Van Morrison

Van Morrison

Il druido del rhythm'n'blues

Dall'esordio con i Them a una carriera solista ricca di album memorabili, Van Morrison ha saputo coniugare le sue radici irlandesi con il rhythm and blues dei neri, forgiando una peculiare formula di cantautorato che vanta tuttora molti imitatori. Ripercorriamo la sua lunga carriera in questa monografia completa, fino all'ultimo progetto del 2007, in bilico tra cinema e musica

di Marco Donato + AA.VV.

George Ivan Morrison nasce il 31 agosto 1945 a Belfast, nell’Irlanda del Nord, da una famiglia della lower class: il padre, avido collezionista di vinili di blues e jazz americano, lavorava in un cantiere navale. L’infanzia di Van è accompagnata da Muddy Waters, Lightnin’ Hopkins, John Lee Hooker: l’amore per la musica nera, la passione per il canto spingono il giovane Van ad apprendere la tecnica di diversi strumenti, quali la chitarra (per accompagnarsi), l’armonica e il sax; strumenti che suonerà in diverse formazioni scolastiche prima di approdare, nel 1964, al combo r&b di prassi (e irruenza) garage dei Them. Con essi registra due album (Them e Them Again) e, nell’immaginario collettivo, lega il suo nome alla straordinaria interpretazione vocale di brani come “Gloria” (all’epoca non pubblicata su singolo, ma ancora oggi uno dei cavalli di battaglia del musicista) e “Baby Please Don’t Go”.

Nel 1967, dopo aver lasciato il gruppo al suo destino, si sposta in America per alcune session retribuite dalla casa discografica che aveva prodotto i Them, la Bang Records di Bert Berns, pasciuto impresario e songwriter ebreo di stanza a New York con il quale il riottoso Van avrà più di una lite.
Le tensioni fra i due si accentuano quando l’uscita del singolo “Brown Eyed Girl” (canzoncina scritta a quattro mani con Berns, anche se non viene accreditato sul disco) mette in moto una disordinata serie di eventi che porterà non poco fastidio al musicista: a settembre dello stesso anno, Berns pubblica Blowin’ Your Mind, album risultato da alcuni dei brani registrati da Morrison a New York, senza chiedere il parere né l’autorizzazione di Van; la rottura definitiva avviene negli ultimi mesi dell’anno e ad essa segue, il 30 dicembre, la morte per infarto di Berns. La moglie del produttore si accanirà contro Morrison, incolpandolo della morte del proprio marito, fino a portare alla luce alcune imprecisioni burocratiche nei documenti che consentono al musicista la permanenza negli Stati Uniti: l’unico modo che Van ha di restare in America è quello di sposare con decisione la sua fidanzata di allora, l’artista hippie Janet Planet. 

Dopo le problematiche circostanze che lo hanno spinto al matrimonio, Morrison si vuole rifare, allestendo una propria personale backing band: da Boston si sposta a Cambridge, Massachussets, dove suona con un gruppetto soul del luogo. Dopo un anno scarso di spettacoli nei club locali, la band si disfà e Morrison riesce a tenere i contatti con il solo bassista Tom Kielbania e comincia a pensare a deporre il sound elettrico a favore di quello acustico. Kielbania presenta a Morrison il flautista e saxofonista John Payne: pian piano si va allestendo il combo (di origine jazz) che avrebbe messo mano, nella seconda metà del 1968, alle session di Astral Weeks. La formazione finale comprende Payne, il bassista Richard Davies (musicista di altissimo livello, prestigioso per aver collaborato con Eric Dolphy, e che rimpiazzerà per ragioni evidenti Kielbania), il chitarrista Jay Berliner, il percussionista Warren Smith Jr. e il batterista Connie Kay.Nel frattempo la Warner Bros. contatta Morrison, sperando di ottenere il bis di “Brown Eyed Girl”, che ancora si sente qua e là nei jukebox: tutto sembra riportare il cantautore verso lo studio di registrazione.

Ma Van Morrison è ancora sotto contratto con la Bang Records, ormai irrimediabilmente ostile nei suoi confronti; la rovina è evitata da un accordo siglato dal nuovo manager del musicista, Bob Schwald, che riesce a ottenere le seguenti condizioni: Morrison avrebbe dovuto includere due composizioni la cui copyright era in mano alla Bang sul suo nuovo album (e lo farà, con “Beside You” e “Madame George”), avrebbe dovuto lasciare alla Bang una percentuale sulla vendita di tutti i singoli estratti dal disco (motivo per cui la Warner deciderà di non pubblicarne affatto) e fornire alla Bang tre canzoni nuove al mese per la durata di un anno. Quest’ultima richiesta, beffarda e oltraggiosa, troverà una risposta adeguata quando Morrison in un giorno solo registrerà 36 composizioni nonsense orribili e sconclusionate, accompagnandosi con la chitarra acustica: si rischierà l’azione legale, ma non accadrà nulla e per il momento il musicista resterà libero di fare quello che vorrà.

Le session si svolgono in un clima di totale libertà creativa: Morrison non dà alcuna indicazione ai musicisti su cosa suonare, e questo arriva anche a infastidire Davies, come ammetterà in seguito. Tuttavia, gli screzi dovuti alla ritrosia e alla scontrosità del cantautore non fanno irruzione in Astral Weeks, che è uno dei grandi e imprescindibili capolavori della musica moderna.
Ai limiti della jam, fra il 25 settembre, l’1 e il 15 ottobre 1968, questo straordinario ensemble di musicisti di origine jazz (e spesso free-jazz) registra insieme a Morrison l’album folk più grande della storia: il cantautore fa una selezione ben precisa fra i brani tenuti nel cassetto, tentando di dare una struttura concettuale all’insieme, tuttavia piuttosto sfuggente per natura stessa della musica.
Si ha l’impressione che scelga anche i brani meno complessi dal punto di vista melodico (le canzoni più “difficili” su Astral Weeks hanno tre, massimo quattro accordi) per fare in modo che il suo fraseggio sia più arioso possibile e per dare il completo arbitrio all’estro momentaneo, sia per quanto riguarda la voce, che spesso si inerpica in saliscendi emotivi e complessi giochi di anticipazioni e richiami, che tengono insieme con una coesione eterea interi brani. “Madame George” è l’esempio monumentale: quasi dieci minuti indimenticabili, senza un punto morto, un’ode del distacco dai toni soffusi e al tempo stesso incalzanti (Morrison negherà che il brano tratti di un travestito, riferendo che in origine il titolo era “Madame Joy”); altro punto focale è la title track, sospesa in un’atmosfera esoterica e surreale, sospinta bordeggiando come su una lieve onda del mare appena increspato, in cui la voce è sempre accompagnata da un perfetto e bilanciato contraltare bassistico. La magia si ripete in “Sweet Thing”, dal sapore ancora più celtico e ancestrale, splendida ballata d’amore dalla semplicità e profondità sconfinate. “The Way Young Lovers Do” aggiunge una qualche spezia r&b al sound rilassato delle sue colleghe, con una sezione fiati piuttosto tesa. Il brano più sciolto e inafferrabile è la commossa “Beside You”, mentre “Cyprus Avenue” depura le dodici battute del blues trasformandole in una struttura da inno celtico; “Ballerina” proviene addirittura dal repertorio dei Them (anche se non la incisero mai su album), mentre “Slim Slow Slider”, scelta da Morrison come chiusura per il disco, è il sigillo posto a quest’opera incommensurabile, un brano che sparirà per sempre (non sarà mai più ripreso dall’artista in concerto, né ri-registrato).
L’eredità di Astral Weeks è sempiterna: il suo sound non suona ancora oggi per nulla datato e, se uscisse ora, sarebbe egualmente il capolavoro che si trova a essere nel 1968.

Van MorrisonMoondance (1970) apre ufficialmente la stagione commercialmente più felice per Morrison, nonché il suo vigoroso ritorno all’r&b tradizionale. La scelta di “Come Running” come singolo apripista è sintomatica di un rinnovato interesse per la componente “nera” del suo stile, sempre sintetico quanto pericolosamente oscillante ora qua ora là. Gospel (“Crazy Love”), country and western (“And It Stoned Me”, ode naturalistica di stampo superiore), jazz (la title track) si mescolano in un linguaggio piuttosto distante dal gusto visceralmente sciamanico dell’esordio, perciò decisamente più inadatto alla pregnanza delle liriche, che sono peraltro stavolta costrette a una dizione più stereotipata, dalla complessità prosodica, causata da una maggiore attenzione alla struttura melodica: ai pochissimi accordi delle canzoni di Astral Weeks si sostituiscono soluzioni più raffinate e complesse, all’insegna di un perfezionismo un poco gigione. L’atmosfera del disco precedente è surrogata dalla fluttuante “Into The Mystic”, uno dei momenti più toccanti e incisivi. Molti dei brani dell’album (soprattutto nella prima facciata) sono considerati veri classici del repertorio di Morrison e oggetto di prestiti e imitazioni ripetute durante i decenni: famigerata la cover della title track da parte del patinato e frivolo crooner Michael Bublé.

His Band And The Street Choir (1970) parla una lingua ancora più “nera” e impersonale, guidato dalla fortunatissima “Domino” (n. 9 in Usa, record che Van non riuscirà mai più a battere); in Tupelo Honey (1971), invece, l’elemento r&b (la frizzante “Wild Night”) costituisce l’eccezione: l’artista è ormai talmente radicato nel suo nuovo clima culturale da costruire un album “casalingo” e tranquillo, sospeso fra folk-pop e country, provvedendo a rappezzare i vuoti con autoplagi e riscritture (la title track).

Vi sono critici che vedono in Saint Dominic’s Preview (1972) un ritorno al passato “astrale” – sempre che si possa elevare a paradigmatico quello che è pur sempre un singolo episodio – di Van Morrison; in realtà quest’opinione è, a nostro parere, facilmente smantellabile. Essa si basa soprattutto sulla lunghezza e sulla disordinata struttura di “Listen To The Lion” – in realtà una ballata r&b piuttosto dilatata, con un’esecuzione più viscerale del solito, corredata di imitazioni del verso dell’animale citato – e, ancor più, di “Almost Independence Day”, uno schizzo di canzone protratto all’infinito, basato su un arpeggio acustico che forse i Pink Floyd hanno ascoltato, all’epoca. Ma il cuore dell’album è altrove: si tratta dell’appassionante title track e della sbarazzina “Redwood Tree”, che in fondo non modificano granché la poetica di Morrison in questo placido periodo; una sensazione complessiva di scarsa compattezza e di eccessiva leggerezza infastidiscono l’ascoltatore più attento.

D’altra parte, Hard Nose The Highway (1973), spesso messo da parte, non è così al di sotto dei sopravvalutati standard del periodo, ma semplicemente non trova al suo interno neppure uno dei classici del musicista: “Snow In San Anselmo”, il brano più caratteristico, è una robusta tiritera resa solenne da un coro ecclesiastico, forse tentativo un po’ goffo di ricostruire in maniera artificiale la sacralità intrinseca del sound di un tempo. Degna di nota anche “The Great Deception”, amara e ritmata arringa contro lo show-business, figlia di una tradizione che avrà ancora non pochi proseliti.

It’s Too Late To Stop Now (1974, registrato nell’estate 1973), considerato da alcuni come uno dei più grandi live album della storia della musica leggera, è un disco dal vivo un bel po’ pasticciato, infirmato da errori di esecuzione, discutibili scelte di repertorio (solo “Cyprus Avenue” è ripescata da Astral Weeks) e interpretazioni un po’ troppo sopra le righe: tra gli urletti, gli stacchi, gli intercalare e le variazioni, le canzoni rischiano davvero di perire e di essere schiacciate da un peso troppo grande. Ottima sorpresa una versione galvanizzante di “Gloria”, cantata con entusiasmo insieme al pubblico.

Nel 1974 si consuma anche l’episodio estemporaneo del ritorno in terra patria, seguito al divorzio da Janet Planet: l’Irlanda spinge Morrison a registrare il suo secondo capolavoro, Veedon Fleece, caratterizzato da un tocco più maturo e meno fantasioso, ma ugualmente incisivo e imprescindibile; brani come “Who Was That Masked Man”, “Linden Arden Stole The Highlights” ritrovano l’etereo e imprescindibile spessore di un tempo, pur abbandonando la caotica struttura da jam session di Astral Weeks a favore di una forma canzone visceralmente protesa più allo spirito che al corpo.

Dopo due anni di pressoché completa inattività (se si esclude la partecipazione al concerto d’addio dei The Band, immortalato sul doppio live “The Last Waltz”), l’America trova ancora Morrison nel suo territorio con A Period of Transition e Wavelength, dischi minori che tentano di recuperare il favore di un tempo nelle radio Fm.

Sebbene sia già tornato a Londra al tempo della sua pubblicazione (ottobre 1978), Van Morrison compone la maggior parte di Wavelength in America, e si sente: probabilmente il suo disco più concessivo nei confronti del gusto imperante nelle radio Fm, introduce per la prima volta nel suo impasto sonoro il synth (di Peter Bardens dei Camel), in maniera massiccia nella title track, pubblicata anche come singolo. Non è forse una sorpresa la comparsa del reggae (“Checkin’ It Out”, “Venice Usa”), ma i risultati non sono sempre all’altezza della situazione; potentissima l’apertura r&b di “Kingdom Hall”.

La sintesi fra l’ultima deludente stagione, all’insegna di un sound sempre più fastoso e commerciale, e le origini folk e spirituali viene trovata da un Morrison in particolare forma con Into The Music, che prende il nome da una biografia del musicista pubblicata nei primi anni 70. “Troubadours”, dedicata ai poeti d’amore dell’antica Provenza, e ancora la celtica “Rolling Hills”, si riallacciano alla tradizione folk rivisitata in Veedon Fleece, mentre brani più possenti come “Full Force Gale”, uno dei momenti più energici dell’album, e “Bright Side Of The Road” danno una dimensione inedita, nonché straordinariamente fruibile, alle sue intime e profonde professioni di fede.

Gli inni del nuovo Morrison stanno quasi tutti qui, anche se la lentezza della seconda facciata stempera l’intensità di queste preghiere nella lunghezza per la prima volta percettibilmente eccessiva di “And The Healing Has Begun”.

Nel 1980 Common One riprende il filo del discorso, estremizzandone le posizioni già radicalizzate nel lato B del disco precedente: criptico, simbolico, cattura l’ascoltatore e lo trascina nel caotico mondo interiore di Van, con canzoni spesso estenuanti per lunghezza (“Summertime In England”, “When Heart Is Open”), inframmezzate da episodi più regolari e all’insegna di una vivacità non più superficiale (basti pensare che l’r&b di turno, “Spirit”, è incentrato sull’immortalità dell’anima).

Alla struttura complessa e involuta di questo album corrisponde la notevole, forse anche esagerata, apertura melodica di Beautiful Vision (1982), che presenta il musicista addirittura alle prese con un brano di new age strumentale (“Scandinavia”); ma i momenti più sinceri sono “Celtic Ray”, “Aryan Mist” e la splendida “Dweller On The Threshold”, che lasciano intravedere uno spiraglio di luce più profonda di quanto le apparenze pastorali non spingano a credere. Dall’altra parte, si nota fra le righe anche la tentazione di cedere alle mode del momento (il singolo furbetto “Cleaning Windows”).

Il punto di non ritorno del pathos riflessivo di Morrison è però Inarticulate Speech Of The Heart (1983), diviso tra nenie gospel sommesse (“Higher Than The World”, “River Of Time”, “The Street Only Knew Your Name”) e strumentali d’impronta celtica e matrice oldfieldiana (“Connswater”); il delirio di “Rave On John Donne”, omaggio al poeta tanto amato, è in concreto l’estremo passo del cantautore verso un astrattismo sempre più scomodo e privato, ma per questo incredibilmente fascinoso. Non aiuta l’ascoltatore moderno (mentre forse consolava quello d’epoca) la pesante caratterizzazione timbrica “sintetica”, secondo la moda imperante nel decennio.

A riprova della connotazione personale e autoriflessiva di questo materiale è il fallimento di Live At The Grand Opera House, Belfast (1984), che tenta di trasformare in ardore messianico il ripiegato soliloquio di Morrison. A dieci anni dal primo disco dal vivo, non molto è cambiato nei difetti dell’artista sul palco: stavolta però qualche svolazzo in più è consentito dalla natura intrinsecamente capricciosa del materiale.

A Sense of Wonder, uscito a dicembre, è contagiato dai vizi di forma di tutta la produzione di Morrison in questo periodo, ma sfodera comunque qualche pagina interessante. Gli strumentali, ad esempio, sono molto più convincenti che nell’ultima opera in studio.

No Guru, No Method, No Teacher (1986) segna lo spartiacque tra il periodo della febbrile sperimentazione a quello dei risultati, e può essere considerato a ragione come uno dei capolavori della maturità dell’artista. Lo smantellamento della pomposa backing band del 1982 garantisce un alleggerimento del sound, finalmente depurato della sovrabbondanza dell’elemento sintetico e, perciò, più snello e fresco alle orecchie dei moderni. Sembra inoltre evidente che l’ambizione di Morrison, presumibilmente in buona fede, sia di regalare al suo pubblico un nuovo Astral Weeks: canzoni dalla struttura semplice, quasi abbozzata, testi particolarmente felici e ispirati, allusivi, ricchi di citazioni, un approccio strutturale più arioso e meno freddo o calcolato.
Veri e propri classici troneggiano nella tracklist, quali “In The Garden” (una delle sue ballate più profonde e toccanti), “Tir Na Nog” (fondamentalmente una riscrittura di “Sweet Thing”, eterea e visionaria), la romantica e appassionata “Here Comes The Knight”, la programmatica esternazione di “Got To Go Back”.

Inaspettatamente, Poetic Champions Compose rifugge in maniera quasi agorafobica l’apertura d’orizzonti del suo predecessore, per rifugiarsi in un fumoso clima da locale notturno: anche negli episodi più folk (“Sometimes I Feel Like A Motherless Child”, “The Mystery”) l’aria che si respira è ben più densa. Peraltro, buona parte del disco è costituita da strumentali d’impronta jazz (“Spanish Steps”).

Salutato come un classico della musica celtica contemporanea, Irish Heartbeat (con i Chieftains) è un disco nato già vecchio, in cui i pochi momenti di vero rapimento (“She Moved Through The Fair”, “My Lagan Love”) sono poco più di una confusa eco del toccante misticismo delle vette.

Con il 1989 si apre una nuova grave crisi nella produzione artistica di Morrison: Avalon Sunset è il suo disco più ruffiano dai tempi di Wavelength, e sfodera anche un discutibilissimo duetto con Cliff Richard (“Whenever God Shines His Light”), all’insegna di una spiritualità sempre più spiccia e beghina. Grazie a questo brano e a “Have I Told You Lately (That I Love You)”, Van riesce a ottenere un discreto successo commerciale, dopo un decennio poco produttivo su questo fronte. 

Enlightenment (1990), d’altra parte, con ancora meno pretese riesce a costruire una sequenza di canzoni piacevolissime (la title track, “Real Real Gone”, “So Quiet In Here”, “Youth of 1,000 Summers”), all’insegna di un cantautorato di facilissimo ascolto e di un r&b sempre meno vivace.

In più direzioni contemporaneamente si muove il colossale Hymns To The Silence (1991), l’ultimo disco ambizioso della carriera di Morrison, un doppio ricco del materiale più vario, tra ballate nostalgiche (“Why Must I Always Explain”, la rarefatta e dilatata title track, “Village Idiot”), preghiere folk (“Be Thou My Vision”), velenose dissertazioni dal retrogusto jazzato (“Professional Jealousy”). Tuttavia, l’eccessiva lunghezza e la struttura discontinua isolano i buoni spunti in un mare di episodi trascurabili, che mostrano la debolezza della vena del cantautore all’alba del nuovo decennio.

Non per nulla, il contrappunto a questo sforzo titanico è il debole Too Long In Exile (1993), l’album peggiore al momento peggiore: una serie di duetti con un agonizzante John Lee Hooker (tra cui una disgustosa rilettura di “Gloria”) non migliora affatto la situazione.

Mentre esce un sontuoso live (A Night In San Francisco, 1994) e una raccolta delle sue terribili canzoni-truffa per la Bang (Payin’ Dues, 1994; è la prima, ma ne seguiranno milioni), Morrison sembra concedersi il tempo di riprendere il filo della propria carriera: Days Like This (1995) non è un capolavoro, ma comunque un disco più che onesto, nobilitato da una splendida title track.

Il 1996 è l’anno delle collaborazioni e dei progetti nostalgici: prima un disco live senza pubblico, che rivisita alcuni classici jazz assieme a una big band d’occasione (“How Long Has This Been Going On”, accreditato a Van Morrison, Georgie Fame & Friends), poi la partecipazione ad un tributo a Mose Allison.

I fan possono aspettare il 1997 per avere qualcosa di nuovo e originale da mettere sotto i denti, ma non è una grande sorpresa: The Healing Game non cambia di una virgola il percorso di basso profilo seguito dall’artista negli ultimi anni, e, come se non bastasse, presenta un’inaudita pochezza nel songwriting.

Anche il 1998 non vede niente di nuovo: The Philosopher’s Stone, assemblato come un album vero e proprio, è una raccolta di scarti e avanzi degli anni 70 e 80, la maggior parte dei quali di pessima qualità. E’ il Morrison più convenzionale, per lo più incatenato alle dodici battute del blues tradizionale (“Really Don’t Know”, “Ordinary People”); qualche perla tuttavia si può riconoscere: le versioni originali di “Wonderful Remark” (1974, poi riproposta nel 1983 per una colonna sonora), “The Street Only Knows Your Name” (1977, poi confluita sei anni dopo in Inarticulate Speech Of The Heart) e una bella outtake di “Naked In The Jungle” (l’originale, non troppo brillante, è su A Period of Transition).

Il 1999 vede un fiducioso Morrison annunciarsi Back On Top, ma è soltanto una trovata pubblicitaria: il materiale è leggermente migliore che nell’immediato trascorso, però chi vede in questo disco una vera e propria rinascita si è lasciato fuorviare da una scorretta interpretazione promulgata dai media: nei momenti migliori (“Philosopher’s Stone”, piazzata qui forse per confondere l’ascoltatore occasionale; “High Summer”), la qualità è tutt’al più quella di Days Like This.

Altri due progetti nostalgici lo vedono impegnato nel 2000: un disco live di skiffle insieme a uno dei padri del genere (Lonnie Donegan) e un patetico album country, diviso con Linda Gail Lewis (sorella di Jerry Lee).

Down The Road (2002) è – fin dalla copertina raffigurante un vecchio negozio di vinili – un altro disco di tiepido revival, che però contiene almeno un paio di colpi da maestro in “Meet Me In The Indian Summer” (robusto r&b sorretto da una frizzante sezione fiati) e nella ballata “Steal My Heart Away”; il resto è solo grande mestiere, ma su canzoni di scarso impatto.

What’s Wrong In This Picture (2003) sorprende critica e pubblico, così come l’approdo di Morrison alla Blue Note; l’episodio si rivelerà effimero, ma ci regala comunque uno dei suoi dischi più riusciti e godibili degli ultimi anni: impeccabile set di pop “nero” e jazzato, raffinata collezione di brani a volte stellari (la title track, “Somerset”, “Once In A Blue Moon”), mostra però come ormai l’afflato spirituale di album come Astral Weeks e No Guru, No Method, No Teacher si sia dileguato per lasciare spazio all’introspettivo e fumoso crooner che Van ha sempre, in fondo, sognato di diventare.

L’illusione di “Celtic New Year” e “Stranded”, entrambe su Magic Time (2005), dura poco: uno zuccherino per non indispettire i fan di vecchia data. In realtà il disco è un evidente passo indietro, verso un calderone di stili che come al solito non porta da nessuna parte, concretizzandosi in canzoni (e interpretazioni) sonnecchianti; Van the Man forse sì è davvero "seduto" una volta per tutte.

Pay The Devil (2006) è un altro terribile disco di cover country e bluegrass.

Nel 2007 esce una raccolta dei brani di Van Morrison ospitati in colonne sonore cinematografiche, intitolata At The Movies: Soundtrack Hits (2007).

In bilico tra jazz, musica folk e pop, soul e rythm'n'blues, l'autoreferenziale Born To Sing: No Plan B (2012) ha debuttato al decimo posto delle classifiche di Billboard. Con gli anni, Van Morrison ha perso un po' quell'alone mistico che caratterizzò i suoi lavori fino a “It's Too Late To Stop Now”, “Veedon Fleece” e quel “Into The Music” messo come simbolica chiusa dei “suoi” anni Settanta. Tuttavia il corpus artistico di questa ennesima prova è l'espressione di un talento senza limiti, in grado di giocare ancora sul piano dell'eccellenza.
Avvolgente e toccante, come al solito del resto, la voce di Van Morrison è rimasta elastica come un tempo, acquisendo però un'inedita pastosità e una crudezza da crooner navigato. Qui troviamo dieci nuove tracce per riversarvi tutto il Morrison pre-Apocalisse: il solito amore per l'amore di “Open The Door (To Your Heart)” e storie di vita (non troppo) consone per un quasi settantenne in “Going Down To Monte Carlo” e “Pagan Heart”. Momenti da nonnino in vena di buoni consigli (“If In Money We Trust”) e mal nascoste dichiarazioni di intenti in “Born To Sing” e “Close Enough For Jazz” (in realtà scritta su musica già contenuta su "Too Long In Exile" del 1993). Ma è proprio questa voglia di mettersi a nudo e tutto il pregio e al tempo stesso il pelo nell'uovo di un disco che, almeno a tratti, sembra essere la colonna sonora di un bio-movie che ancora non gli è stato dedicato. La storia di una vita in musica che, se da un lato ci regala canzoni sincere e di pregevole fattura come “End Of The Rainbow”, o come la morbida e notturna “Retreat And View”, dall'altro risulta un po' kitsch come certi filmati di Johnny Cash o Tom Jones all'inizio degli anni Ottanta: aggrappati alla loro immagine ormai un po' "ridicolizzata" da infiniti cliché e ancora maggiori aspettative. Tutto per non perdere una propria identità artistica.

Dopo una breve pausa torna nel 2015 con l'autocelebrativo Duets: Re-Working The Catalogue, cadendo anche lui nella famigerata strategia di marketing dei duetti. Sedici muciscisti tra cui Steve Winwood, Mark Knopfler e Michael Bublé duettano e celebrano Van Morrison, ma l'Lp è più adatto a un regalo di Natale che ad altro.

Seguono altri album tra il 2016 e il 2018, tutto molto simili tra loro, con l'unica differenza di equlilibrare in modo differente gli elementi jazz, blues e folk. Keep Me Singing contiene solo brani originali ed è più legato alla tradizione folk irlandese. Non solo contiene la bella title track ma in vari momenti si ha la sensazione di un musicista che ha ancora passione e capacità comunicativa come nel blues di "The Pen Is Mightier Than the Sword", nel ritmo da night fumoso di "In Tiburion" o nella romantica ballata di "Memory Lane".

Tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018 pubblica, in appena sei mesi, addittura tre album. Roll With The Punches è una manna dal cielo per gli amanti del blues più tradizionale con dieci cover e cinque brani originali. Van Morrison si trova a suo agio in territori che conosce alla perfezione e il piacere di suonare e omaggiare i suoi maestri è evidente. Spiccano particolarmente le due cover del bluesman T-Bone Walker ("Stormy Monday / Lonely Avenue" e "Mean Old World") e la title track ipernostalgica scritta da Morrison e Don Black. 

Appena due mesi dopo è la volta di Versatile che sposta l'attenzione di Morrison verso il jazz delle origini e i musical in stile Broadway (la cover "Foggy Day" di George Gershwin) con altre dieci cover; se queste vengono aggiunte alle precedenti e alle successive, sembrano diventare una sorta di collezione personale dei classici della musica popolare americana.

L'omaggio alla tradizione popolare americana continua nel 2018 con You're Driving Me Crazy, con la collaborazione del jazzista Joey DeFrancesco. Un’operazione palesemente vintage che sarebbe stata tale persino sessanta anni fa. Un Van Morrison che si autocita con alcune cover jazzate di suoi stessi brani, ad esempio “The Way Young Lovers Do”, tratta dal capolavoro "Astral Weeks" - che in questa versione perde gran parte della frenesia boogie/jazz degli esordi - o in “Have I Told You Lately”, tratto dall’album del 1989 “Avalon Sunset”, non proprio della fase migliore della sua carriera. La title track - scritta da Walter Donaldson nel 1930 - è la leggendaria “You’re Driving Me Crazy”, brano riproposto negli anni da una sfilza infinita di musicisti (si va da Frank Sinatra a Billie Holiday, da Bill Evans a Ella Fitzgerald). In totale sette cover di vecchi brani di Morrison e otto di altri musicisti, ma purtroppo spesso la sensazione è che andare a riscoprire le versioni originali sia più stimolante.

 

Se dai tempi di Keep Me Singing la produzione dell’irlandese è rimasta appannaggio di un seguito di fan fedeli e inossidabili, il nuovo album che esce nel 2023, Moving On Skiffle, ha tutte le carte in regole per ridestare fama e interesse anche dei meno devoti ascoltatori, grazie a un'operazione realizzata sotto il termine tipicamente inglese skiffle, un genere che racchiude influenze country, blues e soul e poco propizio alla genia americana degli stessi, spesso realizzato con strumenti ricavati da oggetti di uso casalingo: pentole, pettini, tubi in metallo, brocche.
Moving On Skiffle non è dunque l’ennesimo album di Van The Man, ma un brioso omaggio agli anni 50 e alla musica che anticipò l’avvento del rock’n’roll. Un mix di folk, blues, gospel, ragtime, boogie e country. L'album non è un semplice escamotage nostalgico per rinverdire i fasti del passato. Van Morrison mette la propria voce e un set di straordinari musicisti al servizio di una musicalità vibrante, emotivamente generosa ed espansiva, recuperando ventitré brani che hanno segnato la propria gioventù. Elegante ma non accademico, l’album è una delle pagine più divertenti e contagiose dell’immenso catalogo dell’irlandese.
Novanta minuti in compagnia del burbero Van non sono sempre un buon biglietto da visita, ma quel che vi attende è un musicista in piena euforia e gioia di vivere. Ci sono sudore e polvere in queste 23 tracce (quasi tutte cover), la registrazione live in studio e la libertà concessa ai musicisti donano una leggerezza che è costantemente percepibile. Il brioso boogie di “Streamline Train” ha anticipato l’uscita, mettendo subito in chiaro la strepitosa messa in opera di Van & C. che si divertono a rielaborare anche i testi di alcune tracce, con il sempre deciso e indomabile tono politico e graffiante (“Gov Don’t Allow” in origine “Mama Don’t Allow”), cantando di schiavitù e povertà con ardore. 
E’ comunque nella reinvenzione strumentale che l’album funziona in maniera egregia (“Come On In”, “No Other Day”, “I’m Moving On“), con punte d’eccellenza che rasentano la perfezione (“Worried Man Blues”, “Freight Train”, “Green Rocky Road”) e un classico come “I’m So Lonesome I Could Cry” che Van Morrison padroneggia con classe, personalità e il giusto pathos.
Difficile individuare un pur lieve calo di tensione e qualità, in Moving On Skiffle, c’è giusto spazio per citare ulteriori perle come “Oh Lonesome Me”, “Streamlinde Cannonball” e “Cold Cold Heart” prima di rituffarsi nella magia di un album tanto geniale e vibrante quanto inatteso. Ben ritrovato, Van.

 

Contributi di Giorgio Moltisanti ("Born To Sing: No Plan B"), Valerio D'Onofrio ("Duets: Re-Working The Catalogue", "Keep Me Singing", "Roll With The Punches", "Versatile" e "You're Driving Me Crazy") e Gianfranco Marmoro ("Moving On Skiffle")

Van Morrison

Discografia

Blowin' Your Mind (Bang Records, 1967)

5

Astral Weeks (Warner, 1968)

9

The Best Of Van Morrison (1969)
Moondance (Warner, 1970)

7,5

His Band And The Street Choir (Warner, 1970)

4

Tupelo Honey (Mercury, 1971)

6

Saint Dominic's Preview (Warner, 1972)

6,5

T.B. Sheets (1973)
Hard Nose The Highway (Warner, 1973)

6

It's Too Late To Stop Now (live, Warner, 1974)

6,5

Veedon Fleece (Warner, 1974)

8,5

A Period Of Transition (Warner, 1977)

5

Wavenleght (Warner, 1978)

4

Into The Music (Warner, 1979)

7

Common One (Warner, 1980)

6

Beautiful Vision (Warner, 1982)

6

Inarticulate Speech Of The Heart (Warner, 1983)

4,5

Live At The Grand Opera House, Belfast (live, Warner, 1984)

6

A Sense Of Wonder (Mercury, 1984)

5

No Guru, No Method, No Teacher (Mercury, 1986)

8

Poetic Champions Compose (Mercury, 1987)

5,5

Irish Heartbeat (con i Chieftains, Mercury, 1988)

6

Avalon Sunset (Mercury, 1989)

4

The Best of Van Morrison (antologia, Mercury, 1990)

8

Enlightenment (Mercury, 1990)

6

Hymns To The Silence (Mercury, 1991)

6,5

The Best of Van Morrison Vol. 2 (antologia, Mercury, 1993)

5

The Bang Masters (antologia, 1991)
Too Long In Exile (Mercury, 1993)

3

A Night In San Francisco (live, Mercury, 1994)

6

Payin' Dues: The Complete Bang Record Sessions '67 (antologia, Charly, 1994)

3

No Prima Donna: The Songs Of Van Morrison (1994)
Days Like This (Mercury, 1995)

6

How Long Has This Been Going On (Van Morrison, Georgie Fame, Mose Allison, Ben Sidran, tribute, Mercury, 1996)

4

Tell Me Something: The Songs Of Mose Allison (Van Morrison, Georgie Fame, Mose Allison, Ben Sidran, tribute, Mercury, 1996)

4

The Healing Game (Mercury, 1997)

4

The Phylosopher's Stone (inediti e outtake, Mercury, 1998)

5

Back On Top (Pointblack, 1999)

5

The Skiffle Sessions: Live In Belfast (Van Morrison, Lonnie Donegan, Chris Barber, live, Exile, 2000)

6

You Win Again (Van Morrison & Linda Gail Lewis, Exile, 2000)

4

Down The Road (Universal, 2002)

5

What's Wrong In This Picture? (Blue Note, 2003)

6

Magic Time (Exile, 2005)

5

Pay The Devil (Exile, 2006)

3

Live At Austin City Limits Festival (live, Exile, 2007)

5

At The Movies: Soundtrack Hits (antologia, Manhattan Records, 2007)

7

The Best Of Van Morrison Vol. 3 (antologia, Emi, 2007)

5

Born To Sing: No Plan B (Blu Note, 2012)

6

Duets: Re-working The Catalogue (RCA, 2015)

3

Keep Me Singing (Caroline Records, 2016)6
Roll With The Punches(Caroline Records, 2017)6
Versatile(Caroline Records, 2017)5
You're Driving Me Crazy (con Joey DeFrancesco) (Sony Legacy, 2018)5,5
Moving On Skiffle (Exile, Virgin, 2023)7,5
Pietra miliare
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