Le origini
Tutto inizia verso la fine degli anni 80 a Palm Desert, una cittadina situata nel sud della California, il cui nome già lascia intendere in quale humus sia germogliato il sound dei Kyuss, una band con il deserto nel Dna. Il primo progetto del gruppo prende il nome di "Sons of Kyuss", anno di grazia 1990, con John Garcia alla voce, Josh Homme alla chitarra, Chris Cockrell al basso, e Brant Bjork alla batteria, cioè tre quarti dei futuri Kyuss, che ufficialmente nascono l'anno successivo. Sons of Kyuss, distribuito in sole mille copie in vinile verde (ristampato in cd nel 2000 ma non certo di facile reperibilità), contiene, ma in versione assolutamente primordiale, una parte dei brani che prenderanno poi la forma definitiva in Wretch (1991, con Nick Oliveri al posto di Cockrell al basso), il vero e proprio debutto dei Kyuss.
Il sound non è ancora maturo, lascia intravedere soltanto a sprazzi ciò che di lì a poco diverrà il tipico suono stoner, ma la qualità dei brani non è ancora eccezionale, l'esecuzione manca ancora di alcuni elementi, anche "formali", che renderanno inimitabili i Kyuss con gli album successivi. Wretch è il loro lavoro più tipicamente hard rock, nell'accezione classica del termine. Se i Kyuss si fossero fermati qua, o avessero continuato con album dello stesso tenore, probabilmente non avrebbero lasciato molte tracce del loro passaggio, e non saremmo qui a parlarne oggi.
Blues For The Red Sun: il picco creativo dei Kyuss
Nel 1992 esce, per contro, quello che molti considerano il loro capolavoro, Blues For The Red Sun (con il quale inizia anche la collaborazione con il produttore Chris Goss), il disco che sta allo stoner come "The Piper At The Gates Of Dawn" dei Pink Floyd sta al rock psichedelico della fine degli anni 60. Ed è proprio la psichedelia, quella legata più alla scena americana e all'acid rock dei Grateful Dead, dei Jefferson Airplane e di Jimi Hendrix, unitamente alla grezza brutalità à la Blue Cheer e alla pesantezza dei primi Black Sabbath, a forgiarne il suono. A ciò si aggiunga la felice intuizione di utilizzare strumentazioni vintage o comunque volte ad ottenere un sound seventies, decisamente grezzo, in un periodo - quello a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90 - in cui le tendenze dominanti sono tutt'altre. Amplificatori rigorosamente valvolari, batterie Ludwig, effettistica ridotta al minimo, impiegata in modo da ottenere i suoni caldi ed essenziali tipici del rock degli anni 60 e 70 (vibrato, flanger usato quasi come l'uni-vibe, wha-wha, distorsioni valvolari), nonché l'utilizzo di frequenze basse e conseguente taglio delle più alte, per conferire al suono ancora maggior pesantezza: questa è la loro ricetta.
Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, descritta così l'attività della band potrebbe sembrare del tutto revivalistica. Tuttavia con Blues For The Red Sun nasce qualcosa di diverso. A prescindere dalla qualità superiore dei brani rispetto all'esordio, dalle singole peculiarità dei musicisti, dalla particolarità e dalla grinta della voce di John Garcia, l'hard rock dei Kyuss non suona come un dejà vu. E' come se i Led Zeppelin fossero tornati ai loro inizi dopo aver visto i Metallica e tutto quello che c'è stato in mezzo. Questo è lo stoner (termine che, peraltro, è stato coniato dalla critica e non è mai andato molto a genio a Homme e compagni), un hard rock psichedelico che guarda indietro, che vuole fare a meno del metal e delle sue derivazioni, ma che, volente o nolente, ci è passato attraverso.
Ad onor del vero, i componenti della band spesso hanno citato gruppi punk (ma non solo, anche i Black Sabbath, per esempio) fra i propri mentori, anche se l'unico elemento che possa definirsi punk nella loro musica è il rifiuto dell'assolo di chitarra come espressione virtuosistica. Per certi versi è inevitabile il paragone (anche in virtù delle molte analogie esistenti fra i due fenomeni) tra lo stoner e il coevo movimento grunge, che nello stesso momento storico ha preso forma a Seattle, ma, come già altre volte in passato, il fattore territoriale è riuscito a imprimere una differenza di fondo tra i due generi musicali, percepibile anche solo a livello emozionale.
D'altronde il messaggio musicale dei Kyuss è impregnato indelebilmente di atmosfere desertiche, non certo di quelle di una metropoli come Seattle. E si sente. I Kyuss sono terribilmente brutali, pesanti, a tratti acidi, con qualche pausa qua e là, ma mai malinconica, tutt'al più venata di una tristezza che fa venire alla mente spazi sconfinati (e qui il discorso si riallaccia con la psichedelia). Tutto ciò non si trova nel grunge, che ha rappresentato (pur nella sua varietà stilistica) altre situazioni, altri stati d'animo.
I Principi dello Stoner Rock
Nel 1994 Sott Reeder rimpiazza Oliveri al basso ed esce Welcome to Sky Valley, il loro disco più psichedelico, senza rinunciare alla pesantezza dei lavori precedenti. I brani, come già in Blues For The Red Sun hanno una durata media piuttosto elevata, arricchiti da numerose improvvisazioni "lisergiche", fortemente contaminate con l'hard blues. C'è spazio anche per uno dei rari momenti acustici della band, la splendida "Space Cadet", quasi sette minuti, una sorta di "Planet Caravan" striata di venature orientaleggianti, con la voce di Garcia a tratti filtrata alla Ozzy Osbourne, un'autentica ballata desertica.
Nel 1995, dopo un ulteriore cambio all'interno della line-up (Alfredo Hernandez sostituisce Brant Bjork alla batteria), prende vita il loro ultimo album vero e proprio, And The Circus Leaves Town, che segna un parziale ammorbidimento del gruppo per quel che riguarda il lato psichedelico del sound. Questo cambiamento di rotta è in parte compensato dal fatto che in questi solchi sono presenti le migliori composizioni dei Kyuss, anche per quanto riguarda il rapporto tra melodia della voce e struttura dei brani. Pezzi come "Hurricane", "One Inch Man", "Phototropic" (con un lungo incipit strumentale, e la parte vocale centellinata nell'arco del brano fino alla litania finale), "El Rodeo" non hanno nulla da invidiare a quelli contenuti nei dischi precedenti.
Da menzionare, infine, lo split album Kyuss / Queens Of The Stone Age del 1997 (ma le registrazioni dei Kyuss risalgono all'anno precedente), in cui la band di Palm Desert incide tre brani tra i quali la cover dei Black Sabbath "Into the void", quasi un omaggio, nel loro canto del cigno, al gruppo che (anche se limitatamente ai dischi dei primi anni '70), forse, li ha maggiormente influenzati.
Dai Kyuss ai Queens Of The Stone Age
Qui finiscono i Kyuss, e di fatto iniziano i Queens Of The Stone Age, ma tutti i membri del gruppo hanno continuato le rispettive carriere in altri progetti: Bjork ha intrapreso la carriera solista, Nick Oliveri ha creato i Mondo Generator (nome mutuato da una canzone di Blues For The Red Sun), John Garcia ha dato vita agli Unida e dopo molti anni ha intrapreso un percorso solista. Josh Homme, il vero fulcro creativo dei Kyuss, ha registrato dieci volumi delle leggendarie "Desert Sessions", coinvolgendo innumerevoli ospiti, e ha fondato i Gamma Ray, presto divenuti Queens Of The Stone Age, dopo aver scoperto che già esisteva un gruppo con lo stesso nome (una band power metal tedesca con Kay Hansen, l'ex chitarrista degli Helloween). Proprio i Queens Of The Stone Age, in cui ritroviamo Nick Oliveri al basso e Alfredo Hernandez alla batteria (quest'ultimo limitatamente al primo album), sono, tra le varie esperienze post Kyuss, quella che ha saputo fin da subito dimostrato di avere i numeri migliori, infilando con rapidità una trilogia in grado di ridefinire le coordinate del rock americano del nuovo millennio.
Ma prima di giungere a questo, Homme nel 1995 si unì per un breve periodo agli Screaming Trees come chitarrista per un tour: fu l'inizio della proficua collaborazione con Mark Lanegan. Nel 1996 arriva l'esordio del nuovo progetto Gamma Ray, con l'omonimo Gamma Ray Ep, al quale contribuiscono Matt Cameron dei Soundgarden (e dei Pearl Jam) e Van Commer degli Screaming Trees. Le prime pubblicazioni a nome Queens Of The Stone Age furono la canzone "18 A.D.", inserita nella compilation "Burn One Up! Music For Stoners", e il già citato split Kyuss / Queens Of The Stone Age, nel quale confluiscono tre tracce dei Queens provenienti dalle cosìddette Gamma Ray Sessions, e tre brani registrati dai Kyuss prima del loro scioglimento.
Il capolavoro degli Anni Zero
I primi due album subito delineano lo stile dei Queens Of The Stone Age - l'omonimo Queens Of The Stone Age, pubblicato nel 1998 e Rated R, uscito due anni più tardi - ma è subito dopo che la nuova creatura di Josh Homme perfeziona quello che passerà alla storia non soltanto come il loro disco più riuscito, ma anche come uno dei più importanti e influenti capolavori rock degli anni Zero. Il monumentale Songs For The Deaf arriva sugli scaffali nel 2002 e vede la partecipazione di Mark Lanegan (voce in quattro tracce) e Dave Grohl, che abbandona le session di registrazione dei suoi Foo Fighters per sedersi dietro le pelli dei Queens per disco e tour. L'album è una sorta di concept radiofonico: molte delle canzoni contenute sono intervallate da divertenti siparietti condotti da un finto speaker che annuncia il brano successivo. Il sound si avvicina a quello dei Kyuss, con suoni di basso e chitarra super valvolari, molto seventies, volutamente "grezzi", accentuati dalla consueta componente hard-psych e da ritmi leggermente più incalzanti.
I brani, caratterizzati da una durata media inferiore e da una maggior attenzione per le linee melodiche, si susseguono senza tregua, riuscendo a racchiudere e fondere tutti gli elementi necessari per la riuscita di un ottimo disco rock, con momenti di pura potenza ("Six Shooter") alternati a fasi venate di uno strisciante senso di inquietudine (le quasi omonime "A Song For The Deaf " e "A Song For The Dead"), episodi di puro divertimento ("Go Wity The Flow") e persino una inaspettata hit ("No One Knows") e una delicata ballata acustica con tanto di pianoforte e archi ("Mosquito Song"). Tra citazioni (in particolare grunge e post-hardcore) e originalità, sono in particolare i riff a dimostrarsi semplici ma di un'efficacia stupefacente: il disco suona così potente da diventare un termine di paragone per il futuro, basti ascoltare l'attacco di "You Think I Ain't Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire", che si abbatte come un uragano sull'ascoltatore, e poco più avanti le cose non saranno molto differenti con "First It Giveth" o "Six Shooter". Questo da ora in poi sarà il paragone con il quale la band dovrà misurarsi.
La dipartita di Nick Oliveri
Privi del fuoriuscito Oliveri, i Queens Of The Stone Age pubblicano nel 2005 Lullabies To Paralyze, che riserva sonorità più pacate dei lavori precedenti e resta fermo su binari già sentiti, immobilizzato in una sorta di dejà-vu. L'album parte lento, con una ninna nanna interpretata dalla voce di Mark Lanegan, e si sveglia pienamente dal torpore con lo schiaffo "Stone Age" di "Medication", un lampo da un minuto e mezzo. Poi ci si culla sulla lucente slide di "Everybody Knows That You're Insane", intensa e avvolgente, e a metà scaletta arrivano le due lunghe zampate decisive sotto forma di "Someone's In The Wolf" (oltre sette minuti) e "The Blood Is Love" (oltre 6), i momenti più compiuti e articolati dell'intero lavoro.
I frangenti "tranquilli" sono molti più numerosi del solito, soprattutto nella parte finale del disco, quando scorrono sornione "You've Got A Killer Scene There" (di nuovo con Lanegan alla voce) e "Long Slow Goodbye", tutto sommato un degno ending. C'è spazio anche per la più bella e coinvolgente ballad mai scritta dai Queens Of The Stone Age, "I Never Came", accattivante quanto basta per provare a conquistare il grande pubblico. Non mancano i divertissement "Little Sister" e "Broken Boz", pezzi che Homme è in grado di scrivere in pochi minuti di sana ispirazione. Negli episodi più "noir" - "Burn The Witch", "Skin On Skin" - affiora invece la sensazione del "già sentito", che rende complessivamente Lullabies To Paralyze poco più che un onesto disco rock.
Nel 2005 esce il live Over The Years And Through The Woods; due anni più tardi toccherà a Era Vulgaris, da molti considerato un lavoro di transizione, ma che in realtà regala diversi momenti eccitanti, come "I'm Designer" o la cavalcata finale "Run, Pig, Run" che riporta il suono della band alla rocciosità degli esordi.
Gli anni recenti...
Dopo molti anni di assenza, il 3 giugno 2013 esce finalmente …Like Clockwork, centellinando nelle settimane precedenti le notizie diffuse durante le fasi di registrazione, lasciando trasparire le importanti collaborazioni incluse e confezionando persino un cortometraggio di quindici minuti confezionato con i disegni animati di Boneface (autore anche della copertina) che raccoglie stralci di cinque delle dieci tracce contenute nel disco. La formazione base è schierata con Josh Homme, Troy Van Leeuwen, Dean Fertita e Michael Shuman, mentre il batterista Joey Castillo ha abbandonato la partita durante le session, lasciando spazio all’acclamata partecipazione (ma solo per il disco, non sarà nel tour) in molte tracce di Dave Grohl. Confermati l’apporto dell’amico Mark Lanegan e il rientro del bassista Nick Oliveri. Le altre importanti presenze dentro …Like Clockwork sono quelle di Trent Reznor, Elton John (il nome che ha suscitato maggior stupore), Alex Turner degli Arctic Monkeys, Jake Shears degli Scissor Sisters e Brody Dalle, la moglie di Josh.
Dal punto di vista strettamente musicale ...Like Clockwork non è niente di diverso da ciò che ragionevolmente ci si può attendere da un disco dei Queens Of The Stone Age nel 2013: un lavoro in linea con le aspettative, che mette in riga, assieme ai consueti riffoni arrembanti, l’orgoglioso incedere simil doom di “Keep You Eyes Peeleed”, il funky in falsetto di “Smooth Sailing”, l’irresistibile orecchiabilità “alt” di “I Sat By The Ocean”, una manciata di sopraffine ballate noir (“The Vampyre Of Time And Memory”, la superba “I Appear Missing”, la conclusiva title track), oltre alle convincenti repliche del proprio distinguibilissimo marchio di fabbrica (“If I Had A Tail”, “My God Is The Sun”). Uno dei vertici del disco è certamente “Kalopsia”, con il suo continuo altalenare fra momenti di grande tranquillità e spunti virulenti, quasi una mini suite, con la partecipazione straordinaria di Trent Reznor. Al di sotto delle aspettative il risultato dell’imponente dispiegamento di forze voluto per “Fairweather Friends”, con le apparizioni di Elton John, Reznor, Lanegan e Oliveri. Con ...Like Clockwork i QOTSA riescono a mantenere la giusta considerazione da parte di pubblico e critica: misurando abilmente arcigni ritmi rock e ballate ad alto contenuto emozionale - e limitando la tracklist a soli dieci episodi ben curati - realizzano una prova che pur non avendo la carica innovativa dei primi lavori, li conferma ai vertici assoluti del rock contemporaneo.
Il 25 agosto 2017 è la volta di Villains, il settimo capitolo in studio, determinante nel completare il processo di graduale allontanamento sia dal roccioso stoner che fu dei Kyuss, sia dalle lisergiche improvvisazioni che resero celebri le leggendarie Desert Sessions. Un album divertente da ascoltare, realizzato da un parterre meno ricco del solito, ma oramai rodato e coeso: accanto a Homme sono infatti schierati Troy Van Leeuwen, Dean Fertita, Michael Shuman e Jon Theodore. La produzione di Mark Ronson (ma a dare una mano in cabina di regia ci sono anche Mark Rankin e Alan Moulder) conferisce ai brani una direzione netta, compiendo (senza mai rinnegare il classico suono della band) il definitivo traghettamento verso sonorità più easy, persino ballabili, in quello che sarà ricordato come l’album più orecchiabile dei Queens Of The Stone Age.
I germi del cambiamento erano evidenti già dai lavori precedenti, pertanto il funk boombastico di “Feet Don’t Fail Me” e il boogie da dancefloor di “The Way You Used To Do” sono proclami musicali che – posti a inizio tracklist - fissano sì il mood dell’intero album, ma non possono certo apparire inattesi. Si perfeziona così il passaggio (presumibilmente incontrovertibile) dal desert-rock al modern-groove, ma i riff e le atmosfere epiche che compongono “Domesticated Animals” e la più ritmata e articolata “The Evil Has Landed” non dimenticano gli antichi sapori, pur se declinati in un formato più fruibile (eviterei per quanto possibile di ricorrere al termine “pop”). Una “Un-Reborn Again” che perde mordente perchè tirata per le lunghe, la dolcezza di “Fortress” e “Villains Of Circumstances” perfette nel confermare la giusta attenzione per i furbi ganci melodici, i synth di “Hideaway” che chiamano in causa certi anni 80, il punkettino rock-a-billy in odore di Elvis “Head Like A Haunted House” che fa tanto Eagles Of Death Metal, sono ulteriori sfaccettature che rendono Villains tutt’altro che monocorde, ma fra i quali solchi resta davvero ben poco della grandezza del passato.
Dopo una pausa durata ben sedici anni, il 25 ottobre 2019 vengono pubblicate su Matador Records due nuove Desert Sessions, registrazioni eseguite presso gli studi Rancho de la Luna (a Joshua Tree, California) nelle quali Josh Homme si circonda di amici musicisti per creare musica piacevolmente contaminata, libera da qualsiasi schema.
Fra il 1997 e il 2003 ne furono diffuse 10, a gruppi di due. Proseguendo nella numerazione, all'epoca interrotta, questa volta è il turno delle numero 11 e 12, intitolate rispettivamente Arrivederci Despair e Tightwads & Nitwits & Critics & Heels.
Fra gli ospiti presenti spiccano i nomi di Les Claypool (Primus), Billy Gibbons (ZZ Top), Stella Mozgawa (Warpaint), Jake Shears (Scissor Sisters), Mike Kerr (Royal Blood) e Carla Azar (Autolux, Jack White).
Per un nuovo lavoro firmato Queens Of The Stone Age occorre attendere la metà di giugno del 2023, quando viene diffuso In Times New Roman..., dieci nuove tracce che riportano la formazione americana verso un groove più robusto. Un buon disco che giunge dopo il periodo più complicato mai attraversato dalla band americana, fra pandemia, battaglie vinte contro brutti mali (inequivocabili le dichiarazioni rilaciate da Josh Homme) e più di qualche amico fraterno che non c’è più (Mark Lanegan su tutti). In Times New Roman… è un album che quindi inevitabilmente offre pieghe umbratili (“Carnavoyeur”) e il desiderio di elaborare mood alternativi ("Time & Place”), ma anche momenti nei quali l’energia gira brutalmente a mille (“What The Peephole Say”, “Emotion Sickness”) oppure vengono messi a fuoco efficaci ritornelli killer (“Negative Space”). Un progetto all’interno del quale le dinamiche divengono necessarie, e le atmosfere mutano in continuazione, ospitando tanto la grandeur di “Sicily”, che conduce la band verso territori inusuali, seppur contigui alla propria comfort zone, sia al suono aggressivo e super spedito che caratterizza tracce come “Paper Machete”, pensate per riabbracciare con forza quel sound graniticamente rotondo che caratterizzò i loro primi tre leggendari lavori.
L’orgia chitarristica finale impressa in “Straight Jacket Fitting” rappresenta l’ideale conclusione, con la seconda parte elaborata su un’atmosfera che diviene placidamente acustica. Il groove resta l’ingrediente essenziale, ma stavolta al centro torna quel verace alt-rock direttamente figlio dell’uragano stoner che Josh Homme in persona contribuì a plasmare negli anni Novanta con i Kyuss (chi lo avrebbe detto all’epoca che quel tizio alla chitarra sarebbe diventato il leader di una delle più solide stadium rock band al mondo?). Autoprodotto e senza ospiti piazzati là giusto per attirare l’attenzione, In Times New Roman… conferma l’autorevole status dei Queens Of The Stone Age, anche se - come la maggior parte delle band della loro generazione (Pearl Jam, Muse) che continuano a sfornare album rispettabili - è difficile trovare fra le nuove composizioni momenti che ci sentiremmo di inserire in un ipotetico greatest hits. Credo possiamo accontentarci del fatto che siano ancora qui, nonostante scazzi e stravizi assortiti: per intercettare l’hype o la new sensation di turno, beh, credo proprio che potremmo tranquillamente accomodarci altrove.