Mike Gordon Oldfield nasce a Reading il 15 maggio 1953. La sua passione per la musica comincia a manifestarsi già all'età di sette anni quando, dopo aver visto in tv il virtuoso Bert Weedon, convince il padre a comprargli una chitarra. La musica diventa ben presto il suo passatempo preferito, nonché il rifugio che gli permette di estraniarsi da una situazione familiare infelice, con una madre alcolizzata e afflitta da crisi depressive. Il difficile rapporto con la madre contribuisce in maniera schiacciante alla creazione di una personalità introversa, che causerà a Mike Oldfied non pochi problemi nella prima parte della sua carriera.
Abbandonate prima la famiglia e poi la scuola, Oldfield comincia a suonare nei club e dà vita al duo folk Sallyangie con la sorella Sally; la coppia inciderà due 45 giri ("Lady Go Lightly" e "Two Ships") e un album ("Children Of The Sun"), che ebbe scarso successo e causò la fine del progetto. Una breve parentesi nella sua vita artistica si rivela essere anche il successivo gruppo The Barefeet, formato assieme al fratello Terry. Ben più importanza ha invece il suo ingresso nel 1969 come bassista-chitarrista nella band The Whole World, formata da Kevin Ayers in fuga dai Soft Machine, in piena era Canterbury: Mike incide al suo fianco gli studio-album "Shooting At The Moon", "Whatevershebringswesing", "Confessions Of Dr. Dream And Other Stories" e il live "June 1, 1974" (ricordiamo anche le raccolte "The Kevin Ayers Collection" e "Odd Ditties"), prima dello scioglimento della band avvenuto nel 1971. Durante la permanenza nella band Oldifield stringe amicizia col tastierista e direttore d'orchestra David Bedford (che avrà un ruolo abbastanza importante nel suo primo scorcio di carriera), viene a contatto con realtà musicali atipiche come i Centipede di Keith Tippett (pianista collaboratore ad esempio dei King Crimson), vede la sua fama di chitarrista crescere e, soprattutto, comincia a pensare a un suo album solista.
Un avvenimento cruciale per Oldfield è dietro l'angolo: armeggiando con un registratore prestatogli da Ayers, coprendo la testina di cancellazione, riesce a effettuare delle sovraincisioni che gli permetteranno di fissare meglio le idee per la sua opera prima; la contemporanea permanenza presso gli studi Abbey Road gli consente inoltre di sfruttare un ricco arsenale di strumenti per arricchire le scarne tracce che aveva cominciato a registrare. Pian piano un demo prende finalmente forma - un progetto che, nel corso della lavorazione, assumerà diversi nomi come "Breakfast In Bed" e "Opus One", prima del definitivo Tubular Bells - e Mike lo propone alle varie case discografiche, ottenendo sempre rifiuti, causati dalla dubbia commercialità di un album che presenta svariati minuti di musica atipica e interamente strumentale.
Impossibilitato a registrare il suo lavoro, Oldfield si guadagna da vivere come può: suonando la chitarra per il musical Hair e il basso per il cantante soul Arthur Lewis.
Ed ecco il colpo di fortuna: al seguito di Lewis, Oldfield è invitato per effettuare alcune registrazioni presso lo studio The Manor, di proprietà di Richard Branson (venditore di dischi per corrispondenza con la sua Virgin Mail Order Record Company) e costruito sotto consiglio degli ingegneri del suono Tom Newman e Simon Heyworth. L'amichevole atmosfera che si respira nello studio smuove il timidissimo Oldfield, che trova la forza di proporre il suo prezioso nastro a Newman e Heyworth. I due rimangono molto colpiti dal suo ascolto e decidono di convincere Branson a pubblicare il disco sul quale Oldfield continua a lavorare in privato, ma che deve restare ancora "congelato" perché Branson (pur essendo anch'egli colpito dal lavoro) non ha né i soldi né l'esperienza necessari per la sua pubblicazione.
Con l'entrata in scena di Simon Draper, un nuovo socio con cui aveva deciso di fondare un'etichetta discografica, Branson si ricorda di Oldfield e lo contatta, anche se in cuor suo è convinto che qualche altra casa discografica gli avesse già soffiato l'affare; invece per sua (e nostra) fortuna Oldfield è impegnato solamente con Hair. Il The Manor viene finalmente attrezzato con tutti gli strumenti necessari e messo a disposizione di Oldfield per una settimana, tempo in cui il musicista inglese (col prezioso aiuto di Newman e Heyworth) riesce a realizzare la prima facciata dell'album (il resto del lavoro verrà completato in successive sessioni di registrazione), per un totale di più di venti strumenti diversi suonati da Oldfield (con pochi aiuti esterni, ad esempio per batteria e cori), più di duemila sovraincisioni effettuate (il nastro finale è talmente usurato che rischia di rompersi) e un tasso di paranoia dei tre altissimo (fu un'impresa titanica ricordarsi il ruolo delle varie tracce man mano che le sovraincisioni erano effettuate). Assieme a Tubular Bells viene registrata anche una session con Elkie Brooks, intitolata "The Manor Live".
Completate le registrazioni, Branson e Draper si recano al Midam di Cannes (la fiera dell'industria e del commercio musicale) per proporle ai dirigenti di svariate case discografiche, i quali si mostrano interessati solamente al trascurabile "The Manor Live", ignorando totalmente la ben più meritevole suite. Disgustati dalla situazione, i due si rendono conto che l'unico modo per far vedere la luce al disco è quello di pubblicarlo in proprio.
Tubular Bells (1973), ispirata al Bolero di Ravel, diviene così la prima pubblicazione della neonata label Virgin, acclamata dai critici (seppur non inquadrabile in nessun genere) per il suo carattere rivoluzionario e uno straordinario successo di pubblico, dapprima solo inglese (primo posto in classifica per 15 settimane) e poi anche europeo, complice anche l'inclusione dell'intro del disco nella colonna sonora del film L'Esorcista. Tubular Bellsresta tuttora il disco più venduto dell'intero catalogo Virgin, nonostante la presenza in tale etichetta di altri colossi come Genesis, Peter Gabriel o Simple Minds.
Da qui comincia la favola di Oldfield. Un successo meritato per un disco complesso ma non di difficile ascolto, in cui il suo creatore ha sempre creduto ciecamente: un susseguirsi di frammenti musicali, creati dalla sovrapposizione di strumenti suonati perlopiù dallo stesso musicista inglese, alcuni entrati di diritto nella storia della musica. Su tutti, il già citato tema d'apertura, oppure la conclusione della prima parte, ove il maestro di cerimonie Viv Stanshall annuncia l'ingresso dei vari strumenti, i quali si vanno via via a sovrapporre e a preparare il terreno per l'ingresso trionfale delle Campane Tubolari, che senza una vera e propria soluzione di continuità costituiscono circa 50 minuti (divisi in due parti) di musica travolgente, evocativa e ricca di cambi di umori. Significativa (e per quei tempi assolutamente inusuale) l'assenza per quasi tutto il disco di batteria e di parti cantate, presenti solo in uno spezzone della seconda parte denominato "The Piltdown Man Section", dove Oldfield, dopo essersi scolato mezza bottiglia di whisky, esterna tutta la sua frustrazione al mondo intero con i suoi grugniti da uomo delle caverne. Scherzosa è anche la conclusione dell'opera, affidata al traditional "The Sailor's Hornpipe" (per intenderci, la sigla dei cartoon di "Braccio Di Ferro").
Opera geniale, ponte tra il progressive rock e la new age di due decenni dopo, Tubular Bells è un album che non deve mancare in nessuna cd-teca che si rispetti.
Oldfield non è preparato a quel successo che tanto aveva desiderato: lo stress post-registrazione e il suicidio della madre lo portano, in preda a allucinazioni e attacchi di panico, a rifugiarsi nell'alcool e nell'LSD. In questo stato abbastanza precario, e sotto le continue pressioni di Branson che voleva sfruttare la scia del successo del precedente disco (e quindi pretendeva un nuovo album in tempi brevi), Oldfield comincia a lavorare al successore di Tubular Bells.
Nel frattempo, c'è anche la collaborazione con Robert Wyatt per il suo capolavoro, "Rock Bottom" (1974), in cui Oldfield suona la chitarra da par suo.
In Hergest Ridge (1974), i tratti distintivi del suo predecessore non vanno persi: suite divisa in due parti (che prende il nome dalle alture situate in prossimità della sua nuova casa), la consueta caterva di strumenti suonati dal nostro, assenza di batteria, voci usate come uno strumento, e così via. Il sound di Hergest Ridge è meno "misterioso" rispetto al predecessore, e Oldfield è molto bravo a evocare con queste nuove composizioni il verde delle praterie inglesi. Il disco si rivela molto gradevole da ascoltare, ma nel contempo sono molto rare le situazioni in cui riesce a sorprendere l'ascoltatore (una di esse è senza dubbio la sezione centrale della seconda parte, in cui, sebbene un po' troppo tirato per le lunghe, troviamo un assalto sonoro di indubbio fascino, condotto da novanta chitarre sovraincise).
E' comunque di nuovo successo, a dimostrare che Mike Oldfield non è un fenomeno passeggero.
Il 1975 vede l'uscita di due lavori di Oldfield: per primo abbiamo la versione orchestrale di Tubular Bells (ad opera della Royal Philarmonic Orchestra, con arrangiamenti e conduzione ad opera di David Bedford), dove l'unico strumento suonato da Oldfield è la chitarra, e poi il suo terzo album vero e proprio, dallo strano titolo di Ommadawn (una parola senza senso, che più o meno significa "lo stupido" in gaelico). Nel disco è riproposto l'ormai usuale schema della suite strumentale divisa in due parti, però qualche variazione comincia ad affiorare: l'arpa assume spesso un ruolo di primo piano (in particolare nella sezione introduttiva, che rivaleggia per bellezza con quella di Tubular Bells), cominciano a manifestarsi influenze celtiche (ospite Paddy Moloney dei Chieftains), sono presenti le percussioni africane ad opera dei Jabula e, a conclusione dell'opera, troviamo un ottimo pezzo cantato ("On Horseback"). Più variegato di Hergest Ridge e meno frammentario di Tubular Bells, Ommadawn è uno dei punti più alti della produzione Oldfieldiana.
Oldfield farà poi uscire il singolo natalizio "In Dulci Jubilo". Intanto, il suo carattere chiuso ha il sopravvento e lo porta a ridurre al minimo le interviste e a non esibirsi affatto dal vivo.
Il 1976 vede l'uscita di Boxed, cofanetto con inediti che raccoglie i primi tre album remixati in versione quadrifonica. Seguono il singolo natalizio "Portsmouth" di buon successo; il ritorno al live nella rappresentazione di "The Odyssey" di Bedford e due singoli di scarso successo: l'overture del "Guglielmo Tell" di Rossini e un traditional inglese, "The Cuckoo Song".
In pratica, quello che sta facendo Mike in realtà è ricaricare le sue "batterie", affidandosi a Exegesis, una terapia che consente di affrontare la proprie paure e potenziare i lati più positivi della propria personalità. Parallelamente alla terapia, Oldfield si dedica alla composizione del nuovo disco Incantations (1977), un doppio album che propone un'unica suite divisa in quattro parti ove il nostro, strumentalmente parlando, non assume quel ruolo di primo piano avuto negli album precedenti, preferendo utilizzare soprattutto archi, flauti, vibrafono e cori ad opera di ospiti. Compositivamente l'album è ad altissimi livelli e si differenzia dai precedenti, oltre che per le sonorità, anche per l'ampio uso di tempi dispari (caratteristica abbastanza inusuale per Oldfield); la sua ampia durata purtroppo non lascia l'album privo di tempi morti, ma fortunatamente tali momenti sono piuttosto rari e comunque ci si passa volentieri sopra di fronte ad esempio alla meravigliosa "Parte I" (dove l'arte Oldfieldiana quasi raggiunge la perfezione assoluta, e dove le percussioni africane dei Jabula creano un tappeto ritmico ineguagliabile) oppure di fronte al finale della "Parte IV", pura magia tradotta in musica. Ospite speciale è Maddy Prior, vocalist degli Steeleye Span, che è protagonista di un (troppo, troppo lungo) intervento vocale nella seconda parte, ove vengono cantati versi tratti dal poema di Longfellow "Song Of Hiawatha").
Purtroppo Incantations, nonostante la sua stupefacente qualità, ha l'unico difetto di essere pubblicato in piena esplosione punk; pertanto viene denigrato da molti come un'opera inutilmente conservatrice, ottenendo un successo molto inferiore ai precedenti.
Oldfield ormai è uscito dalla sua crisi personale: rilascia fiumi di interviste, incide un bel singolo di matrice "disco" ("Guilty"), si concede un matrimonio-lampo con Diana Fuller, figlia del leader di Exegesis (dopo un mese i due erano già separati), e soprattutto si lancia in un grandioso tour mondiale, con al seguito una truppa di circa un centinaio di persone tra musicisti e tecnici. Nonostante i "tutto esaurito" in quasi tutte le tappe, il tour si rivela fallimentare dal punto di vista economico. Così, per recuperare qualche soldo, Oldfield pubblica l'ottimo doppio live Exposed (contenente Incantations, Tubular Bells e "Guilty") e dopo qualche mese il nuovo album da studio, Platinum (1979). E' indubbiamente un disco di rottura col passato, che mostra la volontà di Oldfield di rinnovarsi e di non addentrarsi più in complessi lavori strumentali (una formula che aveva cominciato a mostrare la corda, commercialmente parlando). Per la prima volta, troviamo la struttura suite + pezzi brevi che ritroveremo anche in molti degli album successivi. La suite (nonché title-track) è il capolavoro del disco: orecchiabilissima, trascinante, nonché molto, molto più facilmente assimilabile per l'ascoltatore medio rispetto alle precedenti composizioni e con tanto di sezione fiati e efficaci arrangiamenti corali. Notevolmente inferiore qualitativamente è la seconda facciata: buone tracce sono l'atmosferica "Woodhenge" (dove è il vibrafono di Pierre Moerlen dei Gong a dominare) e la tirata "Punkadiddle" (un must per le esibizioni dal vivo), mentre potevano essere tranquillamente escluse dal disco la melensa "Into Wonderland" (curiosità: la maggior parte dei cd in circolazione riportano questa track come "Sally", un pezzo dedicato da Mike alla sua nuova fidanzata che fu rimosso - forse per la sua scarsa qualità - all'ultimo momento dalla scaletta del disco) e la cover di "I Got Rhythm" di Gershwin: il frizzante pezzo che siamo abituati ad ascoltare di solito, viene inspiegabilmente stravolto e trasformato in una sdolcinata ballad, con scarsi risultati.
Sebbene criticato per la sua commercialità e per la semplicità di fondo che portò molti ad accusare Oldfield di involuzione, Platinum resta un disco meritevole di attenzione e molto indicato per chi si addentra per la prima volta nel mondo Oldfieldiano.
A Platinum, succede un singolo natalizio, "Blue Peter", un nuovo tour con formazione estremamente ridotta e il nuovo QE2 (Queen Elizabeth 2nd), un disco di pura transizione che funziona a intermittenza (malgrado la presenza di musicisti come Phil Collins e Maggie Reilly, che conosceremo meglio nei prossimi dischi), dove Oldfield mette da parte la sua consueta vena sperimentatrice, e che appare come una mera (e fiacca) prosecuzione del precedente Platinum. Quest'ultimo particolare si nota soprattutto nei due buoni pezzi iniziali, "Taurus I" e "Sheba", caratterizzati anche da un largo (e inedito per Mike) uso del vocoder; si prosegue con "Conflict", discreto frullato di Bach (!) percussioni, chitarre distorte, influenze folk. La trascurabile "Arrival" (Abba) è la prima cover del disco, mentre decisamente migliore si rivela essere l'altra rivisitazione, "Wonderful Land" degli Shadows (gruppo molto amato da Oldfield nella sua adolescenza). Reminescenze di Platinum affiorano anche durante l'ascolto della discreta "Mirage", con il suo impetuoso vibrafono, mentre decisamente piatte sono le atmosfere bucoliche della title-track. Ordinarie, infine, le conclusive "Celt" e "Molly". In sintesi, un disco non malvagio ma comunque privo di quei guizzi a cui il nostro ci aveva abituato in precedenza. Forte del successo dell'album, comunque, Oldfield passa buona parte del 1981 in tour (festeggiando anche la decimilionesima copia di Tubular Bells venduta) e preparando il nuovo disco.
Five miles out (1982) è un lavoro dalla struttura molto simile a Platinum, vale a dire una suite sul primo lato e pezzi più brevi sul secondo. Si tratta di un disco con pochissimi momenti di stanca, caratterizzato (come l'album precedente) da un suono "da band", con l'usuale certosino lavoro di sovraincisioni di Oldfield posto un po' in secondo piano. In apertura troviamo il secondo capitolo della trilogia di "Taurus", ed è subito magia: un continuo susseguirsi di riuscitissimi temi (affidati di volta in volta alla chitarra di Oldfield, alle uillean pipes dell'ospite Paddy Moloney e alle delicate vocals della fantastica Maggie Reilly) che mantengono sempre viva l'attenzione dell'ascoltatore per quasi 25 minuti. Si procede con "Family Man", un'ottima pop-song cantata dalla Reilly, che come singolo inizialmente non fu un grande successo, ma l'anno dopo la cover version realizzata da Hall & Oates divenne un hit da top-ten in America. Terzo brano del disco è "Orabidoo", una mini-suite ove si susseguono una dolcissima intro di vibrafono, un tema al vocoder su un robusto tappeto percussivo (piacevole all'inizio, ma che diventa subito stancante) e fughe tastieristiche d'effetto, prima di un finale molto pacato. Concludono il disco, sempre ad alti livelli, "Mount Teidi", brano strumentale dalla bellezza disarmante dominato da splendidi ricami di synth, e la title track, un brano di breve durata (ispirato da un incidente aereo vissuto in prima persona da Oldfield stesso) che riprende alcune linee melodiche già ascoltate su "Taurus II" arricchendole con efficaci intrecci vocali (all'occorrenza filtrati dal vocoder) tra la Reilly e Oldfield stesso. Disco consigliatissimo, che ebbe il giusto successo e portò nuovamente Mike in giro per il mondo in tour.
Il successivo Crises (1983) è un altro bel frutto della rinnovata vena creativa di Oldfield: un ottimo compromesso tra qualità e commercialità, aspetto che non mancò di suscitare forti critiche da parte della critica. La struttura dell'album è invariata rispetto al precedente: suite + brani brevi. La suite è la title-track: un pezzo perlopiù strumentale (tranne qualche sporadico intervento cantato ad opera dello stesso Oldfield), sempre su altissimi livelli compositivi, dove i synth di Oldfield, innamoratosi in quel periodo del Fairlight, una potentissima workstation digitale, e il terremotante drumming del veterano Simon Phillips (già con Who, Toto e tanti altri) creano una miscela sonora esplosiva. Anche i pezzi brevi sono tutti di ottimo livello: si tratta di quattro brani cantati (da tre diversi vocalist) e uno strumentale. Si parte con il celeberrimo hit-single "Moonlight Shadow", cantato da Maggie Reilly, una delle migliori pop-song di tutti i tempi, la cui indubbia orecchiabilità si sposa con un'esaltante prestazione chitarristica di Oldfield, autore anche di un ottimo arrangiamento (geniale l'uso dell'eco sulla voce). L'altrettanto angelica (nonché storica) voce di Jon Anderson degli Yes è chiamata a interpretare il successivo "In High Places". Torna la Reilly per "Foreign Affair", altro celebre hit-single, forse un po' monocorde ma dall'arrangiamento geniale. Penultimo brano è lo strumentale spagnoleggiante "Taurus III", in cui Oldfield può sia sfoderare tutta la sua maestria chitarristica, sia divertirsi a sovraincidere tracce su tracce di chitarra, fino a creare in alcuni frangenti del brano un vero e proprio "muro di suono", che metterà a dura prova il vostro impianto stereo. Chiude il disco l'aspra "Shadow On The Wall", ennesimo hit-single interpretato stavolta da Roger Chapman (Family), ove le sue arcigne vocals vanno a braccetto con altrettanto dure schitarrate.
All'uscita del disco segue un mini-tour, conclusosi con la celebrazione del decimo compleanno di Tubular Bells.
Anche il successore del fortunatissimo Crises, vale a dire Discovery (1984), è un buon album, che si attiene allo standard qualitativo dell'Oldfield a cavallo tra orecchiabilità e sperimentazione, e che presenta la consueta attitudine ad accontentare sia i fan di vecchia data con la consueta suite (posta stavolta in chiusura del disco), sia il pubblico attratto dalle sue produzioni pop. Abbastanza palese è il tentativo di sfruttare la scia del successo del precedente album. Degni di nota lo scarso numero di musicisti presenti (oltre al nostro factotum troviamo soltanto Simon Phillips alla batteria e i vocalist Maggie Reilly e Barry Palmer) e la spiccata vena pop che caratterizza un po' tutto il disco. Il magico timbro della Reilly è utilizzato in tre pezzi: la stupenda "To France" (il cui magistrale riff portante è utilizzato anche nell'altrettanto valida "Talk About Your Life") e la più movimentata "Crystal Gazing". Il potente timbro di Palmer ben si adatta invece a "Poison Arrows" (ascoltare il muro di chitarre innalzato da Oldfield a metà pezzo), alla title-track (dalla trascinante linea vocale e con un guitar-solo da antologia) e alla ballad "Saved By A Bell" (forse l'unico pezzo sottotono del disco). Sentiremo duettare i due cantanti solo nell'ottimo "Tricks Of The Light", il brano più tirato del disco. Ottava e ultima traccia è la gioiosa "The Lake", l'immancabile suite strumentale, stavolta molto più breve del solito (12 minuti), ma ricca delle consuete suggestioni. In definitiva, Discovery rappresenta l'apice della creatività Oldfieldiana negli anni Ottanta, prima di una fase creativa discendente.
Il secondo disco pubblicato da Oldfield nel 1984, The Killing Fields, è la colonna sonora dell'omonimo film, uscito in Italia col nome di "Urla dal silenzio". Pur non ai livelli delle vette della produzione del musicista inglese, il disco non è malvagio e mostra Oldfield alle prese con partiture perlopiù orchestrali (mettendo molto da parte chitarre e synth), ma è afflitto dallo stesso problema che colpisce gran parte delle altre soundtrack in circolazione: una volta slegati dalle immagini che dovrebbero accompagnare, gran parte dei pezzi perdono di forza e conducono a un ascolto svogliato. Qualche pezzo degno di nota comunque c'è: il sound quasi industrial di "Evacuation", le intense "Pran's Theme 2" e "Pran's Departure" e le conclusive "Good News" e "Etude" (quest'ultima con un geniale arrangiamento di flauti e marimba - sicuramente il pezzo più Oldfieldiano del disco). Un disco comunque da consigliare solo ai fan più accaniti.
Il periodo 1985-86 è abbastanza tranquillo: esce la succosa antologia The Complete Mike Oldfield (ricca di brani usciti esclusivamente su singolo), lo stupendo video singolo "Pictures In The Dark", frutto della nuova passione di Mike per l'aspetto video della creazione musicale che fungeva da preludio per il progetto di un video album ("The Wind Chimes") da far uscire esclusivamente in Vhs e Laserdisc; infine nel 1986 esce un nuovo singolo in compagnia di Jon Anderson, "Shine".
Dopo i vertici qualitativi toccati con Discovery, Oldfield comincia a mostrare un preoccupante calo qualitativo con Islands (1987), inferiore anche al successivo, tanto criticato Earth Moving. Colpa del crescente malcontento del compositore inglese verso la sua casa discografica (in particolare nei confronti del patron Richard Branson)? O l'amore per la sua nuova compagna, la biondona norvegese Anita Hegerland (degno rimpiazzo di Maggie Reilly alle vocals), ha avuto effetti nefasti sulla sua creatività? Ai posteri l'ardua sentenza. Da salvare in questo disco c'è ben poco: alcuni sprazzi di luce si intravedono nella suite "The Wind Chimes" (brano recuperato dal video-album menzionato in precedenza, che funziona "a intermittenza": alcuni momenti memorabili si alternano ad altri invece loffi e autocelebrativi), nella gelida atmosfera di "North Point" (forse l'unica traccia del disco all'altezza delle migliori produzioni di Oldfield) e nel riff di "Magic Touch". Oltre a questo abbiamo dei "poppettini" da FM frutto di ispirazione scarsa ("When The Nights On Fire" e "Islands" - vocals ad opera di Bonnie Tyler) o nulla ("Flying Start", "The Time Has Come"). Ad affossare ulteriormente il tutto abbiamo una produzione plasticosa, veramente deludente rispetto agli standard Oldfieldiani, che purtroppo ritroveremo anche nel disco successivo.
Ed eccoci arrivati al disco più criticato e odiato in assoluto tra tutta la produzione di Oldfield: Earth Moving (1989). In effetti il suddetto astio non è del tutto ingiustificato: Oldfield manda (forse volutamente) in letargo la sua creatività per sfornare, sotto le pressioni della Virgin smaniosa di altri hit-single, un disco pop al 100 per cento, dove buona parte dei pezzi risultano piatti sia dal punto di vista melodico sia per quanto riguarda gli arrangiamenti. Fortunatamente non è tutto da buttare: la title-track è dominata dalla splendida voce di Nikki Bentley; "Innocent" si imprime nella testa del'ascoltatore al primo colpo, grazie a una melodia ruffiana al punto giusto e alla graziosa interpretazione della Hegerland; "See The Light" è il brano più energico del disco e ricorda "Discovery", dall'album omonimo. Ma il brano da antologia è "Blue Night": Mike Oldfield + Maggie Reilly + atmosfere soft e acustiche + una melodia dolcissima = applausi a scena aperta.
In soli due anni Oldfield passa da un estremo all'altro. Se infatti Earth Moving era un disco dichiaratamente commerciale, per nulla impegnato e privo di suite, Amarok (1990) è senza dubbio il disco più sperimentale mai pubblicato dal compositore inglese: contemporaneamente un regalo ai fan di vecchia data e uno sberleffo alla Virgin. Praticamente impossibile descrivere un album come questo: un'unica suite di ben sessanta minuti esatti dove genio, sregolatezza e (soprattutto) imprevedibilità vanno a braccetto, dove pacate influenze folk inglesi (pensiamo ad esempio ad Ommadawn) si vanno a scontrare con travolgenti parti di flamenco e misteriose atmosfere africane, che riportano un po' a Incantations; dove l'usuale arsenale sonoro di Oldifield è arricchito da "strumenti" come ad esempio cucchiai, bicchieri o pezzi di un modellino di un aereo, dove il mitico Uomo Delle Caverne e Margaret Thatcher (ovviamente imitata ad arte da un'attrice) effettuano improvvise azioni di disturbo, dove Oldfield invia segnali in codice Morse, in cui prima lancia un S.O.S. e poi manda letteralmente a quel paese l'ormai odiatissimo Richard Branson, patron della Virgin, dove. In sintesi, un piccolo capolavoro, destinato però soprattutto ai fan più attenti e vogliosi di sperimentazione, in quanto molti potrebbero essere spiazzati dalla monoliticità della proposta, nonché dalle sue "stranezze". D'altronde, lo stesso Oldfield sulla back-cover del disco afferma: "This record could be hazardous to the health of cloth-eared nincompoops. If you suffer from this condition, consult your Doctor immediately". Uomo avvisato...
Con Heaven's Open (1991), Oldfield torna su sentieri più normali, dopo l'estremizzazione attuata nel precedente album. Si tratta di un disco che all'epoca venne visto da Oldfield come una vera e propria liberazione, dato che era l'ultimo previsto dal contratto con la sanguisuga Virgin, e che, pur essendo a buoni livelli compositivi, è passato ingiustamente inosservato (come pure era accaduto per il suo magnifico predecessore Amarok). Per l'ultima volta (finora) ritroviamo la struttura suite + canzoni che ci ha accompagnato per diversi album: infatti Oldfield per le successive produzioni ritornerà alle sue origini, concentrandosi su opere prettamente strumentali. Curioso, inoltre, è il fatto che il disco sia uscito a nome "Michael Oldfield": esistono diverse congetture per questo fatto, ma nessuna è mai stata di fatto confermata - l'autore considera questo disco indegno di comparire a fianco degli altri usciti a nome "Mike Oldfield"? Oppure lo considera fin troppo personale e quindi lo ha firmato col suo "vero" nome (Michael appunto)?
Se comunque la prima ipotesi fosse esatta, Oldfield avrebbe ben poco da vergognarsi. I brani pop (5 in tutto) sono molto ben composti e arrangiati - niente male davvero per un disco che si dice sia stato preparato in fretta e furia -, presentano delle liriche molto autobiografiche incentrate perlopiù sulle sue frustrazioni artistiche degli ultimi anni (inequivocabili titoli come "Make Make" oppure "Mr. Shame") e, soprattutto, sono cantati dallo stesso Oldfield con risultati non malvagi, grazie anche a sei mesi di lezioni di canto presso l'insegnante di illustri colleghi come Peter Gabriel o George Michael. Anche la produzione è ottima e grazia soprattutto la schizoide suite finale, "Music From The Balcony" (ascoltare la batteria - suonata da sua Maestà Simon Phillips - per credere), che alterna inconfondibili sezioni atmosferiche a improvvise esplosioni di energia.
Oldfield è finalmente libero dalla Virgin e, come per una sorta di scaramanzia, decide di inaugurare il suo contratto con la Wea con il seguito del suo più grande successo commerciale (nonché primo disco inciso per la sua vecchia casa discografica). Tubular Bells II (1992) è un disco di cui il compositore inglese aveva annunciato da tempo la pubblicazione ma che, certo del successo che avrebbe ottenuto, aveva fino a quel momento tenuto nel cassetto per non dare l'ennesima soddisfazione all'odiata Virgin. Oldfield riprende nella sua totalità (e quindi nel pieno rispetto della sua struttura) il primo Tubular Bells, cambiandone però opportunamente i temi melodici, in modo tale da creare un disco che contemporaneamente dà all'ascoltatore la sensazione di ascoltare sia un nuovo disco sia il primo Tubular Bells risuonato con strumenti moderni. Dell'originale, opportunamente e magistralmente rivisitati, ritroviamo l'ipnotica intro di pianoforte ("The Sentinel"), il maestro di cerimonie che presenta gli strumenti ("The Bell"), il lento riavvio dell'ipotetica seconda parte della suite ("Weightless", forse il brano più riuscito del disco assieme a "Tattoo"), l'ingresso della batteria e la parte vocale dell'Uomo Delle Caverne ("Altered State") e così via.
Sulla scia del successo di vendite di Tubular Bells II, la Virgin pubblica la raccolta Elements in versione cd singolo oppure nel box da 4 cd. Intanto Oldfield sforna un nuovo lavoro, The songs of the distant Earth (1995), ispirato al romanzo di Arthur C. Clarke "Racconti Di Terre Lontane", di nuovo totalmente strumentale (composto da brani di breve lunghezza fusi tra loro in modo da formare una lunga suite). E' un ritorno al miglior Oldfield nonché il primo album della storia a includere una traccia Cd-Rom interattiva. Ascoltate questo disco al buio e in cuffia: Oldfield, grazie a un eccellente lavoro di ricerca sonora incentrato su rarefatte atmosfere sintetiche e su ritmiche elettroniche campionate, vi immergerà in un fantastico mondo futuristico, dove l'unica vostra guida sarà la sua chitarra, che sovente si innalza sulle stratificazioni costruite dai synth. Fatevi catturare dal magnetico inizio di "Let There Be Light", avvolgetevi nel magico bozzolo di "Hibernaculum", esplorate il "Tubular World", e soprattutto ignorate chi bolla quest'album come banale new-age: costui ignora che fare musica significa soprattutto creare emozioni, e qui Oldfield riesce alla perfezione nell'intento, proprio perché è un disco che arriva direttamente al cuore dell'ascoltatore, senza volerlo stupire con virtuosismi o armonie iper-ricercate.
Il successivo Voyager (1996) è un album interlocutorio, interamente ispirato alla musica celtica e (in minima parte) a quella folk spagnola - Oldfield si è da poco trasferito ad Ibiza -, con solo quattro pezzi originali (i restanti sei sono rielaborazioni di pezzi tradizionali). La monotematicità è contemporaneamente il pregio e il difetto di quest'album: pregio perché è indubbio il fascino di queste melodie senza tempo, difetto perché il disco è troppo ripetitivo e lascia poco spazio alle sorprese. Tra i pezzi di Oldfield, il migliore è senza dubbio "Voyager", con un ottimo tappeto percussivo che ricorda vagamente quelli di Incantations, discreti ma niente di particolare sono "Celtic Rain" e "Wild Goose Flaps Its Wings", mentre troppo pretenzioso e monotono risulta essere il lungo brano finale "Mont St. Michel", con tanto di orchestra. Tra gli altri brani, i più riusciti sono l'iniziale "The Song Of The Sun, She Moves Through The Fair" (a cui si sono ispirati anche i Simple Minds per la loro "Belfast Child") e soprattutto la magnifica "Women Of Ireland", divenuta celebre in Italia per essere la colonna sonora di uno spot della Peroni.
Nel 1997 esce la raccolta XXV, che propone in anteprima uno stralcio dell'imminente terza parte della saga di Tubular Bells. Nel frattempo Oldfield, durante la sua permanenza in Spagna (e con la complicità della sua giovane nuova compagna), conduce una vita piuttosto sregolata: frequenta i club più esclusivi e non si perde un rave-party, finché l'abuso di alcool ed ecstasy non lo riducono in condizioni psico-fisiche precarie. Dopo l'ennesima disavventura, un incidente automobilistico che gli comporta la sospensione della patente per un anno, abbandona Ibiza, fermamente deciso a non metterci più piede. L'esperienza spagnola ha comunque lasciato il segno in buona parte delle atmosfere del suo nuovo album.
Tubular Bells III (1998), terzo capitolo della saga, è un album privo di tempi morti, dove Oldfield ha commesso un unico grosso errore: la scelta del titolo. Certo, non mancano i riferimenti ai due Tubular Bells precedenti, ma è palese il tentativo di sfruttare l'appeal del nome per vendere qualche copia in più, mossa che per Oldfield è stata abbastanza controproducente, in quanto buona parte della critica gli si è schierata contro a priori, senza valutare l'effettivo valore musicale del disco. Il pezzo di apertura è "The Source Of Secrets", terza rilettura - dopo "The Sentinel" - dello storico tema di apertura del primo Tubular Bells, innestata su una pompatissima base ritmica (e qui sicuramente le notti di Ibiza hanno avuto la loro influenza). Un attimo di rilassamento con "The Watchful Eye", e le ritmiche elettroniche ritornano, sebbene più pacate, in "Jewel In The Crown", dove è la chitarra a farla da padrone. Chitarra protagonista anche nella potentissima e metallica "Outcast" e nel flamenco di "Serpent Dream"; chiude un'ipotetica prima parte dell'opera "The Inner Child", che ricorda molto alcune cose di Ennio Morricone.
Si riparte con la pietra dello scandalo: "Man In The Rain", pericolosamente simile a "Moonlight Shadow". Che dire? Le somiglianze ci sono ma, per come la vedo io, Tubular Bells II" sta a Tubular Bells come "Man In The Rain" sta a "Moonlight Shadow": una buona rilettura dell'originale.
Le influenze celtiche di "Voyager" ritornano nella trascinante "The Top Of The Morning", e si tira un po' il fiato con "Moonwatch", prima della potente conclusione dell'opera con "Secrets", che riprende il tema iniziale, e "Far Above The Clouds", che si sovrappone sinuosamente al pezzo precedente e presenta le mitiche Campane Tubolari a scandire gli ultimi istanti dell'album. Imperativo: ascoltare senza pregiudizi.
A tre anni di distanza da Voyager, Oldfield ripete l'esperimento dell'album "a tema" con questo Guitars (1999). Il nome del disco è autoesplicativo riguardo ai suoi contenuti: dieci tracce interamente strumentali, dove la chitarra la fa da padrone (ma limitandosi a un ruolo di rifinitura, non aspettatevi assolutamente virtuosismi) e le rare note di synth o sampler sono state generate da chitarre Midi. Come era già successo per Voyager, il disco risulta piacevole ma, in generale, non decolla; i suoi momenti migliori li troviamo nei pezzi più atmosferici e malinconici come la introduttiva "Muse" o "Embers", mentre le sferzate elettriche di brani come, ad esempio, "Cochise" o "Out Of Sight" non colpiscono nel segno in quanto prive di un significativo sostegno ritmico. Un disco abbastanza trascurabile, in definitiva.
A soli sei mesi dal precedente Guitars, con The Millennium Bell (1999), Oldfield sforna il quarto disco a presentare nel titolo la sacra parola "bell", che rappresenta una celebrazione in musica dei momenti salienti del millennio che sta per finire. Album globalmente non riuscito, ha come principali difetti una eccessiva frammentarietà stilistica, e un avvio un po' lento: "Peace On Earth" e "Santa Maria" sono dei pezzi pseudo-spiritual davvero privi di mordente, "Sunlight Shining Through Cloud" e "Pacha Mama" scivolano via senza lasciare troppe tracce. Le cose migliorano di molto col trittico seguente, che propone un'alternanza di stili molto singolare. Si parte con l'azzeccata "The Doge's Palace", ovvero il Rondò Veneziano in versione 2000; seguono le delicate atmosfere orchestrali di "Lake Constance" e la strana ma efficace "Mastermind". Ritornano le atmosfere orchestrali (con stavolta il pianoforte a farla da padrone) in "Broad Sunlit Uplands", mentre con "Liberation" sulle prime sembra di ascoltare Enya ma poi ci pensano un efficace tappeto percussivo e (soprattutto) una magica chitarra ad imprimere il marchio Oldfield sul pezzo. Penultimo brano è la marcia trionfale di "Amber Light", mentre a chiudere le ostilità ci pensa la title-track, collage di vari brani del disco inframezzati da parti strumentali su un'inusuale (ma efficace) ritmica dance.
Oldfield inaugura il nuovo millennio con Tr3s Lunas (2002), un doppio cd (l'album e un videogame in 3D), che può essere concettualmente considerato come il successore di The Songs Of Distant Earth: stesse semplici ma efficaci melodie, stesso clima evocativo, prevalenza schiacciante della componente strumentale rispetto a quella vocale. Caratteristica comune a quasi tutti i pezzi è l'uso di ritmiche ipnotiche (tipiche della musica chill-out, una corrente musicale moderna di cui Oldfield è considerato uno dei precursori) che, unite alle sapienti linee di synth e di chitarra di Oldfield, creano rilassanti atmosfere. Il disco è qualitativamente piuttosto omogeneo (leggermente inferiori rispetto al resto sono il singolo cantato "To Be Free" e "Thou Art In Heaven"), propone melodie orecchiabilissime ma non stucchevoli e ha i suoi momenti migliori nel delicato affresco pianistico di "Daydream", in "Return To The Origin", con degli eccezionali ricami d'organo, in "Turtle Island" e nella title track, in cui la chitarra acustica detta legge.
Nel trentennale del primo Tubular Bells, Oldfield si avventura in un progetto forse redditizio, ma certamente poco onorevole: risuonare pari pari i brani dello storico album, ri-vendendolo a prezzo pieno. Il risultato è un doppione che non ha praticamente alcun senso di esistere.
Il ritorno in studio per Light + Shade (2005) partorisce un disco doppio per poco più di 80 minuti di musica. Il primo cd, "Light", presenta sonorità prevalentemente acustiche e lievi spruzzate di tecnologia, nel secondo, "Shade", invece è l'elettronica a far da padrone. Sostanzialmente il disco può essere visto come un prosieguo di Tr3s Lunas, con la differenza che qui troviamo anche una cover, nonché qualche brano "cantato": le virgolette sono d'obbligo, in quanto le voci che si ascoltano sono opera di vocaloid (sintetizzatori che riproducono il canto umano), programmati dallo stesso Oldfield: siamo decisamente lontani dai fasti di una Maggie Reilly in carne e ossa, ma il risultato non è del tutto deludente. Alcuni brani, inoltre, facevano parte della colonna sonora del videogame "MusicVR" allegato a Tr3s Lunas ed erano già stati proposti in diversi bootleg facilmente reperibili sulla rete.
Non mancano le cadute clamorose: l'insopportabile corale per voci digitali "The Gate", e "Romance", la pessima cover in chiave techno-trance di "Giochi Proibiti", probabilmente la cosa più brutta mai fatta da Oldfield in tanti anni di onorata carriera. Il disco, comunque, dispensa anche qualche perla: ad esempio la suite "First Steps", che rivisita il tema della title track di Tr3s Lunas, la magnetica "Tears Of An Angel", dove Oldfield ci delizia con uno splendido assolo o il ritmo terzinato dominato dall'organo di "Ringscape".
L'album è assistito dalla consueta cura dei suoni e dalla perizia di Oldfield alle prese con la chitarra elettrica. Il problema è che con la tecnologia attuale un disco come questo potrebbe farlo quasi chiunque. Basta dotarsi di un bel pc con del software musicale: si elabora qualche linea melodica interessante, ci si appiccica sotto una piacevole base ritmica campionata e il gioco è fatto.
Oldfield sembra non aver più voglia di stupire il suo pubblico, i suoi tocchi di genio sono sempre più rarefatti, e si accontenta di scodellare dischi piacevoli e nulla più. Quello che ci vorrebbe per destarlo dal torpore è lavorare nuovamente con una band, ma è pura utopia: ormai Oldfield si è avviato verso una piacevole vecchiaia: tutto sommato, se l'è meritata...
Dopo aver sciaguratamente messo la sua griffe su un disco, Tubular Beats (2013), che operava una devastazione del suo repertorio storico a cura del Re delle sale lounge di Ibiza York, non ci si era fatti grandi domande. Il massimo che c'era da fare era constatare quanto la passione ardente tra l'(ex?) genio di "Hergest Ridge" e il Dio Denaro avesse trovato nell'età una fonte in grado di mantenere la fiamma quantomai corposa. Ma artisticamente il tutto aveva un valore relativo: alla fine, oltre all'ennesima profanazione di Tubular Bells, lo sfregio era stato tutto sommato contenuto, e la speranza che l'agonia fosse finita lì poteva dirsi verosimile. Invece il nuovo “rock album” Man On The Rocks uscito nel 2014 è un altro passo falso.
Il singolo s'intitola “Saling”, e nel video un attempato e visibilmente appesantito Oldfield si mostra, in tenuta da spiaggia, in compagnia di un curioso personaggio - via di mezzo tra l'idolo gay della porta accanto e un Julian Casablancas dei poveri; scopriremo poi trattarsi di tal Luke Spiller, voce degli Struts – con cui si prodiga in uno spot pubblicitario per le Bahamas suonando una chitarra acustica e sorridendo alla bellezza della vita in mezzo alla foresta tropicale, su uno yacht. Qualcosa il cui livello di trash copre pure l'imbarazzo. Lo shock stavolta è notevole, e riprendersi è dura, tanto che alla canzone in sé – una senile pop-rock song dal finto e forzato ottimismo, ornato dal tipico assolo a metà pezzo, che se ricorda qualcosa, quel qualcosa è “Earth Moving” e no, non è certo un complimento – non si fa nemmeno caso. A favorire l'approccio al disco sono solo dunque il suggestivo ritorno a casa Virgin (ma solo per una questione di brand di distribuzione, essendo ormai un marchio controllato Universal) e la bella quanto scontata copertina, che introduce un lavoro sorprendentemente più inutile e inconsistente che brutto. Certo, la ballatona che dà il titolo al tutto è un autentico manifesto che sarebbe sensato definire adult-contemporary, la plastica “Moonshine” potrebbe piacere forse solo a qualche nostalgico del peggio della stagione new-romantic, “Minutes” nell'incedere sembra quasi una versione al ralenti di “50 Special” dei Lunapop, il gospel firmato William McDowell di “I Give Myself Away” fa salire il latte alle ginocchia al terzo secondo e “Nuclear” in epicità non supera nemmeno il peggior Ron.
Non ci sono validi motivi per non considerare Man On The Rocks come un nuovo capitolo del percorso che vede Oldfield impegnato a distruggere sé stesso senza pietà, a livello sia artistico che di immagine. Eppure, tra i sorrisi strappati da uno dei video più trash della storia e l'amore incondizionato per i capolavori partoriti in un passato ormai remoto, il perdono per questa manciata di innocue canzonette post-cristi di mezza età è (per l'ultima volta) atto dovuto.
Dopo aver saccheggiato all'inverosimile Tubular Bells, Oldfield si riappropria anche della sua leggendaria forma-suite e inventa un sequel anche per Ommadawn, una delle sue composizioni più pan-etniche. Return To Ommadawn (2017) contraddice però il massimalismo del primo episodio asciugandosi più che altro alle chitarre dell'autore. Ciò mette a nudo paccottiglie folk-celtiche che mostrano i limiti in termini di esecuzione e composizione (prima parte), e spunti melodici sfruttati solo come variazioni sempre più epiche tirate per le lunghe (seconda parte). Vanesio e autoreferenziale, l'opera calza al massimo per lo zoccolo duro degli afficionado.
Contributi di Rotter's Club - "Mirrormaze", Matteo Meda ("Man On The Rocks"), e Michele Saran ("Return To Ommadawn")