Non esiste un “before it was cool”, quando si parla degli Strokes. Famosi prima ancora di pubblicare un album, paladini dell’indie ma da sempre sotto contratto con una major, shabby-chic in modo talmente consapevole da riuscire a farsene un vanto, belli, giovani, di buona famiglia e senza freni inibitori, Julian Casablancas, Albert Hammond Jr, Fabrizio Moretti, Nikolai Fraiture e Nick Valensi si sono autoproclamati icona dei Noughties.
Tutto qui?
Quando Is This It uscì in Europa, le Torri Gemelle non erano ancora crollate. Nemo profeta in patria, gli Strokes, da New York City, erano riusciti a conquistare il vecchio continente e la copertina di Nme grazie all’attenzione riservata dalla Rough Trade a un loro demo, pubblicato con il titolo di “The Modern Age” Ep, e con al suo interno “Last Nite”, la canzone passepartout che aprirà alla band tutte le porte del paradiso musicale.
Se il titolo scelto per l’Ep ricorda in qualche modo “Modern Life Is Rubbish” dei Blur, la descrizione migliore che, ai tempi, si poteva fare del quintetto statunitense proviene sempre da una canzone scrita da Damon Albarn, “Jubilee”. Un paragone non troppo azzardato, quello con la band britannica, se si considera che, per sua stessa ammissione, Nikolai Fraiture ha imparato a suonare il basso sulle parti di Alex James. Is This It è l’ultimo, grande ritratto di New York prima del punto di non ritorno di quel tremendo 11 settembre. A filtrarne lo zeitgeist sono cinque ventenni con base nel Lower East Side. Scrivono della propria vita, suonano come se fossero al Cbgb’s, vestono come Lou Reed o Tom Verlaine, ma senza dimenticarsi di aver appena assistito all’avvicendarsi di un millennio. Sesso, droga e rock’n’roll, nessuna forzatura, nessuna posa: arroganti e strafottenti, devastati, ma autentici, Millennials da manuale.
La voce, annoiata e biascicante a tratti, altre volte arrabbiata e urlante, di Julian Casablancas racconta della vita nella metropoli, di serate vuote, di relazioni sbagliate, fraintendimenti, insicurezze, sulle basi delle chitare di Albert Hammond Jr e Nick Valensi, architetti delle barriere sonore che il gruppo sceglie a far da scudo tra sé e il pubblico. Completano l’opera il basso di Fraiture e la batteria di Fabrizio Moretti, a creare una base ritmica che sembra studiata sullo scandire dei vagoni della metropolitana sui binari, dei passi affrettati sui marciapiedi, della velocità claustrofobica della città. Ritmi serrati, come quelli di “Last Nite” o della controversa “New York City Cops”, esclusa dalla release statunitense dopo il crollo delle torri, che si contrappongono a episodi lenti e ovattati, in cui il contatto con la realtà sembra perso in sostanze psicodislettiche – ne è un mirabile esempio la title track “Is This It”, il cui debito con gli Oasis di “Supersonic” non si limita all’intro, ma anche alla narrazione.
La formula è semplice: un sound sporco su melodie orecchiabili, la sensazione di essere in sala prove ad ascoltare degli amici che suonano, una forza di fascinazione e immedesimazione irresistibile, che appare totalmente naturale e spontanea – gli Strokes diventano portavoce di un’intera generazione, che risponde loro senza esitazione, portandoli immediatamente sulla rampa di lancio del successo planetario.
Non frenarmi se vado troppo veloce
Room On Fire è il disco della consacrazione, per gli Strokes. Registrato dopo il lunghissimo tour di Is This It, in soli tre mesi, scartando una prima versione affidata alla produzione di Nigel Godrich, il "sesto Radiohead", per tornare tra le sicure mani di Gordon Rapahel, che aveva già plasmato il sound del loro primo lavoro, il sophomore della band newyorkese ne diventa il ritratto più fedele e programmatico.
Ad anticiparne l’uscita è scelta “12:51”, canzone emblematica per spiegare il lungo passo verso la maturità compiuto da Casablancas e soci durante la lavorazione del’album: il suono resta sporco, ma più elaborato e complesso; i testi non perdono lo spleen che aveva contraddistinto Is This It, ma lo trasformano, da rabbia post-adolescenziale, nel senso di vuoto e noia tipico della generazione dei Millennials. Persino i videoclip si ricoprono di quella patina necessaria per essere passati in heavy-rotation sui principali canali musicali: quello di “12:51”, per esempio, diretto da Roman Coppola, fratello di Sofia, e ispirato alla computer graphic di “Thron”.
Una patina difficile da evitare, dopo che le facce dei cinque Strokes avevano cominciato a comparire sulle copertine non solo delle riviste musicali, ma anche dei tabloid (Moretti era fidanzato con Drew Barrymore, Casablancas aveva un cognome troppo invitante per non essere inseguito ovunque), e che esplode ancora una volta nel video scelto per la release di “Reptilia”, secondo singolo da Room On Fire, il cui distintivo riff di chitarra sarà addirittura usato da Mtv come introduzione ai promo nel canale Brand:New. Solo un playback, la band che suona, la camera che indugia sull’orologio d’oro e i mocassini bianchi di Casablancas, sul completo elegante di Hammond Jr, sul taglio di capelli perfetto di Valensi. Sembrano passati secoli dall’asta del microfono lanciata in aria e la sigaretta infilata nel manico della chitarra di “Last Nite”.
Ma se dal punto di vista estetico il cambiamento degli Strokes è stato radicale, lo stesso non si può dire per la sonorità di Room on Fire, che non riesce a diventare qualcosa in più di una copia in bella calligrafia di Is This It. Il songwriting si addolcisce un po’, lasciando maggiormente trasparire le innegabili influenze britanniche della band a mitigare il tiratissimo New York-sound del debutto. Proprio questa è la grande forza compositiva del gruppo, che riesce a far convivere le atmosfere fine anni Sessanta degli Stooges di “I Wanna Be Your Dog”, dei Velvet Underground, ma anche di Who e Rolling Stones, compresa la scelta di affidare l’artwork a Peter Phillips, pioniere della pop art inglese. Le pennate affilate e taglienti del punk-garage convivono con il pop più disimpegnato e immediato di una chitarra usata per sostituire un synth, con gli echi di Motown che affiorano in “Under Control”, con il guitar rock anni Ottanta dei Guns’n’Roses – da sempre indicati come ispirazione fondamentale da tutti i componenti della band – di “Meet Me In The Bathroom”.
Gli Strokes, con Room On Fire, si pongono come ri-fondatori dell’indie-rock. Ma sostenere un genere così autoreferenziale per più di due album non è semplice. “Hold on – I’ll be right back” è il commiato affidato agli ultimi versi di “I Can’t Win”, titolo che non si rivelerà minimamente profetico.
Si vive una volta sola
Arrivati a questo punto gli Strokes si sono ritrovati a un bivio: proseguire sulla linea tracciata dai due precedenti album o rinnovarsi? È risaputo come sia sempre difficile lasciare la strada vecchia per la nuova, soprattutto in un caso come questo: gli Strokes in poco meno di 4 anni avevano riscritto praticamente un genere, diventando star planetarie e ricevendo l’etichetta di “salvatori del rock and roll”. Così non stupisce ritrovare dentro a First Impressions Of Earth i suoni ormai familiari degli Strokes: chitarre sporche, la voce sporca di Casablancas, brani accattivanti e immediati. Il lavoro che ci fu dietro però, non fu semplice come ci si potrebbe immaginare: il produttore storico dei primi due album, Gordon Raphael, venne prima affiancato da David Kahne e infine sostituito da quest’ultimo, per incompatibilità fra i due. Kahne, voluto da Albert Hammond Jr, già al lavoro con Paul McCartney, Sublime e Tony Bennett (con il quale vinse un Grammy Award), contribuisce ad “aprire” maggiormente il suono della band, ridefinendone i dettagli: l’esempio più lampante riguarda la voce di Casablancas, che mai era giunta alle orecchie degli ascoltatori così pulita. Il disco viene anticipato dal singolo “Juicebox”, anello di collegamento perfetto con il precedente Room On Fire; il giro pulsante di basso, a braccetto con il picchiare sulla batteria di Moretti, fino all’esplosivo e liberatorio urlo nel ritornello, mettono subito le cose in chiaro: non ci sarebbero state vere sorprese.
First Impressions Of Earth è costruito su solide fondamenta: della sezione ritmica si diceva poco sopra, basti sapere che è sufficiente estendere il discorso fatto per il singolo con il resto dell’album. L’altra componente è l’ispirato connubio Valensi-Hammon Jr. che spesso ricorda i momenti migliori del fortunato Is This It; alcuni dei brani meno significativi sono letteralmente salvati dall’abilità con lo strumento dei due chitarristi. Nascono così brani che, in breve tempo, diventeranno classici del repertorio strokesiano: “You Only Live Once”, posta in apertura, ricorda in un attimo a tutti cosa sia la coolness di una band in grado di marchiare a fuoco una decade con il proprio sound. Già detto di “Juicebox”, non da meno è anche “Heart In A Cage”, che completa il trittico di singoli proposti, il cui riff iniziale è praticamente impossibile da non riconoscere, anche durante un ascolto distratto. Buoni anche momenti i momenti meno frenetici, come la midtempo “Razorblade” o l’inaspettata “Ask Me Anything”, dove Casablancas sveste i panni di urlatore e indossa quelli del celebrante, sopra il particolare suono del Mellotron.
Proprio Casablancas è forse l’anello più debole della catena al momento: i testi non sono particolarmente ispirati e la scelta di sfiorare quasi l’ora di durata, peseranno molto sulla ricezione dell’album da parte di critica e pubblico. Così se brani come “Electricityscape” o “Vision Of Division” ancora solleticano il palato, solo gli ascoltatori più fedeli possono non catalogare certi momenti, specialmente da “Killing Lies” in poi, come riempitivi privi di significato.
Il terzo disco, classico banco di prova per qualsiasi band, sdogana definitivamente gli Strokes verso la scena mainstream, nonostante la critica gli riservi un accoglienza piuttosto tiepida rispetto ai precedenti due lavori. Ma si sa che spesso critica e pubblico non vanno a braccetto, e il tour promozionale si rivela un vero successo in termini numerici, con il 2006 che sarà l’anno con il maggior numero di esibizioni dal vivo. Qualcosa però si rompe all’interno della macchina newyorchese; l’attenzione verso la band logora eccessivamente i componenti che sul finire dell’anno dichiarano di volersi prendere una pausa a tempo indeterminato.
Il Pentagono
L’occasione per uscire dalla bolla in cui erano entrati nell’ormai lontano 2001 viene colta al volo da tutti e cinque i membri del gruppo: fra lavori solisti, progetti paralleli e collaborazioni, nessuno rimane praticamente inattivo. Ognuno si dedica a ciò che maggiormente lo gratificava a livello personale: il lavoro più significativo è quello del frontman Julian Casablancas, che con il suo "Phrazes For The Young" si smarca nettamente dal suono che aveva contribuito a creare. Non che sia un lavoro di particolare rilievo, ma la svolta pop di Casablancas influirà molto anche sulle scelte future compiute dalla band; il massiccio uso di synth e certe atmosfere (s)piacevolmente patinate e appiccicose le ritroveremo in seguito.
Nonostante le dichiarazioni pessimistiche, con Valensi che arriva a dire “a questo punto non so se faremo un quarto disco”, la band si ritrova a lavorare al successore di First Impressions Of Earth dopo più di due anni di pausa; altrettanti ce ne vorranno perché Angles veda la luce nel marzo 2011.
Gli “angoli” del titolo vorrebbero rappresentare tutte le sfaccettature dei componenti band, che per la prima volta firma le canzoni come gruppo e non individualmente. Casablancas acconsente a cedere parte della propria autorità come autore al gruppo, anche se il metodo di lavoro utilizzato non è certo dei più felici, come vedremo in seguito. Scelto come produttore Joe Chiccarelli (Mika, Racounteurs, The Shins) e abbandonato poco dopo l’inizio delle registrazioni, perché il suo stile di produzione non viene particolarmente apprezzato, gli Strokes completano il disco con l’apporto dell’ingegnere del suono Gus Oberg.
Fin qui sembrerebbe la normale genesi di un qualsiasi lavoro rock, se non fosse per un dettaglio decisamente significativo: Casablancas in studio non si presenta praticamente mai. Il cantante registra le proprie parti vocali a casa sua, per poi spedirle ai quattro che nel frattempo continuano a lavorare come una vera band; non ci sarebbe bisogno di aggiungere che questo non contribuirà a creare quel clima di coesione e di condivisione d’intenti che spesso è alla base della riuscita di un disco.
Il singolo di lancio “Under Cover Of Darkness” è per molti illusorio: gli Strokes sono finalmente venuti a patti con la propria essenza da guitar-band dai forti connotati pop? Sempre presente, ma abilmente celata dietro l’immaginario garage, in fondo gli Strokes hanno sempre avuto la capacità di creare micidiali singoli, graffianti e ruffiani. Angles rappresenta una svolta per la band, che per la prima volta prova effettivamente a cambiare rotta, complice il maggior potere decisionale di ogni membro; il risultato però è abbastanza deludente, sul quale non si può negare abbia influito anche lo strano metodo di lavoro imposto da Casablancas.
Il tentativo appare eccessivamente confusionario per potersi dire realizzato: si va dal power-pop di “Two Kind Of Happines” ai momenti tribali di “Machu Pichu”, passando per episodi classic rock come “Gratisfaction”, senza seguire un minimo filo logico. L’effetto vintage-nostalgia di cui è intriso l’intero disco, si fa sempre più forte quando ci si rivolge verso gli anni Ottanta, vuoi inneggiando alla new wave (“Two Kind Of Happiness”), vuoi giocando con i synth come in "Games". L’unico momento che riesce a ricordare vagamente i fasti passati è “Taken For A Fool”, scritta da Valensi, con il suo ritornello catchy dal sapore weezeriano, non a caso scelta come secondo singolo.
L’impressione è che nemmeno la band creda molto in questo lavoro, tant’è che nei due anni successivi il gruppo collezionerà meno esibizioni live rispetto al solo 2006. Le cinque anime musicali degli Strokes mai si sono trovate così distanti, fra chi come Valensi non era d’accordo sull’utilizzo dei synth e chi invece spingeva per sperimentare. Molte sono le voci di scioglimento e un nuovo album appare sempre più come una chimera, ma la storia si ripete anche per i newyorkesi e nel 2013 eccoli ritornare alla ribalta.
La discesa della macchina newyorkese
Comedown Machine è figlio di questo tempo, della contemporaneità: se agli inizi gli Strokes prendevano lo zeitgeist e lo trasformavano in musica, ora il processo si è invertito. La band scandaglia la musica per cercare ciò che più è icona del presente, da aggiungere al proprio processo creativo, ormai – forse – fuori tempo massimo. Prodotto sempre da Gus Obert, è l’ultimo dei cinque dischi previsti dal contratto con la Rca ed esce il 26 marzo, dopo un’anteprima integrale in streaming su Pitchfork. Casablancas rientra nei ranghi e registra assieme al resto del gruppo, come ai vecchi tempi.
I risultati di questa tragica inversione sono tracce come “Partner In Crime”, pericolosamene simile ad “Another Day In Paradise” di Phil Collins, o i falsetti di “One Way Trigger”, singolo scelto ad anticipare l’uscita dell’album e tranquillamente confondibile con una canzone di Mika, o ancora “Chances”, a metà fra U2 e Killers, qualcosa di inimmaginabile solo qualche anno prima per un gruppo come quello di Casablancas e soci.
Lo stesso Casablancas è vittima di questo nuovo sound, che porta alla luce tutti i suoi limiti vocali; Comedown Machine si salva dal tracollo di riff telefonati e ritornelli inefficaci solo grazie a pezzi come “All The Time” e “50/50”, gli unici accostabili a ciò che sono stati gli Strokes in passato, dimostrazione che la band è ancora in grado di raggiungere i migliori risultati quando segue il proprio istinto primario. Al contrario, quando sono loro a ricercare il sound di altre band, il risultato non si può definire soddisfacente, fra mezzi passi falsi e brani privi di mordente; così, succede che brani come “Tap Out”, con il suo ritmo funk, e “Welcome To Japan” finiscano per essere sporcati da ritornelli poco incisivi, che ne pregiudicano la piena riuscita.
Questo nuovo lavoro lascia un po’ d’amaro in bocca, per ciò che sarebbe potuto essere, per quello che qui e là si riesce a intravedere ma che invece non è stato; saremo forse ingenui, ma ci piace pensare che lo spirito di Is This It sia ancora lì, nascosto da qualche parte. La sensazione è che gli Strokes abbiano ancora qualcosa da dire e che il futuro potrebbe regalare nuove sorprese; meglio usare la dovuta cautela prima di darli per finiti.
Un nuovo inizio?
All'improvviso, senza alcun tipo di preavviso, a fine maggio 2016 gli Strokes pubblicano Future Present Past, un Ep di tre canzoni (più un remix) per l'etichetta di Julian Casablancas, Cult Records. Si tratta, spiega la band, di un passo intermedio in vista - a quanto pare - di un nuovo lavoro sulla lunga durata che vedrà la luce più avanti.
Con questi tre nuovi brani, gli Strokes sembrano volere interrompere la stasi creativa dei precedenti lavori e, per farlo, riprendono saldamente in mano lo stile pop-rock delle origini. Che poi questo Ep riesca davvero a invertire il declino artistico delle ultime uscite, è tutto da vedere. Più che altro, lo sforzo – evidente – di rimpossessarsi del fuoco sacro delle origini non sembra suffragato né dal necessario contraltare di ispirazione (“Drag Queen”, ad esempio, sfigura al cospetto dei capisaldi del repertorio, ma anche “solo” di una “Machu Picchu” che rimane il capitolo più sottovalutato della intera parabola del combo statunitense), né tantomeno dalla freschezza espressiva dei bei tempi, fatta salva forse “Threat of Joy”, onesta hit da godersi nel dormiveglia da spiaggia. La stessa “OBLIVIUS”, di cui si trova in coda il remix realizzato dal batterista Fabrizio Moretti, gioca le sue carte sul più classico dei ritornelli a effetto incorniciato dalla migliore prova vocale di Julian Casablancas, ma l'intreccio di chitarre e synth che sorregge il brano non è altro che l'ennesima riproposizione di qualcosa di già ripetutamente sentito, e con esiti migliori, dieci anni prima o giù di lì.
Future Present Past è forse un passo necessario, ma più per gli Strokes stessi che per il mondo esterno. È un po' come quando si inaugura un libro o una nuova storia e ci si trova di fronte la pagina bianca. Gli Strokes hanno ricominciato a scrivere, e non resta che augurarsi che la trama possa essere più avvincente di questo insipido incipit.
La freschezza ritrovata: The New Abnormal
Nella primavera del 2020 i newyorkesi ritornano, e pure in grande stile. Indovinare che gli Strokes, ormai tutti intorno alla quarantina, avrebbero realizzato un disco fresco come questo The New Abnormal, sarebbe sembrato azzardato anche agli scommettitori più incalliti. Cos’è successo dunque? Anzitutto va messo in conto che il talento del quintetto non è mai stato in discussione: non si cambia il corso di un decennio musicale accidentalmente. Mettici poi la consapevolezza che solo la mezz’età può portarti: siamo gli Strokes, e allora facciamo gli Strokes, affanculo evoluzioni autoreferenziali per convincere la critica (per giunta mai dolcissima con i newyorkesi). Mettici anche Rick Rubin, che quando si tratta di passare la lacca sui talenti sbiaditi è ancora una discreta garanzia.
Che ci saremmo ritrovati tra le mani un disco perlomeno interessante è stato via via più chiaro man mano che la band ha lasciato uscire i singoli che lo hanno anticipato. Prima “Bad Decisions”, con la ritmica arzilla e l’alchimia tra le chitarre di Hammond Jr e Valensi contagiosa come un una volta, e i synth avvolgenti srotolati nei cinque minuti abbondanti di “At The Door” (l’esperienza di Casablancas con i Daft Punk appare in un brano come questo cruciale). Infine, definitivo segnale di un ritorno da tener d’occhio, la gioia strillata dai ponti di New York in “Brooklyn Bridge To Chorus”, uno dei pezzi più catchy dell'intera carriera.
Un altro degli assi lo troviamo in apertura: “The Adults Are Talking”. Quasi una rivendicazione, con le due chitarre che invitano un sintetizzatore per un ménage à trois di stratificazioni e cambi di tono. Qui e altrove, le trame di The New Abnormal sono più complesse e dinamiche di quanto i cinque ci avessero abituato, solitamente proprio grazie all’arsenale di tastiere vintage chiamato in causa (“Why Are Sundays So Depressing”, “Selfless”, “Ode To The Mets”). E quanto si è divertito Julian, derogando sovente dalla proverbiale cantilena che comunque ben si addice all’inedito cinismo di mezz’età sparso per i testi, per tuffarsi in avventurosi farsetti. Come nella torrida, bellissima “Eternal Summer”, grandioso omaggio al rock radiofonico di un tempo.
Nove brani per quarantacinque minuti. Ecco qualcosina si guasta sul finale, con tre brani un po’ pesanti, cui avrebbe giovato una sforbiciatina. Non un'esclusione però, dato che ciascuno di essi rifila almeno un dettaglio o uno sprazzo di irresistibile coolness – con una menzione d’onore per “Ode To The Mets”, dedicata al baseball team del cuore di Casablancas. Mezzo punto in più per il tempismo. Perché “The New Abnormal” è il disco di cui gli Strokes, noi e la loro New York avevamo bisogno in questo momento. Una boccata d’aria fresca.
Trascorso il periodo di restrizioni causate dalla pandemia, nel 2022 gli Strokes si imbarcano in un tour che li porta anche a suonare come headliner in molti dei festival musicali più prestigiosi del mondo. Rilanciati al centro dell’attenzione mediatica dal documentario “Meet Me In the Bathroom”, a febbraio del 2023 pubblicano The Singles - Volume 01, un boxset contenente la ristampa in vinile dei dieci singoli estratti dai loro primi tre album.
Utiilizzando il medesimo artwork delle edizioni originali, riemergono a nuova vita “The Modern Age”, “Hard To Explain”, “Last Nite”, “Someday”, “12:51”, “Reptilia”, “The End Has No End”, “Juicebox”, “Heart In A Cage” e “You Only Live Once”, con tutte le rispettive e preziose b-side, fra le quali meritano menzione almeno “Mercy Mercy Me”, cover del grande successo di Marvin Gaye realizzata con i contributi di Eddie Vedder e Josh Homme, e l'intrigante versione demo di “You Only Live Once”, intitolata in maniera provvisoria “I’ll Try Anything Once”.
Contributi di Fabio Guastalla ("Future Present Past"), Michele Corrado ("The New Abnormal") e Claudio Lancia ("The Singles-Volume 01")
STROKES | ||
Album | ||
Is This It (Rca, 2001) | 8 | |
Room On Fire (Rca, 2003) | 7 | |
First Impressions Of Earth(Rca, 2006) | 7.5 | |
Angles(Rca, 2011) | 5 | |
Comedown Machine(Rca, 2013) | 5.5 | |
The New Abnormal (Rca, 2020) | 7,5 | |
The Singles - Volume 01 (boxset, Rca, 2023) | 8 | |
Ep | ||
The Modern Age(Rough Trade, 2001) | ||
Future Present Past Ep (Cult, 2016) | ||
JULIAN CASABLANCAS | ||
Phrazes for the Young(Rca, 2009) | ||
Tyranny(Cult, 2014) | ||
ALBERT HAMMOND JR. | ||
Yours To Keep (Rough Trade, 2006) | ||
¿Cómo Te Llama?(Rough Trade, 2008) | ||
Momentary Masters (Vagrant, 2015) | ||
Francis Trouble(Red Bull, 2018) |
Last Nite | |
The Modern Age | |
Hard To Explain (da "Is This It", 2002) | |
Someday (da "Is This It", 2002) | |
12:51 | |
Reptilia (da "Room On Fire", 2003) | |
The End Has No End (da "Room on Fire", 2003) | |
Juicebox (da "First Impressions Of Earth", 2005) | |
Heart In A Cage (da "First Impressions Of Earth", 2006) | |
You Only Live Once (da "First Impressions Of Earth", 2006) | |
Under Cover Of Darkness | |
Call Me Back (da "Angles", 2011) | |
Taken For A Fool (da "Angles, 2011) | |
All The Time (da "Comedown Machine, 2013) |
Sito ufficiale | |