"Rock'n'roll can never die": il rock'n'roll non può morire. Lo cantava nel 1979, Neil Young, e continua a gridarlo oggi. Una banalità? Forse, ma non in bocca a lui. Nessuno come questo allampanato canadese, infatti, ha incarnato il rock in tutte le sue anime; lo ha vissuto dentro: nei nervi, nella pancia, nel cuore. Al punto che oggi ne porta addosso i segni: il viso solcato dalle rughe, la schiena ingobbita, l'aspetto terribilmente imbolsito. Tutto, in lui, mostra le tracce di una lunga battaglia: quella contro l'alcol e le droghe, contro i fantasmi degli amici scomparsi, contro le nevrosi e i dolori d'una vita.
Fin qui, si direbbe, il ritratto di una delle gloriose cariatidi che continuano ad affollare l'arena del rock. Ma non è così. Young, infatti, ha da sempre in sé il germe della modernità. Non esiste altro musicista che sia riuscito ad attraversare quattro decenni di rock restando sempre un faro per i contemporanei. Uno dei suoi capolavori, Tonight's The Night (1975), è stato giudicato un album punk ante-litteram; "Out of the blue/ Into the black" (1979) era dedicata a Johnny Rotten dei Sex Pistols; e "Sleeps With Angels" (1994) era un omaggio a Kurt Cobain, mito bruciato del grunge. Nel suo messaggio di addio, Cobain scrisse proprio la frase di una canzone di Young ("My My, Hey Hey"): "Meglio bruciarsi che svanire". Un anno dopo la morte del leader dei Nirvana, il maestro canadese ricambiò commosso sul palco del "Rock'n'roll Hall of Fame": "Voglio ringraziare Cobain per aver rinnovato la mia ispirazione". Ma la febbre younghiana ha contagiato anche altri numi del rock degli anni 90, dai Sonic Youth a Nick Cave, dai Dinosaur Jr. ai Pearl Jam, alcuni dei quali hanno partecipato a "The Bridge", il disco-tributo in suo onore.
Forse, la grandezza di Young sta nella sua schizofrenia, il quel suo costante dibattersi tra smania di rinnovamento e nostalgia del passato, tra esplosioni di rabbia e pause di purificazione. Dal country degli esordi al garage-punk di Rust Never Sleeps, dal rock'n'roll al synth-pop, dal soul al blues, dall'hard-rock al metallo pesante di Re.ac.tor, non c'è genere musicale che questo atipico rocker non abbia esplorato. Ma forse la sua statura gigantesca sta anche nell'aver saputo rappresentare le nevrosi e le contraddizioni di un'epoca intera, sospesa tra l'utopia hippie e la restaurazione post-'68. Profeta del sogno di "cambiare il mondo", ma anche cantore degli abissi della disperazione individuale, Young ha costruito un canzoniere universale, che unisce al fervore allucinato dei rocker il messaggio "morale" dei folksinger più nobili, da Woody Guthrie a Bob Dylan.
I Buffalo Springfield, prima ancora gli Squires, poi i ripetuti approdi nel "porto sicuro", come lui stesso definisce la pluripremiata ditta Crosby, Stills, Nash & Young: il cantautore canadese ha messo la sua energia al servizio di gruppi importanti. E ha voluto accanto a sé per trent'anni la sua band, i Crazy Horse. Ma, in fondo, è sempre stato "The Loner", il solitario, come si autodefiniva in una delle sue prime canzoni. Ogni sua relazione è sempre destinata a una brusca fine, a causa del suo destino errante che gli impedisce di inserirsi appieno in qualsiasi contesto. Sarà questo il trait d'union di tutte le sue vicende, musicali e non.
Neil Young nasce a Toronto, in Canada, il 12 novembre 1945; il padre Scott è un giornalista sportivo, la madre Edna una casalinga. A quattro anni, si trasferisce con la famiglia a Omemee, villaggio dell'Ontario dove due anni più tardi viene colpito dall'epidemia di poliomelite che contagia migliaia di bambini canadesi, tra i quali anche Joni Mitchell. La musica è fin dall'infanzia la sua passione: "Il mio primo strumento fu un ukulele, poi ebbi un banjo, quindi, a 15 anni, la mia prima chitarra elettrica", ha raccontato. Neil il giovane patisce presto il primo trauma, la separazione dei genitori, diventando un adolescente timido e insicuro che cerca nella musica il rifugio alle sue inquietudini. Trasferitosi con la madre a Winnipeg, partecipa, in veste di cantante e chitarrista, a una serie infinita di hi-school band. Dopo le superiori, approda negli Squires, una formazione beat influenzata dai suoni della "British Invasion". Quindi, comincia a frequentare il circuito folk canadese e conosce Rick James oltre alla stessa Mitchell.
Ma la terra promessa per ogni musicista dell'epoca è la California. Così Young abbandona le montagne del Canada per cercare fortuna nella West Coast. Nel 1966, con Steven Stills e Richie Furay, fonda i Buffalo Springfield, che diverranno uno dei gruppi di riferimento del country-rock in voga nel periodo. Pur donando alla band le sue prime ballate ("Broken Arrow", "I Am A Child", "Mr. Soul", "Nowadays Clancy Can't Even Sing"), Young resta sempre in posizione defilata (sarà lui stesso a definire il suo ruolo come quello di "indiano" della compagnia) e, dopo due anni e tre dischi, abbandona il progetto.
I tempi sono maturi per l'esordio solista, che avviene nel 1968 con l'omonimo album Neil Young, pubblicato dalla Reprise, l'etichetta che gli resterà fedele per tutta la sua lunga carriera. Pur acerbo e discontinuo, il disco mette già in luce molti degli ingredienti dell'arte younghiana: melanconiche ballate country, inquieti bozzetti folk e un chitarrismo bruciante. Svettano la lunga allucinazione di "Last Trip To Tulsa", dolente blues per voce e chitarra acustica con un testo-fiume alla Dylan, e il ruvido autoritratto di "The Loner" ("He's a perfect stranger/ like a cross of himself and a fox/ He's a feeling arranger/ and a changer of the ways he talks"). Il retaggio folk riaffiora invece nella tenera "Sugar Mountain", che però resterà solo su 45 giri.
Prima di partire per una lunga tournée che lo vedrà esibirsi anche al fianco di Joni Mitchell, Young sposa Susan Acevedo (1° dicembre 1968) e si stabilisce con lei nella casa di Topanga Canyon.
All'inizio del 1969 esce Everybody Knows This Is Nowhere, primo album prodotto da David Briggs e primo frutto della collaborazione di Young con i Crazy Horse: Danny Whitten (chitarra), Billy Talbot (basso) e Ralph Molina (batteria). Ne scaturisce un pugno di ballate marchiate a fuoco, che uniscono alla sensibilità folk di Young un approccio più marcatamente rock. La nevrotica "Cinnamon Girl", la sfibrante jam di "Cowgirl In The Sand" (dieci minuti) e l'elettrofolk onirico di "Down By The River" sono i tre nuovi capolavori.
Il 1970 è un anno cruciale per Neil Young: escono infatti due kolossal come Deja Vu, primo capitolo della sua collaborazione con David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash nei CSN&Y, e il suo terzo album solista, After The Gold Rush, che annovera la presenza di un diciassettenne Nils Lofgren alla chitarra e segna il ritorno alle radici folk.
"Only Love Can Break Your Heart" è un valzer sghembo, apparentemente sereno, ma venato da una profonda amarezza. La title track è un altro doloroso affondo, con la voce ferita di Young che cerca requie in un'atmosfera onirica (il piano, i corni). "Birds" è un'altra melodia toccante, che fa da cornice a una storia sospesa tra il "tomorrow" e il "today".
L'anima rock dei Crazy Horse riaffiora in "When You Dance You Can Really Love", tra chitarre abrasive e un'impetuosa sezione ritmica. Ma la vera pepita della "Corsa all'oro" è l'inno anti-razzista di "Southern Man": una cavalcata elettrica folgorante, in cui l'invettiva di Young, sorretta da un coro, è accompagnata da una chitarra acida e da cupi rintocchi di piano. Un brano leggendario, destinato a infiniti trionfi nelle esibizioni dal vivo.
Comincia a emergere anche il volto politico del cantautore canadese. Nella primavera del '70, l'America protesta contro Nixon e la guerra in Vietnam. All'Università di Kent, Ohio, la polizia spara su una folla di manifestanti e uccide quattro studenti. Sull'onda emotiva, Young compone "Ohio" ("Quattro morti in Ohio/ quanti ancora?"). La casa discografica ne fa un instant record, riuscendo a pubblicarlo in una sola settimana!
E' il preludio al grande successo mondiale, che arriva nel 1972 con Harvest. Registrato a Nashville nel 1971 con gli Stray Gators (Ben Keith, Tim Drummond, Kenny Buttrey, Linda Ronstadt e James Taylor), l'album viene pubblicato un anno dopo per consentire a Young, che nel frattempo si è separato dalla moglie, di sottoporsi a un intervento chirurgico alla schiena.
Canzoniere bucolico di grande fascino lirico, Harvest segna un ritorno alle origini country di Young e ne esalta i risvolti più teneri e umani. "Canto questa canzone perché amo l'uomo/ So che qualcuno di voi non lo capisce.../ Ho visto l'ago e il danno compiuto/ Un po' di questo è in ognuno/ Ma ogni drogato è come un sole che tramonta", canta in "The Needle And The Damage Done", tentando di salvare l'amico Danny Whitten, leader dei Crazy Horse. Ma Whitten morirà per overdose di eroina pochi mesi dopo. Harvest è uno psicoviaggio nell'era hippie, una successione di aperture radiose e ripiegamenti nell'ombra.
Le scene rurali, le ambientazioni di una provincia americana quasi cinematografica, nascondono sempre una grande tensione emotiva. L'iniziale "Out On The Weekend" scandaglia gli abissi della solitudine ("See the lonely boy out on the weekend") e della malinconia. La tristezza si attenua per un istante tra i suoni più morbidamente country della title track , ma il pathos si fa nuovamente impetuoso sulle note di "A Man Needs A Maid", ispirato da Carrie Snodgrass, l'attrice di "Diario di una casalinga inquieta", dalla quale Young ha avuto il figlio Zeke: l'orchestrazione aggiunge ulteriore enfasi, ma è il falsetto tremulo del canadese, sospeso sul filo dell'emozione, a sciogliere il cuore. Seppelliti timpani, arpe e violoncelli, Young veste poi i panni del country-singer romantico per la ballata di "Heart Of Gold", una melodia perfetta accompagnata dalla pedal steel di Ben Keith, dall'armonica e dalla chitarra acustica.
Chiusa la prima facciata con il divertissement di "Are You Ready For The Country?", tocca a "Old Man" riprendere le fila del discorso, con un banjo, strumento principe del country, a dettar legge. E se gli arrangiamenti per orchestra di Jack Nietzsche appesantiscono "There's A World", "Alabama" mette a nudo il cuore sanguinante del disco: un'altra invettiva antirazzista che, dopo "Southern Man", torna ad accusare i "sudisti": "Alabama, you've got a weight on the shoulder that's breaking your back/ your cadillac has got a wheel in the ditch and a wheel on the track". I Lynyrd Skynyrd controbatteranno con ardore patriottardo nell'altrettanto celebre "Sweet Home Alabama". Chiude il disco un'altra folgorazione elettrica: "Words (beetween the lines of age)", con sventagliate di chitarre, trascinanti cambi di tempo e il falsetto vibrante di Young in primo piano.
Raggiunto l'apice del successo (Harvest conquisterà il n.1 sia negli Usa sia in Gran Bretagna), il cantautore di Toronto entra in una fase oscura, in cui la sua alienazione e il suo "mal di vivere" si acuiscono pesantemente, anche a causa delle morti per overdose di Whitten e dell'amicoroadie Bruce Berry.
La colonna sonora di Journey Through The Past (1972) e Time Fades Away (1973) riflettono inevitabilmente questa crisi, tra storie di droga e fantasmi di persone scomparse. Quest'ultimo album, registrato dal vivo con contributi dei soliti Nitzsche, Crosby e Nash, riflette nelle sue nove composizioni inedite il crescente malessere del canadese, che qui comincia quel processo di "messa a nudo" della propria anima che troverà ampia realizzazione nei lavori successivi fino a Zuma. Disco ingiustamente trascurato (a causa probabilmente della sua difficile reperibilità), Time Fades Away offre momenti notevoli come l'autobiografica "Don't Be Denied" e la classica conclusiva cavalcata alla Young "Last Dance", passando per brevi episodi di forte introspezione come "The Bridge" e "Love In Mind" che riportano alla gloriosa produzione immediatamente precedente.
Il viaggio nell'oscurità prosegue con On The Beach (1974), disco che sarà rimasterizzato in cd solo trent'anni dopo, ulteriore testimonianza di come il dolore riesca a fornire a Young una livida vena creativa. Tutto è desolato, a cominciare dalla copertina, con un mare opaco, un ombrellone deserto, una Cadillac affondata nella sabbia e un Neil Young di spalle, quasi a impersonificare la solitudine. Gli iniziali bagliori rock di "Walk On", con i guizzi di Ben Keith alla slide guitar, si offuscano presto nel brusio di "See The Sky About To Rain", una ballata commovente, solcata dal piano Wurlitzer e dagli arpeggi malinconici della steel guitar, e con il mesto drumming di Levon Helm ad assecondare il bisbiglio di Young. Più movimentata "Revolution Blues", che vibra della chitarra dell'ospite David Crosby e del basso funky di Rick Danko, prima che Young prenda l'iniziativa con un assolo allucinato e con un lamento sorretto solo dalla forza dei nervi, preludio al caos finale. Seguono due blues: "For The Turnstiles", cartolina da un'America rurale anni 30 con Ben Keith al dobro e Young al banjo, e la struggente "Vampire Blues", con il canto rasposo di Young, i palpiti agonizzanti del basso di Tim Drummond e un organo "mistico" che scioglie per un attimo la tensione. Dopo il requiem psichedelico della title track (con Graham Nash al Wurlitzer) e la ballata notturna di "Motion Pictures (For Carrie)", ecco gli otto minuti di "Ambulance Blues" a riassumere i contenuti dell'intera opera: un atto d'accusa contro il disfacimento morale americano, scandito dal battito a mani nude di Molina, e cullato tra i sospiri del violino di Rusty Kershaw e i sibili dell'armonica di Young.
Nel frattempo, è già pronto il materiale del successivo Tonight's The Night , che il "Cavallo Pazzo" canadese propone in agonizzanti esecuzioni dal vivo, al limite del collasso nervoso. Durante uno di questi concerti, offre da bere a 8.000 persone. Alla fine del tour, sono in molti a darlo per spacciato, compresa la stessa Reprise, che aspetta due anni prima di far uscire il disco.Se On The Beach era un saggio sul dolore individuale, Tonight's The Night (1975) è il lamento funebre di un'intera generazione: l'epitaffio dell'evo hippie, con i suoi sogni sprofondati negli abissi della droga e della violenza. Una "lunga notte dell'anima" resa anche graficamente dalla copertina, nera come la pece. Una meditazione su rock'n'roll, droga e morte, sintesi del punto di non ritorno della follia autodistruttiva in musica.Tutto questo è Tonight's The Night.Ed ecco, allora, il lamento ebbro della title track aprire il funerale, con i versi "Bruce Barry was a working man/ he used to load that Encoline van", dedicati all'amico morto per overdose di eroina. Si racconta che il canadese costringesse i musicisti a suonare di notte, con poche ore di sonno all'attivo, e il blues dolente di "Speakin'Out" lascia trasparire quel senso di stanchezza e nervosismo. Nella struggente "Mellow My Mind", invece, il canadese, accompagnato dall'armonica, sembra versare lacrime più che cantare. Anche i rock'n'roll più trascinanti sono venati di dolore, come il boogie allucinato di "World On A String", dove Young fa sfoggio del suo chitarrismo nervoso, accompagnato da una batteria dal pestare metronomico. Ma il funerale vero e proprio riprende con "Borrowed Tune", piano, armonica e voce sottile ancora soffrente e nostalgica. La chitarra elettrica torna a sferragliare nel blues di "Come On Baby Let's Go Downtown", registrato dal vivo durante un concerto a Fillmore East con ancora Whitten al canto.Il country di "Roll Another Number" si riallaccia invece alle ballate rurali di "Harvest", grazie alla steel-guitar di Ben Keith e ai background vocals di Molina e Whitten. "Albuquerque" è uno slo-core ante-litteram dall'incedere marziale, con le chitarre dialoganti (acida quella di Young, desertica quella di Keith), che trasudano psichedelia. Chiude l'opera lo strascinato "talking blues" funereo di "Tired Eyes", in cui Young cerca di dar pace a quegli occhi stanchi che hanno visto il rock devastare le vite di persone care; piano e chitarra fungono da accompagnamento al canto, visceralmente doloroso, di Young, mentre l'armonica dipinge una melodia tristissima. Tonight's The Night è forse il primo concept-album sul dolore della storia del rock. Young riesce a cogliere gli eccessi di un'idealità, spostando il tutto nel contesto del suo vissuto personale ed entrando in dissonanza cognitiva con ciò in cui aveva creduto (operazione analoga fu compiuta dal David Crosby di "If I Could Only Remember My Name").
Dopo aver subito un'operazione alla gola, Young cambia rotta con Zuma (1975). Interamente dedicato alle culture indigene americane, l'album è più "solare" e sfodera un'altra invettiva politica: la leggendaria "Cortez The Killer" che denuncia le violenze dei conquistadores spagnoli in uno sfibrante tour de force di chitarre. "Looking For A Love", "Danger Bird", "Pardon My Heart" segnano il ritorno alle ballate elettriche degli esordi, mentre "Through My Sails" documenta una fugace riapparizione del quartetto CSNY.
Nel 1977 Young, su consiglio dell'amica Linda Ronstadt, ingaggia nel suo entourage la giovane cantante Nicolette Larson, con la quale ha anche una fugace relazione. Sono mesi turbolenti, a cause delle troppe sbornie. American Stars'n'Bars propone una facciata da saloon country, con testi banali e ubriachi, e un emozionante lato B, con brani come "Star Of Bethlehem", "Homegrown", "Will To Love" e, soprattutto "Like A Hurricane": uno dei più magici e trascinanti inni younghiani, con il suo testo immediato e commovente ("I am just a dreamer, but you are just a dream.../ You are like a hurricane/ There's calm in your eye/ And I'm gettin' blown away/ To somewhere safer where the feeling stays/ I want to love you but I'm getting blown away").
In autunno, Young suona dal vivo una toccante "Alabama", che si fonde con "Sweet Home Alabama", in memoria della tragedia che pochi mesi prima ha colpito i Lynyrd Skynyrd (tre membri della band sono morti in un incidente aereo).
Il 1978 regala un nuovo album, Comes A Time (titolo scelto in extremis al posto di "Gone With The Wind").Il disco ritrova la dimensione acustica di Harvest con un pugno di country/mid tempo song, come "Four Strong Winds" e "Already One", e con una dolce ballata come "Lotta Love".
Terminata la relazione con la Larson, Young sposa la sua vecchia amica e vicina di ranch Pegi (2 agosto 1978). Poco dopo, parte con il "Rust Never Sleeps Tour" che segnerà la sua grande resurrezione sulla scena mondiale. Dalla tournée nascerà un memorabile live come Rust Never Sleeps: la "ruggine che non dorme mai" è l'energia di Neil Young, curvo sulla sua chitarra, a gridare al mondo la sua rabbia e la sua solitudine. Suddiviso come ogni suo live in parte acustica solitaria e cavalcata elettrica con i Crazy Horse, il disco si apre con la struggente sfida al tempo di "My my hey hey (out of the blue)": "Rock and roll can never die", canta la sua vocina che quasi si spezza; "the King is gone but is not forgotten.", ovvero Elvis Presley, simbolo del rock and roll. Young è consapevole della fine di un'epoca, come canta in "The Thrasher", ma altrettanto sicuro di difendere il vecchio rock and roll, "like dinosaurs in the shrine".
Young è un dinosauro del rock, ma lo sguardo verso il nuovo è palese, nell'inneggiare a Johnny Rotten (Sex Pistols) nella stessa "My My Hey Hey". Il canadese si tuffa nel passato con i classici pezzi pro-indiani d'America, come "Ride My Llama" e "Pocahontas", senza dimenticare la dolce "Sail Away", con Nicolette Larson alla seconda voce. La rabbia per i teepee bruciati e per la morte di tante pocahontas deflagra nel capolavoro dell'album, "Powderfinger". E' la storia di un'invasione e di un ragazzo che chiede invano aiuto ("shelter me from the powder and the finger"). I Crazy Horse scatenati accompagnano la ruggente chitarra di Young in un'apoteosi elettrica. "Welfare Mothers" e "Sedan Delivery" denunciano lati oscuri della società (la prima inneggia al divorzio, la seconda racconta il degrado metropolitano), mentre la conclusione è affidata alla versione elettrica di "Hey Hey My My (into the black)", con gli amplificatori Fender ormai esausti e con Young che picchia sulla chitarra incitando a vivere al massimo, "cause rust never sleeps". Ma proprio quando ricomincia a respirare, Young viene colpito al cuore da una nuova tragedia. Al suo secondo figlio Ben (il primo avuto da Pegi) viene diagnosticata una grave forma di paralisi cerebrale, e solo in quel momento Young scopre che anche il primogenito Zeke soffre di una lieve forma della stessa malattia. Ben viene sottoposto negli anni a moderne terapie di riabilitazione. Tecniche che influenzeranno anche la carriera artistica di Young, tanto da indurlo a sperimentare per un certo tempo il vocoder, lo strumento che permette di trasformare la voce in un suono computerizzato. "Ben è il mio assistente, il mio collaudatore", dirà affettuosamente in un'intervista a "Mojo". E lo stesso Young, insieme alla moglie Pegi, costituirà nel 1986 la Bridge School, una scuola speciale per bambini cerebrolesi.
Nel frattempo, escono due dischi fondamentali per chi desidera avere un approccio sintetico alla sua opera: la tripla antologia Decade (1977) e l'album Live Rust (1979), compendio ideale delle sue incendiarie esibizioni dal vivo.
Ma lo Young che si affaccia sulla nuova decade ha perso gran parte delle idee e del nerbo che lo avevano guidato nei suoi memorabili 70.
L'opaco Hawks And Doves (1980) non lascia il segno. E non bastano il fervore heavy-metal di Re-ac-tor (1981) e la folgorazione tecnologica (pur curiosa e interessante) di Trans (1982) a invertire la rotta.
Privo delle certezze del passato e insicuro sull'evoluzione futura del suo suono, Young sembra precipitato in un vicolo cieco. Landing On Water (1986) segna un'ulteriore tappa nel suo avvicinamento a sintetizzatori e drum machine, ma senza molte idee da spendere.
Anche questo improbabile cowboy robotico soffre della nostalgia per un passato ormai svanito. Ma i revival di Everybody's Rockin' (1983), Old Ways (1985), This Note's For You (1988) e Life (1987), sospesi tra rock'n'roll, country e blues, sono solo la nemesi di un musicista in crisi. In una intervista del 1992 al New York Times, Young racconterà che la sua musica "ermetica" degli 80 aveva rappresentato la sua frustrazione per non poter comunicare con il figlio Ben.
Quando sembra ormai spacciato, Young ritrova smalto ed energia con Freedom (1989), il primo disco dopo anni a sfoggiare un pezzo degno del repertorio dei 70: la devastante progressione di "Rockin' In The Free World" (in versione acustica e dal vivo), in cui torna l'orgoglio del rocker che rivendica il suo spirito libero e solitario. La sorniona "Crime In The City" è invece il nuovo apologo sulla desolazione metropolitana.
Una conferma dei segnali di ripresa viene da Ragged Glory (1990), che lo fa conoscere anche alla generazione grunge, che identifica in lui il padrino del Seattle-sound. In oltre un'ora di musica, Young sforna una decina di pezzi al rumor bianco, densi di distorsioni e di feedback. "Love to Burn" e "Over and Over", in paerticolare, resuscitano le emozioni degli anni ruggenti.
A testimonianza del nuovo feeling con l'alternative rock contemporaneo, Young invita i Sonic Youth,luminari del noise-rock, ad aprire i concerti dello "Spook The Horse Tour". Anche da quelle esibizioni scaturiranno i fragorosi live Weld e Arc (1991).
Ma Young ama spiazzare sempre tutti. E così l'anno dopo volta pagina, e ripiomba nel passato con il sequel "notturno" di Harvest, Harvest Moon (1992), una raccolta di tenere ballate acustiche che però, salvo qualche rara eccezione ("Harvest Moon", "Such A Woman"), fanno rimpiangere quelle di vent'anni prima.
Sleeps With Angels (1994), con un commovente ricordo di Kurt Cobain, e Mirror Ball (1995), in compagnia dei Pearl Jam, servono essenzialmente a celebrare il primato "morale" di Young sulle generazioni successive. "Sono sempre rimasto aperto agli stimoli esterni e pronto a scriverci sopra una canzone - spiega Young -. Non sono uno che rimanda, che se ha un brano in mente va al cinema o altrove. Il rispetto del processo creativo, dell'ispirazione, il coinvolgimento: sono questi i miei segreti". Un istintivo, dunque. Che segue la propria immaginazione. Come nel 1995, quando imbraccia la chitarra e compone in presa diretta, davanti ai fotogrammi della pellicola, la colonna sonora per il western metafisico di Jim Jarmush Dead Man. Passata quasi inosservata, è una delle sue prove migliori del decennio, nel segno di una psichedelia ambientale e visionaria.
La nostalgia canaglia, però, torna a prendergli la mano in Silver & Gold (2000), che raccoglie dieci ballate soul-country-rock, prevalentemente acustiche, costruite attorno a pochi e semplici accordi. Qualcuna è inedita, altre erano già pronte. Altre ancora ci dovevano essere e sono invece finite nel disco dell'inaspettata riunione con Crosby, Stills e Nash dell'anno scorso ("Looking forward"). Tutte sono dannatamente muffose e sembrano uscite da una riunione di hippie nostalgici sulla West Coast. "Buffalo Springfield Again" rievoca il gruppo in cui Young iniziò la carriera: "C'era una radiolina sintonizzata su un'emittente country - ha raccontato Young - e ho sentito la voce dello stesso dj che lavorava in quella radio trent'anni fa, quando ero nei Buffalo. Ed era proprio lui. Ho scritto la canzone di getto, ma senza rimpianti: non sono un nostalgico". E chissà se gli sono tornati in mente quei giorni di febbraio del 1966, quel folle inseguimento sulle strade della California a bordo di un carro funebre, alla ricerca di Stephen Stills e Richie Furay, per formare la band.
Nel successivo Are You Passionate? (2002), si celebra invece il mito del soul rock, com'era stato una quindicina d'anni fa con il pur diverso This Note's For You. Un disco morbido, rilassato, con molti brani in falsetto, il puntiglioso accompagnamento di Booker T. Jones alle tastiere, Donald Duck Dunn al basso, Frank Poncho Sampedro alle chitarre e Steve Potts alla batteria. La strascicata "My Disappointment", l'intensa "Two Old Friends" e la toccante "Let's Roll" (brano già proposto in concerto e basato sulla storia vera di Todd Beamer, l'uomo che guidò la rivolta sull'aereo il giorno dell'attentato alle Torri Gemelle) offrono i momenti migliori.
Nel 2003, una nuova avventura con i Crazy Horse nel concept-album Greendale, storia dell'omicidio irrisolto di un poliziotto in un villaggio rurale.I dieci minuti di "Carmichael" mettono a dura prova la pazienza dell'ascoltatore, ma brani come l'iniziale, suadente "Falling From Above" o la ballata ecologista di "Be The Rain" recuperano, a tratti, il piglio dei tempi d'oro. Nel frattempo, Young ha trovato un suo equilibrio: "Vivo nel mio ranch in California e sono un padre di famiglia, ma questo non è un freno alla mia arte. Mia moglie e i miei figli mi incoraggiano ad andare avanti. Sono in controtendenza: oggi i matrimoni si celebrano e si bruciano nel giro di pochi mesi; gli artisti vendono 20 milioni di dischi in un anno e poi scompaiono. Ma sono le cose durature a far girare il mondo...". Personaggio scontroso, laconico - è stato capace di portare a termine interi concerti senza profferire una sola parola - Young non si presta a facili schemi. Dedito a importanti cause sociali (Live Aid, Farm Aid), spiazzò tutti nel 1984 elogiando Ronald Reagan, e, qualche anno dopo, dichiarando che avrebbe votato per il miliardario Ross Perot. Si imbestialì quando Clinton disertò un appuntamento del Farm Aid. Negli ultimi anni, ha abbinato un ritrovato patriottismo al sistematico attacco al potere (Greendale, ad esempio, è ferocemente anti-Bush).
Prairie Wind (2005) si può considerare il completamento della trilogia "acustica", avviata con Harvest e proseguita con Harvest Moon. L'accoppiata di disastri accaduti a Young avrebbe potuto stendere chiunque: in primavera gli viene diagnosticato un aneurisma al cervello che lo costringe a un'operazione d'urgenza; a giugno scompare l'amato padre Scott, gettando ulteriormente Neil in uno stato di prostrazione emotiva. Tutto sembra nero e inutile, senza senso. Poi, come sempre, arriva la Musica e salva la situazione. Neil inizia a comporre, lentamente, prima, durante e dopo il ricovero all'ospedale di New York.
Ne scaturisce un disco che ha bisogno della tranquillità della campagna, la rilassatezza dei cieli delle praterie di Nashville. Si parte in sordina, con il pigro andamento del singolo "The Painter", ricco di armonie vocali, chitarre acustiche e svolazzi di pedal steel. Si sale pian piano, con l'apocalittica "No Wonder" e i cori femminili che si librano verso il cielo con il violino e la chitarra ad attorcigliarsi come serpenti. La tenera, leggerissima "Falling Off The Face Of The Earth" è un ringraziamento ma anche una lettera da condannato a morte, suonata con svagato piglio pop-country. Si prosegue nel viaggio ed ecco i pezzi migliori: "Far From Home", un up-tempo country-rock con sezione fiati. "It's A Dream" è il culmine del pessimismo onirico del disco, un sortilegio fatto di archi, piano, organo e pedal steel. La title track è invece l'altra faccia della medaglia: un numero di infernale western fuorilegge, tutto polvere e fango: sette minuti di ritornelli ripetuti dalle voci femminili, l'armonia e la chitarra acustica decisa e circolare. Le nuvole scompaiono assieme a "Here For You", dolcissima dedica di un padre ai suoi figli, ormai indipendenti e lontani. C'è persino uno spazio per le dediche: "This Old Guitar" è una ode alla vecchia sei corde di Hank Williams, suonata e raccontata da Neil con tutto il doveroso rispetto reverenziale. La voce si arrochisce e si abbassa di tonalità, mentre la chitarra tratteggia mini citazioni dal riff base di "Harvest Moon". Il secondo omaggio, "He Was The King", è ovviamente per Elvis Presley, figura mitologica e metafora di innocenza rock perduta. "When God Made Me" chiude le pagine del disco con un'inaspettata virata verso il soul-gospel.
Living With War (2006), giunge al termine di un'altra tappa del calvario di Young (colpito da un aneurisma cerebrale nel 2005) ed è totalmente proteso verso l'attualità della politica internazionale statunitense, orientata alla tenacia bellicista dell'amministrazione Bush-Rice. Young esclude i Crazy Horse e adotta trombettista, sezione ritmica e addirittura un coro di un centinaio di voci. Dall'attacca deciso di "After The Garden", un riff caldo e sporco, un folk-southern-fuzz che ingloba la batteria in seconda battuta e il refrain del coro trattato con levità alla fine della strofa, al toccante spiritual conclusivo di "America The Beautiful", ciò che conta è soprattutto una gerarchia strumentale. In primis viene la chitarra di Young, il propulsore energetico di queste personali concertazioni di protesta. E' questa a scodellare brani come il già citato "After The Garden", o il dialogo esacerbato tra Young e il coro di "The Restless Consumer", o "Lookin' For A Leader", o l'anthem di "Shock And Awe", il tutto con poche-minime divagazioni, ma anzi limitandosi a fornire un vibrante corredo accordale. Nella quasi dylaniana "Roger And Out", la stessa chitarra riesce a far placare l'impeto della batteria e a far emergere l'ennesima reincarnazione del folksinger attivista. Il coro, in ogni caso, svolge una parte non secondaria. "America The Beautiful" è il punto di massima inversione gerarchica (tacciono tutti gli altri, Young compreso), in cui i cento cantanti sembrano tratteggiare l'inno nazionale statunitense con afflato pastorale. Prima ancora ci sono "Families", cavalcata consapevole e sguardo commosso di Young dai risvolti gospel, e "Flags Of Freedom", sua logica continuazione e ideale cerchio morale di condivisione con le altre due grandi voci americane: Dylan e Springsteen. La tromba di Tommy Bray, oltre a rafforzare questi momenti accorati, emerge anche e soprattutto nei registri eroici da inno civile. E' il caso di "Shock And Awe" e della canzone più pubblicizzata (ma anche la meno interessante), "Let's Impeach The President", con unisono tra Young, coro e tromba.
Le critiche sono spesso confuse, ma l'esasperazione e la spontaneità sono fatte salve. Neil Young è vivo e lotta con il suo popolo. A modo suo, come sempre.
A 62 anni, tra le riedizioni di vecchi concerti ("At Fillmore East" con i Crazy Horse e l'immaginifico "Live At Massey Hall, 1971" in solitaria), Young pubblica Chrome Dreams II, figlio nel titolo di quel "Chrome Dreams" che progettò dopo Zuma senza però mai pubblicarlo e le cui canzoni (una tracklist da favola, per inciso..) finirono su album successivi.
I primi tre brani sono cose che i suoi giovani successori pagherebbero per saper scrivere e interpretare.
Prendi "Beautiful Bluebird", ballata per armonica e lap steel, una di quelle canzoni per cui il sottoscritto baratterebbe buona parte del nuovo revival folk di oggi; dipinto di grano e sole, strade solitarie e ingenui amori. Colonna sonora ideale per il viaggio di Richard Fansworth nel lynchiano "Una storia vera", orgoglio e pace interiore fatta di cose semplici. Ricordi più recenti (ma non di molto) sollevano la polvere e il banjo di "Boxcar", ancora America rurale, western di perdenti e lavoratori; "Ordinary People", allora, l'inaspettata energia di questo vecchio cavallo pazzo che ci regala diciotto minuti di elettricità come quando furoreggiava con i Crazy Horse: stavolta sono i BlueNote a fornire appoggio informale con sax, cornette e fiati vari, ma c'è quella chitarra inconfondibile a ricordarti chi stai ascoltando. Diciotto minuti di svisate e assoli con Neil a cantare come ai vecchi tempi, populista forse, prolisso, magari, ma tant'è.
Poi, purtroppo, l'uomo di Toronto ritorna quello degli ultimi anni e ci rifila "Shining Light" e "The Believer", due ballate melense incrociate con pop e soul che fanno quasi svanire il fresco ricordo del trittico iniziale.
Non è finita, però, perché il vecchio leone ha ancora qualche ruggito in serbo: si risolleva con "Spirit Road" e "Dirty Old Man", tutte grinta, poi, tra l'innocuo country di "Even After" e la trascurabile ballata finale per piano e fanciullesco coro "The Way", si rilancia ancora in un'ultima cavalcata. "No Hidden Path", gemella di "Ordinary People" ma meno multiforme, è un altro pezzo di quasi quindici minuti in cui la chitarra elettrica si libra in voli d'improvvisazione che ci ricordano un'altra fetta della carriera del loner canadese.
Larvatamente Obama-oriented, Fork In The Road (2009) è dedicato alle problematiche ecologico-ambientali, e alle fonti energetiche alternative. Il punto di vista è quello delle automobili - una delle passioni del loner canadese - e delle "Lincoln" in modo particolare.
A parte lo sciapo rock sudista di "Johnny Magic", il disco rimpolpa la chitarra del leader - di nuovo privata dei Crazy Horse - di cori hippie in "Just Singing a Song", di soul Motown in "Fuel Line", del passo quasi west-coast rap in "Cough Up The Bucks". Young si ritaglia pure uno spazio per un lento con organo gospel ("Hit The Road") e una ballata folkish vecchio stile, ma riprende toni possenti in "Get Behind The Wheel", con cui rispolvera persino l'honky-tonk di "Everybody's Rockin'" (ma stavolta innervandolo del giusto spirito di rocker di razza) e in "Off The Road", la risposta da macho a "Hit The Road".
Le dieci tracce hanno un mood sfacciatamente arioso, in linea con il supporto alla conversione da consumo a benzina a consumo elettrico delle "Lincvolt", brevettate da Jon Goodwin. Nondimeno, hanno assorbito il modus operandi degli ultimi decorsi del vegliardo autore: la scrittura di getto, che evita di guardarsi indietro preferendo puntare all'istintività.
Il disco prelude alla fantomatica pubblicazione del primo volume dei mitici Archives.
Quando, finalmente (Luglio 2009) il primo volume degli Archives vede la luce (Neil Young Archives, Vol. 1: 1963-1972), appare come una delle antologie più biografiche di tutti i tempi, infinitamente più prossima alla moda delle complete edition che alle bootleg series Dylan-iane.
Gli otto Cd, che coprono il periodo che va dalle primissime incisioni con gli Squires, passa per le prime registrazioni acustiche (tra cui un'embrionale versione studio di "Sugar Mountain"), i capolavori di Everybody Knows This Is Nowhere, per finire coi classici country-rock di After The Goldrush e Harvest (con tanto di scarti e inediti del periodo), costituiscono così una prima porzione di catalogo minuto per minuto dell'opus Young-iano. Completano l'opera le registrazioni live complete (già edite) al Massey Hall e al Fillmore East, e - qualora si optasse per l'edizione in 10 Dvd - un'infinità di chicche filmate, dietro le quinte e spezzoni live d'interesse persino storico.
L'impianto colossale e il prezzo non alla portata di tutti (comprensivo anche di pregiato libro a colori e gadget assortiti) lo tiene distante da chi si accosta per la prima volta al cantautore canadese, e forse anche dai fan incalliti, accostandolo più a cronisti, documentaristi e completisti intransigenti.
L'anno seguente è tempo di un nuovo album originale, Le Noise, uno dei suoi dischi più "loner" di sempre. Sebbene la polpa dell'opera sia essenzialmente neilyoungiana (ballate depresse che sottendono una ferita nel contatto vitale), Lanois ruba spesso e volentieri la scena. L'anthem Rolling Stones-iano di "Walk With Me" è spolpato via via da inserzioni astratte-paradisiache, e da una coda che ne disintegra i connotati a tempo di boogie-woogie. La sua voce è utilizzata come confuso collante ritmico nell'altro, più sempliciotto, anthem di "Angry World", una rilettura della sua "Hey Hey My My", come quella altrettanto distorta, prima che la produzione prenda il sopravvento in una marea caotica.
Il suo programma iconoclasta prosegue nella fantasmagoria a base di toni fuzz fratturati in un cristallo di riverberi di "Someone's Gonna Rescue You", e in modo anche più ipnotico in "Rumblin'", dove la voce quasi lotta contro spasmi di distorsore a tutto volume, scampoli di assoli vaganti e cut-up canori. "Sign Of Love" presenta uno dei suoi migliori riff stentorei, attorniato da echi elettronici, mentre il canto alieno lascia scie di suono tutt'intorno.
Il processo disturba ed eccede un po' in enfasi nelle canzoni acustiche, specie in "Peaceful Valley Boulevard", che altrimenti rimane come una sconsolata "Thrasher" dei 2000. Appurata la sua consuetudine-mania di raschiare il fondo del barile ("Hitchhiker" ridà nuova vita alla verbosa e salottiera "Like An Inca"), Neil Young e il suo mai rimosso pallino sperimentale giocano la carta della rielaborazione, del riprocessamento maniacale, per scongiurare una volta per tutte l'autoimitazione.
Dopo quest'eccentrica collaborazione, Neil Young torna alla normalità radunando ancora una volta i suoi Crazy Horse per registrare Americana, una raccolta di traditional, il primo suo disco in assoluto di cover, a quasi settant'anni d'età. Un'operazione insidiosa, in cui invece il loner canadese sfoggia una nuova, sorprendente dimostrazione di vitalità, innervando di tensione allo spasmo pacifici evergreen come "Oh Susannah" o "Clementine" ed esaltandosi nel fantastico tour de force di "Tom Dula", oltre otto minuti di cori ossessivi e chitarre arroventate, a conferma di una ritrovata sintonia tra Young e la sua storica band, che, speriamo, potrà rinnovarsi anche dal vivo.
Il vegliardo ma iperattivo canadese non finisce di stupire. A pochi mesi dal suo primo album di cover, Neil Young pubblica Psychedelic Pill, il suo primo album doppio. Di nuovo armato di Crazy Horse, il disco contiene ciò che lo ha reso leggendario, le lunghe jam elettrificate, che ora diventano persino colossali. Monoliti come "Driftin' Back" (27 minuti) fanno trionfare il suo suono più tipico: la più felice associazione con il canto, intelligentemente rabbuiato, gli accordi maestosi, il tempo perpetuo della sezione ritmica che di quando in quando si solleva a mo’ di mareggiata, l’assolo che trapunta il viaggio secondo umori e riflessioni.
Ma il probabile nuovo gioiello della sua lunga lista, a fianco di "Ramada Inn" e "She's Always Dancing", è il tour de force di "Walk Like A Giant", oltre 16 minuti di incandescenti dissonanze chitarristiche ad assecondare il suo canto struggente, un fil di voce esile e magico, che sembra rimasto incredibilmente immutato rispetto a quarant'anni fa.
Completano il disco le brevi e bonarie “Twisted Road” e “Born in Ontario”, pur sapienti nel dosare di quando in quando i giusti ingredienti (le armonie vocali della band, gli strimpellii country-rock, gli stacchi di batteria).
Un album sicuramente notevole per durata (è il suo più lungo in assoluto) e forma libera, lontana dalla verbosità di Greendale. Un disco-contenitore di memorie (il corrispettivo sonico del suo primo libro autobiografico, uscito in contemporanea, "Waging Heavy Peace"), e che, al netto di qualche eccesso di autoreferenzialità, annovera momenti ancora una volta gloriosi. Come se il tempo non fosse mai passato.
Non c'è niente di straordinariamente nuovo, eppure rivedere la sua sagoma allampanata cavalcare le praterie dei 70, ritrovando dopo tanto tempo quei suoni viscerali, acidi e sfibranti, non può non commuovere chi lo ha seguito da allora fino ad oggi. E' come se gli spiriti di "Cowgirl In The Sand", "Like A Hurricane", "Southern Man", "Cortez The Killer" e mille altre magie di quel decennio memorabile si fossero improvvisamente rianimati per dare un estremo saluto al pubblico. Da brividi.
Nel 2013 Neil Young fa finalmente uscire un apparecchio di riproduzione musicale da lui concepito, che nelle intenzioni dovrebbe surclassare tanto i compact quanto gli mp3, e riavvicinare l'ascoltatore al suono del vinile, da sempre il preferito del canadese. Il lettore, chiamato Pono, in tutto e per tutto un player digitale alla stregua di iPod e simili, è però inservibile quanto a costi alti per l'utente finale e tecnologia di funzionamento, del tutto al di fuori degli standard di mercato.
Dopo la chilometrica sbornia di elettricità del doppio disco predecessore, Neil Young torna più solo e acustico che mai per un nuovo album di cover, A Letter Home (2014), incise direttamente su vinile per restituire un suono vetusto da pre-fonografo.
Ma ancor più sorprendente è l'operazione compiuta nello stesso anno per il successivo Storytone. Per l'occasione, infatti, il Loner depone quasi del tutto i suoi strumenti per farsi accompagnare da un’orchestra di 92 elementi e un coro. Con un approccio del tutto inedito: dapprima è stato registrato tutto in acustico (contenuto racchiuso nella Deluxe Edition) e successivamente le versioni delle stesse canzoni sono state arricchite da un'orchestra e da una big band. Young tenta così un nuovo, temerario azzardo: virare in chiave sinfonica le sue fragili armonie, innervandole di una grandiosità quasi pomposa, della quale si può rintracciare un precedente forse solo nei momenti più orchestrali di Harvest ("A Man Needs A Maid" e "There's A World", incise con la London Symphony Orchestra su arrangiamento di Nitzsche). Ma certo mai Young si era spinto fino al limite del musical broadwayano, come accade ad esempio nella "Say Hello To Chicago" per big band, che avrà sicuramente l'effetto di scandalizzare i fan più duri e puri.
Ma non si tratta di una operazione patinata o para-natalizia, perché lo spirito ruggente del grande vecchio canadese è ancora vivo e pulsa di disperata speranza nell'ode all'amata "Mother nature" di "Plastic Flowers"; oppure rinasce ammantato da preziosi orpelli sinfonici su episodi come “Tumbleweed” e “I’m Glad I Found You”, che rinnovano la delicatezza melodica di tutte le "My My, Hey Hey" di una vita intera; o ancora si sublima nei vapori blues di "I Want To Drive My Car", “I Want To Drive My Car” e “Like You Used To Do”, tanto classiche da sembrare standard indatabili. Pur appesantita dai cori e dagli archi, infine, "Who's Gonna Stand Up" si configura come l'ennesimo instant classic younghiano.
Non tutto gira alla perfezione, si sconta qualche (inevitabile?) ridondanza di troppo e le interpretazioni denunciano più di una ruga, ma il cuore del Loner batte ancora, anche all'interno di una lambiccata confezione orchestrale.
La Deluxe Edition, invece, riporta Young sulla strada del minimalismo, tra le corde del banjo e della chitarra acustica, mostrando lo scheletro di composizioni che, messe così a nudo, perdono tuttavia un po' di incisività.
In contemporanea esce la sua seconda autobiografia, "Special Deluxe: A Memoir Of Life & Cars", seguito di "Waging Heavy Peace" (2012).
Young torna poi al suo modo goffo di affrontare la polemica di attualità con Monsanto Years (2015), dedicato alla controversa Monsanto Company, azienda leader mondiale di biotecnologie agroalimentari. Nonostante un concept irrilevante e pericoloso, le liriche veementi ma anche sovrabbondanti e la sua invettiva che occupa buona parte dello spettro, è il disco più impeccabilmente Neil Young, non solo neilyoungiano, dei suoi ultimi tempi. A sostituire i Crazy Horse ci sono i giovani Promise Of The Real (i cui chitarristi sono i figli del mitico Willie Nelson, Lukas e Micah), ma il suo suono più tipico, sonnolento e intenso allo stesso tempo, risuona ugualmente con gloria. Anzi, nei due pezzi più estesi, "Big Box" e "Monsanto Years", affiorano - e con naturalezza - spezie psichedeliche estranee all'estetica dell'artista. C'è anche la perlina country-rock del caso, "Wolf Moon".
Questa sua crociata ecologista in compagnia della nuova band di giovanissimi prosegue e alza la posta con il doppio album dal vivo Earth (2016), il primo dai tempi di Road Rock (2000), eccettuati i ripescaggi d'archivio. Solo una sterminata versione di "Love And Only Love" (28 minuti) prosegue la mitica rivisitazione dei suoi classici nei dischi dal vivo del suo più ruggente passato. Il resto, che siano classici ("Vampire Blues") o brani tratti dal predecessore Monsanto (ma qui spicca più l'inedito "Seed Justice"), rimane poco più di un discreto sottofondo, per di più ridicolizzato da versi di animali e rumori naturali aggiunti in postproduzione. Davvero un predicozzo retorico che non giustifica l'esistenza dell'opera.
La missione prosegue e si espande ad approfondimento a tutto campo in Peace Trail (2016), stavolta registrato soltanto con due sessionmen di sezione ritmica. Per un po' il disco regge bene il gioco diventando una delle sue più ruspanti opere di protesta (crisi, diseredati, sorti del pianeta), soprattutto attraverso la title track, una buona aggiunto ai suoi tipici anthem ansiosi, e in minor misura con lo stomp ripetitivo di "Indian Givers". A volte sembra di sentire un duetto tra la sua voce fioca e i fracassi delle percussioni, un metodo che germina nella chicca del caso, il vaudeville poliritmico di "Texas Rangers". Non mancano, a fianco di armi affilate (una armonica ultracacofonica), le sue tipiche ingenuità (la riscoperta del filtro vocale elettronico, dai tempi di "Trans"), canzoni flosce e un finalino da dimenticare ("My New Robot").
La patriottica "Children Of Destiny", scritta per il 4 luglio 2017 di nuovo in compagnia dei giovani Promise Of The Real, è probabilmente la canzone più imbarazzante della sua carriera.
Nel secondo box della collana Original Release Series (2017) compare per la prima volta Time Fades Away in cd.
Hitchhiker (2017) è una pubblicazione d'archivio, una session solo acustica risalente al suo buio 1976. Spacciato come album ufficiale, in realtà conta come quaderno di appunti per gli album che verranno (prime versioni di "Pocahontas" e "Powderfinger", della minore "Captain Kennedy", della title track, etc), con un paio di soprassedibili inediti.
Young riprende i giovani Promise Of The Real per The Visitor (2017), di fatto il seguito di Monsanto Years, ma stavolta espandendo il messaggio dall'ambientalismo al patriottismo anti-Trump. I risultati sono quantomeno misti: “Children Of Destiny” ha una combinazione letale: passo bombastico, fanfare, liriche paternalistiche, persino una strofa in stile musical per bimbi; la chilometrica “Forever”, sta a metà tra visione commossa e parodia della sua “Ambulance Blues”; “Carnival”, è un ibrido strano tra Santana e Tom Waits, ma tagliente. Polpettone di certo sgraziato, ma che si fa ricordare, specie nella sua ultima parte di discografia, per il tono maiuscolo e una certa punta di delirio. Con dei Promise in crescita, Young cerca di replicare, a suo modo, il Born In The USA di Springsteen.
Lo stesso giorno della pubblicazione di The Visitor, il loner apre anche il "Neil Young Archives", maxi-sito ufficiale che ripropone, via streaming, l'intero opus musicale (anche se gli agognati lost album ancora latitano).
La collaborazione tra il canadese e il complesso dei fratelli Nelson prosegue per un progetto cinematografico, l'opera seconda di Daryl Hannah, Paradox (2018), un western-musical in cui leader e comprimari compaiono sia in qualità d'attori che, prevedibilmente, come autori della colonna sonora. La musica è solo una delle tante autocelebrazioni dello Young passato e presente (ma la versione al pump organ della sottovalutata "Pocahontas" è tutta da sentire), che giustamente passa anche per autocitazioni di quella prodezza di sonorizzazione per l'altro western metafisico di vent'anni prima, Dead Man (la serie dei sei brevi schizzi "Paradox", con tutti gli echi e i riverberi del caso).
Proprio come Hitchhiker, anche Songs For Judy (2018) è una pubblicazione d'archivio di canzoni acustiche risalenti al 1976 (stavolta tratte da un tour dal vivo).
Incallito "primitivista", Neil Young è la dimostrazione che la semplicità non è sempre semplice. Ma è soprattutto l'eroe del rock inteso come espressione del dolore, delle paranoie e delle nevrosi dell'individuo. "I need a crowd of people, but I can't face them day today (...)/ I went to the radio interview, but I ended up alone at the microphone", cantava in "On The Beach".
The Loner, dunque. Un cowboy solitario lungo i sentieri più impervi del rock.
Quando nel 2019 esce Colorado, era dal 2012 di Psychedelic Pill che il vecchio Neil non si faceva sentire in compagnia di quei vecchiacci sgangherati dei Crazy Horse. Inutile dire che quando Molina, Sanpedro, Talbot e a questo giro finanche Lofgren sono della partita, l'evento merita attenzioni maggiori. Almeno per chi è da sempre affezionato al sound granuloso e dolente di una band non proprio formata da fuoriclasse dei rispettivi strumenti, ma che ha inconsapevolmente segnato tonnellate di musica alternativa a venire; dal grunge a J Mascis e centinaia di altri figliocci di quelle lunghe sgroppate roventi e scalcinate. Una di queste scorribande la troviamo anche qui, alla posizione numero due della tracklist. "She Showed Me Love": due borbottii di chitarra, Molina che rulla come un vecchio trattore che perde qualche colpo ma rimane più affidabile di qualsiasi nuovo modello, ed è subito il 1969 di "Everybody Knows This Is Nowhere". L'armonica di "Think Of Me" e il finale sossurrato e col capo chino di "I Do" rimandano invece ai toni più rarefatti e docili, non per questo meno ficcanti, del periodo di "Harvest". Il riff pesante e ineluttabile di "Help Me Lose My Mind", così come quello più guizzante della rabbiosa "Shut It Down" sono praticamente grunge. Senza bisogno di scomodare il suffisso proto, dato il pieno riconoscimento del genere da parte dei suoi padrini che qui fanno sanguinare le chitarre come fossero i Pearl Jam di "Vs". "There is a rainbow of colors in the whole U.S.A./no one is gonna white wash those colors away", cantano in coro Young e gli Horse nella ballad col cuore in gola "Rainbow Of Colors". Dopo la fratellanza e il rifiuto di ogni forma di razzismo e ideologia xenofoba, l'altro pallino di Neil Young, l'ecologismo, si fa sentire nel bridge di "She Showed Me Love": "I saw old white guys trying to kill mother nature". Un disco rotto. Forse si. Salterà pure, come quei vecchi vinili comprati a un mercatino delle pulci, ma impolverato e buono è un piacere sentirlo il vecchio Neil. Lamentarsi e gemere ("Milky Way") come se questo vecchio bistrattato pianeta potesse, dovesse fargli da casa ancora per molto. E comunque: repetita iuvant in questi tempi dissennati e fuori controllo. Manca di qualche acuto, del puro genio che sbucava qui e lì in Psychedelic Pill (leggi ad esempio il fischiettare mefistofelico della gigantesca "Walk Like A Giant"), ma Colorado è un disco, anche se conosciuto in ogni suo aspetto, pienamente piacevole. Come visitare quei vecchi zii di montagna; potrebbe essere una delle ultime volte, e così il calore del loro camino, l'odore delle castagne e il fruscio delle foglie gialle sollevate dal vento hanno un significato e un sapore più profondi. Ossigeno e melancolia da respirare a pieni polmoni.
Finalmente il loner si decide a pubblicare il suo lost album più famoso, Homegrown (2020), registrato nell'anno di uscita di Tonight's The Night ma poi tenuto nascosto per decenni, ad eccezione di alcune canzoni inserite in dischi successivi o antologie ("Love Is A Rose", "Little Wing", "Star Of Bethlehem"), oppure registrate nuovamente con i Crazy Horse e qui apprezzabili nella loro veste originaria ("Homegrown", "White Line"). I pezzi inediti hanno esiti ondivaghi: "Separate Ways" coglie una transizione tra l’umore lirico-rurale di Harvest e uno spirito persino parisienne, "Try" suona invece più convenzionalmente country-folk e "Mexico" è quel suo tipico embrione di ballata intima pianistica, mentre i momenti elettrificati sono forse i migliori: per primo "Vacancy", ma anche una "We Don’t Smoke It No More". Conteso dunque tra Harvest e Tonight's, questo concept sulla rottura amorosa con Carrie Snodgress condivide in realtà più del secondo, per il tono tribolato e per il collage misto di arrangiamenti, lo spettro ampio con cui sondare il dolore, stavolta estremamente privato, da più punti di vista. Si scopre essere anche il disco "The Band" del canadese (compaiono Robbie Robertson, Stan Szelest e Levon Helm).
Durante la quarantena da pandemia dovuta alla diffusione del Covid-19 Young ha improvvisato alcune "Fireside Sessions" (2020), girate tra interni e giardino della sua casa in Colorado e fruibili come videoclip dal suo nuovo sito ufficiale, in cui rispolvera classici vecchi e nuovi in veste acustica. Da queste sessioni deriva l'Ep acustico The Times (2020) dove seleziona specificamente alcune canzoni a tema politico del suo repertorio.
Finalmente, a undici dal primo volume, compaiono i dieci Cd degli Archives Vol. 2: 1972-1976 (2020), dedicati al periodo più intenso e importante del canadese. Vi è incluso lo stesso Homegrown uscito poco prima.
Seguono altre pubblicazioni d'archivio di disparate epoche, ma tutte dal vivo: Return To Greendale (2020) per celebrare la sua opera rock del 2003, Way Down In The Rust Bucket (2021), un ritorno ai tempi con i più infuocati Crazy Horse di Weld, e Young Shakespeare (2021), anche film, invece solitario e acustico, risalente ai primi anni 70.
Nel 2021 Neil Young si chiude in un vecchio fienile sotto il cielo delle Rocky Mountains in Colorado in compagnia della sezione ritmica dei Crazy Horse, il bassista Billy Talbot più il batterista Ralph Molina, e Nils Lofgren, già collaboratore del cantautore canadese dai tempi di After The Gold Rush.
Il nuovo album si chiama Barn (2021) e tutto il materiale lavorato nel fienile è di recente produzione, niente archivi o vecchie registrazioni resuscitate dal passato, tutto è stato composto entro un anno, quindi tutta roba di giornata, una sorta di km zero temporale, per rimanere in tema ecologista molto caro al buon Neil e alla moglie Darly. Non ci si può aspettare un album musicalmente rivoluzionario, e neppure un prodotto impeccabile a livello esecutivo perché la priorità è scattare delle istantanee sulle contraddizioni dell’attualità, sulla nostalgia del passato e le sensazioni allarmanti del presente, il tutto visto attraverso la lente fish-eye della sua instancabile penna creativa.
Barn, pur essendo un disco di alti e bassi, sottolinea la strabiliante essenzialità delle sue composizioni e la capacita di usare strutture e parole semplici, ma di riuscire sempre a trovare la chiave per emozionare, per far riflettere mischiando ingenuità e saggezza. Ci sono i momenti acustici alla Harvest, con armonica e fisarmonica a spalleggiarsi sotto la voce tremolante come la traccia ecologista “Song Of The Season” o il blues rock sferragliante e ruvido della svolta elettrica di "Zuma" come l’autobiografica “Heading West” e non mancano neanche le sonorità ruggenti anni Novanta della fase Freedom e Ragged Glory, come nel giusto endorsement a favore di Mother Nature “Human Race” o “Canamerican”, orgoglioso inno alle due nazionalità del signor Young, ottenute giusto in tempo per votare Biden alle ultime elezioni.
Spariglia un po’ le carte, il pezzo più riuscito dell’album, il tormentato “They Might Be Lost” che con la sua armonica alla "Nebraska" fa respirare l’ansia e la desolazione per i tanti compagni di strada mancati lungo il percorso. Ma Neil sa anche essere romantico senza far venire le carie ai denti, con la dichiarazione d’amore alla dolce metà Daryl Hannah in “Shape Of You” con il suo refrain sbilenco e l’andamento caracollante. Young è sempre a suo agio con il blues, come nell’honky-tonk di “Change Ain’t Gonna” o nelle ballate nostalgiche per piano a bassa intensità come "Tumblin' Thru The Years" e nel cullante monito finale ”Don't Forget Love”.
Con “Welcome Back” siamo negli anni 70, per 8 minuti si fluttua nelle atmosfere dilatate alla “Cortez The Killer” con la Gibson di Young a ricamare melodie finemente intrecciate sui soffici accordi di Nils Logfren e alle tessiture ritmiche dei Crazy Horse lasciati al piccolo trotto. In questo brano, come in tutto il disco, Neil dimostra una volta di più di essere ancora un hippie che cammina sull’arcobaleno ma che sa guardare sotto alla vita di noi umani con occhio attento, vivace e soprattutto partecipe, e anche se ogni brano ha, probabilmente, un riferimento simile nella sua sterminata discografia alla fine ti frega sempre e comunque.
Dagli archivi spunta un altro dei suoi album perduti, Toast (2022), registrato a inizi 2000 con i Crazy Horse.
Royce Hall 1971 (2022) documenta l'intero concerto da cui proviene la versione originale inclusa in Harvest di “The Needle And The Damage Done”.
Nel novembre del 2022 il buon vecchio Neil esce dal granaio, dove ha registrato ll precedente album Barn, si toglie le scarpe prima di avventurarsi nel bosco e mentre cammina, scalzo, fischietta le melodie che andranno a comporre il nuovo album World Record.
Per trasformare in canzoni le melodie registrate col telefono in mezzo alla natura, l’hippie canadese chiama il guru della produzione Rick Rubin, che in quel periodo ha un buco libero nei suoi mitici Shangri-La Studios di Malibu, quindi il 77enne Neil prende il primo volo dal Colorado alla California e chiama a raccolta i fidi Crazy Horse senza Frank “Poncho” Sampedro ormai in pensione, ma rimpiazzato in pianta stabile da Nils Lofgren in libera uscita dalla E-Street Band.
Rubin non stravolge il suono del cantautore canadese, ma la mano del produttore si sente nella fase di cattura dei suoni, che risultano molto naturali, ricchi di ambiente e in una certa attenzione nel limare sbavature e imperfezione del tollerante approccio younghiano.
La prima cosa che si nota è, che Neil trascura chitarra per passare quasi tutto il tempo dietro a una tastiera, che sia il piano o l’organo a pompa. Sentire la voce di Young su un pianoforte rimanda subito a After The Gold Rush, ma purtroppo non siamo più nel 1970. Qui le canzoni hanno strutture semplici e messaggi sono chiari, per arrivare a comunicare l’urgenza climatica, un concept su cui ruota tutto “World Record”, titolo programmatico di un tema ormai da tempo prioritario nel Neil Young pensiero
“Love Earth” sembra proprio composta dalla stessa leggerezza che si percepisce camminando tra i boschi, ammirando il paesaggio con un filo di vento tra i capelli, ha un fascino po’ retro con il piano leggero, i coretti soffusi e la batteria spazzolata. Ben si intona con la foto in bianco e nero della copertina con ritratto il padre di Neil Young. Anche Il piano da saloon di “Overhead” impreziosito dall’armonica di Nils Lofgren mantiene la stessa leggerezza. Resiste anche "I Walk with You (Earth Ringtone)” quando la voce di Neil vola soffice su un tappeto di distorsione. Poi però l’album comincia a mostrare la corda con schemi già troppo sentiti nella ballata country “This Old Planet (Changing Days)” e nel blues sporco e scuro di “The World (Is In Trouble Now)”. Sporchissimo anche il ritorno alla amata Gibson in “Break the Chain”, così sferragliante che le catene sembra quasi di averle ai piedi, che, comunque, si rivela efficace anche come preparazione alla ormai canonica cavalcata chitarristica, con “Chevrolet” si sale a bordo per un viaggio di 15 minuti con i finestrini abbassati e le mani sul volante d’avorio tra nostalgia per la rinuncia di un passatempo così poco ecologico.
Come sempre Neil scompone, trasforma, dilata il tema melodico nelle lunghe digressioni di “Chevrolet” un gioco a cui siamo abituati, ma risentirlo non dà certo fastidio. Non dà fastidio neppure sentire il coro un po' naif di “Walkin’ On The Road (To The Future)” che ripete “No more war/ Only love” con un sentimento che commuove per la convinzione e la perseveranza con cui viene lanciato ma sicuramente il vecchio Neil continuerà a cantarlo e prima o poi qualcuno gli darà retta. Forse.
Neil Young sorprende per vitalità ed energia, World Record sorprende meno, ma si attesta sullo stesso livello di Barn.
Tra le estrazioni d'archivio fa finalmente capolino anche il mitico perduto Chrome Dreams (2023), risalente al 1976.
Nel 2023 esce Before And After, frutto del Coastal tour, in cui Neil si presentava sul palco in perfetta solitudine, svestendo tutti brani di ogni arrangiamento, per presentarli unplugged, alternando chitarra o piano, più l’inseparabile armonica. Certo niente di nuovo nella sua infinita discografia, e infatti la forza del disco risiede soprattutto nella scelta dei brani, che pesca tra gemme nascoste o dimenticate che il tempo non ha immortalato.
Il settantottenne cantautore canadese con la sua voce sempre più sgranata prova a fare la pace con le sue figlie incomprese aggiungendo pero qualche classico per cedere all’effetto nostalgia e allargare l’audience.
Si percorre davvero tutta la carriera del loner di Toronto, dal 1966 con i Buffalo Springfield in “Burned”, al periodo nei CSN&Y con brano di apertura dello storico live "On The Way Home", passando per una toccante "Birds" da "After The Gold Rush” agli anni 90 di “Ragged Glory” e "Sleeps With Angels” atterrando su "Don't Forget Love" estratto da "Barn” del 2021.
Il trattamento Before And After avvolge di una luce insolita le canzoni ripescate. Alcune ne traggono giovamento, come l’iniziale "I'm the Ocean" registrata originariamente in “Mirror Ball”, che senza la propulsione dei Pearl Jam appare più dolente e diretta, o “When I Hold You In My Arms”, che ritrova un nuovo calore grazie alla voce dolcemente invecchiata di Young . E se invece l’assenza delle chitarre distorte penalizza brani come “Mother Heart”, è la versione spogliata di “Mr. Soul” che regala il momento più solenne del album.
Per la gioia dei collezionisti non manca l’inedito. È “If You Got Love” scritto durante la gestazione di “Trans”, il contradittorio l’album della svolta elettronica del 1982 ed eseguita qui rigorosamente con organo a pompa e armonica.
I brani di Before And After scorrono in un flusso ininterrotto in cui Neil suona come in una sorta di riflessione sulla sua lunga carriera, e forse traspare un po’ l’amarezza di chi voleva trasmettere al mondo la sua spinta verso un cambiamento e invece dopo essersi sgolato per tutta la vita, anche se profumatamente pagato, si rende conto che le cose sono addirittura peggiorate. L’immagine che si stampa nella mente è quella di un ex-giovane che canta con voce tremolante, curvo sulla chitarra acustica o voltato di spalle sul piano, facendo scintillare i suoi capolavori denudati di ogni arrangiamento, un momento che sa di raccoglimento e di resa dei conti e non può lasciare indifferenti.
Il proverbiale yin-yang tra acustico ed elettrico del "loner" si avvera ancora facendo succedere a questo excursus acustico un nuovo lungo tour-de-force con i suoi Crazy Horse, Fuckin' Up (2024), doppio live con cui ripercorre dopo decenni Ragged Glory. Il risultato, pur dignitoso, non compete con la gloria di Weld.
I 17 Cd (e qualche film) degli Archives Vol. III (2024) coprono un periodo che va dalla fine dei 70 alla quasi totalità della sua fase più controversa degli 80.
Contributi di Antonio Puglia ("Time Fades Away"), Antonio Ciarletta ("Tonight's The Night"), Angelo Pierantoni ("Rust Never Sleeps"), Ariel Bertoldo ("Prairie Wind"), Michele Saran ("Living With War", "Fork In The Road", "Archives Vol. 1", "Le Noise", "A Letter Home", "Monsanto Years", "Earth", "Peace Trail", "Hitchhiker", "The Visitor", "Homegrown"), Gianni Candellari ("Chrome Dreams II"), Michele Corrado ("Colorado"), Lorenzo Montefreddo ("Barn", "World Record", "Before And After")
Neil Young (Reprise, 1968) | 7 | |
Everybody Knows This Is Nowhere (Reprise, 1969) | 7,5 | |
After The Gold Rush (Reprise, 1970) | 8 | |
Harvest (Reprise, 1972) | 9 | |
Journey Through The Past (antologia, Reprise, 1972) | ||
Time Fades Away (Reprise, 1973) | 6,5 | |
On The Beach (Reprise, 1974) | 7,5 | |
Tonight's The Night (Reprise, 1975) | 9 | |
Zuma (Reprise, 1975) | 7 | |
Long May You Run (with Stephen Stills, Reprise, 1976) | 5,5 | |
American Stars 'n' Bars (Reprise, 1977) | 6,5 | |
Decade (doppio cd, antologia, 1978) | 8 | |
Comes A Time (Reprise, 1978) | 6,5 | |
Rust Never Sleeps (Reprise, 1979) | 8,5 | |
Live Rust (Reprise, 1979) | 8 | |
Hawks & Doves (Reprise, 1980) | 4 | |
RE-AC-TOR (Reprise, 1981) | 5,5 | |
Trans (Geffen, 1982) | 5,5 | |
Everybody's Rockin' (Geffen, 1983) | 5 | |
Old Ways (Geffen, 1985) | 5 | |
Landing On Water (Geffen, 1986) | 5 | |
Life (Geffen, 1987) | 6 | |
This Note's For You (Geffen, 1987) | 5 | |
Life (Geffen, 1987) | 5 | |
Freedom (Reprise, 1989) | 7 | |
Ragged Glory (Reprise, 1990) | 6 | |
Arc/Weld (Reprise, 1991) | 6 | |
Harvest Moon (Reprise, 1992) | 5,5 | |
Lucky Thirteen (antologia, Geffen, 1993) | ||
Unplugged (Reprise, 1993) | 6 | |
Sleeps With Angels (Reprise, 1994) | 7 | |
Mirror Ball (with Pearl Jam, 1995) | 6 | |
Broken Arrow (Reprise, 1995) | 6 | |
Dead Man (colonna sonora, Vapor, 1996) | 7 | |
Silver & Gold (Reprise, 2000) | 6 | |
Road Rock Vol. 1 (Reprise, 2000) | ||
Are You Passionate? (Reprise, 2002) | 5 | |
Greendale (Reprise, 2003) | 5 | |
Prairie Wind (Reprise, 2005) | 5 | |
Living With War (Reprise, 2006) | 6 | |
Chrome Dreams II (Reprise, 2007) | 6 | |
Fork In The Road (Reprise, 2009) | 4,5 | |
Archives Vol. 1: 1963-1972 (cofanetto, 8 cd/10 dvd, 2009) | 6,5 | |
Le Noise (Reprise, 2010) | 6,5 | |
Americana (Reprise, 2012) | 6,5 | |
Psychedelic Pill (Reprise, 2012) | 7,5 | |
ALetter Home(Third Man, 2014) | 3 | |
Storytone(Reprise, 2014) | 6,5 | |
Monsanto Years (Reprise, 2015) | 5,5 | |
Earth (live, Reprise, 2016) | 4 | |
Peace Trail (Reprise, 2016) | 5 | |
Hitchhiker (Reprise, 2017) | 4 | |
The Visitor (Reprise, 2017) | 5,5 | |
Paradox (Original Music From The Film)(colonna sonora, Reprise, 2018) | 4 | |
Songs For Judy(live, Reprise, 2017) | 4 | |
Colorado (Reprise, 2019) | 6,5 | |
Homegrown (Reprise, 2020) | 6 | |
Archives Vol. II: 1972-1976(cofanetto, 10 cd, 2020) | ||
Barn(Reprise, 2021) | 6,5 | |
Toast (Reprise, 2022) | ||
World Record (Reprise, 2022) | 6,5 | |
Before and After(live, Reprise, 2023) | 6,5 | |
Fuckin' Up (live, Reprise, 2024) | ||
Archives Vol. III (cofanetto, Reprise, 2024) |
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