Quella della Band è una delle storie più affascinanti della mitologia rock. Un'originale orchestra acustica, che negli anni ha "predicato" un rock delle radici, ancorato alle tradizioni del Sud e alle leggende della Frontiera.
Ronnie Hawkins, cantante e pianista dell'Arkansas, è rocker ambizioso e arrogante, istrione di modesta fama e discrete qualità artistiche. Folgorato dalla black-music, ha abbandonato l'università e, per la prima volta, in un club dell'Oklahoma (1957) avuto modo di vedere e unirsi a una band di soli neri, i Black Hawks.
La prima registrazione ufficiale esce nel '58 da un polveroso garage col titolo di "Hey Bo Diddley" e la sigla Ron Hawkins Quartet. Alla batteria siede il conterraneo Levon Helm, allora diciassettenne: il primo elemento chiave di quella che si chiamerà Band arriva dal profondo sud, testimone oculare di mille spettacoli di strada (minstrel show), dei concerti di Elvis Presley (prima della fama) o Bill Monroe o Sonny Boy Williamson. Sarà lui il motore di tante storie rurali, lui la fonte d'ispirazione delle fiabe narrate da Robbie Robertson.
Ribattezzata definitivamente Ronnie Hawkins & The Hawks, la band incide per la Roulette i primi due album, un omonimo del '59 e "Mr. Dynamo", soprannome del Nostro, l'anno successivo. La mossa vincente, strategica, è pero un'altra: spostarsi dal circuito degli squallidi bar e locali della zona di Memphis e andare a nord, verso il Canada. Da quelle parti si vendono molti meno idoli rock n'roll, c'è meno concorrenza e una tardiva voglia di certa gioventù di scuotersi e ballare. Il gruppo, a bordo di una cadillac nera che sa di vecchia gang, trova ingaggi con facilità, un mare di ragazze e parecchie situazioni da rissa western aftershow.
La pesante routine di concerti provoca alcuni cambiamenti d'organico: uno dopo l'altro entrano tutti i futuri membri di The Band. Robbie Robertson (dal 1960) alla chitarra solista e Rick Danko al basso, seguiti entro il Natale '61 dai tastieristi Richard Manuel e Garth Hudson.
Purtroppo, la carriera stenta a decollare e vive una svolta nell'unico effimero momento di gloria, una cover di "Who Do You Love" dell'amato Bo Diddley (1963). A quel punto la band di supporto lo abbandona e comincia a girare Canada e States con la nuova sigla Levon & The Hawks.
Una vera miniera di influenze diverse: rock'n'roll ma anche rockabilly, country, blues, gospel e r&b.
I cinque Hawks si influenzano a vicenda, tessendo progressivamente un mélange sonoro che di lì a poco cementerà un sound inconfondibile.
Suggestive anche le biografie: Robertson, figlio di un giocatore d'azzardo ebreo (morto quando lui era bambino) e di un'indiana Mohawk, vissuto in una riserva di Toronto con le orecchie perennemente sintonizzate sulle onde radio di Nashville; Rick Danko poco più a nord, germogliato insieme ai campi di tabacco sulle rive del lago Simcoe; poi Manuel, con la sua ossessione per l'alcool e il canto di Ray Charles; quindi Hudson, organista/bimbo prodigio, miscelatore folle di Bach e Chuck Berry nell'impresa di pompe funebri di proprietà dello zio.
La musica, tutto un programma: da una parte la sezione ritmica, precisa e tuonante e solenne ed evocativa; dall'altra l'organo di Garth Hudson, il più adulto e preparato musicalmente (con studi classici alle spalle), ma anche carismatico sperimentatore di sonorità e arrangiamenti. Nel mezzo, il lavoro di chitarra di Robbie, serpeggiante come nessuno, virtuoso senza spocchia, appassionato sostenitore di paesaggi melodici atipici. Le voci: il meraviglioso falsetto romantico/solitario di Richard Manuel fa da contraltare all'allegria campagnola/grossolana dei fascinosi Danko e Helm.
In due anni di tournée da soli, cinque ora a notte, i ragazzi hanno la possibilità di incidere una manciata di singoli e, soprattutto, farsi ammirare su un palco (estate '64) dal deliziato John Hammond Jr. Quest'ultimo, figlio ventenne del leggendario talent scout della Columbia John Hammond, offre loro la chance di incidere con lui a New York, backing band di lusso per un modesto (ancora!) cantautore di blues bianco. Quei due album saranno il preludio all'incontro decisivo con Bob Dylan, durante la fatidica estate del 1965. Il quintetto lo conosce a malapena, distante da quella nuova estetica aggressiva, heavy ante litteram , che il cantautore propone. Eppure…
Il nanetto di Duluth è in quel mentre nuovo profeta folk, osannato con la stessa intensità da musicisti, fan, critica, addetti ai lavori, giovani e anziani.
"I tempi" però, "stanno cambiando", come lui stesso del resto aveva predetto: stanco della tradizione e della ballata di protesta, Bob imbraccia per la prima volta una chitarra elettrica e si crea una band di supporto, deciso a eguagliare (e in cuor suo superare) la scossa tellurica socio/musicale ispirata dai Beatles. Ecco allora "Bringing It All Back Home", primo successo milionario, e il "battesimo rock" sul palco del Newport Folk Festival alla fine di luglio, con Al Kooper, Mike Bloomfield e 3/5 della Butterfield Blues Band.
Il primo contatto reale con gli Hawks arriva grazie all'amicizia di Robbie Robertson, emissario degli Hawks, tra l'altro fortemente sponsorizzati alle orecchie di Bob da Mary Martin, segretaria del suo manager Albert Grossman.
Robertson si crea un ottimo rapporto con Dylan, divenendone compare inseparabile: da qui ad apparire al suo fianco nel concerto di Forest Hills (27/08), con Levon Helm alla batteria, il passo è breve. Due set distinti, uno acustico e l'altro (fischiato dai vecchi fan "puristi") elettrico e sferragliante. Bob è entusiasta e sceglie proprio gli Hawks (complice l'abbandono di Kooper, Bloomfield e Harvey Brooks) per continuare le date dell'estenuante, leggendario tour mondiale del '65/'66. Quel giro di concerti, interviste, proteste e fusi orari sfianca profondamente il fisico e gli animi dell'allegra brigata: Helm lascia quasi subito (fine novembre), in perenne disaccordo con un nuovo leader che ha progressivamente usurpato il suo prestigio di carismatico capo tribù.
E così, tra cambi di batteristi (da Bobby Gregg a Mickey Jones per la tranche europea) e fischi giornalieri dai nemici dell'elettricità, si chiude una delle più storiche tournée del rock, momento chiave nell'evoluzione del giocattolo che prende consapevolezza di sé. Il tragico incidente motociclistico di Dylan nella campagna di Woodstock (29/07/'66) fa il resto.
Il ricovero è prolungato e Bob preferisce restare in pianta stabile in quel "buen retiro" di campagna, lontano da anfetamine e giornalisti. Impone il silenzio artistico per un anno intero, crescendo figli con la compagna Sara. Poi, qualcosa si sblocca. Hudson, Danko e Manuel decidono di prendere in affitto una grande villa dipinta di rosa (ribattezzata appunto "Big Pink") nelle vicinanze, e adibirne la spaziosa cantina a sala di registrazione/rifugio musicale. A pochi chilometri c'è la magione di Albert Grossman, con Robbie e consorte ospiti fissi, mentre Helm va e viene dal sud. Da quella quiete bucolica prendono forma i demo dylaniani in seguito editi col nome di "Basement Tapes" e, soprattutto, il materiale per il debutto col nuovo nome: The Band. L'atmosfera è pigra e rilassata, il clima mite permette piccole escursioni collettive nella macchia circostante, gite e lunghe chiacchierate con i vicini di casa, tra un picnic e una partita di football.
La prima cosa che stupisce il pubblico rock è proprio il contenuto del disco d'esordio della Band (1/07/68, n. 30 nelle chart Usa), distante miglia da ciò che si era abituati a sentire sino a quel momento: non ci sono raga indiani, né brani lunghi dieci minuti o riferimenti a droghe che espandono la mente. In "Big Pink" non trovano spazio abiti sgargianti o strumenti etnici. I termini "virtuosismo", "solipsismo", "divismo" sono banditi dal vocabolario. Al contrario, ciò in cui gli ascoltatori (curiosi all'inizio più della presenza/evento di Dylan che altro) si imbattono è una "bittersweet celebration of old & young americas". La storia nascosta dietro quella strana copertina ad acquerello (regalo di Bob, accreditato in tre brani) riguarda il presente letto con gli occhi del passato, odora forte di vecchio west, cowboy e indiani, di Grande Depressione e ampi spazi aperti, senso di appartenenza e anelito all'evasione.
Nulla, neanche dieci anni di "professionismo" alle spalle, avrebbe lasciato pensare a un affresco così spettacolarmente nitido, da ascoltare parecchio prima di essere assimilato. C'erano le premesse, c'era il background. Dylan aveva preparato la strada col suo criptico "John Wesley Harding", registrato con musicisti locali a Nashville e uscito l'inverno precedente.
In Music From Big Pink (1968) c'è un collettivo in assoluta confidenza con i propri mezzi tecnici, con tutti i diversi linguaggi musicali imparati nel tempo (country, folk, blues, gospel, rock, soul, r&b), con un songwriting finalmente maturo. Sono undici canzoni che vanno dritte al cuore, che commuovono per semplicità, sincerità e immediatezza esecutiva. Il dialogo, il mettere in discussione le proprie radici si dimostra impegno populista che, alla lunga, finirà per influenzare parecchi colleghi e battezzare il risorgimento della roots music, il Grande Suono Americano codificato una volta per sempre.
Questo "antico libro dei giovani antenati" si apre con l'indolenza, l'amarezza di "Tears Of Rage", primo paragrafo della storia, con Dylan coautore.
L'elemento a venir fuori è la chitarra elettrica di Robbie filtrata attraverso uno speaker Leslie (altoparlante ad azione rotatoria originariamente concepito per modificare le sonorità dell'organo Hammond, poi sperimentato anche su voce e altri strumenti) che ne altera il suono, il tappeto d'organo di Garth e lo splendido lavoro di batteria di Levon, uno dei più grandi e sottovalutati batteristi di sempre. La voce di Manuel, a metà strada tra sentimentalismo e depressione da "grande freddo", inizia a inquadrare un conflitto padre-figlio. La faccenda sembra prendere una brutta piega: il desiderio di riconciliazione trascolora in risentimento, la rabbia per un dialogo tardivo e non favorito è evidente. Il figlio, un "homo novus" originale dell'America democratica, è alla ricerca di sé stesso, dell'amore e dell'amicizia dei suoi simili. La delusione del genitore è ineluttabile, punteggiata dal pianoforte e dal bel lavoro di ricamo dei due sassofoni nella seconda strofa. La festa dell'indipendenza evocata nel testo è rovinata dall'addio, ma è l'America intera a piangere lacrime amare, la patria afflitta dalla guerra.
Il dolore del padre continua in "To Kingdom Come", nient'altro che una riflessione zen sulla morte: l'anziano ammonisce le nuove generazioni a non commettere errori, a non rivelare anzitempo le proprie carte. Le parti vocali sono affidate alla gracchiante, stridula verve di Robertson, con Richard nei controcanti. Il tono è ironico e scherzoso, più naif rispetto al precedente. Il ritmo è girotondo vorticoso, con un bel ritmo dettato dal piano. Il vitello dorato è il primo di una serie di inquietanti figure bibliche e mitologiche a tormentare il sonno di Robbie, con Manuel l'autore principale dei testi: in questo caso la bestia è fuori della finestra e squadra minacciosamente il malcapitato vecchietto. "In A Station", annunciata dal piano elettrico e dal clavinette, è un'altra stupenda prova del "loner" Richard Manuel: si tratta di un'onirica ballad annacquata ancora di tristezza e senso d'abbandono.
Il "road trip" si fa più reale con "Caledonia Mission", amarcord di un amore sfiorito. Il timone della storia lo prende Rick Danko: una ragazza di buona famiglia ebraica vive soddisfatta e autoreclusa in una missione del Sud. Viziata e conservatrice, non ha il coraggio di abbandonarsi alla fuga promessa dal musicista romantico e lavora infaticabile e prigioniera del suo giardino, del suo cancello chiuso a chiave. Il brano prende corpo e si infiamma nel ritornello, in cui si aggiunge anche Manuel ai backing vocals . Per quanto le voci si intreccino con vigore, unite a piano ed elettrica, la prospettiva ipertestuale non cambia.
Il centro, il messaggio di tutto l'album è racchiuso in "The Weight", edito anche a 45 giri, unico hit in carriera, poi inserito nella colonna sonora di "Easy Rider". Qui basterebbe la musica: apertura di chitarra acustica, pochi inimitabili arpeggi e ingresso ("Ba-dum-badum-dum") della batteria. Quindi il pianoforte e le voci. Nel mezzo splendidi cori a tre, fragili ed effimeri come un soffio di vento.
Nell'Antico Libro c'è spazio per tutti, si lavora in squadra come provetti boy-scout.
La seconda metà dell'Antico Libro insiste sui temi enunciati all'inizio, sfumando e perdendo un po' del sapore nel finale. In "We Can Talk", un mid-tempo gospel sorretto da organo e piano/batteria, torna in scena il conflitto, ora tra coetanei: al posto dell'amata, un amico schiavo dell'opprimente condizione di lavoro. Il consiglio è ripensare a ciò che si è fatto, convincendosi che non è mai troppo tardi, ché il dialogo favorito nel titolo può sbaragliare l'aratro, le mucche e il giogo di un padrone ignorante.
Caso a parte è "Long Black Veil", unica cover del lotto (hit country per Lefty Frizzell nel '59, idolo di Robertson). L'atmosfera lugubre da murder ballad è reinterpretata senza pathos, in un'inedita chiave rilassata, con armonie vocali che crescono e la bella alternanza di tastiere e chitarra acustica. Solo un sinistro bordone di basso-tuba (?) incrina le onde.
La parte migliore della sfrenata "Chest Fever" è l'inizio, un'occasione per Garth Hudson di mostrare il proprio talento: infernale incipit di organo hammond, verniciato su impalcature, come abbiamo visto, piuttosto corali. Segue il dolcissimo slow tune "Lonesome Suzie", ennesimo tentativo di salvataggio eroe/principessa in pericolo. In "Fever" è la femme fatale autolesionista e distruttrice, una belva feroce da far tremare le ginocchia; "Suzie" è la solitaria-triste-anziana zitella bisognosa di calore umano. In entrambi i casi, la soluzione adottata dal protagonista è la medesima: fuga, libertà, nuova vita.
"This Wheel's On Fire" si distingue per l'arrembante tempo veloce, le armonie e l'affilata elettrica di Robertson. L'angoscioso testo minaccia un nuovo incontro tra nemici, due immaginari pistoleri nell'attesa di affrontarsi prima della fine, prima che il buio e la distruzione avvolgano ogni cosa. Il commiato di "I Shall Be Released", cantato da Manuel, riassume coi toni della "torch song" le fila del discorso: l'insanabile dicotomia debolezza/speranza, le distanze del cuore da colmare, il bisogno di dare e ricevere amore (simboleggiato nel brano dalla luce), la libertà come chimera da afferrare con un ultimo, titanico sforzo.
Riesci a immaginarti quella notte di tanti anni fa: l'illuminazione fioca delle candele, la cantina polverosa, cinque tempestosi Heatcliff con barba, cappelli e quel sorriso amaro capace di sgretolare la più dura delle rocce. "Any Day Now, Any Day Now, I Shall Be Released"…
A forza di cantare ed eccitarsi, commuoversi, è scesa la notte. Silenzio nelle verdi vallate di Woodstock, la luna si nasconde e le stelle giocano la solita gara di bellezza. Non un alito di vento, soltanto i gufi tra gli alberi secchi, il fiume che scorre, le foglie sul terreno asciutto.
Il successivo The Band (settembre 1969) alimenta ancora il mito di questi roots-rocker di frontiera.
"Across the Great Divide" è un motivetto allegro nel quale la Band offre una rassegna completa della propria strumentazione. Viene invece dal passato americano come intuizione "Rag Mama Rag": un piano struttura il brano, mentre l'intermezzo è lasciato al violino di Danko. L'agreste "The Night They Drove Old Dixie Down" è un blue-grass acustico e molto colorito dalle voci e dalla armonica. Tastiere allegre per "When You Awake", chitarre pizzicate, ritmo leggero. Ad alimentare questo clima gioioso, da festa campestre, è anche la fresca "Up on Cripple Creek", sostenuta da un'ottima parte ritmica.
Il capolavoro del disco è però "Whispering Pines": le tastiere e il piano intessono un morbido tappeto per il cantato sussurrato, accompagnato dalla acustica di Robertson.
Sono i fiati a dare ritmo al soul-rock grezzo di "Jemima Surrender", mentre radiose armonie tra fisarmonica, violino e mandolino pervadono "Rockin' Chair", ottima ballata countreggiante. Un ritmo pianistico boogie e le continue sovrapposizioni di voci fanno da padrone in "Look Out Cleveland", un pezzo che avrebbe dovuto dare maggior risonanza alla chitarra solista.
In "Jawbone" i ritmi si fanno più sincopati, ma l'eccessiva ripetitività nel riff di basso frena il brano, riscattato in parte dall'ottimo assolo di chitarra elettrica. Ritroviamo melodie intimiste in "The Unfaithful Servant", saggio soul con un grande sax in evidenza. Infine, "King Harvest (Has Surely Come)" chiude il disco muovendosi in territori soul-rock, con un ottimo basso a tracciare il tappeto ritmico, mentre le tastiere abbozzano la melodia.
The Band offre uno stile assolutamente personale, basato soprattutto sul songwriting di Robbie Robertson, al quale raramente si aggiunge Richard Manuel in fase compositiva. Ma è decisiva l'aggregante miscela di suoni prodotti da tutti gli altri musicisti del gruppo in fase di arrangiamento. La componente più rockeggiante attinge a piene mani dalla tradizione rurale americana, passando per rag, honky-tonk, dixie, blues, country e folk, mentre il peculiare ricorso ai fiati regala pregevoli sprazzi di "soul bianco".
Stage Fright (agosto 1970) viene inciso suonando sul palco della Woodstock Playhouse senza la presenza del pubblico, in una curiosa ambientazione che produce altri classici quali la stessa "Stage Fright" e "The Shape I'm In". Nei concerti dal vivo, oltretutto, il gruppo dimostra la propria preparazione, riuscendo a definire, grazie ad impeccabili esibizioni, una via nuova al rock.
Cahoots (settembre 1971), nonostante l'ottima rivisitazione di "When I Paint My Masterpiece" di Bob Dylan, "Life Is A Carnival" (con la sezione fiati arrangiata da Allen Toussaint) e la presenza di Van Morrison, sembra segnare l'inizio della parabola discendente, confermata dalla decisione di pubblicare il doppio live Rock Of Ages (agosto 1972) e dall'incerto Moondog Matinee (ottobre 1973), nel quale sono presenti interessanti riletture di canzoni di rock'n'roll di Chuck Berry, Fats Domino e altri (il titolo prende spunto dal programma radiofonico del dj Alan Freed).
A parte la fugace apparizione con Dylan al Festival dell'Isola di Wight nel 1969, The Band non collabora con il famoso cantautore per tutta la prima parte della decade dei '70. È nuovamente con Dylan nel 1974 per la realizzazione di "Planet Waves" e dell'album dal vivo "Before The Flood".
A confermare una consapevole crisi, il fatto che alla formazione occorrano due anni per pubblicare il nuovo 33 giri Northern Lights Southern Cross (novembre 1975), il primo album di materiale originale dopo Cahoots, preludio all'ultimo lavoro di studio della formazione storica intitolato Islands (marzo 1977), preceduto da The Best Of The Band, un'antologia con inediti.
Robertson avverte stanchezza creativa e decide di organizzare un addio in grande stile, che si concretizza nel film diretto da Martin Scorsese, nonché triplo Lp dal vivo, The Last Waltz (aprile 1978), splendida testimonianza del concerto tenuto il Giorno del Ringraziamento 1976 al Winterland di San Francisco (il locale della prima esibizione del gruppo con il nome "The Band" avvenuta nel 1969), con ospiti e amici eccellenti quali Neil Young, Joni Mitchell, Bob Dylan, Van Morrison, Ronnie Hawkins, Muddy Waters e Dr. John. Il film-concerto è un punto di riferimento fondamentale per tutti i registi desiderosi di cimentarsi in un simile compito.
Dopo lo scioglimento del gruppo, Helm fonda The Rco All Stars (comprendente Dr. John, Paul Butterfield, Steve Cropper, Duck Dunn e Booker T. Jones), Danko intraprende la carriera di attore cinematografico. Finisce nel dramma, invece, la storia di Manuel che, sotto l'effetto di una mistura di alcool e cocaina, si toglie la vita, impiccandosi, il 4 marzo 1986.
Robertson, nel frattempo, compone parte della colonna sonora del film Candy del 1980 e scrive la musiche per il film di Martin Scorsese The King Of Comedy. Nel 1987 esordisce con l'album Robbie Robertson (prodotto da Daniel Lanois), schierando una manciata di illustri ospiti quali U2 e Peter Gabriel. Seguono Storyville (1991) e la colonna sonora per il documentario televisivo The Native Americans. Il tutto nel segno della riscoperta delle radici pellerossa (Robertson è figlio di un'indiana Mohawk), tra sonorità bucoliche, danze propiziatorie e incursioni nell'elettronica. Memorabile la ballata "Ghost Dance", commossa preghiera per la sopravvivenza del grande "spirito" pellerossa, ferito dall'uomo bianco ("You can kill my body/ You can damn my soul/ For not believers in your god/ And some world down below/ You don't stand a chance against my prayers/ You don't stand a chance against my love/ They outlawed the Ghost Dance/ But we shall live again, we shall live again.").
The Band si ricostituisce nel 1983 con Danko, Helm, Hudson, Jim Weider a rimpiazzare Robertson e Manuel. Alla morte di quest'ultimo, i tre membri originali si dedicano a lavori di session men per poi registrare Jericho (1993), discreto album nel quale appare una delle ultime canzoni incise nel 1985 da Richard Manuel ("Country Boy") e alcune cover (tra le quali, "Atlantic City" di Bruce Springsteen e "Blind Willie McTell" di Bob Dylan). Lo stile decisamente ruspante conferma una felice vena interpretativa anche con il seguente High On The Hog (febbraio 1996).
Nel frattempo, l'etichetta Capitol pubblica i 3 cd del box-set Across The Great Divide (1994) e il Live At Watkins Glen (1995), quest'ultimo testimonianza di uno storico festival del luglio 1973.
Extra: musica influenzata dalla Band: Fairport Convention, "Liege & Lief" (stesse premesse della Band, con la voglia però di riscoprire le proprie di radici, traghettandole nella vecchia Inghilterra vittoriana); The Byrds, "Sweetheart Of The Rodeo"; Rolling Stones, "Beggar's Banquet"; Elton John, "Tumbleweed Connection"; Grateful Dead, "Workingman's Dead" o "American Beauty"; Paisley Underground versante Green On Red; Alt. Country di sponda Uncle Tupelo, poi Wilco, Jayhawks, Lambchop. Insospettabili come Eric Clapton o Procol Harum, rei confessi del calibro di Will Oldham o Mercury Rev, superstar come Ryan Adams o Norah Jones. E la lista potrebbe essere lunga più del Mississippi, molto più di quei quarantadue minuti che, a questo punto, avrete una matta voglia di riscoprire.