orchestrazioni di "The Promise", sorta di controcanto alle confuse speranze di "Thunder Road". Andare al fondo della natura di quella promessa che la vita, instancabilmente, continua a lasciar trasparire: ecco la vera sfida di cui parlano queste canzoni. Perchè credere nella terra promessa è una cosa da uomini, non da sognatori.
È il vento della crisi finanziaria a portare Springsteen a ritrovare l'orgoglio del riscatto. Nel 2012, il rocker americano realizza il suo disco più compatto e risoluto dai tempi di The Rising, almeno tra gli album pubblicati al fianco della E Street Band dopo la reunion. Si intitola Wrecking Ball e prende le mosse dal tentativo di recuperare lo spirito delle Seeger Sessions, coniugandone l'arrembante indole celtica con una produzione più convenzionalmente pop-rock. Così, le radici irlandesi delle danze di "Shackled And Drawn" e "Death To My Hometown" si mescolano con accenti carichi di un'enfasi alla "Born In The Usa". Un'iniezione di testosterone che finisce paradossalmente per smussare la forza dei brani, proprio come era accaduto in The Rising. Il disco, così, non riesce a concretizzare fino in fondo il suo potenziale.
Springsteen, però, regala finalmente una canzone all'altezza della sua epica: è il brano che dà il titolo al disco, "Wrecking Ball", un'ode nostalgica e virile fatta di giovinezza, ruggine e sogni. Poco importa che il brano fosse già stato pubblicato come singolo nel 2009 in versione live: il suo crescendo illuminato di fiati riporta tutto a casa, celebrando la storia del Giants Stadium, il tempio del football del New Jersey, un attimo prima della demolizione.
"C'è stato un furto che ha colpito l'idea stessa di America", riflette Springsteen. "Non c'è America se si dice a qualcuno che non può salire sul treno". Ed eccolo, allora, il treno: un treno di santi e di peccatori, un treno di vincitori e di sconfitti. Sbuca dietro la curva dei nostri giorni grigi, diretto verso la terra della speranza e dei sogni. "Land Of Hope And Dreams" è stato il brano del ritorno della E Street Band alla fine degli anni Novanta e diventa l'ultima occasione per sentire il sax di Clarence Clemons su un disco, dopo la scomparsa di Big Man nel 2011. È la chiusura del cerchio, anche se la versione in studio, con i suoi loop di percussioni, perde qualcosa del fuoco del brano sul palco. Una cavalcata che si fonde con i versi di "People Get Ready", mentre scorrono i vagoni di quel treno su cui non occorre pagare un biglietto per salire.
Come dicono quelli che se ne intendono di etimologia, crisi è una parola ambivalente: indica la decisione, il cambiamento. L'opportunità di rinascere. È di questo che parla l'epilogo di "We Are Alive": una sorta di Spoon River del sogno americano, una funeral band che suona le note di "Ring Of Fire" tra le strade di una città fantasma. Ma la città è viva, vibra della memoria di un popolo. Porta la voce di chi ha lottato per la giustizia, di chi è stato ucciso per il colore della sua pelle: "Our souls will rise to carry the fire and light the spark/ To fight shoulder to shoulder and heart to heart". Un'eco che dissipa le ombre e chiama a raccolta chi è ancora deciso a vivere. I tempi duri vanno e vengono, ripete Springsteen. La verità del cuore resta per sempre.
Sull'onda dei consueti, trionfali concerti in giro per il mondo, nel 2014 basta a fare notizia anche solo la pubblicazione di un pugno di canzoni recuperate dagli archivi del decennio precedente. Ma in High Hopes c’è una differenza: quella che Springsteen si propone è una sorta di opera di auto-rivisitazione.
L’idea ha preso forma durante il tour australiano del 2013, quando Tom Morello ha sostituito provvisoriamente Steve Van Zandt nella E Street Band: “Tom e la sua chitarra sono diventati la mia musa”, afferma convinto Springsteen. Tanto che proprio l’ex Rage Against The Machine si trasforma nel motore del progetto, contribuendo in maniera decisiva alla nuova edizione riveduta e corretta dei brani ripescati dal fondo dei cassetti.
E qui cominciano le note dolenti, perché in High Hopes l’apporto della chitarra di Morello suona irrimediabilmente giustapposto, in un affastellarsi di scontatissimi assolo che non riescono mai a intercettare l’anima del songwriting di Springsteen. L’esempio più eclatante viene dalla rilettura elettrificata di “The Ghost Of Tom Joad”, che tradisce la spoglia intensità dell’originale per un pieno di enfasi a buon mercato. Il miraggio hendrixiano resta pura velleità, senza eguagliare neppure la forza della cover già realizzata dagli stessi Rage Against The Machine negli anni Novanta.
Se Wrecking Ball era riuscito a indovinare una veste musicale tutto sommato azzeccata, High Hopes sembra ricalcare piuttosto il rock dai toni scialbi di Magic. Non a caso, a funzionare meglio sono le cover, dalla freschezza soul-rock di “Just Like Fire Would” dei Saints (pura E Street Band d’annata) alla litania di “Dream Baby Dream” dei Suicide, che si trasforma in un crescendo di organo e tastiere già rodato durante il tour di Devils & Dust.
Nonostante la provenienza disparata, le canzoni di High Hopes mostrano comunque la coerenza di un album a tutti gli effetti, soprattutto dal punto di vista narrativo. Ancora una volta, è la capacità di Springsteen di non rinunciare mai alla storia che vuole raccontare a tenere in piedi il disco. Anche quando il mestiere dello storytellernon basta da solo a riscattare gli esiti di un lavoro ben lontano dalla forma dei tempi migliori.
Il segreto della speranza che dà il titolo all'album è semplice come un innamoramento, come quell’alchimia di corrispondenza capace di travolgere tutto al passo festoso di “Frankie Fell In Love”. È Shakespeare in persona a rivelarlo al compagno di bevute Einstein: non servono i calcoli, non serve misurare, conta solo lo sguardo. “It’s just one and one make three/ That’s why it’s poetry”. Stavolta, però, il risultato dell’addizione si ferma al di sotto della sufficienza.
Altri scarti riarrangiati di questo disco di scarti riarrangiati saranno raccolti nell'Ep di quattro tracce American Beauty (2014).
Nello stesso anno Springsteen diventa anche sceneggiatore, regista e attore per il cortometraggio muto di 10 minuti Hunter Of The Invisible Game, soprendentemente pacato e rarefatto, una traduzione visiva di Nebraska.
Trentacinque anni dopo The River, la carica emotiva di quel periodo fatto di sogni e illusioni torna a farsi sentire nitidamente con The Ties That Bind: The River Collection, un cofanetto che celebra la memoria di una poetica più che di un album; che ci ricorda come ci siano stati degli anni, a cavallo tra la fine dei 70 e l’inizio degli 80, in cui la penna di Springsteen creava senza soluzione di continuità e la E Street band suonava dannatamente compatta e affiatata. A impreziosire la versione rimasterizzata dell’album altri due cd: “The River: Single Album” ci ripropone quello che, originariamente intitolato “The Ties That Bind”, era nelle intenzioni il seguito di Darkness On The Edge Of Town ma che mai vide la luce; “The River: Outtakes” mette insieme una scorpacciata di pezzi scartati dall’editing definitivo dell’album.
Nel 2016, Springsteen pubblica la sua prima autobiografia, emblematicamente intitolata “Born To Run”. La accompagna Chapter And Verse (2016), raccolta di classici e inediti tratti dai suoi anni di formazione.
Per più di un anno, tra il 2017 e il 2018, Springsteen porta in scena al Walter Kerr Theatre di Broadway una sorta di rappresentazione teatrale del libro. Dagli spettacoli viene tratto un doppio cd, Springsteen On Broadway, a cui si affianca un contraltare visivo girato da Thom Zimny, che viene pubblicato su Netflix in contemporanea al disco.
La prima confessione del cantastorie, davanti alla platea del piccolo teatro newyorkese, è che il poeta è un fingitore. “Non ho mai visto l’interno di una fabbrica, ed è l’unica cosa di cui ho sempre scritto”, scherza. L’uomo nato per correre è uno che ha finito per abitare a dieci minuti dalla propria città natale. Uno che è diventato famoso scrivendo di cose di cui ammette di non avere nessuna esperienza personale. Ma è proprio questo il segreto dei cantastorie: farti vivere vite che non sono la tua.
Springsteen scandisce nitidamente ogni sillaba, quasi a volerne assaporare tutto il peso. Alterna cantato e recitativo senza soluzione di continuità, dà libero sfogo alla sua vena di affabulatore sempre in bilico tra sorriso e riflessione.
Si parla molto di radici, in Springsteen On Broadway. Essere figli, essere genitori. La fatica di riuscire a immedesimarsi gli uni nelle fatiche degli altri. Una sofferta riconciliazione da cui nasce il momento più intenso del disco, quando Springsteen asciuga le lacrime dagli occhi per intonare una commossa “Long Time Comin’”. E nella sua voce ogni respiro assume uno spessore quasi insostenibile: “If I had one wish in this God forsaken world, kid/ It’d be that your mistakes will be your own/ That your sins will be your own”.
Non c’è quell’inventiva nel riscrivere il vecchio repertorio che aveva contraddistinto i tour solisti di The Ghost Of Tom Joad e Devils & Dust. Ma nel mettersi a nudo in una maniera così intima, Springsteen riesce a conferire ai brani una nuova schiettezza, qualcosa in grado di arrivare direttamente all’essenza. È il cuore pulsante delle sue canzoni, più vere e palpitanti qui, di certo, che non nel rito collettivo dei grandi concerti.
Alla fine del racconto, Springsteen prende in prestito le parole di una preghiera. La più semplice di tutte, il “Padre nostro”. Lui, il ragazzo del New Jersey cresciuto “circondato da Dio”, tra il campanile della chiesa e il convento delle suore, si trova a ripetere quelle parole biascicate mille volte nell’ora di catechismo o in un’aula di scuola. Ora, però, hanno un significato diverso: l’esperienza della vita ha dato loro carne e sangue. È lì dentro, sembra volerci dire, che si trova tutto il sugo della storia: quella “lunga e rumorosa preghiera” che è il nostro cammino di uomini.
A quattordici anni di distanza da Devils & Dust, nel 2019 Springsteen torna a pubblicare un disco solista, Western Stars: quasi automatico aspettarsi un ritorno in versione folksinger. Ma la direzione, stavolta, è un’altra: lo mette in chiaro già la presentazione dell’album, che addita come influenza principe il pop californiano degli anni Sessanta e Settanta. Archi a profusione, fiati squillanti, echi twang, languore countrypolitan. I paragoni con il Glen Campbell di “Wichita Lineman” e con l’Harry Nilsson di “Everybody’s Talkin’” si sprecano per un album più cinematografico che mai.
Western Stars riesce a trovare il suo punto di equilibrio nei momenti più asciutti, quelli in cui gli arrangiamenti si prestano ad assecondare l’andatura polverosa dei brani senza cercare di sovrastarla: il crescendo della title track assume un sapore morriconiano, il lirismo di “Drive Fast (The Stuntman)” si lascia condurre dalla pedal steel. A volte le orchestrazioni fungono da semplici riff (vedi l’iper-springsteeniana “Tucson Train”), a volte aspirano a un respiro più sinfonico (“Chasin’ Wild Horses” su tutte).
Nella seconda parte del disco, però, comincia ad affacciarsi pericolosamente l’ombra di quello che gli americani chiamano “schmaltz”, ovvero la saturazione del sentimentalismo: difficile definire diversamente la magniloquenza larger-than-life di “There Goes My Miracle” o di “Sundown”. E anche un brano come “Stones”, che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un perfetto apocrifo di Tunnel Of Love, suona alla fine sovraccarico di enfasi.
Nel mezzo, non manca neppure il classico numero da E Street Band (“Sleepy Joe’s Café”), che qui lascia l’impressione di una parentesi un po’ avulsa dal contesto, con la sua danza di fisarmonica, organo e fiati tex-mex.
Il mito della frontiera campeggia su Western Stars sin dalla copertina, con quel cavallo selvaggio e quel cielo imponente che sembrano rubati a un romanzo di Cormac McCarthy. Un grande classico della poetica springsteeniana, tanto che “The Wayfarer” ammicca con autoironia al luogo comune del “nato per correre”: “It’s the same old cliché, a wanderer on his way, slippin’ from town to town”.
Ma il West di Springsteen, ancora una volta , è la linea di confine della sconfitta. Attori al tramonto, stuntman malandati, cantautori in disgrazia: i protagonisti delle vite parallele di Western Stars sembrano ostaggi dei loro sogni incompiuti, rassegnati al trascorrere del tempo tra una pillola blu e una bevuta in onore dei giorni di gloria. “I lie awake in the middle of the night/ Makin’ a list of things that I didn’t do right”, sussurra Springsteen sull’arpeggio in chiaroscuro di “Somewhere North Of Nashville”. Solo il fallimento riesce a capovolgere la prospettiva, a farci riconoscere la verità del nostro desiderio: abbiamo inseguito per tutta la vita la strada, ma quello che cercavamo era una casa; abbiamo venduto tutto per una canzone riuscita, ma quello che volevamo era l’amore che abbiamo dato in cambio.
Il momento più intenso del disco arriva alla fine, sulla carezza amara di “Moonlight Motel”: un parcheggio deserto, una bottiglia di whisky, i fantasmi del passato. E ancora una volta una voce dentro, nel cuore della notte: “I woke to something you said/ That it’s better to have loved, yeah, it’s better to have loved”. Scorrono i titoli di coda, ma per chi ha amato davvero non può mai essere tutto invano. Forse domani, sul prossimo treno, ci sarà proprio lei. Quella che pensavi di aver perso per sempre.
Il juke-box della memoria
Nel mezzo della pandemia del 2020, il ventesimo album di Springsteen, Letter To You, si presenta come un messaggio ai fan che sfonda i confini della quarta parete: “È il mio primo disco in cui il soggetto è la musica stessa”, confessa. “Parla della popular music. Dell’essere in una rock band, lungo il corso del tempo”. Non solo una raccolta di canzoni, ma la celebrazione di un’intera carriera: ovviamente, di nuovo al fianco dell’immarcescibile E Street Band.
Una musica infestata di ricordi e di spettri, di ombre dei giorni passati e dei compagni di viaggio che non ci sono più. “Last Man Standing”, si intitola non a caso il primo dei brani scritti per il disco: vecchie fotografie con stivali e giacche di pelle e la consapevolezza di essere ormai l’ultimo sopravvissuto di quella prima band del Jersey Shore, i Castiles, sfrontata e precaria come l’adolescenza.
Sarà stata la nostalgia, sarò stato il desiderio di fare un regalo al popolo dei suoi seguaci: fatto sta che Springsteen, stavolta, decide di essere semplicemente Springsteen. Invece di sforzarsi di sfuggire alla formula che l’ha portato al successo (come ha fatto più o meno in tutti i dischi in studio da Born In The U.S.A. in avanti), si risolve ad abbracciarla in pieno. È proprio questa la forza di Letter To You: solo Bruce Springsteen e la E Street Band, orgogliosamente fuori tempo e fieri di essere sè stessi. Niente provini, niente sovraincisioni, tutto registrato insieme dal vivo: quattro giornate di lavoro, “e il quinto giorno ci riposammo”.
Non c’è da stupirsi, allora, che il disco suoni in tutto e per tutto come il fratello minore di The River. Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è esattamente dove era stato lasciato quarant’anni prima, forgiato da un instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo, perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio.
A suggello dell’indole passatista dell’album, la scaletta riserva addirittura un tuffo nel primissimo repertorio springsteeniano: mentre selezionava i nastri degli archivi (destinati a quanto pare a un nuovo capitolo di “Tracks”), Bruce ha pensato bene di dare una veste compiuta a tre dei suoi leggendari demo di inizio anni Settanta. Scelta sorprendentemente azzeccata, perché la rivisitazione asciutta e vigorosa di “Janey Needs A Shooter” (presa in prestito all’epoca da Warren Zevon) ha un piglio da “Darkness On The Edge Of Town” che varrebbe già da solo tutto il disco. Ma anche “Song To Orphans”, irrobustita da uno slancio tutto dylaniano (armonica compresa), non fa rimpiangere l’originale, mentre “If I Was The Priest” prende un’andatura carica di epica western.
Certo, l’autoreferenzialità è dietro l’angolo: canzoni su una band che infiamma la platea, fatte apposta per essere suonate da una band che infiamma la platea… “Ghosts” è la meta-canzone per eccellenza: riff alla Tom Petty, ritornello da cantare come un inno e versi che hanno il sapore della profezia che si autoavvera: “By the end of the set we leave no one alive”. Il cuore del brano, però, sta nel chiamare i raccolta i fantasmi: Clarence Clemons, Danny Federici, George Theiss dei Castiles… “I turn up the volume, let the spirits be my guide/ Meet you brother and sister on the other side”.
Dall’altra parte, sull’altra riva del fiume: la lettera di Springsteen forse è proprio questo, un messaggio in bottiglia lanciato verso la terra sconosciuta che ci aspetta. “I’ll see you in my dreams, we’ll meet again in another land”, promette nell’elegia posta a conclusione dell’album. Ma il suo è anche un messaggio sui legami che costruiamo quaggiù, su quella fratellanza che nemmeno la morte può sciogliere. Sulla casa che vogliamo per noi stessi e per gli altri: una casa illuminata nella notte, come quella che immagina in “House Of A Thousand Guitars”, animata dal suono di tutte le chitarre di una vita. “È come quella canzone gospel, “I’m Working On A Building”. È la casa che ho lavorato a costruire in tutti questi anni”. Bello ritrovarsi lì, sulla strada che porta a casa.
“Soul man”. Sono le uniche due parole che Bruce Springsteen vorrebbe vedere scritte sulla sua lapide. Non è (solo) questione di musica: “si riferisce alla vita, al lavoro e al modo in cui affronti l’una e l’altro”. Metterci l’anima, potremmo dire. Una vocazione che Springsteen ha imparato dagli eroi del soul: dal loro modo di dare voce alle emozioni, dal loro modo di concedersi senza riserve.
Non c’è da stupirsi, insomma, di ritrovarlo nel 2022 alle prese con una raccolta di cover soul e r&b. Anzi, viene quasi da chiedersi come mai non fosse già successo, vista la quantità di classici del genere ripescati sul palco durante le sue torrenziali cavalcate. In fondo, come diceva Martin Scorsese, il compito dell’artista è quello di far interessare il pubblico alle sue ossessioni. E l’ossessione di Springsteen per il soul è parte integrante della sua storia.
A Freehold, New Jersey, nel cuore degli anni Sessanta, era quella l’unica musica capace di mettere d’accordo tutti sulla pista da ballo. Per raccontare la vita dei ragazzi di allora, ricorda Springsteen nella sua autobiografia, “occorreva un mix tra il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla Motown”.
Sono per l’appunto le radici in cui il songwriter americano decide di tornare a immergersi, rintanandosi fuori orario nel suo studio durante il lockdown per registrare una collezione di cover (note e meno note) insieme al produttore dei suoi ultimi album, Ron Aniello. “Il mio scopo è far sperimentare al pubblico di oggi la bellezza e la gioia di quella musica”, spiega, “proprio come è successo a me fin dalla prima volta in cui l’ho sentita”. Non è un caso, allora, che le prime parole di Only The Strong Survive abbiano a che vedere proprio con la memoria: “I remember…”, ripete un coro femminile sul tappeto degli archi; “I remember my first love…”, attacca il recitativo di Springsteen dopo un colpo di batteria. E il vecchio successo di Jerry Butler si lascia alle spalle la nostalgia per lanciarsi in uno scintillante pezzo di modernariato pop.
Niente E Street Band, stavolta, a parte la sezione dei fiati e la presenza di Soozie Tyrell tra le coriste. Springsteen decide spostare i riflettori sulla sua voce: “Volevo fare un disco in cui cantare e basta. E quale musica migliore su cui lavorare del grande canzoniere americano degli anni Sessanta e Settanta?”. Un tempo era convinto che proprio la voce fosse il suo punto debole; ora, invece, sfoggia tutta la sua sicurezza di interprete, destreggiandosi in un personalissimo karaoke. Il senso di spontaneità e di divertimento è il punto di forza di Only The Strong Survive: un approccio che rimanda inevitabilmente a quello delle Seeger Sessions, anche se qualche eccesso di fedeltà agli originali (e una certa compostezza nella postura) rende l’esito non altrettanto brillante.
Il gioco funziona al meglio quando il clima si fa più festoso, come tra i cori di “Do I Love You (Indeed I Do)” o sui fiati in perfetto stile Stax di “Any Other Way”. Riesce meno, invece, quando le inflessioni si fanno più sentimentali, da “The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore” a “What Becomes Of The Brokenhearted”. Ma la maggior parte delle tracce di Only The Strong Survive scorre con leggerezza, tra gli accenti luminosi del Ben E. King di “Don’t Play That Song” e l'andamento flessuoso del Tyrone Davis di “Turn Back The Hands Of Time”.
Dopo quasi cinquant'anni di carriera, la musica di Bruce Springsteen coincide ormai con l'epica stessa del rock 'n' roll: a rendere grandiosa l'apparente ordinarietà delle sue storie di provincia e di strade secondarie è lo slancio verso l'infinito che anima il cuore dei protagonisti. Perché l'epica è il quotidiano che diventa eroico e l'eroico che diventa quotidiano. E così la statura umana non è più definita dai fallimenti e dalla disillusione, ma unicamente dalla grandezza delle promesse a cui aspira.
Contributi di Alessandro Matarante ("The Ties That Bind") e Michele Saran ("American Beauty", "Hunter Of The Invisible Game")
Greetings From Asbury Park (Columbia, 1973) | 5 | |
The Wild, The Innocent And The E-Street Shuffle (Columbia, 1973) | 6 | |
Born To Run (Columbia, 1975) | 8,5 | |
Darkness On The Edge Of Town (Columbia, 1978) | 7 | |
The River (Columbia, 1980) | 9 | |
Nebraska (Columbia, 1982) | 9 | |
Born In The Usa (Columbia, 1984) | 7 | |
Live 1975-1985 (live, Columbia, 1986) | 7 | |
Tunnel Of Love (Columbia, 1987) | 6 | |
Chimes Of Freedom (Ep, Columbia, 1988) | ||
Human Touch (Columbia, 1992) | 4,5 | |
Lucky Town (Columbia, 1992) | 5 | |
Greatest Hits (anthology, Columbia, 1995) | ||
The Ghost Of Tom Joad (Columbia, 1995) | 6 | |
In Concert: Mtv Unplugged (live, Columbia, 1997) | 6,5 | |
Tracks (anthology, Columbia, 1998) | ||
18 Tracks (anthology, Columbia, 1998) | ||
Live In New York City (live, Columbia, 2001) | 6,5 | |
The Rising (Columbia, 2002) | 6 | |
The Essential Bruce Springsteen (anthology, Columbia, 2003) | ||
Devils & Dust (Columbia, 2005) | 6 | |
We Shall Overcome - The Seeger Sessions (Columbia, 2006) | 7 | |
Hammersmith Odeon, London 1975 (live, Columbia, 2006) | 8 | |
Magic (Columbia, 2007) | 5 | |
Live In Dublin (live, Columbia, 2007) | 5 | |
Working On A Dream (Columbia, 2009) | 5 | |
The Promise (Columbia, 2010) | 7,5 | |
Wrecking Ball (Columbia, 2012) | 6 | |
High Hopes (Columbia, 2014) | 5 | |
The Ties That Bind - The River Collection (Columbia, 2015) | 8 | |
Chapter And Verse (anthology, Columbia, 2016) | ||
Springsteen On Broadway (live, Columbia, 2018) | 7,5 | |
Western Stars (Columbia, 2019) | 6,5 | |
Letter To You(Columbia, 2020) | 7 | |
Only The Strong Survive (Columbia, 2022) | 6,5 |
Growin' Up (live, da "Greeting From Asbury Park, NJ", 1973) | |
Rosalita (Come Out Tonight) (live, da "The Wild, The Innocent And The E-Street Shuffle", 1973) | |
Born To Run (da "Born To Run", 1974) | |
Thunder Road (live, da "Born To Run", 1974) | |
Badlands (live, da "Darkness On The Edge Of Town", 1978) | |
The Promised Land (live, da "Darkness On The Edge Of Town", 1978) | |
The River (live, da "The River", 1980) | |
Hungry Heart (da "The River", 1980) | |
Atlantic City (da "Nebraska", 1982) | |
Born In The U.S.A. (da "Born In The U.S.A.", 1984) | |
Glory Days (da "Born In The U.S.A.", 1984) | |
Brilliant Disguise (da "Tunnel Of Love", 1987) | |
Better Days (da "Lucky Town", 1992) | |
The Ghost Of Tom Joad (live, da "The Ghost Of Tom Joad", 1995) | |
Lonesome Day (da "The Rising", 2002) | |
My City Of Ruins (live, da "The Rising", 2002) | |
Devils & Dust (da "Devils & Dust", 2005) | |
Old Dan Tucker (live, da "We Shall Overcome - The Seeger Sessions", 2006) | |
Long Walk Home (da "Magic", 2007) | |
My Lucky Day (da "Working On A Dream", 2009) | |
We Take Care Of Our Own (da "Wrecking Ball", 2012) | |
High Hopes (da "High Hopes", 2014) | |
Western Stars (da "Western Stars", 2019) | |
Letter To You (da "Letter To You", 2020) |