Il biennio '69-'70 ha qualcosa di magico per Neil Young, che nel giro di pochi mesi mette insieme i tasselli principali della sua leggenda: a quel punto può già vantare nel "curriculum" la militanza in una band seminale come i Buffalo Springfield, due album solisti (di cui uno — "Everybody Knows This Is Nowhere" - strepitoso) e il non trascurabile onore di essere la "Y" del marchio CSN&Y, autori dell'epocale "Deja Vu" (cui seguirà un tour dall'incredibile successo). Cos'altro poteva fare il Nostro se non dare alle stampe quello che in un impietoso sondaggio tra i fan rischierebbe seriamente di essere eletto come il miglior album della sua carriera?
"After The Gold Rush" esce nell'agosto del 1970, ed è una raccolta di canzoni straordinarie, un autentico manifesto poetico, la migliore commistione possibile tra country e rock, combinazione ora armoniosa e ora frizzante, capace di rabbia furiosa, dolcezza estrema, epica da terra promessa e languide carcasse di utopie.
L'inizio è affidato alla zampettante "Tell me why", che potrebbe essere soltanto un acquarello folk, chitarra e voce col supporto di un ineffabile coro a cinque (tra gli altri Stephen Stills e Nils Lofgren), e invece si rivela uno degli episodi più subdolamente inquieti di Young, come sottolinea l'inflessione del suo canto a metà tra falsetto e lamento, come una sonda nel ventre molle del disagio, come un rimpianto e assieme la consapevolezza agghiacciante dell'inevitabilità delle cose. Impossibile, poi, dimenticare i primi ascolti della successiva "After the gold rush", quella sensazione spiazzante di delicatezza e disperazione, l'ultima cosa che ci si può aspettare di trovare in un disco rock: un piano in bilico sulla fragilità di quella voce ferita, l'onirica presenza dei corni, la fuga immaginifica e velleitaria di una illusione antica, tra tempo sconfitto e prospettive perdute, solidificate nell'immagine/archetipo del razzo spaziale/seme d'argento lanciato nello spazio, nella velleitaria ipotesi di nuove inseminazioni e sviluppi futuri (un po' come nel "Blows Against The Empire" di Kantner).
"Only love can break your heart" potrebbe essere a ben ragione definito un western-valzer claudicante e sghembo, divertissement vagamente alla The Band, contagiato da una cinica amarezza che gli conferisce penombre agghiaccianti, come se negasse in nuce l'eventualità stessa che prospetta. E' invece un'espettorazione rabbiosa la linfa di "Southern man", invettiva sferzante contro la mentalità del sud, contro l'ottusità di un razzismo incistito fino alla radice dell'anima, con quel volo radente di chitarra lanciata in un fraseggio abrasivo, il piano incalzante e la voce di Young doppiata e sorretta da un coro solidale: un pezzo leggendario, destinato ad anni di brucianti apoteosi live (straordinaria la versione presente su "4 Way Street"). Breve contrappunto bucolico è la marcetta di "Till the morning comes", intarsio semi-orchestrale che rivela la presenza in cabina di regia di Jack Nizsche, strategicamente piazzato a stemperare la tensione, prima della comparsa di "Oh, lonesome me", l'unico brano non a firma Young (è di Don Gibson), con la vena country più scoperta in una ballata dal sapore molto agro e poco dolce, nel quale ogni volta piace ritrovare quegli strappi di chitarra e quella presenza salvifica del piano, con l'armonica abbandonata di Young a sfarfallare lingue di fuochi solitari, con il povero drumming di Ralph Molina colto in flagranti pulsazioni nude: una di quelle canzoni, quest'ultima, che fanno la differenza tra un grande e un povero disco, perché è in questi ultimi che di norma i brani "minori" sono meri riempitivi, figli sciatti della mano sinistra.
Il concetto di ballata è un'ipotesi sdrucciolosa, e Young ama scivolare sui piani inclinati dell'indefinibile: "Don't let it bring you down" ci mette con le spalle al muro, imbastisce una ritmica trattenuta ma incontenibile, un'energia compressa che sfregola sul basso di Billy Talbot e sul piano deciso di Nils Lofgren, per poi esplodere e stemperarsi nella magia di un chorus che regala un po' di calore alle raggelanti visioni del verso. A mio avviso, una delle più belle canzoni in assoluto del canadese, coraggiosa nella forma (col terzo chorus che segna una netta cesura nonché il topos stesso del pezzo), ben suonata e interpretata, sinuosamente melodica e portatrice di un'inquietudine scapestrata, nonché del sottile mistero tipico di ogni leggenda.
"Birds" rappresenta l'altra faccia del nostro loner: solo piano e voce, in una delle sue più struggenti melodie, con quel contrapporsi di "tomorrow" e "today" appoggiato al capoverso come a insaporire l'insostenibilità del distacco, di ogni distacco, lasciando aperto — come sempre — uno spiraglio d'anima.
Ma Neil Young è anche un rocker, non scordiamolo: infatti "When You Dance You Can Really Love" scava un solco di chitarre sfibrate e voce al limite dell'estensione, basso corposo e raptus ritmici del piano, mentre la batteria con Molina fa quel che può e deve. Va da sé che si tratta di un altro "must" live. Ballatona soavemente malinconica e da cuore in mano è la successiva "I Believe In You", che - lungi dall'essere una sciropposa dichiarazione d'amore — scava nel punto di frizione tra un rapporto a due, disegnando confini di incomprensione e affetto, di rancore e fiducia, con il chorus che precipita in uno spogliarello integrale di sentimenti mentre un coretto in vena di understatement alza molto opportunamente il tiro dell'ironia.
La chiusura è affidata al country folk sgangherato di "Cripple Creek ferry", basso e piano in prima linea a sostenere l'evoluzione ondivaga di una melodia a suo modo indimenticabile, travestito da innocuo omaggio alla tradizione con l'insidia di un messaggio che si comincia a intuire sul fading conclusivo, con l'immagine minacciosa degli "alberi incombenti" contro la chiglia del Cripple Creek, emblema (?) di tutto quello che allora (e oggi) il grande Neil vede come origine dei tanti dolori del mondo.
14/11/2006