Storia del blues

Viaggio alle radici della musica del diavolo

Parte prima

Il blues è una musica facile da suonare, ma molto difficile da sentire
(Jimi Hendrix)

 

Se non conosci il blues, non ha alcun senso prendere in mano una chitarra e suonare rock and roll o qualsiasi altra forma di musica popolare
(Keith Richards)

 

Il blues è il tonico per tutto ciò che ti affligge. Potrei suonare il blues e non essere più triste
(B.B. King)

Intro

 

Mississippi Delta Blues

La mia idea del paradiso è un luogo dove il Tyne incontra il Delta, dove la musica folk incontra il blues
(Mark Knopfler)

piantagioniTrecentosessantasei, quasi 367. Questa lunga e intricata storia inizia con un numero approssimato, il totale in chilometri che separa Vicksburg da Memphis. Sulle strade oggi asfaltate della Highway 61 dominavano paludi e foreste imponenti, capaci di fermare persino il generale Ulysses S. Grant a capo del suo esercito partito da nord. Nella regione del Delta del fiume Mississippi non c'è ricchezza. Solo un numero impressionante di schiavi provenienti dalla lontana Africa. Pochissimi, negli anni Venti, hanno un allaccio elettrico, figuriamoci un telefono, un automobile, una radio. Mentre l'America si avvia verso la sua prima catastrofe economica, il Delta del Mississippi sembra il Terzo Mondo, tra sterminati campi di cotone e pesca al pesce gatto.
La storia del blues è sicuramente tra le più difficili da raccontare, perché è praticamente impossibile capire da dove è iniziata. Molti i narratori che fanno partire tutto dai cosiddetti field holler, richiami urlati dagli schiavi afro-americani nei campi di cotone a sud degli States. Ma potremmo tornare ancora più indietro, in Africa, dove venivano suonati strumenti ancora impensabili per le dodici battute. Musica del diavolo, la musica blue della tristezza. Il blues non esisterebbe senza l'Africa. Ma nemmeno senza il poverissimo sud degli Stati Uniti. In definitiva è uno stato d'animo, il sound che ha acceso la lunga miccia della musica popolare del Novecento.

 

Isolati, spezzati, sradicati. Così si sentono gli schiavi provenienti dall'Africa che agli inizi del nuovo secolo coltivano i campi per i più ricchi. È la tragedia di singole persone che non hanno più un tessuto sociale, una comunità stabile. Quando intonano "I woke up this morning", non c'è nessuna allegria, solo tristezza per una condizione di alienazione completa. Se il cuore del blues è in Africa, la sua effettiva delineazione è nel sud degli States, nella regione del Delta, lì dove si consuma la tragedia di ogni giorno. A differenza del jazz di New Orleans – che nasce in una comunità mista e in pieno fermento – il blues è una musica isolata, creata da uomini soli che praticano il call and response, richiamando i canti (o lamenti) nei campi di cotone.
Sono proprio questi canti nostalgici e strazianti che vengono annotati con passione da un archeologo di Harvard chiamato Charles Peabody, il primo protagonista di questa lunga e intricata storia. Non un musicista, un uomo arrivato a Coahoma nel maggio 1901 per iniziare degli scavi di resti indiani. Le sue Notes on Negro Music, pubblicate nel 1903 sul Journal of American Folk-Lore rappresentano la prima testimonianza del blues, con le annotazioni sui canti degli schiavi impelagati nelle piantagioni nel Delta.

Queste canzonette e coppie di versi erano entrambi espressione di una costante generale, attribuibile ai modi di fare, ai costumi e ai fatti della vita del nero o a un adattamento speciale improvvisato sullo stimolo del momento, riguardo a un argomento in quel momento interessante

Ma le prime testimonianze sul blues appaiono ancor prima di Charles Peabody, non tanto come annotazioni musicali, quanto piuttosto su quello stato d'animo che è come un big bang sonico. Nata nell'estate del 1837, Charlotte Louise Bridges Forten Grimké è una feroce attivista afroamericana, poetessa ed educatrice. Charlotte scrive i suoi diari prima della fine della guerra civile tra il 1861 e il 1865, rarissimi esempi della vita di una donna di colore che ha vissuto da persona libera negli stati del nord. Dagli scritti proviene probabilmente la prima divulgazione della parola blues, intesa come una condizione mentale e spirituale di tristezza o depressione. Charlotte sta insegnando nello stato del South Carolina ed è tornata a casa da poco da una funzione religiosa, "con il blues", perché si sente "molto sola". Ha in mente alcune canzoni cantate dagli schiavi afroamericani durante il lavoro forzato, in uno stile che generalmente abbina il canto struggente di un singolo a un coro. Canzoni come "Poor Rosy", che "non possono essere cantate senza un cuore pieno e uno spirito travagliato". Di fatto, è la prima volta che qualcuno annota qualcosa che descrive il blues.

Povera Rosy, povera ragazza. Rosy mi ha spezzato il cuore. Il paradiso deve essere la mia casa, non posso stare all'inferno un giorno di più

Potremmo dire che il blues nasce così: canzoni cantate dagli schiavi afroamericani per accompagnare il lavoro nei campi, canzoni "che non possono essere cantate senza un cuore pieno e uno spirito travagliato". La musica blues nasce con le "canzoni del lavoro", worksongs, testimonianze di una cultura ancora orale – le prime registrazioni di canzoni degli schiavi afroamericani risalgono al 1867, qualche anno dopo la fine della guerra civile – che non hanno alcuna struttura fissa e che spesso riguardano la nostalgia di casa, le fatiche del lavoro nei campi.
Il 1865 è un anno fondamentale nella storia del blues, non perché si possa affermare che questo sia il suo effettivo anno di nascita, ma perché alla fine della guerra civile gli schiavi afroamericani iniziano a godere di una (pur minima) libertà espressiva. Ad esempio, uno degli strumenti generalmente tollerati dai padroni è il banjo, considerato dagli schiavisti occidentali alla stregua di uno strumento europeo come il violino. Dopo la guerra di secessione, lo schiavo che riesce a procurarsi un banjo ha praticamente molte più possibilità di esibirsi in pubblico, soprattutto durante le pause dal lavoro il sabato sera o i cosiddetti medicine show, spettacoli itineranti organizzati dai bianchi per vendere tonici e farmaci miracolosi. La struttura tipica del call and response, intesa come canto di gruppo, inizia a cedere il passo a un canto in solitaria, ovvero intonato a velocità diverse e più personali. Nelle piantagioni di cotone prendono vita i cosiddetti hollers – o field hollers – il cui stile vocale viene così descritto dal giornalista e architetto Frederick Law Olmsted nel 1853: "Un lungo e rumoroso grido musicale, che cresce, cade ed esplode in un falsetto".
Le prime registrazioni su disco dello stile degli hollers non arriveranno prima del 1930, ma il passaggio dalle tipiche worksongs a un canto più solitario (sebbene spesso comunque accompagnato da un coro) è decisivo per segnare la nascita del blues.

Il padre, la madre e l'imperatrice

 

Dal Delta alle metropoli

Lascia che la tua anima inizi a cantare
(Ma Rainey a Bessie Smith)

Bessie SmithÈ il 1873. A Florence, in Alabama, viene alla luce il piccolo William Christopher Handy. Ancora non può sapere che un giorno si definirà The Father of the Blues. Handy nasce in un ambiente estremamente religioso, di quelli in cui si è convinti che gli strumenti musicali appartengano solo al diavolo. Senza il permesso dei genitori, William compra la sua prima chitarra con i risparmi accumulati al lavoro, prima di impratichirsi con la cornetta, strumento molto simile alla tromba. Dopo aver ottenuto un posto da insegnante al Teachers Agriculture and Mechanical College di Normal, Handy si diletta a suonare in tour con i suoi Mahara Minstrels, prima di ricevere una lettera da Clarksdale, Mississippi con una proposta irrinunciabile: dirigere la band locale dei Knights of Pythias, organizzazione di mutuo soccorso. A quasi trent’anni, è l’occasione della vita, partire verso sud alla scoperta delle radici della musica blues, nella regione del Delta.
Una notte, mentre aspetta un treno in ritardo, W.C. Handy nota "un nero magro, vestito di stracci. Sul volto una tristezza antica. Suonando premeva un coltello sulle corde di una chitarra". La chitarra è, nei primi decenni del 900, lo strumento principale per creare quella che lo stesso Handy definisce "la musica più strana che avessi mai ascoltato". Di fatto, è lo strumento più adatto all’utilizzo di strumenti per alterare il suono, come gli oggetti metallici sfruttati dai chitarristi hawaiiani con i primi modelli spagnoli importati dagli europei nella seconda metà dell’800. Sono proprio le cosiddette Hawaiian guitars a diffondersi negli Stati Uniti, così come la tecnica del suonarle con un oggetto metallico che diventa predominante nel Delta con una schiera di chitarristi slide che imparano l’arte del bottleneck o collo di bottiglia.
Con la forma mentis di un insegnante e curioso ricercatore, Handy parla con il suo “nero magro e vestito di stracci”. Mentre lo ascolta, William capisce che quella forma musicale – uno schema armonico in dodici battute – non è ancora mai stata recepita in modo ufficiale. È qualcosa di ancestrale, nascosto nelle paludi del Mississippi. Ma è forse una forma ancora troppo monocorde per essere divulgata al grande pubblico, quello abituato alle marcette orchestrali.
Durante una serata live a Cleveland, avviene l’impensabile: il pubblico chiede a gran voce di inserire in scaletta una breve esibizione di tre musicisti non professionisti locali, armati di chitarra, mandolino e contrabbasso. Handy approva e i tre salgono sul palco, derisi dagli altri membri dell’orchestra. Il suono monocorde è lo stesso ascoltato in stazione, assolutamente grezzo e primitivo. Ma quando il brano finisce, il pubblico è in visibilio, facendo capire a William che la forma blues può funzionare. I Cavalieri di Pizia iniziano così ad esibirsi per tutti gli stati più malfamati del Sud, velocizzando ancora di più il sound con il piano come nella tradizione del boogie-woogie.

 

Tornato a Memphis nel 1909, W.C. Handy porta il blues nei club di Beale Street, suonando con la sua sempre più estesa orchestra davanti a ogni tipologia di pubblico. “Mr. Crump” è il titolo del brano composto come inno per la campagna elettorale del candidato democratico Edward Crump, riscritto tre anni più tardi e pubblicato come sheet music con il titolo “The Memphis Blues”. L’inserimento delle dodici battute del blues, unito alla cadenza sincopata che darà origine al foxtrot, porta il brano a un successo enorme, mai veramente sfruttato commercialmente da Handy dopo averne venduto i diritti per “soli” 100 dollari. “The Memphis Blues” accresce a dismisura la popolarità di William, che allarga la sua band fino a oltre 60 elementi.
Nel 1914 è la volta di “St. Louis Blues”, un altro successo incredibile con il suo andamento tanguero ispirato allo spiritual, una delle canzoni più frequentemente incise fino agli anni venti del 900.

 

Alla soglia dei quarant’anni, W.C. Handy si trasferisce negli uffici del Gaiety Theatre di New York, portando l’influenza del blues del Delta nel contesto più mondano e scintillante di Times Square. Nella Grande Mela, le radici povere e disperate del Mississippi cedono il passo alla modernità della metropoli, dove il blues viene interpretato in chiave più sensuale e viziosa, in particolare da figure femminili spregiudicate dalle forme voluttuose. Se Handy deciderà di nominarsi – più o meno a ragione – padre del blues, Gertrude "Ma" Rainey è una delle poche a potersi permettere l’appellativo di madre della musica del diavolo. Nata a Columbus, Georgia, nella primavera del 1886, Gertrude Pridgett inizia a esibirsi prima dei 16 anni nei famigerati minstrel shows, spettacoli itineranti a sfondo razziale dove i neri hanno una rara occasione di cantare e suonare davanti a un pubblico. Corre l’anno 1923 quando Ma Rainey viene notata dal produttore afro-americano della Paramount Records, J. Mayo Williams. Firma subito un primo contratto per registrare otto canzoni, tra cui “Bad Luck Blues”, “Bo-Weevil Blues” e “Moonshine Blues”, accompagnata dal compositore e arrangiatore Lovie Austin e da una band chiamata Blues Serenaders. Lo stile vocale di “Ma” è insolitamente potente, anche grazie a una presenza fisica importante. Il suo moaning blues rispecchia fedelmente la sofferenza del sud, portando le dodici battute a incontrare il vaudeville tra abiti sgargianti, bottiglie di whiskey e rapporti sessuali poco ortodossi per gli anni Venti a stelle e strisce. Fino all’alba della Grande Depressione incide oltre cento brani seminali per il nuovo blues metropolitano, come “Daddy Goodbye Blues” e “Travelin Blues”.
Con il contributo fondamentale della sua Georgia Jazz Band, Ma Rainey gira gli States da nord a sud, ammaliando il pubblico bianco così come quello nero. Durante le session del 1924 canta con Louis Armstrong “See See Rider Blues” e “Jelly Bean Blues”, mescolando le forme musicali più popolari con la scala armonica del blues. Nel 1927 piazza il colpo in salsa dixieland “Ma Rainey’s Black Bottom”, prima di incidere “Prove It on Me”, da molti considerata la prima registrazione in cui si parla esplicitamente di bisessualità e tendenze lesbo.
La presenza scenica di Ma Rainey è dirompente, tanto che lei e la sua band arrivano a guadagnare oltre 300 dollari per una sola settimana di lavoro, viaggiando su un bus privato tra decine di stati. Nel 1928, dopo il tramonto del vaudeville, la Paramount decide di interrompere il suo contratto, considerando il suo blues da avanspettacolo non più appetibile per il mercato discografico. Ritiratasi a Columbus, la madre del blues muore dopo un attacco cardiaco nel 1939. Leggenda vuole che sia stata lei a scoprire (addirittura rapire) una promettente ragazza di Chattanooga, Tennessee, per insegnarle a cantare il blues. La stessa ragazza che verrà poi soprannominata l’Imperatrice del Blues.

 

Nata nella primavera del 1894 in condizioni di estrema povertà, Bessie Smith sperimenta fin dall’infanzia l’intima tragedia del blues. Prima dei dieci anni di età è costretta ad affrontare la morte del padre William, un fervente predicatore, seguita da quelle della madre Laura e del fratello Bud, ammalatisi tra le mura diroccate di una capanna a Chattanooga. La numerosa famiglia Smith viene cresciuta dalla sorella maggiore Viola, portando Bessie a vagabondare per le strade fin da giovanissima in compagnia del fratello Andrew, chitarrista amatoriale. I due si esibiscono come busker per le strade del Tennessee, per riuscire a racimolare qualche soldo per il cibo. Fino all’incontro con Frank Walker, scopritore di talenti al soldo della Columbia Records. È il 15 febbraio 1923: a quasi trent’anni, Bessie si posiziona davanti al microfono per la prima volta in uno studio di registrazione professionale, incidendo il singolo “Down Hearted Blues” che venderà quasi 800mila copie nel giro di soli sei mesi. Accompagnata da un pianoforte da saloon, la voce di Bessie Smith riempie gli spazi con una potenza mai ascoltata prima, affidandosi a un vibrato tragico che porta subito la stampa a definirla “la cantante di blues che è veramente blue”.
A differenza di Ma Rainey, che basa la sua forza su un affascinante e mefistofelico lamento southern, Bessie ha una voce più profonda e poderosa, che attira subito le attenzioni degli impresari musicali a caccia di soldi facili. La Columbia Records decide di offrirle un faraonico contratto da quasi 2.500 dollari l’anno, ottenendo in cambio oltre 150 registrazioni in cui viene accompagnata dai grandi musicisti dei suoi tempi, da Louis Armstrong al sassofonista Coleman Hawkins. Ma il successo di Bessie Smith è tutto grazie ai suoi imperdibili spettacoli dal vivo, nei grandi teatri del circuito T.O.B.A. o in tendoni simili a quelli usati negli incontri religiosi. I compensi sono altissimi, tanto che si può tranquillamente menzionare Bessie come l’artista blues più pagata dei suoi tempi.
Dai successi del 1923 come “Baby Won't You Please Come Home” all’iconica versione di “St. Louis Blues”, la prolificità di Smith è impressionante, macinando copie vendute in tutti gli Stati Uniti. Le umili origini di Bessie portano questi brani a parlare in maniera diretta e impetuosa di schiavitù, capitalismo e indipendenza femminile. Proprio per questo, sia lei che Ma Rainey sono ancora considerate modelli gender-bending nell’era blues dei primi anni Trenta del Novecento. Personalità forti, lascive, scandalose che affascinano il pubblico bianco con la potenza intima di un genere nato in povertà e ora in cima alle (non ancora inventate) classifiche discografiche.

 

Convinta dal mentore di Billie Holiday, John Henry Hammond, Bessie accetta di registrare alcuni brani di matrice swing per la Okeh Records. Ma numeri come “Gimme A Pigfoot And A Bottle Of Beer” (1933) non soddisfano appieno le aspettative di Hammond, che decide di porre fine alla collaborazione. Sono le ultime incisioni per l’Imperatrice del Blues, che nel settembre 1937 viene coinvolta in un terribile incidente stradale sulla Route 61 tra Memphis e Clarksdale. Mentre il suo nuovo compagno Richard Morgan rimane miracolosamente illeso, Bessie Smith perde sangue e subisce numerose ferite. Stando alla ricostruzione degli eventi, sulla scena arriva dopo poco il chirurgo Hugh Smith che esamina le critiche condizioni della cantante e ordina a un amico di correre subito a chiamare un ambulanza. Viene trasportata in un ospedale per afro-americani dove le viene amputato un braccio, ma non ci sarà più nulla da fare. Una delle prime leggende nere del blues statunitense ha il sapore del complotto: Bessie Smith avrebbe potuto salvarsi se fosse stata subito portata in un ospedale per bianchi, molto più vicino. La sua tomba resterà senza nome fino al 1970, quando verrà ricostruita con i soldi di Janis Joplin, grande adoratrice dell’imperatrice di Chattanooga.

Prime stelle

 

Da Blind Lemon Jefferson a Charley Patton

Se avessi registrato dischi solo per il mio piacere, sarebbero state tutte canzoni di Charley Patton
(Bob Dylan)

Blind Lemon JeffersonW.C. Handy, Ma Rainey, Bessie Smith. Gli Stati Uniti scoprono la tragicità del blues attraverso artisti di grande successo, animali da palcoscenico con cachet da capogiro. Non è ovviamente quello che vivono contemporaneamente i poveri musicisti del Delta, quelle vite disperate ancorate a una chitarra, che suonano nei silenzi delle paludi del Mississippi.
Strano a dirsi, l’artista che porterà il blues rurale al centro degli interessi discografici a stelle e strisce viene in realtà dal Texas, da una microscopica cittadina chiamata Coutchman. Primogenito in una numerosa famiglia di coltivatori, Lemon Henry Jefferson nasce non vedente nel 1894. Inizia fin da piccolo a fare pratica con la chitarra, suonando senza sosta per la strada, davanti a barbieri o nei parchi pubblici durante i picnic. A poco più di vent’anni si trasferisce nel quartiere Deep Ellum di Dallas, dove incontra altri musicisti come Lead Belly e inizia la sua personale scalata verso la notorietà. Stando ai non sempre affidabili resoconti biografici dell’epoca, viene notato da un commesso di Dallas e subito segnalato alla Paramount Records, che lo invita a registrare i suoi primi brani negli studi di Chicago. Incisi tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926 con lo pseudonimo di Deacon L. J. Bates, “I Want To Be Like Jesus In My Heart” e “All I Want Is That Pure Religion” sono canzoni più vicine ai toni spiritual e gospel. Quando Lemon ci riprova, nel marzo 1926, accende la miccia: “Got The Blues”, “Booster Blues” e “Dry Southern Blues” sono le sue prime interpretazioni di un blues grezzo e senza filtri, proveniente direttamente dalle zone più povere del paese. Insieme ad altre registrazioni – su tutte “Long Lonesome Blues” – il successo per Blind Lemon Jefferson arriva veloce, nonostante le scarse tecnologie di registrazione della Paramount.

 

Nel 1926 i dati di vendita devono essere presi con le pinze, eppure si parlerà di come Lemon riesca subito a piazzare dischi al ritmo di sei cifre. La Paramount Records è la casa discografica di punta per gli artisti blues, capace di piazzare sul mercato statunitense i cosiddetti race records, lanciati per la prima volta dalla Okeh Records con la registrazione di “Crazy Blues/It Is Right Here For You” affidata alla voce squillante di Mamie Smith, riconosciuta come la prima donna afroamericana a incidere un brano blues nel 1920. All’inizio nessuno crede che Mamie possa accontentare i gusti di bianchi e neri, poi arrivano vagonate di dischi venduti e la definitiva convinzione che quella musica rozza sarà un vero successo.
Il prezioso stile chitarristico di Blind Lemon, unito alla sua voce dolente e testi proletari, fanno la fortuna tra i race records della Paramount, che sfrutta la sua improvvisa notorietà in circa cento brani registrati tra il 1926 e il 1929.
Il successo di Blind Lemon Jefferson parte sicuramente dai suoi testi dolenti, che esprimono un desiderio ardente, con una immediatezza mai ascoltata finora su un disco. Dalla gambling song tradizionale texana “Jack O’ Diamonds” al proto-rock and roll “MatchBox Blues”, la voce di Lemon risuona forte e chiara, con arrangiamenti basati sulla tradizione gospel ma con idee e stile chitarristico particolarmente complesso. Un talento nel creare canzoni piene di sarcasmo e nel riarrangiare a suo modo pezzi provenienti dalla tradizione gospel e folk, arricchendoli con idee chitarristiche tecnicamente molto difficili.
Fino al suo ultimo successo “See That My Grave Is Kept Clean”, l’arte di Lemon Jefferson contribuisce a diffondere il verbo blues negli stati intorno al Delta, prima del suo improvviso (e leggendario) decesso alla fine del 1929. Alle 10 del mattino del 19 dicembre, Blind Lemon viene trovato morto per strada, apparentemente deceduto per una miocardite acuta. Corrono però voci su un presunto avvelenamento da parte di un’amante tradita, mentre altri parlano di un infarto causato da una violenta tempesta di neve o del brutale omicidio compiuto dalla sua guida per rubare una grossa somma in suo possesso.
Poco meno di due mesi prima della misteriosa morte di Blind Lemon Jefferson, il definitivo crollo della borsa di New York dopo anni di boom azionario porta gli Stati Uniti nel precipizio della Grande Depressione, con conseguenze devastanti nei più disparati settori della vita sociale, economica e politica. Dal successo di Bessie Smith e dello stesso Lemon, la Paramount Records indietreggia, perché il mercato dei race records viene improvvisamente bloccato, lasciando diversi musicisti afroamericani senza lavoro. I dischi vengono rimossi completamente dai cataloghi e le emittenti radiofoniche interrompono le trasmissioni musicali di generi come il blues. Eppure, nel giugno 1929 a Richmond, Indiana, iniziano le sessioni di registrazioni di uno dei più famosi ed estrosi bluesmen a cavallo tra gli anni Venti e Trenta.

 

A Hinds County, nei pressi di Edwards, corre probabilmente l’anno 1891 quando viene alla luce il piccolo Charley, ufficialmente nato dalla coppia formata da William Patton e Sara Garrett. Con i suoi 150 chili di peso, William è un benestante per gli standard del Delta, possessore di terreni e persino di un negozio. Charley viene subito educato in maniera rigida, secondo gli standard formativi più religiosi. I suoi tratti non sono molto simili a quelli di tanti suoi coetanei nel Mississippi: pelle più chiara, un fisico gracile. Le voci corrono infatti incontrollabili, perché si dice che sia figlio in realtà di Henderson Chatmon, nipote di un piantatore bianco e capo di una numerosa famiglia di musicisti. Nonostante venga considerato un afroamericano, il giovanissimo Charley è accostato alle più disparate discendenze, da quella messicana alla nativa choctaw. A sei anni, si trasferisce con la famiglia a nord, nella vasta piantagione fondata da William Dockery nella contea Sunflower dove troneggia spaventoso il penitenziario di Parchman. Al di là delle apparenze, la piantagione Dockery è il posto migliore dove stare se si vuole diventare il padre del Delta Blues.
Da ragazzo, Charley Patton è scatenato, sempre in giro per la contea a fare casino, bere e provocare. Pur essendo alto nemmeno un metro e settanta, ha un carattere forte, ai limiti dell’arroganza. Inizia a suonare la chitarra esibendosi tra taverne, piazze e la stessa piantagione Dockery, dove attira l’attenzione per il suo modo assurdo di suonare lo strumento, a volte dietro la testa, a volte percuotendolo come un tamburo. Mal sopportato da diversi bluesmen contemporanei, Charley porta fiero in giro la sua voce profonda e potente, inimmaginabile per uno della sua statura. I suoi spettacoli sono pirotecnici e soprattutto edonistici, perché Patton è uno che il blues lo vive con energia e sfrontatezza. Ecco perché verso la fine degli anni Venti decide di inviare una lettera a H.C. Speir, titolare di un negozio di musica a Jackson e in collegamento con diverse etichette (tra cui la famosa Paramount) per la segnalazione di nuovi talenti provenienti dal Mississippi in particolare.
Speir ama definirsi un talent brocker, dal momento che coniuga attentamente i suoi due grandi amori, la musica nera e i soldi. Anche soprannominato il padrino del Delta Blues, Speir inizia la sua fruttuosa collaborazione con i musicisti locali grazie all’incontro con William Harris, che registra appena sedici brani tra il 1927 e il 1928. La sua prima sessione di registrazione è organizzata a Birmingham, Alabama, in una torrida giornata di luglio: “I’m Leaving Town” infila su disco un concentrato di stili poi tipici di Harris - il canto che richiama i cori degli schiavi, il beat quasi da ballo e in generale un approccio al blues più scanzonato e orecchiabile. Da “Kansas City Blues” (versione dell’originale di Jim Jackson) a “Early Morning Blues”, Harris chiude la sua breve carriera negli studi di Richmond, Indiana. Sulla sua vita (e morte) possono essere fatte solo congetture, dal momento che mancano ancora oggi dettagli fondamentali per ricostruirla.

 

Originario del Mississippi, Henry Columbus Speir scopre con il talento grezzo di Harris un filone musicale che potrebbe portargli enormi fortune. Direttamente dal suo negozio in Farish Street, a Jackson, sceglie con cura i misteriosi personaggi che si presentano alla sua porta in cerca di un demo da far recapitare alle case discografiche come la Paramount o la Okeh. Quando apre la missiva di Charley Patton, H.C. Speir parte per la piantagione Dockery, con una proposta irrinunciabile: oltre cento dollari per almeno quattro brani da registrare su disco. Il talento canoro e strumentale di Patton affascina Speir, che decide subito di portarlo alle attenzioni dei produttori di race records che sono in famelica caccia di nuovi artisti blues dopo il successo improvviso di Blind Lemon Jefferson.
Tra le principali case discografiche tra gli anni Venti e Trenta, la Paramount Records si fida quasi ciecamente di Speir. Organizza così il viaggio di Charley Patton a Richmond, Indiana, dove il 14 giugno 1929 è in programma la sua prima seduta di registrazione. Tra le classiche difficoltà tecniche per registrare musica nel 1929, Patton riesce in una impresa praticamente mai vista prima dagli impresari del disco: terminare ben 14 brani originali in una sola seduta. Dal primo singolo scelto, la seminale “Pony Blues”, Charley Patton è un torrente in piena, con la sua assoluta sregolatezza in termini di accordi e strofe, le sue continue allusioni e battute pruriginose che fanno luccicare gli occhi alla Paramount. “Mississippi Boweavil Blues”, “Screamin' And Hollerin' The Blues”, “Banty Rooster Blues”: all’improvviso la casa discografica statunitense si trova davanti un'incredibile abbondanza di singoli killer, praticamente una delle più pure espressioni del Delta blues mai incise.
Viene così presa la decisione di accorpare in più singoli (con doppio lato) il materiale inciso. Ad esempio, “Pea Vine Blues” insieme a “Tom Rushen Blues”, per inondare il mercato dei race records con lo stile lascivo, rurale e ipnotico del nuovo fenomeno Charley Patton, anche noto come J.J. Hadley o Masked Marvel, pseudonimi figli di una trovata pubblicitaria della stessa Paramount, che non vuole saturare il mercato con un unico nome. Addirittura lanciando un concorso a premi che regala un disco a chi indovina chi si cela dietro la meraviglia mascherata.
Alla fine della sessione di registrazione a Richmond, Patton torna a casa nella piantagione Dockery, con una somma di denaro impensabile per gli altri afroamericani presenti. Tra amori fugaci e bevute colossali, Charley continua a esibirsi dal vivo, iniziando poco dopo a vagabondare per gli stati limitrofi a causa di una focosa relazione con una donna sposata. Lo stesso H.C. Speir inizia una sorta di caccia all’uomo nell’autunno del 1929, dal momento che la Paramount sta insistendo vigorosamente per una seconda session in studio. La missione di Speir riesce: Patton viene nuovamente reclutato, questa volta in compagnia di un suo amico d’infanzia, il violinista Henry “Son” Sims. A novembre, negli studi di Grafton, Wisconsin, vengono incisi altri undici brani a partire dalla più classica ballata di blues rurale “Elder Greene Blues” dove Patton è “costretto” a limitare le sue svisate chitarristiche per seguire il tempo del violino di Sims. La produzione a Grafton è meno innovativa di quella a Richmond, con una serie di incisioni più cupe e grezze come “When Your Way Gets Dark”, ma anche nuove gemme rurali come “Hammer Blues”. In brani come “Devil Sent The Rain Blues”, Charley Patton dimostra di essere un musicista completo, capace cioè di suonare secondo gli schemi più tradizionali e non solo seguendo le sue regole. La session di Grafton continua a dicembre, con i dirigenti della Paramount che spingono i singoli di Patton come i migliori mai ascoltati negli Stati Uniti. La voce rabbiosa e mordente di Charley raggiunge il suo picco: brani come “Green River Blues”, il proto-rock and roll “Going To Move To Alabama” e soprattutto il tragico capolavoro sincopato in due parti “High Water Everywhere” – cronaca della grande alluvione del Mississippi di due anni prima – consegnano la sua arte musicale alla storia della musica popolare a stelle e strisce.

 

Quando Patton termina la sua seconda sessione di registrazione a Grafton, il crollo di Wall Street ha già colpito gli States, trascinando a picco le grandi case discografiche. Le vendite crollano, i contratti con gli artisti vengono improvvisamente terminati. La misteriosa morte di Blind Lemon Jefferson manda tutti nel panico, e la Paramount si ritrova a dover spremere ancora il talento di Charley, che viene richiamato di corsa in Wisconsin nel maggio 1930. Ma questa volta la montagna partorisce un semplice roditore, perché vengono incisi solo quattro brani in compagnia del chitarrista Willie Brown. Da “Moon Going Down” all’ipnotica e incalzante “Dry Well Blues”, Patton si limita questa volta ai compiti del blues tradizionale, non riuscendo a risolvere una situazione (ovviamente) impossibile. Si trasferisce così a Holly Ridge, Mississippi, insieme alla nuova compagna Bertha Lee.
Cantante blues, Bertha ha un carattere focoso come quello di Charley: i due litigano spesso e violentemente, tanto da finire entrambi in prigione all’inizio del 1934. W. R. Calaway della Vocalion Records paga la cauzione per portare Patton a New York City, dove tra il 30 gennaio e il 1° febbraio registra i suoi ultimi dieci brani da solista. Dalla dolente “Jersey Bull Blues”, la sessione newyorkese regala le ultime gemme di Charley, anche grazie alla maggiore pulizia del suono della Vocalion. Su tutte, i duetti con la compagna Bertha Lee, ipnosi blues sporche di zolfo da “Oh Death” a “Troubled 'Bout My Mother”.
Tornato a Holly Ridge con Bertha, Charley Patton muore nei dintorni della piantagione di Heathman-Dedham, alla fine di aprile. Il certificato di decesso parla di una problematica grave alla valvola mitrale, mentre la notizia non viene riportata su alcun giornale, nonostante le grandi sponsorizzazioni pagate dalla Paramount nel corso degli anni. La tomba di Patton, finanziata solo decenni dopo da John Fogerty, diventerà il primo passaggio obbligato del Mississippi Blues Trail, il sentiero storico-musicale che celebra le leggende del blues statunitense.

In gabbia, a Parchman Farm

 

Bukka, Willie e Son

Son House, certo che era il mio idolo. Pensavo fosse il miglior chitarrista del mondo
(Muddy Waters)

Son HouseDevastate dagli effetti a cascata della Grande Depressione, le case discografiche specializzate in blues music cercano di tenersi in equilibrio tra il totale fallimento e la scoperta necessaria di nuovi talenti. Mentre la Paramount Records viene offerta a H.C. Speir, i suoi talent manager continuano a viaggiare verso il Delta per parlare con Patton e scoprire i più bravi tra i suoi compagni di vagabondaggi sonici. Alla fine del maggio 1930, ancora una volta a Grafton, Wisconsin, il protagonista in studio non è Charley, ma un predicatore mancato di nome Son House.
Edward o Eddie James House Jr. nasce a nord di Clarksdale dopo la metà di marzo nel 1902, il secondo dei tre figli avuti da Eddie House Sr., predicatore battista con il vizio dell’alcol e della musica popolare con la band formata insieme ai suoi numerosi fratelli.
Ancora un ragazzino, Edward “Son” – così soprannominato per distinguerlo dal padre – viene catturato dal misticismo religioso, frequentando assiduamente la chiesa e disprezzando gli strumenti musicali votati al blues, la musica del diavolo. Trasferitosi a New Orleans dopo la separazione dei genitori, il giovane Eddie intensifica la sua passione per le pratiche religiose di matrice battista, iniziando a predicare i suoi sermoni fin dai quindici anni. Dopo aver sposato nemmeno ventenne una donna più anziana, Son si dedica ai lavori manuali più disparati: mezzadro, operaio in acciaieria, trattorista, cuoco. La sua passione per alcol e donne lo porta però a vivere in maniera contrastante l’indole religiosa, nonostante diventi un pastore battista a tutti gli effetti.
L’anno di svolta è il 1927, quando ascolta per la prima volta il sound di alcuni suoi compagni di bevuta – gli indiziati sono Willie Wilson e James McCoy – che trattano la chitarra in maniera anomala, con un collo di bottiglia. Sempre più ispirato, dopo aver ascoltato anche lo stile country di Rube Lacey, Son House decide di abbracciare il blues che ha finora tanto odiato, procurandosi una chitarra da due soldi e un pezzo di vetro utile per suonarla come loro. La sua pratica è costante, i risultati sono incredibilmente ottimi.
Secondo una delle ricostruzioni biografiche, tra il 1927 e il 1928, Son House sta suonando in un locale per afroamericani – i cosiddetti juke joint dove l’alcol scorre a fiumi – quando entra improvvisamente un uomo armato che lo colpisce in una gamba. Eddie risponde al fuoco uccidendo l’assalitore e finendo nel carcere di massima sicurezza noto come Mississippi State Penitentiary o Parchman Farm. Gli anni da scontare sono 15, ridotti a soli due grazie all’intervento del suo potente padrone bianco. È il 1930 quando gli viene caldamente consigliato di andare via da Clarksdale: Son House si dirige verso Lula, Mississippi, dove incontra Charley Patton che è nel frattempo fuggito dalla piantagione Dockery. Il rapporto personale e professionale tra Eddie e Charley non è del tutto chiaro, ma quando la Paramount Records si reca a Lula per convincere Patton a registrare altri brani, Eddie è lì presente. Negli studi di Grafton, Son House incide una decina di brani, partendo da “Walking Blues” e soprattutto dalle due parti di “My Black Mama” che rappresentano al meglio le sue straordinarie doti canore abbinate a uno stile chitarristico slide, unico nel suo genere.
La vena da predicatore pulsa forte nelle prime registrazioni di Son House, che nel capolavoro “Preachin’ The Blues” mette in scena tutte le sue contraddizioni interiori: da una parte lo spirito religioso, dall’altra il fascino irresistibile per il diavolo. Dalle session di Grafton vengono incise anche le leggendarie “Clarksdale Moan” e “Mississippi County Farm Blues”, ritrovate dopo decenni di ricerche dai collezionisti solo nel 2005 e ritenute una sorta di santo graal del blues del Delta. Nessuno dei singoli registrati da Son House per la Paramount avrà una qualche forma anche vaga di successo commerciale, niente a che vedere con le produzioni di Lemon Jefferon o Charley Patton. Lo stesso Eddie non sembra avere alcun interesse nei confronti della fama, perché si limita a suonare in giro per diletto e a tornare ai suoi lavori manuali, ad esempio guidatore di trattori in diverse piantagioni nella zona del Mississippi.

 

La carriera da musicista di Son House verrà rivitalizzata più di dieci anni dopo grazie alla cruciale vocazione di uno dei tantissimi personaggi importanti nella storia del blues: Alan Lomax. Di origini texane, Alan è il terzo figlio dello stimato John Lomax, ex-professore di lingua inglese e pioniere negli studi sul folklore statunitense. Avido collezionista di race records, Alan si unisce al padre che sta compiendo lunghi studi sul campo alla ricerca del sound tradizionale per conto della Library of Congress. Armati di uno studio mobile di registrazione, padre e figlio girano gli stati più poveri degli Usa, visitando piantagioni, ma soprattutto terribili penitenziari come Parchman Farm. È qui che i Lomax trovano un’autentica miniera d’oro per i loro studi sul blues del Mississippi, storie di vite spezzate, di vagabondi alcolizzati e musicisti a cinque stelle. Ed è in una di queste prigioni che, nel maggio 1939, le ricerche di John e Alan si imbattono in un carcerato di nome Booker T. Washington White, anche noto con il soprannome di Bukka, dalla pronuncia fonetica del suo stesso nome, datogli dai genitori in onore dell’omonimo attivista ed educatore afro-americano.
Nato in un posto non meglio precisato tra Aberdeen e Houston, Mississippi, Booker T. Washington vive una giovinezza decisamente travagliata. Sposa Jessie Bea all’età di 16 anni, vedendola morire tragicamente meno di quattro anni dopo a causa di un’appendicite fulminante. Inizia a vagabondare come un hobo a bordo dei treni merci tra diversi stati del sud, sbarcando il lunario tra sport professionistico (pugilato e baseball) e lavori più umili come il facchino. Armato di chitarra, suona in giro tra le feste di piazza, fino all’incontro con Charley Patton che definirà “un grande uomo”. Viene notato dal talent scout e venditore di dischi Ralph Lembo, che lo porta negli studi della Victor per una prima seduta di registrazione nel 1930. Con una chitarra nuova di zecca, Bukka incide almeno una decina di brani, non tutti sopravvissuti al tempo, perché la Victor sceglie i singoli “The New Frisco Train” e “The Panama Limited”, che portano alla luce il suo stile hobo associato alla chitarra quasi sferragliante come un treno in corsa. Durante la session di Memphis con la Victor vengono poi incisi altri due brani con la seconda voce di Memphis Minnie, che però virano verso il country-gospel e lo spiritual.
I brani scelti dalla Victor non ottengono il successo sperato, penalizzati dagli effetti del crollo di Wall Street su tutto il mercato discografico statunitense. White lascia Memphis, accantonando la musica fino al 1937, quando il produttore della Vocalion, Lester Melrose, lo invita a Chicago per registrare un nuovo singolo. C’è però un problema: Bukka è stato da poco condannato a due anni, da scontare nella prigione di Parchman Farm per un non meglio precisato scontro a fuoco. Non è chiaro se White violi la sua libertà condizionata per incidere a Chicago o se lo stesso Melrose riesca a ottenere un permesso speciale dalle autorità giudiziarie. La storia del blues ringrazia, perché Booker riesce a registrare la seminale “Shake ‘Em On Down”, che con il suo ritmo sensuale e la progressione tipica in dodici battute racconta il passato da vagabondo ed estorsore sui treni merci. Il singolo esce in coppia con “Pinebluff, Arkansas” e rilancia le ambizioni di Bukka come grande protagonista del blues alla fine degli anni Trenta.

 

Secondo le ricostruzioni dei biografi, Bukka White diventa una sorta di star all’interno della prigione di Parchman Farm, sollevato dai lavori più pesanti e dedito all’insegnamento del suo stile chitarristico. Quando John Lomax arriva al penitenziario in cerca di nuovi talenti da registrare, le guardie fanno subito il suo nome, anche se inizialmente è restio a suonare per la Library of Congress. In prigione vengono poi incise “Po’ Boy” e “Sic ‘Em Dogs On”, standard della musica afro-americana rielaborati con la sua voce potente e amara, piegata dalla dura esperienza carceraria.
Uscito da Parchman alla fine del 1939, Bukka torna a Chicago da Lester Melrose per tentare di rilanciare la sua carriera sotto etichetta Vocalion. Il produttore gli chiede nuovo materiale, portandolo in studio nel marzo 1940, sbalordito davanti alle nuove idee musicali di White. “District Attorney Blues” e soprattutto “Parchman Farm Blues” sono le nuove gemme di blues acustico che esprimono un tono più cupo e dolente dopo gli anni passati in gabbia. Da “High Fever Blues” a “Fixin’ To Die”, la session per la Vocalion è un tesoro del Delta, ma non garantisce ancora il successo commerciale a Bukka, che continuerà a suonare in giro durante le feste ma passerà inosservato due decenni prima della riscoperta agli inizi dei Sixties.

 

Dopo aver assistito il padre John nelle registrazioni di Bukka White al penitenziario Parchman, Alan Lomax continua le sue ricerche sul sound afro-americano per la Library of Congress. Nell’estate del 1941, al Klack's Store di Lake Cormorant viene organizzata una nuova seduta con Son House, che nel frattempo si è ritirato da anni in zona a guidare trattori dopo la prima seduta del 1930 per la Paramount e la morte di Charley Patton. Eddie si presenta in compagnia di alcuni amici musicisti, in particolare Fiddlin’ Joe Martin (mandolino), Leroy Williams (armonica) e soprattutto Willie Brown (chitarra), una delle figure più affascinanti e misteriose del blues sulle rive del Mississippi. Nato a Clarksdale nel 1900, Willie Lee Brown è considerato dagli studiosi uno dei migliori chitarristi slide del suo tempo, mai diventato una stella di prima grandezza perché preferisce accompagnare gli altri musicisti piuttosto che esprimersi da solista. Nel 1930 incide per la Paramount Records l’ipnotica e grezza “M & O Blues” insieme alla rovente “Future Blues”, per mettere subito in chiaro il suo eccelso stile slide, forse uno dei più complessi e strutturati tra anni Venti e Trenta. La figura di Brown assume i contorni della leggenda, dal momento che è praticamente impossibile ricostruire i suoi movimenti. Una delle dispute più intricate tra gli storici del blues riguarda la registrazione di altri due brani a firma Kid Bailey, “Rowdy Blues” e “Mississippi Bottom Blues”. C’è infatti chi sostiene come la chitarra di Brown accompagni Bailey (evidente la somiglianza in termini di stile), chi invece è assolutamente convinto che Kid sia in realtà lo stesso Brown, con una voce meno graffiante e roca.
Da “Levee Camp Blues” alla insolitamente lunga “Government Fleet Blues”, le registrazioni di Son House per la Library of Congress rappresentano un altro momento fondamentale insieme alle sessioni di Patton agli studi di Grafton. Il canto potente abbinato al ritmo in twelve-bar porta l’eredità del Delta a una delle sue massime espressioni, arricchendo il sound con l’armonica di Williams e la seconda chitarra di Brown. Il ritmo è decisamente più moderno rispetto alla chitarra solista ascoltata finora, anche se House non si azzarda a trascurare la tradizione come in “Camp Hollers”, che richiama i canti intonati dagli schiavi afro-americani impegnati nei campi di lavoro.
Le sessioni di registrazione di Son House per la Library Of Congress continuano nel luglio 1942 a Robinsonville, Mississippi. Sotto lo sguardo attento di Alan Lomax, House incide un’altra manciata di classici nella tradizione del Delta, da “Special Rider Blues” alla minimale “Depot Blues”, con un canto più controllato e maturo, tanto da avventurarsi anche in territori più folk, come in “American Defense” e “Am I Right Or Wrong”. Con la magnifica oscurità di “The Pony Blues” e soprattutto “The Jinx Blues” (diviso in due parti), Son House si congeda dal panorama musicale e dalle attenzioni pubbliche, trasferendosi a Rochester (NYC) per lavorare come cuoco alla Central Railroad.

Il diavolo ha preso la mia donna

 

Great Depression Blues

Qualcuno ha detto che suono come un’anziana signora, e mi sono sentito davvero insultato. Io cerco di suonare come Skip James
(Tom Waits)

Skip JamesNato all’inizio del 1896 nei dintorni di Terry, Mississippi, Tommy Johnson fa parte di una numerosa famiglia di musicisti. Nemmeno quattordicenne, si trasferisce a Crystal Springs, dove inizia a impratichirsi con la chitarra. Nel suo vagabondare, una notte, incontra un uomo che gli propone un accordo: avrebbe accordato il suo strumento in modo da renderlo un talento senza precedenti. In cambio, Tommy gli avrebbe concesso la sua anima dopo la morte. È il 1914 e il giovane Johnson si esibisce insieme ai suoi fratelli durante le feste, prima di sposarsi e stabilirsi a Drew, nei pressi della piantagione Dockery. In una delle aree più densamente blues del Mississippi incontra musicisti come Charley Patton e Willie Brown. Ripreso il suo peregrinare, si trasferisce a Jackson, dove si presenta per un’audizione al cospetto di H.C. Speir. Le prove di Tommy convincono il famoso talent scout, che decide di segnalarlo a Ralph Peer della Victor Records. Viene così organizzata una prima sessione di registrazioni negli studi di Memphis, all’inizio del 1928, che produce il singolo “Cool Drink Of Water Blues”, ipnotico e mellifluo stornello campagnolo condotto da una sorta di yodel in falsetto. Lo stile vocale di Johnson, abbinato a una tecnica chitarristica assolutamente intricata, sorprende i tecnici Victor, quando parte il più ritmato “Big Road Blues”. Segue un secondo singolo composto dalla gemma oscura “Bye Bye Blues”, che convince Ralph Peer a continuare con le registrazioni nell’estate dello stesso anno.
Per la Victor vengono così registrati altri brani fondamentali per la tradizione blues del Delta, su tutti l’inquietante e scanzonata ode alla dipendenza “Canned Heat Blues”. La session di Memphis è l’ultima per la Victor, che lascia andare Johnson tra le braccia della Paramount, che l’anno successivo ha un disperato bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla morte di Blind Lemon Jefferson. È sempre H.C. Speir a inviare Tommy a Grafton, dato il suo grande successo dal vivo. Alla fine del 1929 vengono così registrate altre canzoni del chitarrista di Terry, non tutte votate allo stile blues, come ad esempio il singolo “I Wonder To Myself”, che vira verso il ragtime con l’accompagnamento di un kazoo. Il tipico falsetto di Johnson torna a squillare in “Slidin’ Delta”, ritrovando solo in parte la profonda inquietudine (“Morning Prayer Blues”) per abbracciare uno stile più jazzy (“Black Mare Blues”) senza avere più grandi idee originali, come in “Alcohol And Jake Blues” che ricopia la struttura di “Canned Heat Blues”. La Grande Depressione annienta il mercato discografico, portando la Paramount a chiudere la collaborazione con svariati musicisti incapaci di vendere come Blind Lemon. Johnson abbandona le sessioni di registrazioni per tornare a vagabondare per il sud degli States, suonando durante feste e serate danzanti. Vinto dal demone dell’alcol, Tommy muore di arresto cardiaco poco dopo un’esibizione dal vivo nel 1956. Una delle prime anime riscosse dalla musica del diavolo.

 

A cavallo tra anni Venti e Trenta del Novecento, la quantità di artisti blues che riescono a malapena a registrare qualche singolo è immensa. Tra occasioni mancate e problemi economici nell’industria discografica, sono pochi quelli che riescono a essere davvero prolifici. Uno di questi è sicuramente Joseph Lee "Big Joe" Williams, tra i primi bluesmen a utilizzare un amplificatore per irrobustire il sound della sua chitarra a nove corde fatta in casa. Nato nei dintorni di Crawford nel 1903, Williams inizia fin da ragazzo a vagabondare tra Mississippi e Alabama, unendosi fugacemente ai Rabbit Foot Minstrels per suonare ovunque gli capiti, dai bordelli ai campi di lavoro. A differenza di tanti altri musicisti del suo tempo, Big Joe non ha alcuna voglia di lavorare, preferendo girellare armato di chitarra per raggranellare qualche soldo. Arrivato a St. Louis nel 1934, Williams conosce il produttore discografico Lester Melrose, che decide di puntare su di lui facendolo firmare per la Bluebird Records.
È il 25 febbraio 1935 quando Big Joe entra in sala di registrazione per incidere i suoi primi sei brani, da “Little Leg Woman” a “Stepfather Blues”, ferocemente dedicata al patrigno che lo ha cacciato di casa quasi vent’anni prima. La tecnica chitarristica di Williams non è delle più intricate, ma la sua musica è quasi primitiva, abbozzata tra ritmo frustato e canto appassionato. Fedele a un approccio più country al blues del Delta, Big Joe torna in studio il successivo ottobre, questa volta in compagnia di una seconda chitarra (Robert Lee McCoy) e dell’ottimo armonicista John Lee “Sonny Boy” Willamson, anche noto come Sonny Boy Williamson I, a rimarcare la differenza con l’usurpatore onomastico Rice Miller. “Baby Please Don’t Go” è il brano che fa saltare il banco, molto più strutturato dei precedenti ma soprattutto uno dei più imitati negli anni a venire. Big Joe non rinuncia al fuoco della tradizione – come sul fiddle di “Stack O’ Dollars” e “Wild Cow Blues” – scatenando tutta la passione sull’andamento quasi hillbilly di “Worried Man Blues”. Williams torna in studio dopo quasi due anni, nel 1937, ancora una volta con l’armonica di Sonny Boy in brani come “I Know You Gonna Miss Me” e lo standard in dodici battute “Rootin’ Ground Hog”. Pur preservando un approccio molto tradizionalista, Big Joe ha affinato negli anni la sua verve country-blues, fino ad arrivare alla piena maturità con la mefistofelica “Crawling King Snake” dalle session del 1941.

 

Il crollo della Borsa a Wall Street porta a conseguenze devastanti per l’industria discografica statunitense, in particolare tamponando le vendite dei race records. Le principali etichette sono costrette a frenare le sessioni di registrazione, chiudendo la porta in faccia a non meglio quantificabili musicisti blues. Immaginiamo la faccia di H.C. Speir quando nel suo negozio di Jackson si presenta l’ennesimo nero convinto di sfondare nel già depresso mercato discografico. Il giovane che varca la soglia nei primi mesi del 1931 si chiama Nehemiah Curtis James, così convinto dei suoi mezzi che nemmeno si degna di eseguire un brano commerciale e ritmato. La sua unica e sola occasione è rappresentata in musica da una cupa ballad chiamata “Devil Got My Woman”, eseguita con uno stile vocale tragico, quasi in falsetto demoniaco. Speir vacilla, non può rifiutare anche lui. Contatta l’amico Arthur Laibly alla Paramount Records spiegandogli che – nonostante tutte le difficoltà del mercato – questo particolare musicista deve avere una possibilità. Lo presenta come Skip James.
Tra le personalità più affascinanti e inquietanti dell’intera storia del blues, Nehemiah Curtis “Skip” James non nutre alcun interesse nei confronti di altri musicisti del suo tempo. Non è interessato al denaro, almeno non quello che deriva dalla sua arte. Nato figlio unico nel 1902 in una piantagione vicino a Bentonia, nei pressi di Jackson, Skip è un giovane innamorato della sua indipendenza, dopo essere scappato di casa a quattordici anni per vagabondare – armato di coltello e pistola – tra gli stati confinanti. Ha la sfacciata fortuna di non dover lavorare nei campi, addirittura frequentando un liceo. Eppure si definisce “un vile bastardo”, un ragazzo che crede fermamente nel suo immenso talento disprezzando tutti gli altri. Alla metà degli anni Venti lavora saltuariamente come operaio, scoprendo presto che il contrabbando di alcolici frutta molto di più. Quando torna a Bentonia, inizia a spacciare whiskey mentre suona di notte le sue prime composizioni originali, con uno stile chitarristico unico – la sua chitarra è accordata in Mi minore, come insegnatogli dall’amico Henry Stuckey – e una voce androgina che non si è mai sentita tra i bluesmen del Delta.

 

Dopo aver provato a registrare per la Okeh nel 1927, Skip si dedica all’insegnamento di chitarra e pianoforte, mantenendo un atteggiamento quasi sempre sprezzante, anche ostile nei confronti dei suoi alunni. Quando all’inizio del 1931 si presenta a Grafton per la sua prima seduta di registrazione per la Paramount, non potrebbe essere più sicuro di se stesso, avendo convinto Speir in un momento difficilissimo per l’industria discografica. In effetti, il repertorio di James è già incredibilmente vasto, spaziando da ritmi tra ragtime e barrelhouse – “22 20 Blues” e “How Long Buck” – a furenti accelerazioni, come nella “I’m So Glad” che più avanti negli anni gli farà guadagnare una fortuna grazie alla più celebre versione dei Cream di Eric Clapton.
Laibly è sinceramente rapito dalle cupe atmosfere create dalla voce in falsetto di Skip, che parla della sua rottura amorosa nella seminale “Devil Got My Woman” e soprattutto dell’attuale situazione economica e sociale nella monumentale “Hard Time Killing Floor”, scelta dalla Paramount come singolo d’esordio ma mai premiata dal successo commerciale perché appunto ritenuta troppo poco ottimistica.
Maestro del pianoforte blues (“If You Haven't Any Hay Get On Down The Road”) e della chitarra accordata in Mi minore, Skip James regala alla Paramount un totale di diciotto brani nel corso della seduta di Grafton, dalla scheletrica “Cypress Grove Blues” alla mefistofelica “Special Rider Blues”. Nessuna di queste incisioni avrà una qualche sparuta forma di successo, dal momento che persino un colosso come la Paramount riscontra enormi difficoltà nel promuovere un artista, anche se con il talento di Skip James. Alla fine dell’anno la sua vita cambia drasticamente dopo l’incontro con il padre, un fervente reverendo contrario allo stile di vita tipico dei bluesmen. Skip non diventerà mai un predicatore, ma si appassiona al gospel e lascia indietro l’alcol e soprattutto la musica. Le sue registrazioni del 1931 restano leggendarie nei decenni successivi, mentre l’ormai ex-contrabbandiere di whiskey sparisce dal panorama musicale statunitense, così come quella donna portata via dal diavolo.

Io e il diavolo

 

La leggenda del Delta blues

Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. Non ho mai trovato nulla di così profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso possa riscontrarsi nella voce umana
(Eric Clapton)

Robert JohnsonRicostruire la vita di Robert Leroy Johnson è un’impresa ai limiti dell’inutilità, dal momento che decine di storici e studiosi del folklore, come lo stesso John Lomax, ci hanno provato con non sempre ottimi risultati. A quasi novant’anni dalla storica seduta di registrazione nella camera 414 al Gunter Hotel di San Antonio, non è più importante chi fosse Robert Johnson, ma cosa abbia lasciato alla musica popolare mondiale.
Probabilmente nato nella città di Hazlehurst nel maggio 1911, Robert è il figlio illegittimo di Julia Major Dodds e Noah Johnson, frutto di un amore proibito dopo che Charles Dodds, benestante artigiano, è stato costretto a lasciare Hazlehurst a causa di un dissidio sulla proprietà di terre nella zona. A soli due anni il piccolo viene portato a Memphis dove si ricongiunge con il patrigno che nel frattempo ha cambiato nome in Charles Spencer. Fino ai dieci anni Robert frequenta la scuola primaria, dove apprende i rudimenti di grammatica, storia e aritmetica. Ma la sua più grande passione è fin da subito la musica e in particolar modo il blues. Intorno al 1920 Robert si trasferisce con la madre Julia prima in Arkansas e qualche tempo dopo a Robinsonville. Anche noto pubblicamente come Little “Dusty” Robert - Julia infatti ha intrapreso una nuova relazione sentimentale con Will “Dusty” Willis, un agricoltore analfabeta più giovane di lei - Johnson continua gli studi entro la fine degli anni Venti, imparando a suonare strumenti come l'armonica e lo scacciapensieri. Invitato a raccontare i suoi ricordi sul giovane Robert, Son House parla di un ragazzino molesto che si intrufola spesso nelle serate di musica live per mettersi a suonare l'armonica accompagnandosi con la chitarra. House, che nel frattempo si è insediato a Robinsonville dove risiede il suo partner artistico Willie Brown, racconta le gesta insolenti di un giovane bluesman assolutamente poco dotato a livello tecnico. Nonostante i rimproveri dei suoi colleghi, Robert non demorde e decide di lasciare temporaneamente Robinsonville per continuare i suoi vagabondaggi e perfezionare lo stile chitarristico. Lo stesso House rivedrà Johnson qualche tempo dopo durante una serata a Banks, notando stupefatto un miglioramento esecutivo assolutamente stupefacente.

 

Come ha fatto Robert Johnson a trasformarsi da un ragazzino molesto e senza particolare talento in una incredibile stella del blues? È una delle leggende più famose, sicuramente quella più inquietante e nota del blues. È la stessa storia raccontata dal fratello di Tommy Johnson: chi vuole imparare a suonare qualunque cosa deve solo prendere il suo strumento e andare dove una strada ne incrocia un'altra, a un crocicchio. È importante recarsi un po' prima di mezzanotte, mettendosi a suonare qualcosa assolutamente da soli. Arriverà così un tipo nero grande e grosso, che si impossesserà della chitarra iniziando ad accordarla. Poi suonerà un pezzo e la restituirà al legittimo proprietario, che potrà suonare divinamente qualsiasi cosa voglia. Ma c'è un prezzo da pagare: l'anima di quel musicista sarà di proprietà esclusiva del diavolo. Questa storia sarà messa in giro dallo stesso Robert, ansioso di dare una sterzata alla sua carriera di bluesman professionista dopo aver notato che le etichette discografiche apprezzano i legami mefistofelici per attirare le vendite.
Johnson si getta a capofitto nella musica, in particolare dopo la tragica morte della sua giovane moglie Virginia nel 1929. Inizialmente propenso a condurre una tranquilla esistenza tra matrimonio e lavoro, Robert si convince di essere un dannato, che il decesso di Virginia sia stato causato da una punizione divina per aver stretto accordi con la musica del diavolo.
Alla base degli incredibili miglioramenti ottenuti da Robert Johnson dopo le critiche di Son House c'è sicuramente un grande studio dei bluesmen del suo tempo, a partire dallo stesso House per passare all’arte di Skip James. Johnson trae grande beneficio dalle lezioni di Ike Zimmerman, che racconta di aver imparato a suonare all'interno dei cimiteri, forse il vero uomo misterioso che la leggenda associa al principe degli inferi. Quando torna a Robinsonville, il piccolo Robert è diventato un vero autore di canzoni, andando oltre lo standard blues per comporre brani complessi che lasciano di stucco i suoi vecchi detrattori. A partire dal 1932, Robert torna a vagabondare, spesso accompagnato dall’amico musicista Johnny Shines, attraversando gli States senza una meta precisa. Nel suo peregrinare utilizza decine di soprannomi diversi, facendo letteralmente impazzire i biografi che tenteranno di ricostruire i suoi spostamenti negli ultimi anni di vita. Robert suona praticamente ovunque, cercando di stupire il suo pubblico e soprattutto corteggiare le ascoltatrici femminili rapite dal suo carisma sonico.

 

Come accaduto a molti altri artisti del tempo, l’incontro fondamentale nella vita di Robert Johnson è con H.C. Speir, quando il musicista di Hazlehurst varca la soglia del negozio di Jackson nel 1936. Robert mette in chiaro le cose sin da subito: vuole diventare una stella del mercato discografico a stelle e strisce. Impressionato dalle capacità mostrate da Johnson nel corso della sua audizione, Speir contatta Ernie Oertle, specializzato nella scoperta di talenti negli stati del sud per l’etichetta Arc. Oertle trova Johnson alla fine dell’anno, portandolo personalmente a San Antonio per una prima seduta di incisione al Gunter Hotel. Il 23 novembre del 1936 la prima sessione di registrazione nella stanza 414 del Gunter Hotel di San Antonio mette a fuoco tutto il talento compositivo di Robert Johnson. Un totale di otto brani incisi per la Arc e poi ripresi per la pubblicazione anche dall’etichetta Vocalion, a partire dal mellifluo falsetto di “Kind Hearted Woman” e “I Believe I'll Dust My Broom” fino all’equivoca e pruriginosa “Terraplane Blues”, unica composizione che arriva a generare un discreto numero di vendite. Nel mezzo, una prima serie di capolavori come la gommosa “Sweet Home Chicago” – che forse più di tutte testimonia la capacità di realizzare vere e proprie canzoni rispetto agli standard blues – e la claudicante “Ramblin’ On My Mind” che sfodera le abilità slide.
La seduta d’incisione al Gunter Hotel continua pochi giorni dopo, dal 26 al 27 novembre 1936. Robert inizia con “32-20 Blues”, rielaborazione della “22-20 Blues” di Skip James, per poi lanciarsi verso i due brani più scanzonati e ballabili. La ruggente “They’re Red Hot” e la galoppante “Last Fair Deal Gone Down” sono basate sugli spettacoli da strada nei cosiddetti Medicine Show, anticipando di fatto il rhythm’n’blues. Sono solo degli intermezzi rilassati, perché nella seduta del 27 novembre ci sono alcuni dei brani più cupi e apocalittici del suo intero repertorio, da “Dead Shrimp Blues” alla seminale “Cross Road Blues”, che mette in musica l’incontro con il diavolo al crocicchio. Dallo slide struggente di “Preachin' Blues (Up Jumped The Devil)” alla dannazione eterna di “If I Had Possession Over Judgment Day”, Johnson aiuta i poveri biografi che cercano disperatamente di ricostruire la sua personale tragedia interiore.

 

Terminate le sedute di San Antonio, Robert torna a vagabondare facendo perdere le tracce, mentre il singolo “Terraplane Blues” riscontra un buon successo commerciale nel 1937. Gli ascoltatori si interrogano sulla stessa esistenza dell’autore e la Arc decide di cavalcare l’onda, convocando Johnson negli uffici della Brunswick Records vicino la Dallas City Hall. Il 19 giugno 1937 Robert riprende da dove aveva lasciato, dal disagio fisico e mentale di “Stones In My Passway” che riprende il tono e lo stile di “Terraplane Blues”, al momento il suo unico successo commerciale negli States. Nella seduta di Dallas c’è però spazio anche per il suo lato più romantico, che si snoda attraverso pochi brani dal sapore nostalgico: “From Four Until Late”, la breve “Honeymoon Blues” e soprattutto la toccante ammissione di solitudine “Love In Vain”. Con la cupa “Hell Hound On My Trail” si torna al mito dell’artista perseguitato dall’inferno, sulla falsariga del maestro Skip James, mentre “Little Queen Of Spades” e “Malted Milk” sono talmente spensierate e docili che nemmeno sembrano uscite dalla stessa penna.
Amante del whisky e delle avventure amorose, Robert si presenta al suo personale patibolo un sabato di agosto, mentre corre l’anno 1938. Parlando subito chiaro, nessuno saprà mai come siano andate realmente le cose. Una storia racconta che viene trovato in un angolo, chitarra sotto braccio, in una jukehouse poco fuori Greenwood. Malgrado gli incoraggiamenti, non è in grado di suonare, sta molto male. All’alba viene portato nella sua stanza dove inizia a contorcersi e sputare sangue dalla bocca, come in preda a una possessione demoniaca. Il maligno che viene a saldare il suo conto. Ha bevuto in realtà whisky avvelenato, servitogli per ordine di un marito geloso. Tanti anni dopo, è quasi il 1970, viene trovato il suo certificato di morte, che parla di un “nero morto di sifilide”. Non ha poi molta importanza. Le 29 incisioni che Robert Johnson lascia ai posteri sono la migliore targa sonica che tutti gli appassionati di blues del Delta possano mai commemorare.

Sweet Home Chicago

 

Dal Delta al blues elettrico

Tutti iniziano imitando i propri idoli. Per me erano Chuck Berry e Muddy Waters
(Keith Richards)

Muddy WatersUna delle figure più influenti negli scavi archeologici del blues a stelle e strisce è sicuramente Alan Lomax, figlio del musicologo John Lomax e instancabile viaggiatore alla ricerca delle tradizioni e del folklore. Con l’obiettivo di documentare la cultura musicale degli africani nel sud degli States, Lomax carica in macchina pesanti apparecchiature per registrare, mettendosi in marcia verso il Delta per consegnare alla storia musicisti del tutto sconosciuti. Uno dei più versatili è sicuramente Huddie William Ledbetter, meglio noto con il soprannome di Leadbelly, nato probabilmente agli inizi del 1888 in una piantagione vicino a Mooringsport, in Louisiana. Trasferitosi alla tenera età di cinque anni in Texas, “Hudy” impara fin da ragazzino a suonare una fisarmonica regalatagli dallo zio, iniziando a vagabondare per bordelli e sale da ballo con una chitarra a 12 corde, alla ricerca di maggior fortuna. Leadbelly è uno spaccone di natura, amante dell’alcol e delle donne, vanaglorioso e particolarmente rissoso. Il suo primo incontro con la legge federale arriva nel 1918, quando finisce in carcere in Texas con l’accusa di omicidio. Pur negando le accuse, subisce una condanna a venti anni, poi scarcerato dopo sette, pare grazie a una canzone suonata per il governatore Pat Neff. Passano pochi anni e Huddie finisce di nuovo dentro, è il 1930 e questa volta siamo in Louisiana, per tentato omicidio. È nella prigione di Angola, nel 1933, che avviene il primo incontro con Alan e John Lomax, attirati irresistibilmente dal suo talento poliedrico e dalla sua capacità di mixare generi molto diversi sulla scala del blues. In carcere vengono organizzate due sedute di registrazione con l’apparecchiatura dei Lomax, tra il 1933 e il 1934. Sono le sessioni che finiranno nella prestigiosa Library Of Congress, centinaia di brani incisi dietro le sbarre che porteranno gli stessi Lomax a intercedere per il suo rilascio con una petizione firmata e inviata al governatore Oscar K. Allen.

 

Dotato di una voce molto estesa e potente, Leadbelly spazia dai ritmi da chain-gang di “Take This Hammer” al sound da minstrel-shows di “Goodnight Irene”, uno dei suoi più grandi successi negli anni seguenti. Brani gospel-soul come “Midnight Special” o sincopati quasi in spoken-word come “Black Betty” affascinano i Lomax, che decidono di portarlo subito a New York per fare incidere il suo repertorio alla American Record Corporation. Trova un discreto successo commerciale, dal proto-rock and roll “Rock Island Line” a scheletriche tragedie folk come “The Gallis Pole” e “Where Did You Sleep Last Night”. Il problema è che la Arc vuole fortemente che registri brani blues, mentre la sua arte spazia in maniera clamorosa per gli standard dell’epoca.
Nel 1939 viene nuovamente imprigionato per violenza. Dopo il suo rilascio nel 1940, Leadbelly torna nella nascente scena folk di New York e si unisce a Woody Guthrie e al giovane Pete Seeger. Nel 1949 inizia un tour in Europa, ma si ammala prima del termine: sclerosi laterale amiotrofica, della quale muore alla fine dell’anno all’età di 64 anni. La sua eredità va ben oltre il genere blues, vista la quantità di brani ripresi dai più grandi nomi della musica internazionale tra gli anni 70 e 90.

 

Sulla strada verso il folklore americano, Alan e John Lomax si fermano, una domenica pomeriggio, davanti a una capanna quasi cadente nella piantagione Stovall, a pochi chilometri da Clarksdale, Mississippi. É l’ultimo giorno di agosto, nel 1941. I Lomax incontrano un certo McKinley Morganfield, nato nella primavera del 1913 e cresciuto fin dalla tenerissima età da nonna Della, dopo il tragico e improvviso decesso della madre a poca distanza dalla sua nascita. Soprannominato “Muddy” per i suoi insoliti passatempi ludici nel fango del vicino torrente, McKinley impara fin da giovanissimo a suonare l’armonica, vivendo la sua infanzia in completa povertà tra gli oltre duemila ettari della piantagione detenuta dal colonnello William Howard Stovall. Si avvicina alla musica grazie ai riti religiosi di stampo battista, iniziando a strimpellare la chitarra. Il suo strumento principale resta però l’armonica, che lo accompagna insieme a Big Joe Williams in un primo tour del Delta agli inizi del 1930. Muddy ha meno di diciotto anni, ma è un ragazzo già molto sveglio, tanto che ha già imparato a contrabbandare alcolici per tirare su qualche soldo in più. Ecco perché quando si presentano alla sua porta due distinti signori bianchi ha più di un sospetto: saranno federali? Ispettori del fisco?
McKinley “Muddy Water” Morganfield – poi definitivamente Muddy Waters, pare per un errore di stampa su uno dei dischi che verranno – non ha alcuna idea della fortuna che gli sta letteralmente bussando alla porta. Dopo aver passato anni a sognare di essere come il suo idolo Son House, adesso questi due signori vogliono che suoni per loro, parlando di una fantomatica Library Of Congress che viene da Washington Dc. Uno dei primi brani che vengono eseguiti da Muddy si intitola “Country Blues”, che fino a quel momento è servito per intrattenere ballerini e clienti in locali specializzati in pesce fritto. La sua voce, unita alla tecnica con il bottleneck, per poco non fa saltare i Lomax dalla sedia. Da dove è uscito questo McKinley? Perché lo stile della successiva “I Be’s Troubled” è così pieno, ruvido e schietto? La Library Of Congress ottiene così un disco a due facce sborsando a Muddy ben venti dollari, oltre che la soddisfazione di una prima incisione. Stanco di vivere nella piantagione, decide di seguire la sua vocazione e trasferirsi nella grande città di Chicago, nell’anno 1943.
A cavallo tra gli anni 30 e 40, la scena musicale di Chicago è dominata senza dubbio dallo swing, che attira pubblico sia bianco che nero nelle tante sale da ballo che presidiano la vivace vita notturna. Il giovane Muddy, fuggito dalla piantagione dopo il salvifico arrivo dei Lomax, sbarca nella grande città con il suo primo repertorio intriso di Delta blues, una musica troppo triste e scheletrica per un contesto così scenografico e spettacolare, dove un certo Nat King Cole corre in rampa di lancio. Muddy inizia subito a fare il giro dei locali per capire dove esibirsi, ma riceve soltanto rifiuti. È così costretto a lavorare in una cartiera, portando comunque a casa i soldi necessari per vivere più che dignitosamente, per gli standard di un nero del Delta. Ma il suo è un carattere fumantino ed estremamente vanaglorioso: vuole a tutti i costi diventare un musicista, così si esibisce durante feste private. Lo zio gli regala una chitarra elettrica, decisamente più complicata da suonare rispetto all’acustica, ma soprattutto la morte di nonna Della gli porta in dote una liquidazione da polizza assicurativa che sfrutta per acquistare una Chevrolet. Il possesso di un’auto lo porta a diventare famoso tra i colleghi blues, scarrozzati da Muddy in giro per locali. In cambio, può esibirsi più frequentemente con artisti come John Lee “Sonny Boy” Williamson, nativo di Jackson (Tennessee) e tra i principali promotori dell’armonica a bocca come strumento principale del blues. Accompagnando brani seminali come “Good Morning Little Schoolgirl”, Muddy accresce la sua reputazione sulla scena blues di Chicago, tornando in studio di registrazione nel 1946 con la sconosciuta 20th Century per incidere la furba “Mean Red Spider”, che mescola la scala blues con fiati più vicini all’universo swing.

 

Il successo tarda ad arrivare, così c’è bisogno di un secondo intervento casuale e fortunoso come quello dei Lomax alla piantagione Stovall. Secondo la leggenda, Muddy riceve una strana telefonata mentre è al lavoro: la madre è tragicamente scomparsa e deve subito recarsi a casa. Ovviamente la madre è morta da tempo, ma Muddy si precipita lo stesso e scopre ad accoglierlo un pianista nativo del Mississippi, noto come Sunnyland Slim. Anche Slim viene dal Mississippi e bazzica la scena di Chicago da più tempo, destreggiandosi tra locali e sessioni di registrazione di artisti come Ma Rainey. Quando accoglie Waters, ha una proposta che non si può proprio rifiutare: il produttore Leonard Chess li vuole entrambi per una seduta d’incisione per l’etichetta Aristocrat. Di origine polacca, i fratelli Lejzor e Fiszel Czyz sono arrivati a Chicago nel 1928, raggiungendo il padre emigrante, Josef, che vende bottiglie vuote al suo Wabash Junk Shop.
Americanizzati in Leonard e Philip Chess, i due giovani non sanno una parola di inglese, ma capiscono subito che il connubio tra vendita di bottiglie (questa volta piene di liquore) e musica per afro-americani è potenzialmente esplosivo. Leonard decide di aprire un night-club chiamato Macomba, entrando successivamente nell’etichetta Aristocrat come produttore discografico. Quando Waters si presenta per la prima volta, Leonard non è convinto: la chitarra non è strumento da primo piano e volutamente viene oscurata dal pianoforte di Slim. Ma le prime incisioni vendono e Chess rivede alcune sue posizioni, lasciando a Muddy più spazio con la chitarra elettrica nei brani che aveva registrato per Lomax, “I Can’t Be Satisfied” e “I Feel Like Going Home”. Disprezzate dalla critica, le suadenti versioni elettriche di Muddy spopolano tra gli ascoltatori di Chicago, che prendono d’assalto i negozi di dischi, costretti a limitare le vendite a una sola copia per cliente. Waters sfiora la Top 10 dei Race Records nel 1948, “costringendo” Leonard Chess a continuare sulla nuova spinta del Delta blues elettrificato. Fregandosene dei dubbi della critica, Muddy ripropone la vena nostalgica in “Down South Blues” e “Train Fare Home”, altro fantastico tassello sonico verso la nuova vita del blues a stelle e strisce.
Due anni dopo, nel 1950, la scalata continua: “Louisiana Blues” sale al decimo posto nella classifica R&B di Billboard, mentre impazzano le vendite di singoli come “Rollin’ And Tumblin’” e “Rollin’ Stone”, che diventano in brevissimo tempo delle vere e proprie icone nel panorama musicale afro-americano. Grazie al contributo dell’armonicista Little Walter, del piano di Otis Spann e della batteria di Elga Edmonds, la Muddy Waters Blues Band è tra le migliori, se non la migliore, su piazza.

 

Mentre mostra i muscoli del nuovo blues elettrico, Waters deve pagare più di una bevuta al contrabbassista e compositore William James Dixon, arrivato per la prima volta a Chicago nel 1936 per sfondare nel mondo del pugilato con la sua imponente stazza. Nato a Vicksburg, Mississippi, nell’estate del 1915, Willie ha iniziato da ragazzino con l’armonica e poi il basso, nel gruppo gospel Union Jubilee Singers. Trasferitosi a Chicago poco più che ventenne, Willie vince l’Illinois State Golden Gloves Heavyweight Championship, ma abbandona presto il mondo della boxe dopo una furiosa disputa con il suo manager.
Durante uno degli allenamenti in palestra incontra il musicista blues Leonard Caston, che lo convince a darsi anima e corpo alla musica. Armato di un contrabbasso a una sola corda – da suonare rigorosamente con una lattina – Dixon si unisce prima ai Five Breezes e poi ai Big Three Trio, registrando per la Columbia Records nel primo dopoguerra. All’inizio degli anni 50, Willie viene assunto dalla Chess come compositore e talent scout, praticamente una sorta di deus ex-machina dietro i successi di diversi bluesmen del periodo. Da “I Can’t Quit You Baby” a “Little Red Rooster”, fino alla celeberrima “I’m Your Hoochee Coochee Man”, il repertorio di Dixon stravolge il blues tradizionale verso il futuro del genere nel cuore di Chicago.

 

È il 1954. Per la Chess Records esce il singolo “I’m Your Hoochie Coochie Man”, composizione di Willie Dixon registrata da Muddy Waters che cambia per sempre il blues, a Chicago, ma soprattutto nel mondo della popular music. Il ritmo marziale tra armonica, voce e chitarra elettrica trasforma la musica afro-americana in un movimento globale, sfondando i timpani degli ascoltatori bianchi quando Waters si esibisce al Leeds Festival quattro anni dopo. Quando reinterpreta la “I’m A Man” di Bo Diddley nella tribale “Mannish Boy” (1955), Waters è sul tetto del pianeta blues globale, fino alla storica esibizione a Newport del 1960 quando è costretto a concedere il bis dell’iconica “I’ve Got My Mojo Working”, summa della sua verve da maschione esoterico.

Il re del boogie

 

Boom boom

John Lee Hooker è diventato un mio caro amico e ho amato da subito il suo lavoro. Era davvero un’icona. Ha vissuto la vita. Mi manca molto
(Mick Fleetwood)

John Lee HookerVenuto alla luce a Clarksdale, in una data imprecisata tra il 1917 e il 1923, John Lee Hooker può vantarsi di essere il primo bluesman “ad aver lanciato il boogie”. Nel corso di un'infanzia completamente avvolta dal mistero, John Lee dichiara di aver imparato il suo groove inconfondibile dal patrigno, Will Moore, mezzadro originario della Louisiana. Secondo l’ennesima leggenda di questa lunga storia, Will avrebbe suonato con artisti del calibro di Charley Patton e Blind Lemon Jefferson, insegnando al figlioccio le prime tecniche chitarristiche a partire dal 1930. In realtà non esistono documenti – nemmeno tra gli sconfinati archivi dei Lomax – sulla figura da bluesman di Will Moore, probabilmente ingigantita dai racconti successivi di John Lee. Dotato fin da piccolo di una profonda impronta vocale, John è in realtà il figlio naturale del reverendo William Hooker, che non ha mai preso bene la sua vocazione per la musica profana. Dopo un feroce divieto di far entrare anche un solo strumento musicale dentro casa, il ragazzo è l’unico tra i figli di Minnie Ramsey a scegliere la nuova vita con il mezzadro Will Moore.

 

Cresciuto nella piantagione Fewell, John scopre presto che quello non è il suo stile di vita. Si narra di una zingara che lo incontra un giorno e gli predice un futuro di grande fama e ricchezza. Nessuno dei suoi amici ci scommetterebbe un centesimo. Introverso e solitario, Hooker si allena tutti i giorni andando e venendo da Clarksdale, preferendo la veranda della sua piccola abitazione in Isaquena Street alle jam con altri musicisti blues del periodo. Corre l’anno 1933 quando John Lee decide di trasferirsi a Memphis, trovando subito un lavoretto da maschera teatrale sulla famosa Beale Street. La musica resta una faccenda privata e personale, che non gli permette di vivere se non per qualche spicciolo racimolato in qualche jukehouse. Evidentemente, Memphis non è il luogo del destino indicato dalla zingara. Hooker si trasferisce così prima a Knoxville e poi a Cincinnati, barcamenandosi tra vari lavori e sognando di entrare in una delle sale di registrazione della famosissima etichetta locale, la King Records. Giunto verso la fine degli anni 40 a Detroit, John Lee è più attratto dai salari della grande industria automobilistica che dalla possibilità di diventare un vero bluesman.
Nella “Motor Town” John Lee Hooker può spiccare il volo, nonostante la sua assoluta mancanza di pedigree. Abbandona i luoghi più solitari, decidendo di lanciarsi nella mischia tra i numerosi locali notturni della zona, dall’Apex Bar al Caribbean Club. Le prime versioni di brani come “Boogie Chillen”, “Sallie Mae” e “Crawlin’ King Snake” mandano il pubblico in visibilio, attirando soprattutto l’attenzione degli addetti ai lavori. Uno di questi si chiama Elmer Barbee, proprietario di un negozio di dischi in Lafayette Street. Incuriosito dalle voci su questo nuovo fenomeno del blues, Barbee si reca nell’affollato Apex Bar per ascoltare John Lee Hooker dal vivo, rimanendone folgorato. Insieme ai suoi compagni di band, James Watkins e Curtis Foster, Hooker inizia a registrare i suoi primi acetati nel retro del negozio di Barbee.
È il 1948: Barbee presenta Hooker a Bernard Besman, impresario discografico di origini ucraine che ha trasformato la Pan American nell’etichetta Sensation. Besman non si lascia intimorire dai mille difetti di Hooker in uno studio di registrazione. Balbuziente, con quel piede che batte freneticamente. Lascia che la musica di John Lee fluisca libera, in formato spoken-word, senza abbellimenti o fronzoli. È la chiave del successo.

 

Quando viene pubblicato – grazie all’intervento dei fratelli Bihari, proprietari dell’etichetta Modern di Los Angeles – il singolo “Boogie Chillen”, il panorama musicale degli States si accende come una supernova. Nel febbraio 1949 arriva al primo posto della classifica R&B di Billboard, passato in radio centinaia di volte al giorno. Si dice che le vendite arrivino al milione di copie. “Boogie Chillen” è il nuovo sound di Detroit, grezzo, implacabile, il futuro del blues che guarda alla ruvidezza delle pianure del Delta. Besman richiama così Hooker in studio per registrare altri singoli, da “Hobo Blues” a “Hoogie Boogie”, tutti in classifica come soldatini.
La fama scellerata del nuovo bluesman porta Barbee a elaborare uno stratagemma per fare soldi a palate: fregarsene del contratto con Besman e portare Hooker a suonare per diverse etichette sotto pseudonimi. Da Texas Slim a John Lee Booker, incide centinaia di brani (originali e non), inducendo gli ascoltatori del periodo a credere che ci sia una nuova ondata di boogie blues in città. Tutte le ondate però hanno una risacca: a parte il nuovo singolo “Huckle Up, Baby”, disc-jockey e ascoltatori iniziano a stancarsi del sound, così come i locali non cedono a cachet più remunerativi. Sembra quasi che Hooker sia diventato vittima della sua stessa verve famelica, fino all’anno 1951 quando trionfa ancora in classifica con il singolo “I’m In The Mood”, molto più vicino al soul che alla tradizione blues.

 

A metà del 1952, Hooker ha già inciso centinaia di brani, eppure non è mai riuscito a guadagnare con la sua torrenziale musica. Quando si interrompe il rapporto con Besman, che si trasferisce in California per darsi ad altre attività, si ritrova quasi senza un soldo, dal momento che lo stesso impresario si è accaparrato quasi tutto, convinto di essere l’unico e solo artefice di un successo che altrimenti non sarebbe mai arrivato. Tre anni dopo, nel 1955, il sound americano sta per concedersi anima e corpo al rock’n’roll di Chuck Berry, portando Hooker a stabilizzarsi con l’etichetta Vee-Jay sotto un unico e solo contratto.
Fondata da Vivian Carter e James Bracken, la Vee-Jay ha attirato (e non poco) l’attenzione con la prima produzione di Jimmy Reed, nativo del Mississippi e fautore di un groove abbastanza simile a quello di Hooker. Da “High And Lonesome” a “Jimmy’s Boogie”, fino al successo “You Don’t Have To Go”, Reed combatte i demoni dell’alcolismo con un sound più puro e tradizionale di quello di John Lee, permettendo alla Vee-Jay di decollare sulla scena discografica dal 1953. Il lavoro a Chicago con la Vee-Jay è spesso tortuoso, tormentato da due figure ingombranti, Hooker e Reed, che hanno due concezioni molto diverse del boogie blues. “I’m John Lee Hooker” è il primo long-playing che esce sul mercato nell’estate del 1959, prima della sua partecipazione al Newport Folk Festival davanti al pubblico sicuramente più nutrito di tutta la sua vita artistica.

Mentre la sua attività discografica riprende a farsi quantomeno frastagliata – Hooker non è mai stato un artista fedele alle etichette – il singolo “Boom Boom” arriva nel 1962 fino al sedicesimo posto nella classifica R&B statunitense, inciso per la Vee-Jay e sicuramente tra le massime espressioni del suo boogie blues sporco. A sancire definitivamente la leggenda del bluesman balbuziente, l’arrivo nel Vecchio Continente che verso la metà degli anni 60 è in pieno fermento sonico. Quando arriva nel Regno Unito, Hooker viene omaggiato da giovani rocker come Mick Jagger e Jimmy Page, che dal blues a stelle e strisce hanno attinto a piene mani con il rispetto che solo i figli d’arte possono nutrire al cospetto dei padri fondatori dalle paludi del Delta.

Il lupo ululante

 

Fulmini sulla ciminiera

Lasciamelo dire: la cosa più incredibile che io abbia mai visto è Chester Burnett durante una di quelle sedute nel mio studio. Mio Dio, vedere il fervore sul viso di quell’uomo mentre cantava era impareggiabile
(Sam Phillips)

Howlin WolfAgli inizi degli anni 50, la Memphis Recording Service guidata da Sam Phillips è il posto giusto dove provare a diventare una leggenda della musica. Da Elvis Presley a Johnny Cash, le future e più fulgide stelle del firmamento rock’n’roll sono passate per la sua etichetta, la Sun Records. Sulla scena musicale scorre come un mantra: se vuoi diventare veramente qualcuno, devi bussare alla porta al 706 di Union Avenue. È proprio quello che fa un giorno un omone grande e grosso di nome Chester Burnett, armato della sua fida armonica che sembra così piccola al suo cospetto. A differenza di giovani bellocci come Elvis, Chester è già arrivato alla mezza età, sa a malapena leggere e fare di conto. Nato nel giugno 1910 a White Station, Mississippi, Chester è il figlio di un mezzadro e di una cuoca con la passione per gli spiritual. Il nonno lo ha soprannominato Wolf, per farlo rigare dritto ed evitare di fare la fine di Cappuccetto Rosso. Ma Chester ha sempre rigato dritto, spaccandosi la schiena nei campi per poter pagare vitto e alloggio al suo iracondo prozio Will Young, che lo ha accolto malvolentieri dopo la separazione dei genitori.
Burnett ha poco tempo per la musica, sfrutta quello che trova, magari dei secchi di latta. Prima di comprarsi un’armonica per qualche centesimo e solo a 18 anni la sua prima chitarra. Cinque anni prima è scappato da casa Young per ritrovare il padre in una piantagione vicina a quella Dockery, dove abita e suona la leggenda Charley Patton. Patton lo prende a benvolere, gli fornisce importanti consigli su come si sta su un palco, mentre Chester inizia a frequentare le prime feste dove può esibirsi senza alcuna velleità. Nel 1933 si sposta con la famiglia del padre in Arkansas, dove continua a lavorare i campi spaccandosi la schiena giorno dopo giorno. Quando decide che è arrivato il momento di fare sul serio con la musica, viene arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti, pochi mesi prima di Pearl Harbor.

 

Congedato alla fine del 1943 per diverse problematiche di salute, Burnett si trasferisce prima in Tennessee e poi in Arkansas, per tornare a lavorare nei campi. Continua a suonare nel tempo libero, incentivando la sua passione a partire dal 1948, quando si sposta nuovamente a West Memphis. Qui forma la sua band, con Willie Johnson alla chitarra e Willie Steele alla batteria. Con l’antico soprannome di Howlin’ Wolf, Chester gira i diversi club di Memphis a capo degli House Rockers, uno dei gruppi più elettrici sulla scena blues alla fine degli anni 40. La fama di Wolf inizia a crescere con i primi passaggi in radio: un disc-jockey di Memphis consiglia infatti al celebre Sam Phillips di ascoltarlo. Nel maggio 1951, a oltre quarant’anni, Burnett incide le sue prime due facciate, tra cui l’iconica “Moanin’ At Midnight” che lancia definitivamente il lupo ululante. Insieme al B-side, “How Many More Years”, il singolo sbanca le classifiche R&B di Billboard, portando Phillips a trascinarlo nuovamente in studio nel 1952 per registrare (su etichetta Chess) “The Wolf Is At Your Door” e “Howlin’ Wolf Boogie”. La già ingombrante figura di Chester si allarga sul circuito di Memphis, finché i fratelli Chess non decidono che è arrivato il momento del grande salto, a Chicago, nell’inverno ’54, nella città del blues elettrico dove agisce un certo Muddy Waters.

 

Quando Wolf arriva a Chicago trascinato da Leonard Chess, i rapporti con la stella Waters sono buoni, tanto che è lo stesso Muddy che lo invita a stare a casa sua per i primi tempi. Nella primavera del 1954, la prima seduta d’incisione nella nuova città partorisce l’ipnotico singolo “No Place To Go”, pubblicato insieme al ballabile “Rockin’ Daddy”. Il disco vende bene e porta Burnett nuovamente in sala per registrare il classico di Willie Dixon, “Evil Is Going On”. La voce potente di Chester fa saltare il banco, dimostrando agli ascoltatori di Chicago che Muddy Waters non è affatto l’unico re del blues in città. A questo punto, bisogna assolutamente mettere su una nuova band di livello, dopo quella diventata famosa a West Memphis. Alla chitarra viene scelto Jody Williams, mentre alle tastiere si accomoda Hosea Lee Kennard. Soprattutto, Wolf sceglie un giovane immigrato del Delta, Hubert Sumlin, destinato a diventare uno dei chitarristi blues più apprezzati da gente come Eric Clapton e Jimi Hendrix. Con questa formazione nuova di zecca, Wolf si prende alcune date in locali storicamente presidiati da Waters come lo Zanzibar, sconvolgendo il pubblico con le sue pose oscene e il suo continuo movimento sul palco. Un'energia smaccatamente erotica che lascia tutti di stucco. La produzione discografica continua nell’autunno del 1954 con i nuovi singoli “Forty-Four” e “I’ll Be Around”, ma a fare il botto è “Smokestack Lightnin’” (1956), un groove ululante che sfiora la top 10 R&B di Billboard in primavera. Il brano è praticamente la summa dell’arte di Howlin’ Wolf, che a questo punto della sua carriera è diventato un vero e proprio rivale per il predominio blues su Chicago. Waters pensa bene di soffiargli Sumlin per un lunghissimo tour negli States, terminato poi con il ritorno a casa del chitarrista dopo una non troppo velata minaccia di morte a Muddy da parte del Lupo.

 

Tra la metà e la fine degli anni 50, Wolf continua la sua lunga cavalcata in tour, inframezzata da singoli come “Bluebird” e “Howlin’ Blues”. All’alba del 1960, la sua creatività appare sfiorita, così si convince a incidere diversi singoli scritti da Willie Dixon, perfetti per la sua voce grezza e corpulenta. “Wang Dang Doodle”, “Back Door Man” e “The Red Rooster” sono i nuovi capolavori che influenzeranno schiere di musicisti rock, così come la sua ultima composizione originale, “Killing Floor” del 1964, che rivivrà immortale nelle successive versioni di Jimi Hendrix e Led Zeppelin.

I tre re della chitarra blues

 

Riley B., Albert e Freddie

Sono cresciuto in una piantagione di cotone e so cosa significa la povertà. Per questo suono il blues
(B.B. King)

BB KingÈ il 16 settembre 1925. Albert Lee King è indeciso sul nome da dare al suo primogenito maschio. Nella piantagione di Berclair, vicino alla città di Itta Bena, Mississippi, Albert vuole essere riconoscente verso il suo padrone, Jim O’Reilly. Decide così di chiamarlo Riley, con una lettera B piantata nel mezzo, poi raddoppiata nel soprannome Blues Boy, B.B. King. All’età di soli quattro anni, Riley si ritrova a vivere con l’anziana nonna, prima del tragico decesso della madre Nora Ella nel 1934. Fino all’età di 14 anni, quando il padre Albert torna a farsi vivo per portarlo con la sua nuova famiglia a Lexington, Riley cresce praticamente da solo, lavorando nei campi e ascoltando i suoi primi idoli musicali, su tutti Blind Lemon Jefferson e Lonnie Johnson. Grazie al supporto del reverendo Archie Fair, amico di famiglia, inizia a strimpellare la chitarra, sognando di diventare un predicatore in musica. Quando torna a vivere con il padre, passa ore ad ascoltare la radio, mettendo da parte qualche spicciolo necessario a comprarsi la sua prima chitarra e iniziare a suonare in un gruppo gospel. Il lavoro nei campi è necessario per sopravvivere, così decide di tornarsene nel cuore del Delta, verso Indianola, dove poter sbarcare il lunario spaccandosi la schiena. Verso i vent’anni prende anche moglie, probabilmente per evitare la leva dopo lo scoppio della guerra. La sua ambizione è diventare un musicista famoso: nel 1946 prende tutto quello che ha e scappa a Memphis, inseguendo il suo grande sogno.

 

Riley King arriva a Memphis nel 1946, diretto a casa del cugino Bukka White che lo accoglie subito nel migliore dei modi, trovandogli un lavoro da saldatore e soprattutto acquistandogli una chitarra Gibson e un amplificatore. Finalmente equipaggiato per sfondare in città, King se ne torna dopo poco dalla moglie Martha, salvo ripresentarsi dopo due anni a West Memphis per convincere Bert Ferguson, responsabile dei palinsesti della radio locale Wdia. Ferguson assolda King per costruire il motivo di una pubblicità per il suo tonico alcolico Pepticon. La visibilità di Blues Boy (o meglio, B.B.) aumenta sulla famosa Beale Street, dopo l’incisione del primo singolo per la Bullet Records, “Miss Martha King”, dedicato alla moglie. Quando la Bullet fallisce miseramente, Ike Turner lo segnala ai fratelli Bihari (Modern Records) che lo portano in studio di registrazione con Sam Phillips alla Memphis Recording Service.
Il primo successo è la strappalacrime “Three O’ Clock Blues”, che diventa un successo inatteso arrivando al numero uno alla fine del 1951 e restando in classifica per diversi mesi. Il nuovo stile e approccio al blues di B.B. King è evidente, tra gli insegnamenti dei suoi idoli e una nuova interpretazione soul con il contributo di Ike Turner al pianoforte. Verso la fine del 1952, il successo di “Three O’ Clock Blues” viene bissato dall’altra romantica ballata “You Know I Love You” e poi dal più ritmato “Please Love Me”.
Tra il 1951 e il 1956, B.B. King piazza in classifica una serie impressionante di successi, dal beat frenetico di “Woke Up This Morning” all’intensa lentezza di “Sweet Little Angel”. Inizia così la sua seconda vita dal vivo, quando decide di comprarsi un autobus per portare la sua band in giro per gli Stati Uniti a un ritmo di oltre trecento date all’anno. Durante un concerto in Arkansas, due spettatori litigano per una donna e provocano un'esplosione lanciando una stufa a cherosene. King torna tra le fiamme per recuperare la sua chitarra Gibson, che da quel momento viene ribattezzata Lucille, esattamente come la donna per cui stavano litigando i due.
Dopo il secondo matrimonio, nel 1958 piazza altri due successi per l’etichetta Kent, “You’ve Been An Angel” e “Please Accept My Love”, seguiti due anni dopo da “You’ve Got A Right To Love My Baby” e “Sweet Sixteen”. King è però scontento del trattamento economico dei fratelli Bihari, che anticipano pochissimo e soprattutto non gli versano i diritti delle sue composizioni. È il 1961 quando decide di fare il salto definitivo, firmando per la Abc-Paramount e ricevendo un anticipo da oltre 25mila dollari per i dischi successivi. Il lavoro della nuova etichetta verterà sul portare B.B. King sui palcoscenici bianchi, trasformandolo in un eroe nazionale come fatto con Ray Charles.
I successi del periodo, “Sneakin’ Around” (1962) e “Help The Poor” (1964), lo portano alla data del 21 novembre 1964, quando si esibisce al Regal di Chicago in uno dei suoi migliori concerti in assoluto.

 

Nonostante i problemi economici – il fisco lo accusa di aver evaso il pagamento delle tasse – e il furto del suo autobus in Georgia, King non molla la cresta dell’onda, soprattutto dal vivo, con i suoi classici sempre presenti, come a incarnare lo spirito del blues a ogni live. Da “Everyday I Have The Blues” a “Worry, Worry”, il lento blues di B.B. King conquista gli States, ma soprattutto legioni di nuovi rocker, da John Lennon a Eric Clapton, che gli aprono le porte dei nuovi circuiti capelloni. King inizia così a suonare nei locali battuti da gruppi come Rolling Stones e Cream, finalmente aprendosi al pubblico bianco tanto inseguito dalla etichetta Abc. A siglare il suo definitivo successo planetario è il singolo “The Thrill Is Gone”, vecchia incisione di Roy Hawkins che inizia la rotazione sulle radio afro-americane e poi esplode arrivando ai primi venti posti delle classifiche pop, decisamente più difficili da raggiungere per un bluesman del Delta. Il pezzo fa vincere a B.B. King il suo primo Grammy Award, è il 1970 quando la sua fama sancisce la conquista del blues nel nuovo rock che avanza tra Stati Uniti e Inghilterra.

 

Nato tra il 1923 ed il 1924 nella piantagione di cotone di Indianola, Albert Nelson cresce tra le prime fatiche del lavoro nei campi e una precoce passione per il canto gospel, esibendosi insieme al padre chitarrista nelle chiese tra il Mississippi e l’Arkansas. Come molti suoi coetanei, Albert passa l’adolescenza a raccogliere cotone, guidando un pesante bulldozer – uno dei suoi successivi soprannomi sarà proprio The Velvet Bulldozer – per mantenersi da vivere e potersi permettere la sua prima chitarra al costo di poco più di un dollaro. La carriera da musicista inizia nel gruppo Groove Boys di base in Arkansas, dove si è trasferito con la madre a partire dagli otto anni. Siamo nell’anno 1953 e Albert Nelson diventa Albert King, nel tentativo di essere associato al presunto fratello di sangue B.B. King. Si trasferisce in Indiana, dove suona la batteria per le prime incisioni di Jimmy Reed, ma soprattutto riesce a incidere il suo primo singolo per la Parrot Records, la melliflua “Bad Luck Blues”. Il disco non ha successo, vende pochissimo e convince i gestori della Parrot che non è affatto il caso di insistere con le sue produzioni. Se ne torna così in Arkansas a lavorare con i suoi primi compagni, i Groove Boys.
Pochi anni dopo, è il 1956, Albert decide di tentare nuovamente la fortuna muovendosi verso Brooklyn, Illinois, a corta distanza dalla vivace St. Louis. Con la sua nuova band, si esibisce in diversi locali notturni condividendo il palco con Ike Turner, attirando l’attenzione del bluesman Little Milton che gli offre un contratto per la sua Bobbin nel 1959. A cavallo tra gli anni 50 e i primissimi 60, escono alcuni singoli per l’etichetta di St. Louis, da “Why Are You So Mean To Me” a “I Get Evil”, ma nessuno riesce a spaccare le classifiche R&B. Il primo successo non tarda però ad arrivare: nel 1961 esce su etichetta King il singolo “Don’t Throw Your Love On Me So Strong” con il contributo di Ike Turner al pianoforte. La voce calda di King, abbinata a una chitarra avvolgente, permette al disco di arrivare fino alla posizione 14 della classifica R&B di Billboard.
Ma non si parla di un decollo, affatto. La carriera di King sembra essere aggrappata alle sole esibizioni dal vivo negli stati del Midwest, così decide di trasferirsi a Memphis per il definitivo grande salto. Qui ha sede un’etichetta discografica destinata alla leggenda, la Stax Records fondata da Jim Stewart nel 1957 e poi condotta insieme alla sorella Estelle Axton. La Stax mette a disposizione di King l’ensemble noto come Booker T. & the MGs. A partire dal singolo “Laundromat Blues” (1966), la nuova produzione per la Stax di Albert offrirà agli ascoltatori statunitensi un blues più moderno, fresco e imbevuto di soul e R&B, per attirare le radio. Il successo è tutto nel seminale disco “Born Under A Bad Sign”, uscito nel 1967 e contenente i singoli Stax che rivoluzionano il blues attirando le attenzioni dei grandi rocker del periodo. Dalla title track a “Crosscut Saw”, il disco viene accolto dalla critica come un “monumento al blues”, una collezione senza precedenti di canzoni scintillanti, guidate dal sound inconfondibile della Flying V di King e della backing band d’eccezione, composta da Booker T. Jones, Isaac Hayes e Steve Cropper.

 

Il terzo regnante di questa storia nella storia viene dato alla luce nel 1934 a Gilmer, in Texas, con il nome certificato di Fred King. Inizia a suonare la chitarra a soli sei anni, grazie agli insegnamenti della madre Ella Mae. Nel 1949, all’età di 15 anni, si trasferisce con la famiglia a sud di Chicago, iniziando a lavorare pochi anni dopo all’interno di una acciaieria, ovviamente solo per guadagnarsi da vivere. Nella grande città, Freddie frequenta i diversi locali notturni dove si esibisce gente del calibro di Muddy Waters e Howlin’ Wolf, rapito dal sound elettrico proveniente dal Delta. In quel momento decide di mettere in piedi una band, la Every Hour Blues Boys, insieme al chitarrista Jimmy Lee Robinson. Le sue prime incisioni sono però per la Parrot nel 1953, mai rilasciate ufficialmente, con i Blues Cats.
La carriera di King inizia ufficialmente con il singolo “Country Boy” (1956), pubblicato per la piccola etichetta El-Bee. La sua ambizione massima è però quella di registrare per l’etichetta principale del blues di Chicago, la Chess, che lo rifiuta perché dotato di uno stile vocale troppo simile a quello di B.B. King. Freddie non demorde e nel 1959 incontra Sonny Thompson, pianista e produttore di punta della King Records, che lo presenta al proprietario dell’etichetta Syd Nathan che lo gira alla sussidiaria Federal Records. È l’anno 1960: King piazza il colpo “Have You Ever Loved A Woman”, intensa ballata accompagnata dal B-side “You’ve Got To Love Her With A Feeling”. Dalla stessa seduta per la Federal viene fuori anche la strumentale “Hide Away”, che l’anno successivo arriva al numero cinque della classifica R&B e addirittura al numero 29 di quella pop, evento assolutamente impronosticabile per un blues strumentale.
Dotato di una voce soul potente e calda, Freddie cavalca l’onda del successo e si getta a capofitto sul blues strumentale, realizzando oltre trenta singoli fino alla metà degli anni 60. Quando scade il suo contratto con la Federal, King si trasferisce nuovamente in Texas, a Dallas, per iniziare un tour americano e successivamente firmare per la Atlantic nel 1968. Il suo lavoro non riuscirà mai a bissare il successo di “Hide Away”, ma King verrà trattato dai grandi rocker statunitensi e inglesi come una divinità del blues e sarà ospitato in diversi concerti fino alla sua prematura morte, a causa di una pancreatite, a 42 anni.

Outro

 

Blues Revival

Negli anni mi sono dilettato con gente come Howlin’ Wolf, Cream e Led Zeppelin, ma quando ho ascoltato Son House e Robert Johnson, mi è scoppiato il cervello. Era qualcosa che avevo perso nella mia vita. Quella musica mi ha portato a scartare tutto il resto e concentrarmi esclusivamente sull’anima e l’onestà del blues
(Jack White)

Eric ClaptonOvviamente, il lettore riuscito ad arrivare fino a questo punto starà già facendo la conta degli artisti nemmeno citati di sfuggita in questa storia. Punto uno, sarebbe quantomeno presuntuoso anche solo tentare di scrivere qualcosa di esaustivo in merito. Per un Robert Johnson che è riuscito a diventare leggenda, ci sono altre centinaia di musicisti che non sono nemmeno riusciti ad avere la possibilità di registrare la propria musica. Poveri afro-americani schiavizzati nelle piantagioni che magari avevano un tocco ancora più potente di quello di Robert. Punto secondo, ci sono diverse ramificazioni nella storia del blues, non solo Delta, Memphis o Chicago, ma anche Texas o Baton Rouge. Da Buddy Guy a Taj Mahal, i sacramenti del blues sono tantissimi e più che probabilmente degni di un nuovo capitolo. Punto terzo, il più importante, questa storia parte dalle falde del Mississippi perché vuole tornare alle origini più rurali, quelle che solo grazie a storici, critici, giornalisti e giovani rocker degli anni 60 e 70 sono arrivati a noi oggi. Quando improvvisamente gente come Son House viene accolto come una divinità nei festival sixties, o nuovi bluesmen come Eric Clapton attingono a piene mani da Freddie King per lo sviluppo della musica dei Cream. È quello che viene chiamato genericamente blues revival, un movimento di riscoperta di artisti dimenticati (o mai conosciuti) per omaggiare musicisti che di fatto hanno inventato il rock così come lo conosciamo oggi.

 

(to be continued...)

Discografia

Guida all'ascolto

W.C. Handy

The Memphis Blues (1912)

St. Louis Blues (1914)

Mamie Smith

Crazy Blues (1920)

Ma Rainey

Bo-Weavil Blues (1923)

Broken Hearted Blues (1926)

Ma Rainey's Black Bottom (1927)

Victim Of The Blues (1928)

Bessie Smith

Down Hearted Blues (1923)

St. Louis Blues (1925)

Careless Blues (1925)

Yellow Dog Blues (1925)

Nobody Knows You When You're Down And Out (1929)

Blind Lemon Jefferson

Dry Southern Blues (1926)

Long Lonesome Blues (1926)

"Black Snake Moan (1927)

Matchbox Blues (1927)

Penitentiary Blues (1928)

William Harris

Early Morning Blues (1927)

Kansas City Blues (1927)

Tommy Johnson

Big Road Blues (1928)

Bye Bye Blues (1928)

Canned Heat Blues (1928)

Lonesome House Blues (1928)

Charley Patton

Pony Blues (1929)

Mississippi Boweavil Blues (1929)

Banty Rooster Blues (1929)

Tom Rushen Blues (1929)

Prayer Of Death Part 1 & 2 (1929)

Hammer Blues (1929)

Green River Blues (1929)

Going To Move To Alabama (1929)

High Water Everywhere Part 1 & 2 (1929)

Jim Lee Blues Part 1 & 2 (1930)

Dry Well Blues (1930)

High Sheriff Blues (1934)

Con Bertha Lee

Oh, Death (1934)

Yellow Bee (1934)

Son House

My Black Mama Part 1 & 2 (1930)

Preachin' The Blues Part 1 & 2 (1930)

Levee Camp Blues (1941)

Government Fleet Blues (1941)

Shetland Pony Blues (1941)

Special Rider Blues (1942)

Depot Blues (1942)

The Jinx Blues Part 1 & 2 (1942)

Bukka White

The New Frisco Train (1930)

The Panama Limited (1930)

Shake 'Em On Down (1937)

Po’ Boy (1939)

Parchman Farm Blues (1940)

Fixin' To Die Blues (1940)

Willie Brown

M & O Blues (1930)

Future Blues (1930)

Skip James

Devil Got My Woman (1931)

Illinois Blues (1931)

I'm So Glad (1931)

Hard Time Killing Floor (1931)

Special Rider Blues (1931)

Big Joe Williams

Stepfather Blues (1935)

Baby Please Don't Go (1935)

Worried Man Blues (1935)

Crawling King Snake (1941)

Robert Johnson

Kind Hearted Woman Blues (1936)

Sweet Home Chicago (1936)

Ramblin On My Mind (1936)

If I Had Possession Over Judgement Day (1936)

Little Queen Of Spades (1937)

Traveling Riverside Blues (1937)

Leadbelly

Midnight Special (1940)

Rock Island Line (1944)

Where Did You Sleep Last Night (1944)

Sonny Boy Williamson I

Good Morning Little Schoolgirl (1937)

Muddy Waters

I Feel Like I'm Going Home (1948)

I Can't Be Satisfied (1948)

Train Fare Home (1948)

Rollin' And Tumblin' (1950)

Baby Please Don't Go (1953)

I'm A Hoochie Coochie Man (1954)

Mannish Boy (1955)

Got My Mojo Working (1956)

Willie Dixon

"Hoochie Coochie Man" (1954)

I Can't Quit You Baby (1956)

Little Red Rooster (1961)

You Shook Me (1962)

Bring It On Home (1963)

John Lee Hooker

Boogie Chillen (1948)

Hoogie Boogie (1949)

Hobo Blues (1949)

Huckle Up, Baby (1950)

Boom Boom (1962)

Jimmy Reed

High And Lonesome (1953)

Jimmy's Boogie (1954)

You Don't Have To Go (1955)

Howlin’ Wolf

Moanin' At Midnight (1951)

How Many More Years (1951)

The Wolf Is At Your Dog (1952)

No Place To Go (1954)

Evil Is Going On (1954)

Smokestack Lightnin' (1956)

The Red Rooster (1962)

Killing Floor (1964)

B.B. King

Three O' Clock Blues (1951)

Please Love Me (1953)

Woke Up This Morning (1953)

Sweet Little Angel (1956)

You've Been An Angel (1958)

Everyday I Have The Blues (1959)

Sweet Sixteen (1960)

The Thrill Is Gone (1970)

Albert King

Bad Luck Blues (1954)

Why Are You So Mean To Me (1959)

Blues At Sunrise (1960)

Don't Throw Your Love On Me So Strong (1961)

I Get Evil (1962)

Laundromat Blues (1966)

Born Under A Bad Sign (1967)

Crosscut Saw (1967)

Oh, Pretty Woman (1967)

Freddie King

Have You Ever Loved A Woman (1960)

You’ve Got To Love Her With A Feeling (1960)

Hide Away (1961)

Pietra miliare
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