Il senso di questa recensione un po' ci scivola tra le dita. Come quando ci si appresta a scrivere qualcosa sui nuovi lavori di Dylan, Reed o Young, l'idea di soprassedere è sempre in agguato. Cosa mai potrebbe scrivere uno scribacchino trentacinquenne sul trentaquattresimo disco di chi nel 1978, mentre lui nasceva, aveva già sfornato dodici dischi e due raccolte di cui almeno uno, “Astral Weeks”, è stato poi ristampato trentasei volte e viene considerato uno dei capolavori incontrastati dell'era musicale moderna. Nulla? Ecco, appunto. A volte servirebbe un quieto distacco, rispetto a certe uscite discografiche. Un serafico rispetto verso chi, raggiunta la veneranda età di sessantotto anni, invece di giocare a bocce, armato di voce, chitarra, pianoforte e sassofono se ne torna nella natia Belfast e sfodera un disco in presa diretta con una band di sei musicisti di tutto rispetto. Un disco che, comunque la vogliate mettere, da solo (per mestiere, esperienza, talento, genio o ciò che vi pare più consono come alternativa) è in grado di gareggiare con una ventina di gruppi e gruppetti che giocano a "sembrare"qualcuno, mentre l'originale è ancora in vita. Se noi in Italia possiamo annoverare, in tal senso, Francesco Guccini e Franco Battiato, in Irlanda (ma anche nel resto del Mondo) hanno Van Morrison. Poche storie.
In bilico tra jazz, musica folk e pop, soul e rythm'n'blues, l'autoreferenziale “Born To Sing: No Plan B” ha debuttato al decimo posto delle classifiche di Billboard. Tra 200 altri nomi, non sappiamo se rendiamo l'idea. Ovviamente, con gli anni, Van Morrison ha perso un po' quell'alone mistico che caratterizzò i suoi lavori fino a “It's Too Late To Stop Now”, “Veedon Fleece” e quel “Into The Music” messo come simbolica chiusa dei “suoi” anni Settanta. Tuttavia il corpus artistico di questa ennesima prova è l'espressione di un talento senza limiti, in grado di giocare ancora sul piano dell'eccellenza laddove per molti il tracollo sarebbe inesorabile.
Incapace di accettare la benché minima pressione dell'industria discografica, come invece hanno fatto moltissimi dei suoi coetanei, Morrison continua a essere se stesso e in balia delle proprie ispirazioni. E se questo, da un lato, ne limita inevitabilmente il registro sonoro a una complessiva sufficienza o poco più, da un punto di vista, quello artistico, “Born To Sing” potrebbe essere considerato l'ennesima summa del suo atavico oscillare tra l'ottimismo di “Moondance” e il cupo pessimismo di “Astral Weeks”.
Avvolgente e toccante, come al solito del resto, la voce di Van Morrison è rimasta elastica come un tempo, acquisendo però un'inedita pastosità e una crudezza da crooner navigato, dettata (ipotizziamo) dagli anni e da qualche vizio di troppo. Qui troviamo dieci nuove tracce per riversarvi tutto il Morrison pre-Apocalisse: il solito amore per l'amore di “Open The Door (To Your Heart)” e storie di vita (non troppo) consone per un quasi settantenne in “Going Down To Monte Carlo” e “Pagan Heart”. Momenti da nonnino in vena di buoni consigli (“If In Money We Trust”) e mal nascoste dichiarazioni di intenti in “Born To Sing” e “Close Enough For Jazz” (in realtà scritta su musica già contenuta su "Too Long In Exile" del 1993). Ma è proprio questa voglia di mettersi a nudo e tutto il pregio e al tempo stesso il pelo nell'uovo di un disco che, almeno a tratti, sembra essere la colonna sonora di un bio-movie che ancora non gli è stato dedicato. La storia di una vita in musica che, se da un lato ci regala canzoni sincere e di pregevole fattura come “End Of The Rainbow”, o come la morbida e notturna “Retreat And View”, dall'altro risulta un po' kitsch come certi filmati di Johnny Cash o Tom Jones all'inizio degli anni Ottanta: aggrappati alla loro immagine ormai un po' "ridicolizzata" da infiniti cliché e ancora maggiori aspettative. Tutto per non perdere una propria identità artistica.
C'è un sotteso senso d'urgenza in questo disco, come a voler fissare dei paletti e a cercare ulteriori conferme dal proprio pubblico. Prima che sia troppo tardi, possibilmente.
01/12/2012