Country for Dummies

Cinquant'anni di provincia americana

Il pubblico rock è storicamente disinteressato alla musica country vera e propria, la cui conoscenza è quasi sempre relegata ai giganti Johnny Cash e Hank Williams.
La cosa risulta tuttavia bizzarra, considerando quanti artisti hanno incontrato i favori delle masse e della critica mescolando rock e country: Byrds, Gram Parsons, Creedence Clearwater Revival, Neil Young, Eagles, Fleetwood Mac, tutto il southern rock dai Lynyrd Skynyrd agli Allman Brothers, gran parte del suono West Coast (dai Grateful Dead ai più radiofonici America), e via dicendo.
Si è quindi cercato di stilare una lista di dieci nomi che possano introdurre al country chi ama da sempre le commistioni di cui sopra. Il problema è che, da quando il country è nato, a quando è diventato difficile separarlo in maniera netta dal rock (più o meno durante gli anni Settanta), è passato circa mezzo secolo.
Riassumere con dieci nomi cinque decadi di musica, come ben intuirete, è impossibile. Non c’è quindi la pretesa di spacciare i dieci artisti selezionati come i migliori della storia del country. Il tentativo è un altro: identificare le principali sottocorrenti del country, spalmate lungo il periodo preso in considerazione, e per ognuna indicare un nome che possa rappresentarne la chiave di ingresso.
È stata pertanto lasciata in disparte una moltitudine di artisti che hanno segnato la storia del genere, quali Jimmie Rodgers, Red Foley, Tex Williams, Tennessee Ernie Ford, Hank Snow, Marty Robbins, Slim Whitman, George Jones, Hank Thompson, Faron Young, Johnny Horton, Don Gibson, Patsy Cline, Roger Miller, Loretta Lynn, Willie Nelson, Merle Haggard, Bobbie Gentry e chi più ne ha più ne metta.
La speranza è di tornare prima o poi su ognuno di loro con uno sguardo approfondito, nel frattempo ecco i dieci nomi che, nel caso di un eventuale apprezzamento, si spera possano spingervi a proseguire l’esplorazione di questo meraviglioso universo.

carterCarter Family
La convenzione vuole che il country sia nato nell’estate del 1927, quando Ralph Peer, membro della Victor Records alla ricerca di talenti, giunse a Bristol nel Tennessee e registrò sul luogo alcuni brani di Jimmie Rodgers e della Carter Family. Persuaso dalle loro doti, si accordò per delle nuove sessioni con entrambi, tenutesi l’anno successivo a Camden, New Jersey, direttamente ai Victor Studios.
Il secondo appuntamento generò “Blue Yodel” per Rodgers e “Wildwood Flower” per i Carter, successi astronomici capaci di vendere un milione di copie a testa e proiettare i due nomi nell’immaginario dell’America di provincia.
Se si sono scelti i Carter non è perché Rodgers sia loro inferiore (stabilire una graduatoria sarebbe sterile e fazioso), ma perché nella sua musica la componente “negra” era ancora molto marcata. I Carter invece avevano già quell’aura di musica suonata “da bianchi e per bianchi” che avrebbe da lì in poi accompagnato grosso del country, distinguendolo di netto sia dal blues acustico dei neri, sia dal folk bianco preso decenni dopo a modello dal Greenwich Village.
La Carter Family era composta da Sara (voce, autoharp) e Maybelle (chitarra, seconda voce), con il saltuario apporto interpretativo del marito della prima, Alvin Pleasant (noto ai più con l’acronimo A.P.).
Nonostante una limitata partecipazione effettiva alle incisioni, A.P. era il collante della Carter Family: organizzava i concerti e le sessioni di registrazione, e soprattutto disponeva di un illimitato repertorio di canzoni tradizionali, conosciute a zonzo per gli Stati Uniti mentre vendeva alberi da frutta, prima di intraprendere la carriera musicale.
La formazione originale della Carter Family avrebbe operato fino al 1944, per quanto la sigla sia poi stata ripresa da Maybelle e dalle sue figlie (fra le quali June Carter, futura moglie di Johnny Cash).
Cinque canzoni per iniziare:Wildwood Flower” (1928), “Keep On The Sunny Side” (1928), “John Hardy Was a Desperate Little Man” (1928), “I’m Thinking Tonight of My Blue Eyes” (1929), “Can The Circle Be Unbroken?” (1935)
Raccolte consigliate: “Wildwood Flower” (Living Era, 2000) è la migliore, ma risulta fuori catalogo. Si può sostituirla sommando "A Proper Introduction to the Carter Family: Keep On The Sunny Side" (Proper, 2004) e "Can The Circle Be Unbroken: Country Music's First Family" (Columbia, 2000).

acuffRoy Acuff
Identificato da tutti come voce del Grand Ole Opry, Roy Acuff si esibì all’interno del celebre programma radiofonico di Nashville dal 1938 al 1946, e poi di nuovo dagli anni Sessanta agli Ottanta. Elogiato in vita da diversi presidenti degli Stati Uniti (Nixon e Reagan su tutti), morì nel 1992 all’età di 89 anni.
Fu senza dubbio l’esponente più rappresentativo del country tradizionale degli anni Trenta, all’epoca indicato semplicemente come hillbilly. Salì alla ribalta nel 1936, con due brani dal repertorio della Carter Family: “Wabash Cannon Ball” (che nella sua versione diventò il primo singolo country a superare i due milioni di copie) e “The Great Speckled Bird” (con testo scritto ex novo dallo stesso Acuff). Seguì una manciata di originali divenuti tutti più o meno classici, a ulteriore conferma del talento di Acuff.
Gli arrangiamenti delle sue canzoni – inizialmente per soli chitarra acustica, slide, violino e contrabbasso – si arricchirono nel dopoguerra, riuscendo tuttavia solo sporadicamente a eguagliare i vertici qualitativi della prima decade di carriera.
Cinque canzoni per iniziare:The Great Speckled Bird” (1936), “Wabash Cannon Ball” (1936), “Eyes Are Watching You” (1939), “The Precious Jewel” (1940), “Waiting for My Call to Glory” (1946)
Raccolte consigliate: “The King of Country Music” (Living Era, 1998) è la migliore, ma risulta fuori catalogo. “The Essential Roy Acuff” (Columbia, 1992) può rappresentare un’alternativa, ma la selezione è decisamente inferiore e di “Wabash Cannon Ball” è stata inserita la versione del 1947, che per quanto valida non può paragonarsi all’incisione del ‘36.

pioneersSons of the Pioneers
Gli anni Trenta americani furono caratterizzati dalla diffusione della musica Western, che fece da sfondo a una miriade di film del periodo. Si tratta di canzoni di stampo popolare, talvolta dal tono epico, con arrangiamenti che, partendo dalla stessa strumentazione del country tradizionale, si sono via via aperte alle contaminazioni, inglobando orchestrine swing, tradizione messicana e quant’altro.
I Sons of the Pioneers furono il gruppo più importante della corrente. Vennero fondati nel 1933 da Bob Nolan, Roy Rogers e Tim Spencer, tre autentiche leggende: autori di una lunga serie di classici (Nolan in particolare), cantanti, strumentisti, attori, in seguito anche discografici.
Singolarmente o in gruppo comparvero in almeno un centinaio di film. Rogers mollò la band nel 1937, gli altri due nel '49, lasciandola in mano ai musicisti entrati in organico nel frattempo. La sigla sopravvive a tutt’oggi, dopo aver visto sfilare al suo interno una quarantina di elementi, ma il lascito più importante rimane ovviamente quello dei primi due decenni di attività.
Cinque canzoni per iniziare:Tumbling Tumbleweeds” (1934), “Blue Prairie” (1936), “I’m an Old Cowhand” (1936), “Cool Water” (1941), “Riders in the Sky” (1949)
Raccolta consigliata: “Ultimate Collection” (Hip-O, 2002).

tubbErnest Tubb
L’honky-tonk è stato il sottogenere country più diffuso per tutti gli anni Quaranta e buona parte dei Cinquanta. Prosecuzione diretta della tradizione hillbilly, divenne celebre per il passo caracollante, non di rado a tempo di valzer, e per aver reso centrale nel country il suono della chitarra elettrica.
A cristallizzarlo fu Ernest Tubb, il trovatore del Texas, che raggiunse undici volte la top-30 di Billboard fra il 1941 e il 1953 (impresa non facile per un artista country in un periodo commercialmente dominato da crooners e orchestre jazz).
Le sue canzoni avevano uno schema fisso: tutte la stessa cantilena, tutte con testi fra il tragico e il sarcastico, tutte screziate dall’assolino di chitarra elettrica, tutte con lui che incita il session man di turno con slogan squisitamente provinciali come “Rave on, brother” o “Tell the truth, son”.
Tutt’altro che casualmente, in questo infinito replicare se stesso, Tubb risultava sempre vincitore. I singoli pubblicati nel primo lustro di carriera in particolare sono commoventi nel loro mix di spontaneità e rigore. Non si è comunque fatto mancare qualche curiosa digressione: si pensi alla swingante collaborazione con le Andrews Sisters avvenuta nel 1949.
Cinque canzoni per iniziare:Walking the Floor Over You” (1941), “Our Baby’s Book” (1941), “You Nearly Lose Your Mind” (1942), “Give Me a Little Old Fashioned Love” (1950), “Thanks A Lot” (1963)
Raccolte consigliate: “The Definitive Hits Collection” (Collectors’ Choice, 2001), doppio cd, è decisamente la migliore. Purtroppo è fuori catalogo e al momento rintracciabile solo a prezzi poco amichevoli. Potete tamponare con “The Definitive Collection” (MCA, 2006), che ne condivide parte dell’eccelso materiale, pur non essendo altrettanto completa.

monroeBill Monroe
Distinguibile per la maestria tecnica degli strumentisti, le complesse armonie vocali e l’utilizzo, se non fisso, quanto meno ricorrente del mandolino, il bluegrass è ad oggi una delle correnti più caratteristiche del country, e una delle poche che abbia generato un minimo di interesse nella critica rock. Il nome deriva dai Blue Grass Boys, la band che accompagnò Bill Monroe a partire dal 1938, benché il diretto interessato indicasse la propria musica come semplice “hillbilly delle montagne” (quelle del Kentucky per la precisione, dove era nato e cresciuto).
Prolifico autore, abile tenore e eccellente mandolinista, Monroe ha guidato diverse formazioni dei Blue Grass Boys, fra le cui fila sono passati musicisti storici come il bangioista Earl Scruggs e i cantanti-chitarristi Lester Flatt e Jimmy Martin. Molti loro brani sono divenuti standard del genere.
Cinque canzoni per iniziare:Kentucky Waltz” (1945), “Footprints in the Snow” (1945), “Blue Moon Of Kentucky” (1946), “Sweetheart You Done Me Wrong” (1947), “Gotta Travel On” (1959)
Raccolte consigliate: “The Father of Bluegrass” (Living Era, 1999), la migliore per quanto riguarda le incisioni anni Quaranta per Bluebird e Columbia, è fuori catalogo ma ancora rintracciabile con relativa facilità. Per il periodo Decca (dal 1950 in poi) c’è invece “The Definitive Collection” (MCA, 2005), che presenta rivisitazioni di molti fra gli inni del periodo precedente, in vesti più moderne e vivaci (è opinione non rara che queste riletture siano superiori alle versioni originali).

arnoldEddy Arnold
Più che i tredici singoli piazzati nella top-30 statunitense a partire dal 1947, sono le 115 settimane passate al primo posto nello specifico catalogo country – record a tutt’oggi imbattuto – a rendere al meglio il potere iconico di Eddy Arnold. Capace di spaziare dagli acuti dello yodel ai toni soffusi del crooner, Arnold mostrò capacità comunicative superiori ai suoi contemporanei già nella prima parte di carriera, segnata da una raffica di hit mozzafiato che, pur mantenendo la strumentazione del country tradizionale, mostravano un dinamismo decisamente pop.
Nel 1955 poi, praticamente per primo, si cimentò in un nuovo stile orchestrale e sofisticato, che di lì a pochi anni avrebbe soppiantato i toni ruspanti dell’honky-tonk, imponendosi col nome di Nashville sound. Stupisce che spesso la critica di settore dimentichi questo suo ruolo di avanscoperta, preferendo inquadrare il big bang del sottogenere nelle comunque superbe produzioni di Chet Atkins datate 1957.
Sarà a ogni modo proprio sotto l’egida di Atkins che Arnold vivrà la parte commercialmente più felice della sua carriera, quella di metà anni Sessanta, impostata su un maturo tono baritonale.
Cinque canzoni per iniziare:It’s a Sin” (1946), “I’ll Hold You in My Arms” (1947), “Just a Little Lovin’” (1947), “The Cattle Call” (1955), “Then You Can Tell Me Goodbye” (1968)
Raccolta consigliata: “Complete Original #1 Hits” (Real Gone Music, 2013).

wellsKitty Wells
Morta nel 2012 all’età di 92 anni, non è stata necessariamente la più grande cantante country di tutti i tempi (non ci interessa stabilirlo), ma è stata senza dubbio la più importante. Escludendo la Carter Family per il country tradizionale e Patsy Montana per il Western, l’universo in questione era rimasto per oltre due decadi gioco per soli uomini. Fu Kitty Wells, all’inizio degli anni Cinquanta, a scombinare le carte in tavola, generando una reazione a catena che non si sarebbe più esaurita. Impossibile immaginare le varie Patsy Cline, Loretta Lynn, Tammy Wynette e Dolly Parton, senza la figura di Kitty a indicare loro la via.
Quasi mai autrice, come invece alcune fra quelle sopra elencate, riuscì comunque a imporre una peculiare cifra stilistica: prima honky-tonk ma levigata, poi nel segno della sua nativa Nashville ma senza eccessi, sembrava insomma muoversi in una dimensione a parte, solo sfiorata dal susseguirsi delle mode.
Oggi è considerata un importante esempio di proto-femminismo, per via dei numerosi brani sulla sofferta condizione della donna. Tanto per capirsi, all’epoca – in particolare nel suo ambiente – era costume individuare nella figura femminile la causa unica dell’infedeltà degli uomini. Diverse fra le canzoni interpretate dalla nostra eroina puntavano invece sul restituire all’altro sesso la propria parte di responsabilità.
Cinque canzoni per iniziare:It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels” (1952), Whose Shoulder Will You Cry On” (1955), “Amigo’s Guitar” (1959), Will Your Lawyer Talk to God” (1962), “This White Circle” (1964)
Raccolta consigliata: “God’s Honky Tonk Angel: the First Queen of Country Music” (Edsel, 2001). Fuori catalogo da anni, rimane tristemente l’unica antologia esaustiva mai dedicata a Kitty Wells (escludendo i box set). Qualora riusciate a rintracciarla a prezzi ragionevoli, non fatevela sfuggire.

owensBuck Owens
Pur non avendo mai ottenuto vendite esagerate, dominò le classifiche di settore e fu uno dei perni del country anni Sessanta. Considerato pioniere e simbolo del sound di Bakersfield, California, che in quel decennio tentò di opporsi al potere commerciale di Nashville, sfoggiò un country vitale e ritmato, sorretto dal suono squillante della Fender Telecaster e progenitore della fusione col rock operata di lì a pochi anni da Byrds e Flying Burrito Bros.
La sua influenza, vastissima e riconosciuta con orgoglio da tutti i suoi accoliti, a partire da Merle Haggard, toccherà anche l’altra sponda dell’Atlantico: gli stessi Beatles si sarebbero cimentati col suo repertorio.
In seguito divenne il santino dei neotradizionalisti anni Ottanta, da Randy Travis a Dwight Yoakam, nonché di quell’ondata alternative country che nelle ultime due-tre decadi ha saputo conquistare un posto di riguardo nel cuore del pubblico indie-rock.
Cinque canzoni per iniziare:Foolin’ Around” (1961), “Act Naturally” (1963), “My Heart Skips a Beat” (1964), “I’ve Got a Tiger By the Tail” (1964), “Sam’s Place” (1967)
Raccolta consigliata: “40 Greatest Hits: Streets of Bakerfield” (Double Platinum, pubblicata nel 1999 e ristampata nel 2006), doppio CD. Nonostante la copertina un po’ pacchiana, è di gran lunga la migliore antologia in circolazione.

campbellGlen Campbell
Se il termine countrypolitan viene ritenuto dai più un sinonimo di Nashville sound, c’è anche una scuola di pensiero che preferisce indicarvi la corrente con architetture orchestrali mastodontiche che si sviluppò a partire dalla metà degli anni Sessanta e rappresentò di fatto un ulteriore step nella linea evolutiva del country.
L’incarnazione di questo stile porta il nome di Glen Campbell, una delle più grandi star della musica country (fra il 1967 e il 1977 piazzò album e singoli a raffica sia nella top-10 statunitense, sia in quella britannica). Fra i suoi prestigiosi collaboratori troviamo Jimmy Webb, autore di diversi dei suoi brani più celebri, e Al De Lory, produttore e direttore artistico.
Chitarrista straordinario spesso utilizzato come session man (negli anni Sessanta lo trovate nei dischi di chiunque: suonò persino in cinque pezzi di "Pet Sounds"), nonché interprete sublime, Campbell conquistò il pubblico mediante una formula particolarmente elaborata. I suoi brani, con arrangiamenti al confine col coevo baroque pop, alternano imponenti ballate e momenti intimisti, ariose accelerazioni e deliziosi virtuosismi. In più di un tratto si possono scorgere connessioni con lo Scott Walker dei primi album.
Cinque canzoni per iniziare:If This Is Love” (1967), “Wichita Lineman” (1968), “Dreams of the Everyday Housewife” (1968), “Galveston” (1969), “Southern Nights” (1977)
Raccolta consigliata: “The Capitol Years 65/77” (EMI, 1998), doppio CD.

hallTom T. Hall
Se il Nashville sound trovò a Bakersfield la sua nemesi, il gusto barocco di cantanti come Charlie Rich, Bobbie Gentry o lo stesso Campbell vide ai propri antipodi la scuola del progressive country. Con questa curiosa denominazione si indica un coacervo dei vari stili distanti dai dettami di Nashville, a cui si aggiunse per la prima volta il concetto di cantautore impegnato (si era del resto in piena rivoluzione Dylan, benché i cantanti country esprimessero idee talvolta assai distanti dalle sue).
Il celeberrimo outlaw country giunto qualche anno dopo sarebbe stato la diretta conseguenza di questi dettami, ma a quel punto la difficoltà nel discernere country e rock sarebbe diventata insormontabile, terminiamo pertanto qui il nostro viaggio, all’alba degli anni Settanta. 
Tom T. Hall è forse il nome più adatto a rappresentare questa visione terminale del country duro e puro. La sua voce calda, a metà strada fra George Jones e Johnny Cash, infonde ulteriore colore a pezzi già estremamente accattivanti a livello strumentale (registrazione pulita e arrangiamenti solcati da squisiti ricami chitarristici). I testi, in pratica dei piccoli film, raccontano sovente le storie di strada del suo Kentucky.
Cinque canzoni per iniziare:Ballad Of Forty Dollars” (1968), “Homecoming” (1969), “A Week In A Country Jail” (1969), “Shoeshine Man” (1969), “The Year Clayton Delaney Died” (1971)
Raccolte consigliate: “Tom T. Hall's Greatest Hits” (Mercury, 1972) è forse un po’ breve, ma contiene un’ottima selezione. Volendo potete integrarla con il “Greatest Hits Vol. 2” (Mercury, 1975).