“Quando camminava per strada/ era come una bambina che si guarda i piedi/ ma quando passava davanti al bar/ e sentiva la musica/doveva entrare e cantare/ doveva essere così/ …/ E dopo che l’applauso si era spento/ dopo che la gente era andata via/ scendeva dal palco/ e prendeva la porta/ e se ne tornava all’albergo/ che chiamava casa/ muri dipinti di verde/ un cesso nel corridoio”.
Mi sembrava un buon inizio. Cominciare da come l’ho incontrata io per la prima volta, Lady Day, in un indimenticabile giorno dei miei quindici anni, fra i solchi di un disco dal vivo in cui Lou Reed si proclamava un “rock’n’roll animal”. Me l’avevano prestato, solo qualche giorno prima mi ero imbattuto nei Clash e avrebbe mai potuto essere la mia vita la stessa da lì in poi? Naturalmente, non avevo la minima idea di chi fosse quella tizia di cui cantava uno di cui conoscevo all’incirca lo stesso, cioè niente. A parte che il cambio d’accordo che introduce Sweet Jane, dopo la pompa magna di una Intro che c’entra deliziosamente poco con qualunque altra cosa abbia registrato costui, prima e dopo, aveva su di me l’effetto di un orgasmo. Era meglio di un orgasmo. Mi ci sarebbe voluto un po’ per scoprire che Lou Reed era uno importante (per me era in ogni caso già Dio); che era stato il leader di tali Velvet Underground; che la scaletta di “Rock’n’Roll Animal” era fatta quasi per intero di brani dei Velvet e quel quasi era Lady Day. E ancora un altro po’ per scoprire chi diavolo fosse la suddetta Signora: non un personaggio della ristretta e dolente corte dei miracoli di “Berlin” come per qualche tempo credetti.
Di persona Billie Holiday l’ho conosciuta anni dopo e sulla pagina stampata prima che su vinile, leggendo la traduzione italiana per Feltrinelli di Lady Sings The Blues, scordata da un benedetto qualcuno su una branda del posto di guardia di un vecchio arsenale poco sopra Savona. Mi folgorò e a momenti mi costò una punizione per avermi fatto arrivare in ritardo a un cambio. E che delusione fu ascoltare, da lì a un annetto e di nuovo in abiti civili, il mio primo disco della Holiday e non trovarci dentro che un’infinitesimale frazione di quelle emozioni. Certo: non era, quel raffazzonato doppio ESP, la migliore introduzione possibile alla Holiday e una delle peggiori anzi, ma non fu per deficienze di quell’album ma mie che non ne ricavai nulla. È un fatto che di jazz sapevo poco. È un fatto che la Signora inventò un modo di cantare il jazz, e non solo, che è stato così diffusamente imitato che sfugge inevitabilmente, a chi la ascolta a distanza di decenni, che razza di rivoluzione che fu. Ed è un altro e decisivo fatto che ero troppo giovane per coglierne la più intima essenza. Perché puoi ascoltare Billie Holiday e percepirne la grandezza, e anche amarla, a qualunque età ma per capirla è necessario in ogni caso che prima la vita ti abbia consumato un po’. Devi avere avuto i tuoi blues. Allora e soltanto allora comprenderai i suoi.
Sì, un buon inizio. Oppure avrei potuto citare un’altra rockstar, non Lou Reed ma Kurt Cobain. Il suo rassegnato e rabbioso “here we are now, entertain us” mi è risuonato nella memoria leggendo quanto scrisse nel 1939 Samuel Grafton, sulle pagine del “New York Post”, in un’acuta e preveggente recensione di Strange Fruit: “È come se un gioco di finzione fosse terminato e una cantante di blues, che finora aveva tenuto nascosto il vero dolore sotto una serie di canzonette d’amore, avesse sollevato il sipario e ci avesse rivelato cosa realmente l’ha fatta piangere… È un’opera d’arte incredibilmente perfetta che rovescia la relazione consueta tra una persona di spettacolo nera e il suo pubblico bianco. ‘Vi ho intrattenuto,’ sembra dire, ‘ora ascoltatemi’. Le convenzioni di cortesia tra razza e razza sono sparite. È come se ascoltassimo i discorsi che si fanno nelle capanne, dopo che i predatori notturni si sono allontanati… Se mai la rabbia degli sfruttati dovesse raggiungere livelli sufficientemente alti negli stati del Sud, adesso ha trovato una sua Marsigliese”.
Vi ho intrattenuto. Ora ascoltatemi.
“Gli alberi del Sud producono uno strano frutto,/ sangue sulle foglie e sangue alle radici,/ un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud,/ uno strano frutto che pende dai pioppi./ Una scena pastorale nel valoroso Sud,/ gli occhi sporgenti e la bocca storta,/ profumo di magnolia dolce e fresco,/ e d’improvviso l’odore della carne che brucia./ Qui c’è un frutto che i corvi possono beccare,/ che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca,/ che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere,/ qui c’è uno strano e amaro raccolto.”
Nella vicenda artistica della Holiday Strange Fruit rappresenta uno spartiacque netto. Ci sono un “prima” e un “dopo”, entrambi grandi ma di un differente tipo di grandezza. È il culmine di una parabola. Geometria insegna che dopo non si potrà che scendere, ma in uno strano e drammatico modo a Billie riuscirà di scendere ascendendo, verso empirei di una bellezza insieme malata e pura, e assoluta. Sarà, come recita il titolo di un celebre saggio di Martin Williams, “un trionfante declino”. Strange Fruit è la fine dell’innocenza, anche se pare bizzarro, perverso parlare di innocenza essendo l’argomento una vita che cominciò così.
“La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciotto anni, lei sedici, io tre. La mamma lavorava come cameriera, da una famiglia di bianchi, e quando i padroni si accorsero che era incinta la buttarono fuori su due piedi… I ragazzi erano tutti e due poveri, e da poveri si cresce alla svelta. È un miracolo che mia madre non sia finita alla pubblica assistenza e io all’orfanotrofio. Ma Sadie Fagan mi volle bene fin da quando non ero per lei che un mucchio di calci nelle costole mentre strofinava pavimenti. Andò all’ospedale e si mise d’accordo con la direttrice. Le disse che per pagare l’assistenza per sé e per me era disposta a pulire per terra, per un certo periodo, e che avrebbe fatto la serva anche alle altre bagasce che andavano lì a partorire. Quel mercoledì 7 aprile 1915, quando io nacqui a Baltimora, la mamma aveva tredici anni.”
È l’attacco di La signora canta il blues e conoscete un’altra autobiografia di argomento musicale che ne vanti uno al pari memorabile? Che diamine! Conoscete una qualunque altra autobiografia la cui prima pagina mozzi a tal punto il fiato? A parte Peggio di un bastardo di Charles Mingus, che allo stesso modo prende per la collottola e non ti lascia più. Che allo stesso modo con gli eventi si prende parecchie libertà ma non importa: perché le fandonie che conta sono rivelatorie più delle conclamate verità. Si potrebbe dire, per come mettono a nudo un’anima: più vere. Molto è stato scritto riguardo a un libro di cui Lady Day disse persino che manco l’aveva letto, mentendo una volta di più. Al vero autore, William Dufty (il “con la collaborazione di” che appare in copertina pudico understatement), la tanto per cambiare astiosa critica jazz non ha mai perdonato il suo non essere né uno storico né men che meno un musicologo, bensì solo un giornalista da tabloid, l’unica stampa del resto mai letta da una donna il cui rapporto con la letteratura non andò oltre i fumetti e i romanzi rosa. Ma in realtà Dufty fece un lavoro più che buono, superbo addirittura per come rende una parlata popolaresca e di un grezzo ma irresistibile umorismo, pure quando i fatti narrati sono un distillato di tragedie in divenire che alla risata non ispirerebbero davvero. Che era esattamente la parlata della Holiday e lo testimoniano tanto chi la conobbe quanto i dialoghi in sala di registrazione immortalati in diverse incisioni discografiche. Va poi quasi da sé che, siccome conosceva il suo lavoro, e ben sapeva che i resoconti di trionfi artistici fanno vendere meno libri che le esplorazioni di bassifondi esistenziali, fu sulle seconde che si concentrò. Si documentò in ogni caso bene per quanto gli fu possibile, facendo tesoro di una folta rassegna di articoli e interviste e naturalmente di molte e approfondite conversazioni con la Signora. Sciocco imputargli imprecisioni a volte grossolane (clamorosa quella sul luogo di nascita di Billie Holiday, Philadelphia, non Baltimora; e i genitori della bambina non si sposarono fra loro: la madre convolava a nozze con tal Phil Gough nel 1920), sciocco rinfacciargli i tanti altri “aggiustamenti” per certo opera della stessa protagonista della storia. Per approcciarsi alla Holiday la sua cosiddetta autobiografia resta uno strumento fondamentale quanto delle ben scelte raccolte (un avviso: Billie intossica e spesso si passa poi alle integrali) di ciascuno dei suoi quattro principali periodi artistici. Columbia, quindi Commodore, Decca e Verve, salvo un ritorno chez Columbia verso la fine.
Che poi la sua più grande e veritiera menzogna Lady Sings The Blues (che la… autrice avrebbe voluto chiamare A Bitter Crop, ma la Doubleday non glielo permise) la spara con il titolo. Perché, tecnicamente parlando, la Signora assai di rado cantò il blues (centinaia le facciate pubblicate e i blues si contano sulle dita delle mani). Nondimeno rese quintessenzialmente blues qualunque cosa cantò in una vita che fu di per sé un blues, lungo quarantaquattro anni. È un particolare che la fa rara, se non unica, fra le interpreti jazz affacciatesi alla ribalta nella prima metà del Novecento.
Un’altra caratteristica che la distingue non solo da quelle ma da quasi tutte le successive voci dell’età aurea del soul è di un’evidenza così lampante che può sfuggire e difatti a me è sfuggita, fintanto che non ho recentemente ripreso in mano il Dufty e quindi pure la bella postfazione di Luciano Federighi: “Non c’era gospel nelle sue radici”. Quanto è vero e importante! Sono rimasto per un attimo a bocca aperta e quando, in uno degli innumerevoli articoli letti o riletti per prepararmi a scrivere questo, mi sono imbattuto in qualcuno (frugo freneticamente fra gli appunti senza rintracciare né il nome né la frase esatta: scusate) che affermava determinante per la cifra artistica, oltre che umana, di Billie Holiday il suo non essere cristiana mi sono scoperto a scuotere vigorosamente il capoccione in senso affermativo.
Qualche fatto, or dunque. Nata Eleanora Fagan con nelle vene il sangue irlandese che le giunge da un bisnonno proprietario terriero in Virginia che con la bisnonna schiava ha fatto sedici pargoli, Billie cresce “come una piccola selvaggia” (Polillo), affidata a questa o quella famiglia di amici o parenti da una madre adolescente che, per quanto lavori, non è in grado di mantenerla con decoro. Quanto al padre Clarence Holiday, chitarrista di valore che sarà a lungo in un’orchestra rinomata quale quella di Fletcher Henderson e donnaiolo impenitente (al funerale le litigiosissime Sadie e Fanny Holiday scopriranno allibite l’esistenza, fra le altre, di un’amante bianca con tanto di fanciulli al seguito), le visite sono rare. Più che lenire il senso di abbandono che segna per sempre una bambina che, crescendo, non riuscirà mai a sentirsi amata, lo rimarcano crudelmente. Quando ha dieci anni mamma e il patrigno si lasciano e lei si fa sempre più ribelle. A scuola non la vedono più e a ciò un tribunale minorile – per la prima volta la lunga mano della legge la schiaffeggia – trova un rimedio peggiore del male, rinchiudendola in un riformatorio per un anno. Uscitane, ci tornerà alcuni mesi dopo come conseguenza di un evento ancora più drammatico e di un’ingiustizia ancora più palese: un vicino di casa la violenta e in gattabuia, incredibilmente, finiscono entrambi. Quando la rilasciano fa ciao ciao a Baltimora. Sadie l’ha infine chiamata a vivere con sé, a New York.
È questo uno dei punti più controversi della storia di Lady Day. Nel Dufty afferma che la madre le procurò una camera ammobiliata presso una signora tanto distinta, con l’accordo che la ragazzina le avrebbe fatto da domestica e senza rendersi conto, l’ingenua, che la madama in questione era la tenutaria di un bordello. Più plausibilmente altri biografi sostengono che Sadie in quel bordello ci lavorava e non precisamente occupandosi di lavare, stirare, cucinare. Entro brevissimo sarebbe stato idem per la figlia, che d’altro canto ambientini del genere già li aveva frequentati, sebbene forse solo di passaggio, presso quella Alice Dean ammantata di leggenda responsabile del suo amore per il jazz. Era difatti nei suoi appartamenti che Eleanora-non-ancora-Billie cominciava a consumare i padelloni di quelli che sarebbero rimasti i suoi modelli, Louis Armstrong e Bessie Smith. Epilogo: un nuovo arresto (non cercate di tenere il conto; non li citerò tutti e io a un certo punto l’ho comunque perso) ed è all’uscita da Blackwell’s Island, nell’ottobre del 1929, che il jazz da passione che era diventa un lavoro, il primo più o meno rispettabile per la precoce e procace quattordicenne. Un’audizione da ballerina da Pod’s & Jerry’s, uno di quei club di cui brulica la Centotrentatreesima (“la vera strada dello swing, così come più tardi tentarono di fare per la Cinquantaduesima”), è un disastro di tali proporzioni che il pianista, impietosito, le chiede: “Sai mica cantare, bimba?”. Sicuro che sa cantare. È ognimmodo tutto tranne che una repentina ascesa allo stardom e a lungo le toccherà fare pure la cameriera, esibendosi per le mance.
Non mi perdo in dettagli che mi farebbero oltretutto rischiare – troppe le campane da sentire e il loro suono spesso si confonde – di perpetuare inesattezze. Il fantastico box decuplo “The Complete Billie Holiday On Verve” nel suo si fa per dire libretto di duecentoventi pagine in rilegatura rigida sistema qualcosa come quarantasei titoli in bibliografia ed era il 1992. Se desiderate approfondire questa storia non avrete che l’imbarazzo della scelta. Qui procedo subito ad annotare che la ragazza, che ha assunto come nome d’arte Billie Holiday mettendo insieme il cognome del padre e il nome di un’attrice che adora, Billie Dove, viene scoperta – al Covan, sulla Centotrentaduesima, dove ha rimpiazzato Monette Moore passata a Broadway – da un John Hammond assai giovane pure lui ma con le orecchie già fini, ventisette anni prima di scoprire una tal Aretha Franklin, ventotto prima di un certo Bob Dylan, trentanove prima di un tizio di nome Bruce Springsteen. Stentati sono tuttavia anche i primi passi nel mondo dell’industria discografica, dacché sono gli anni della Grande Depressione e tanta gente non ha un tetto e di che mangiare, altro che soldi da scialare in un bene di lusso (fate un raffronto con i prezzi attuali dei CD: avrete una sorpresa) come i 78 giri.
Nel novembre 1933 (non ci è pervenuta una precedente registrazione con il pianista Dot Hill, sostituto all’ultimo momento di quel Bobby Henderson che si accompagna a Billie oltre che accompagnarla ed è stato arrestato per futilissimi motivi) la diciottenne incide, con la banda di Benny Goodman, un paio di brani che passano inosservati. È di fatto una falsa partenza, da ricordare più che altro perché – coincidenze cariche di presagi – tre giorni prima Bessie Smith aveva registrato in quella stessa sala quelle che risulteranno le sue ultime canzoni e addirittura in quel medesimo giorno i ragazzi di Goodman divisero il loro tempo fra Billie ed Ethel Waters. Altra influenza alquanto evidente a dispetto dell’autentica faida che la stella già affermata e quella che sta sorgendo insceneranno, antipatia fierissima a prima vista, maldicendo per decenni l’una dell’altra.
Per la Holiday l’anno chiave è il 1935 ed è pure, dopo un’infinita trafila per night e teatri, una favorevole concomitanza di fattori politico-economici a renderlo tale. Se da un lato la prima presidenza Roosevelt sta piano piano cominciando a rimettere in piedi il paese dopo un quinquennio di una crisi come mai se n’erano conosciute, dall’altro la fine del Proibizionismo ha moltiplicato i locali in cui trovare ingaggi, venendo incontro alla rinnovata voglia di divertimento della gente. Se possibile ancora più cruciale risulta il boom dei jukebox, che le case discografiche hanno l’impellenza di alimentare. Non è certo pensando all’Arte con la “a” maiuscola che in Columbia permettono a Hammond di riportare la Holiday in studio. Servono dischi che cavalchino il gusto del giorno e la cui realizzazione costi poco, assemblati come alla catena di montaggio da bravi professionisti. È un bravissimo professionista (le enciclopedie concordi nell’incoronarlo re dei pianisti swing) Teddy Wilson e bravissimi sono quelli che gli fanno corona. Billie Holiday diventa la voce dell’orchestrina. Fino a fine ’36 all’incirca le numerose facciate sfornate vedono la luce con il nome del popolare capobanda impresso sull’etichetta, quindi alternando il suo con quello della cantante, che ha ottenuto un contratto a parte. Ancora qualche mese e prendono a fare capolino in sala musicisti del giro di Count Basie e, soprattutto, Lester Young, sassofonista maledetto e favoloso e amicissimo di lunga data della Holiday. Tanto vicini pur senza essere amanti, i due, che è stato lui a soprannominarla Lady Day e lei a battezzarlo President, presto abbreviato in Pres e l’uno e l’altro nomignolo resteranno. Radunate nei primi sei volumi della serie di nove “The Quintessential Billie Holiday”, le registrazioni dal 1935 al 1938 regalano il fascinoso e sovente esilarante ritratto di un talento in tumultuoso sboccio. Giusto nei risvolti e con il senno di poi vi rinverrete indizi delle tragedie passate e presagi di quelle future. A occupare il centro della scena – parole di Bruce Talbot dal libretto di “Lady Day Swings!”, una delle tante raccolte “a tema” assemblate dalla Columbia negli ultimi anni – è “una giovane donna che celebrava la vita e l’amore e creava swinganti capolavori dagli scarti di Tin Pan Alley o qualche volta, quando era fortunata, dalle migliori canzoni di Irving Berlin, Cole Porter, Jerome Kern, i Gershwin”. Che indiavolata meraviglia è la sveltissima, e prodigiosamente riscattata da un’intrinseca e somma banalità, What A Litte Moonlight Can Do!
Come prende bene il cuore e laggiù, più in basso, Easy To Love! Se Getting Some Fun Out Of Life è malandrina almeno quanto è dolce, A Fine Romance coniuga eleganza e sentimento con una classe e una maturità che si direbbero impossibili per una ventunenne (la registrazione è del settembre 1936) che da lì a qualche mese (gennaio 1937) mostrerà appieno tutto il suo essere ragazzina in una He Ain’t Got Rhythm che ti fa urlare di infantile piacere e arrampicare ballando su per i muri. Sublimemente danzabile, giuliva e solare come – per non fare che pochi altri titoli e in ordine sparso – Miss Brown To You, This Year’s Kisses, Back In Your Own Backyard, Me Myself And I. Se Billie’s Blues è già in repertorio, se la luttuosa Gloomy Sunday e l’autografa e struggente God Bless The Child sono appena dietro l’angolo, il futuro sembra però avere ancora promesse. Benché man mano che sale gli scalini della fama si stia facendo lunga la teoria (e pure questa vi risparmio) degli uomini che la sfruttano e la buttano via e allora vai con l’alcool e le sigarette, normali e corrette. Vai con l’oppio: fumarlo nel 1938 è un’epitome di coolness, pensate un po’. L’eroina lo sostituirà presto.
“Per Billie Strange Fruit fu, artisticamente parlando, la cosa peggiore che le sia mai capitata. Fu il principio della fine. Era diventata la cocca degli intellettuali di sinistra e fu allora che iniziò a prendersi sul serio, a sentirsi importante… Quando gli artisti pop cominciano a pensare che stanno dando un contributo all’arte, succede loro qualcosa. Lei divenne affettata ed è la cosa che negli artisti pop detesto di più. A Bessie Smith non è mai capitato. Non ha mai avuto quel genere di successo con i bianchi, tanto per cominciare… Ed è stata la sua fortuna.”
Ipse dixit John Hammond. Posso capire il suo punto di vista e financo condividere la tesi di fondo che lo sorregge ma, rispettosamente, mi permetto di dissentire: Strange Fruit fu, artisticamente parlando, la cosa migliore mai capitata alla Holiday. Né si dica, a replicare concordando, che fu la peggiore per l’essere umano, la cui discesa agli inferi principiava allora e fu, cito ancora Federighi, “un autunno arduo e lacerante”. Chi può ragionevolmente affermare che, non avesse svoltato con Strange Fruit, la sua vita non sarebbe andata in pezzi? Al più sarebbe risultata differente quella mistica holidayana che, correttamente ma incompletamente, la Penguin Guide To Jazz di Richard Cook e Brian Morton individua “nell’ambiguità, difficilissima da distillare, fra quanto le parole dicono e quello che l’interprete sta forse pensando”. Che può valere per larga parte del resto del catalogo, magari per tutto quello pre-1939, ma non per una canzone che più esplicita non potrebbe essere. Un brano melodicamente inconsistente, e dall’interpretazione resa tanto più coinvolgente dall’esibito, cronachistico distacco, che all’insopportabile pregnanza delle parole si affida per intero.
“Rammento bene la prima volta che Red Callender mi fece ascoltare un disco di Billie. Era Strange Fruit. ‘Che roba è, amico?’, gli chiesi. Forse ce l’avevano con lei anche per questo… Denunciava la discriminazione, la esibiva sul palco… Fu allora che iniziai a cambiare idea sulle canzoni che raccontano una storia. Musica che è qui per ricordare al mondo dei bianchi le ingiustizie razziali di cui sono responsabili.” (Charles Mingus)
Diversi i primati di Strange Fruit. Fu il brano afromericano con il quale, giusta annotazione di Ahmet Ertegun, si attuò la transizione “dal linguaggio in codice al discorso lampante”: “la prima invocazione gridata contro il razzismo”, nelle parole di Leonard Feather, e “come strofinare il naso della gente nella sua stessa merda”, in quelle di Mal Waldron. Secondo Frances Rowan, faceva irruzione per la prima volta “nello spensierato mondo del jazz una canzone sulla vergogna più profonda dell’America razzista”. E fu, come scrive Stuart Nicholson, “una delle primissime canzoni popolari che divenne impossibile separare da una singola, specifica incisione”. E infatti, con le eccezioni di Josh White e Nina Simone, per quasi mezzo secolo nessuno ha osato affrontarla.
Quella di Strange Fruit è una storia nella storia cui il critico statunitense David Margolick ha dedicato un intero, omonimo e magistrale libro (ne esiste una buona traduzione per i tipi di Arcana) in tutti i sensi rivelatore. A comporla – firmandola con uno pseudonimo, Lewis Allan - era non un nero ma un ebreo comunista newyorkese, Abel Meeropol, scrivendo sia il testo, così come ci è pervenuto, che la traballante musica, che il pianista Sonny White cercherà di rifinire un minimo nella prima e storica registrazione del 20 aprile 1939. A Meerepol, che farà una seconda straordinaria cosa in vita sua adottando gli orfani dei coniugi Rosenberg, assassinati dalla furia maccartista, il brano era stato ispirato da una foto che farà sempre accapponare la pelle, ma mai come Strange Fruit stessa. Lo scatto immortala a Marion, Indiana, il 7 agosto 1930 una folla di bianchi festanti (in prima fila due ragazze che se la ridono) davanti ai corpi di due neri, Thomas Shipp e Abram Smith, appena massacrati di botte e poi impiccati a un albero. Come ci ricorda amaramente Margolick la pratica del linciaggio, a sud della linea di Mason Dixon ma non soltanto, fu largamente diffusa sin dalla fine della guerra di secessione e, in lento calando, fino al secondo conflitto mondiale. Il Tuskegee Institute conteggia prudenzialmente in quasi quattromila i linciaggi fra il 1889 e il 1940. H.L. Mencken ebbe a scrivere che nelle cittadine povere loro luogo privilegiato erano una forma di divertimento popolare: “Prendevano il posto della giostra, del teatro, dell’orchestra sinfonica”.
Ora: Billie Holiday con un razzismo così brutale non si era mai dovuta confrontare, ma con uno altrettanto stupido sì, tutta la vita. Episodi grotteschi punteggiano la sua biografia. Da quando, in giro con l’orchestra di Count Basie, fu costretta a scurirsi il volto con del cerone nero perché la sua pelle troppo chiara poteva farla passare, sotto i riflettori, per bianca a quando viceversa, star del gruppo di Art Shaw, tutto di visi pallidi, suscitò scalpore e ridicole rappresaglie semplicemente per il suo essere nera. Insulti patiti nel Sud ma non solo, con Detroit propensa a distinguersi per demente oltranzismo e persino l’illuminata New York che fa cadere ogni tanto la maschera: in un albergo che – paradossale e beffardo – si chiama Lincoln la fanno entrare dall’ingresso di servizio e le chiedono di usare un montacarichi e non gli ascensori riservati ai bianchi, a lei che dello spettacolo è l’attrazione principale. Sono del resto anni in cui è la regola che gli unici afroamericani cui è consentito l’ingresso nei club dove si suona jazz siano i musicisti stessi e camerieri e sguatteri. Billie – oltretutto sanguemisto, oltretutto donna, oltretutto nata fuori dal matrimonio - sa eccome cosa voglia dire essere discriminati e Strange Fruit la tocca nel profondo, fa vibrare corde rimaste fino ad allora in lei silenti, a parte gli scontri con la legge, a parte scatti di ribellione e scoppi d’ira che non si è mai fatta mancare, a parte il male che sta cominciando a fare a se stessa. Ma per l’artista, oltre che per l’essere umano, è una presa di consapevolezza che la segnerà per sempre. Va da sé: un gesto di sensazionale coraggio che le procurerà sì tanti nuovi ammiratori ma ancora più nemici. Paranoia asserire che la persecuzione poliziesca che prenderà a scusa il vizio della droga fu innescata proprio da una canzone che non poteva lasciare indifferente nessuno? Le mancava un’occasione di deflagrare e la Holiday purtroppo gliela concesse.
In un locale che ha aperto da poco all’ombra della Big Apple, Lady Day trova l’ambiente ideale e anzi l’unico possibile, non essendo certo Strange Fruit materiale da canonico night club, per la prima esecuzione del brano. Si chiama Café Society, si autodefinisce “il posto sbagliato per la gente giusta” e – scandalo! – ha un pubblico in cui razze e strati sociali si mischiano. Intellettuali neri e papponi, studenti universitari e attempati ebrei liberali. Appeso per l’etichetta del cappotto, pende dal soffitto un Hitler di sembianze scimmiesche. La Holiday canterà lì molto spesso, Strange Fruit sempre ultimo brano in scaletta (mai un bis dopo), sempre eseguito con l’intero locale che si ferma, un unico faro acceso fisso su di lei, solamente il pianista ad accompagnarla. Nessuno fra quanti ebbero la fortuna di ascoltarla lì scandire e quietamente scagliare parole come pietre potrà mai dimenticare. Strange Fruit sarà un caso sui giornali cittadini, e famosa, prima ancora di venire incisa. E niente sarà più lo stesso dopo, per Billie e per l’America tutta. Si può tranquillamente dire: nessuna altra canzone, mai, ha avuto un impatto tanto bruciante su un’intera società. Si può tranquillamente dire: la lotta per i diritti civili che divamperà negli anni Sessanta, e avrà il soul come colonna sonora, ha qui il suo primo prodromo, il primo inno. “A change is gonna come”, ma Billie non vivrà abbastanza per vederlo.
A Hammond, abbiamo visto, Strange Fruit non piace, non vuole che esca su Columbia e nondimeno fa la cosa giusta permettendo che la casa discografica “presti” momentaneamente la Holiday a una piccola etichetta. L’ha fondata un signore che si chiama Milt Gabler, appassionatissimo di jazz e con due negozi in città. Le dà il nome l’indirizzo di uno dei due negozi, Commodore, e sarà ricordata come la prima label specializzata nell’ambito, un’oasi felice “di musicisti, per musicisti”. Lady Day registrerà in quattro occasioni per la Commodore, nell’aprile 1939 e poi a cavallo fra marzo e aprile 1944, sedici brani in totale. Ingrassato dalla bellezza di ventinove versioni alternative, è il programma che compone un doppio compact GRP del 1997, “The Complete Commodore Recordings”. Porge cose meravigliose, da una definitiva Fine And Mellow, la canzone di non-amore per antonomasia, a una I Gotta Right To Sing The Blues assai prossima a Satchmo (ma è un Satchmo ben malinconico), da un’onirica My Old Flame a una I’ll Be Seeing You in cui si coglie il timore di un addio più che la promessa di un ricongiungimento (il mondo è in guerra), a una He’s Funny That Way sommessa, con swing e un sorriso. Ma basterebbe già Strange Fruit a renderlo una presenza obbligatoria in ogni degna collezione di dischi.
Le nominate in precedenza Gloomy Sunday e God Bless The Child fanno particolarmente degno di nota il triennio ’40-’42, con cui si esaurisce il rapporto con la Columbia. Loro controaltare una Let’s Do It spumeggiantemente ammiccante: Billie non suonerà mai più così felice su disco. Fra il 1942 e i primi mesi del 1944 Lady Day non registra nulla in studio ma per la semplice ragione che nessun’altro negli Stati Uniti registra alcunché, essendo in permanente stato di agitazione sindacale i musicisti. Quando lo sciopero finisce è Gabler, conscio che la Commodore è troppo piccola per servirla adeguatamente, a portarla alla Decca. Ci resterà sei anni, cogliendo subito il suo più grande hit con una Lover Man con cui può finalmente coronare un sogno, lei che alla Columbia ha potuto contare sul supporto di una congruissima percentuale dei migliori jazzisti del tempo: cantare attorniata da una sezione d’archi. Il doppio “The Complete Decca Recordings” perpetua la Billie Holiday più “di classe” nel migliore senso del termine, stupendamente incarnata da un classico come That Ole Devil Called Love, perlopiù in bilico fra un pensoso romanticismo e l’amarezza che brucia di Don’t Explain (seconda più memorabile fra le sue canzoni di non-amore) ma che occasionalmente frizza ancora, si diverte. Poco da divertirsi, nella sua vita.
Nel 1945 la madre la precede nella tomba in cui letteralmente la figlia la raggiungerà (sono sepolte insieme; la lapide dice Sadie nata nel 1896, suscitando interrogativi) quattordici anni più tardi. Nel maggio 1947 il possesso di stupefacenti le costa una condanna a un anno e un giorno di reclusione (il giudice calcola in quasi ottocentomila dollari i guadagni del quadriennio precedente, soldi di cui nulla è rimasto). Come parte del programma di rieducazione al Federal Woman’s Reformatory di Alderson le imporranno fra l’altro di accudire un branco di maiali. Così l’America trattò una delle sue artiste più grandi.
Nel 1952 Billie approda a quella che diventerà la Verve ma ancora si chiama Clef, il cui deus ex machina Norman Granz si rivelerà il suo secondo principale pigmalione dopo Hammond, pur senza riuscire a fermare quello che a tutti gli effetti è stato un lungo, lunghissimo suicidio. Mai avuto una grande voce nell’accezione canonica del termine, Billie Holiday, nel senso che l’estensione è sempre stata modesta e il miracolo era rappresentato da come sapeva sfruttarla, dalla dizione limpidissima, dalle sfumature attoriali che sapeva dare alle parole più banali e abusate che con lei tornavano improvvisamente nuove, inaudite, da un insuperabile senso dello swing. Squillante e bambinesca all’inizio (era d’altronde poco più che una bambina), si era fatta con il trascorrere del tempo più profonda e sempre più duttile. Adesso il fumo e l’alcool la limitano ulteriormente e alla fine non sarà che un gracchiare via via meno intelleggibile, talvolta più prossimo al parlato che al cantato. Ciò nonostante, ancora strumento espressivamente formidabile. Sentirlo progressivamente deteriorarsi nel summenzionato decuplo, che mette in fila in rigoroso ordine cronologico qualcosa come dodici ore di registrazioni dal 1945 (incisioni che documentano la partecipazione ai mitici concerti di “Jazz At The Philarmonic”) al 1959, le ultime cose impresse su nastro a meno di quattro mesi dalla prematura dipartita, addolora indicibilmente. Epperò fra qualche caduta pure rovinosa ci sono qui anche e in prevalenza strepitosi trionfi e fra esso, più strepitoso di tutti, un concerto alla Carnegie Hall, il 10 novembre 1956.
Il testamento spirituale di Billie Holiday, che si spegne il 17 luglio 1959 subendo l’ultimo oltraggio di venire arrestata con le solite accuse sul letto di morte e piantonata nella sua stanza di ospedale, è il controverso “Lady In Satin”, registrato nel febbraio dell’anno prima e frutto del rinnovato sodalizio con la Columbia. Arrangiato con maestrìa ma mano certamente non lieve da Ray Ellis, con archi che straripano da ogni parte (controaltare ottoni che sono sbuffi di poesia) e un coro che lo fa ulteriormente ultraterreno, è la più gloriosa fotografia di un fallimento che sia mai stata scattata. Spettrale e bellissimo, impregnato di una disperazione che annichilisce.
“Quella scintilla nei tuoi occhi se n’è andata,/mi stai spezzando il cuore,/sei cambiato”, canta Billie in You’ve Changed ed è troppo, non ce la fai più, corri a togliere il disco. Ti stupisce scoprirlo pulito, non lordo di lacrime e sangue.
* Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.91, dicembre 2005.
Ristampato in "Scritti nell’anima" (Tuttle Edizioni, 2007) e disponibile presso il sito www.blowupmagazine.com/prod/scritti-nell-anima.asp
New Orleans (Jazz Crusade, 1947) | |
Billie Holiday Sings (Columbia, 1950) | |
An Evening With Billie Holiday (Clef, 1953) | |
Music For Torching (Clef, 1955) | |
A Recital By Billie Holiday (Clef, 1956) | |
Jazz Recital (Clef, 1956) | |
Lady Sings The Blues (Verve, 1956) | |
Velvet Moods (Clef, 1956) | |
Songs for Distingué Lovers (Verve / Polygram, 1957) | |
Body And Soul (Verve, 1957) | |
Blues Are Brewin' (Universal/Decca, 1958) | |
Lady In Satin (Columbia, 1958) | |
Stay With Me (Verve, 1959) | |
Story (antologia, Timeless Treasures, 1959) | |
The Essential Billie Holiday (antologia, Verve, 1961) | |
A Day in the Life of Billie Holiday (antologia, Different Drummer, 1975) | |
The Best Of Billie Holiday (Columbia, 1990) | |
All Of Me (antologia, Elap, 1999) | |
The Man I Love (antologia, Publicdom, 2001) | |
Portrait (antologia, Blue Class, 2003) | |
Side By Side (antologia, Newsound, 2005) | |
On The Sentimental Side (antologia, Time Music, 2008) |
Farewell To Storyville | |
My Man | |
I'm A Fool To Want You | |
Fine And Mellow | |
Gloomy Sunday | |
I Love You Porgy | |
Strange Fruit |
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