Duemila, inizio nuovo millennio. La sbornia collettiva causata dal britpop pare assorbita. Le orecchie d'Albione sono aguzze in direzione oltreoceano. New York, The Strokes. Il fardello (e le speranze) di salvatori del rock'n'roll sono caricati sulle spalle del giovane gruppo guidato da Julian Casablancas. “Is This It”, loro album d’esordio, fa gridare al miracolo e la Grande Mela pare riaccendersi a forza di sferragliate rock. Una rivincita nei confronti dei sudditi di Sua Maestà, che per anni hanno esportato oltreoceano le proprie delizie musicali.
In terra d'Albione non si registrano grossi colpi, tutto pare tacere.
L'estate del 2002 è alle porte e quattro amici di Sheffield, immersi nella tipica noia di provincia, si trovano davanti a un bivio. Alex e Matt hanno appena ultimato il college e sono indecisi se proseguire o meno le rispettive carriere accademiche, Jamie a maggio ha abbandonato il suo lavoro da piastrellista, mentre Andy pare accontentarsi del sussidio di disoccupazione. Nell'attesa di compiere i rispettivi passi che li catapulterebbero nel mondo delle responsabilità, del lavoro, della famiglia, i quattro preferiscono però ingannare le lunghe grigie giornate di Sheffield rinchiusi in buie e umide cantine a suonare quel rock'n'roll che giunge dalla lontana America. Senza troppe pretese e ambizioni nascono quindi gli Arctic Monkeys, che guidati dall'ancora inesploso talento di Alex Turner, limitato in un primo momento a rivestire i panni del sopracitato Casablancas (gli AM nascevano come cover band degli Strokes), di lì a poco, con loro enorme sorpresa, sarebbero diventati l'ennesima next big thing di Sua Maestà.
Sheffield alla riscossa
Essere di Sheffield deve aver giocato un ruolo importante per la nascita delle Scimmie Artiche. Di fatto, a partire dagli anni 80, la capitale dell’acciaio divenne, insieme a Manchester, uno degli epicentri culturali del Regno Unito, con un'alta percentuale della propria popolazione legata in qualche modo al mondo della creatività.
Ecco quindi che i quattro giovanotti cominciarono a muovere i primi passi su questo terreno iper-fertile, che nei decenni precedenti era riuscito a porsi come vero e proprio laboratorio in grado di far crescere gruppi e artisti, da Jarvis Cocker e i suoi Pulp al crooner Richard Hawley, dall'elettronica di Human League e Heaven 17 all’industrial di Clock Dva e Cabaret Voltaire, che resero Sheffield punto di riferimento del distretto culturale dello Yorkshire.
Dopo una prima serie di live, approdiamo al 2003, Alex & C. decidono finalmente di chiudersi presso i 2fly Studios di Sheffield per registrare i loro primi demo. Da queste sessioni prendono forma ben 17 brani inediti che finiranno nella raccolta nota come “Beneath The Boardwalk” (tra questi, compaiono tracce che di lì a poco sarebbero diventate ben più celebri: “A Certain Romance”, “Cigarette Smoke”, “Dancin' Shoes”, “Fake Tales Of San Francisco”, “Mardy Bum”, “Bet You Look Good On The Dancefloor” e “Scummy”, poi rinominata “When The Sun Goes Down”) le cui copie sarebbero state distribuite prima e dopo i successivi concerti al pubblico presente.
Questa mossa, studiata o meno, porta a risultati inattesi. Le prime copie delle registrazioni si diffondono a macchia d'olio, tanto che sul social network Myspace sbuca, all'insaputa della band stessa, la pagina che porta il suo nome. L'effetto virale attrae dapprima l'attenzione dei tabloid locali, ma in breve tempo il gruppo di Alex Turner non ha difficoltà a finire sulle prime pagine dei più importanti magazine musicali britannici, tra cui Nme.
The next big thing
Quando un gruppo rock britannico può cominciare a pensare di avere qualche speranza di emergere sulla miriade di altri gruppi compatrioti? Probabilmente quando l'Nme ti sbatte in prima pagina, il primo grande passo verso la celebrità è stato compiuto. Siamo a maggio 2005 e i quattro ragazzini di Sheffield compaiono per la loro prima volta sulla copertina del mensile di musica più importante d'Albione. Alle loro spalle hanno soltanto la raccolta di demo sopracitata. Niente uscite ufficiali, niente Ep o Lp. Nonostante questo Nme decide di puntare su di loro, attribuendo agli Arctic Monkeys il ruolo di portabandiera dello Yorkshire in risposta al movimento punk-rock, guidato dai Libertines di Pete Doherty, che nel frattempo aveva preso piede nella Capitale. Come se ciò non bastasse, il “piccolo” Turner viene associato al mostro sacro Paul Weller. Quanti gruppi sarebbero stati in grado di tenere botta ad accostamenti così ingombranti?
Il pubblico d'Oltremanica già sembrava assaporare le ceneri dell'ennesima band bruciata dalle pretese della sconsiderata e affamata stampa d'Albione. E invece nel gennaio successivo, dopo la pubblicazione dell'Ep “Five Minutes With Arctic Monkeys”, ecco che le Scimmie danno alle stampe il loro primo lavoro su lunga distanza, quel Whatever People Say I Am, That's What I'm Not (prodotto dalla lungimirante Domino) che con 364mila copie vendute solo nella prima settimana, sarebbe riuscito a sconsacrare gli Oasis e il loro “Definitely Maybe”, portandosi a casa la palma di “disco di debutto con maggior numero di copie vendute” ed entrando in questo modo nel Guinness dei primati.
L'hype nella musica (soprattutto quella britannica) è sempre esistito e continuerà a giocare un ruolo decisivo nello spingere un gruppo sulla cresta dell'onda. Nonostante questo Turner prima di alcune esibizioni si raccomandava con il proprio pubblico di “don't believe the hype”, anche se di fatto i suoi Arctic Monkeys, grazie appunto alla rete e alla diffusione virale dei propri brani, erano riusciti ad attirare l'attenzione dei media e dei fan come non succedeva dai tempi del britpop, quando i fratelli Gallagher e la coppia Albarn-Coxon passavano il tempo a scannarsi sulle prime pagine dei tabloid.
Il successo di Whatever People... è quindi sì frutto dell'hype che si costruisce attorno a Turner & C., ma c'è anche di una proposta musicale non trascurabile. Attingendo ora dalla scuola punk britannica a cavallo tra i 70 e gli 80, quindi dai Jam del modfather Paul Weller, ora dal post-punk creato ad hoc per riempire i dancefloor targato Franz Ferdinand, e ispirandosi alle composizioni liriche di rapper come Mike Skinner (in arte The Streets) il disco di debutto dei quattro di Sheffield riesce a colpire, più che per originalità, per immediatezza ed energia. La formula vincente è rappresentata da chitarre arroganti (prendere quelle della traccia d'apertura “The View From The Afternoon” e dell'esplosiva “I Bet You Look Good On The Dancefloor”) che accompagnano testi capaci di dipingere squarci di tipica vita della provincia inglese e che vanno a comporre una sorta di concept-album incentrato sulla vita dei giovani clubber dell'Inghilterra del Nord (“Dancing Shoes”, “Riot Van”, “When The Sun Goes Down”). Proprio “When The Sun Goes Down”, secondo singolo estratto, contribuisce a trascinare il disco, grazie a un nuovo cocktail ubriacante di chitarre tese e vocals cantilenanti. A discostarsi dall'umore generale dell’album è invece la più quieta “A Certain Romance”, innervata appena da qualche bagliore di chitarra elettrica.
Gli apprezzamenti e gli elogi della critica nei confronti di Whatever People... (Nme, nella sua consueta pacatezza, arrivò a incensare i quattro di Sheffield come “la band più importante della nostra generazione”) spingono il gruppo a calcare palcoscenici di tutto il Regno Unito e nel giro di pochissimo tempo i quattro riescono a ottenere le prime date fuori dalla terra natia. Difficile per un gruppo di poco più di ventenni riuscire a reggere a un tale impatto ed ecco che a ridosso della partenza per la tournée negli Stati Uniti a farne le spese è il bassista Andy Nicholson che annuncia l'abbandono del gruppo per far ritorno nella “piccola” Sheffield. A rimpiazzarlo viene chiamato Nick O'Malley.
L’incubo preferito
Acclamati e osannati da stampa e pubblico gli Arctic Monkeys, che tra il finire del 2005 e i primi mesi del 2007 si erano portati a casa una sfilza lunghissima di nomination e relativi premi tra cui il Best British Breakthrough Act ai Brit Awards e il Best British Band agli Nme Awards, si presentano quindi con una nuova formazione, pronti a dare alle stampe, a solo un anno di distanza dal trionfale (almeno nei confini britannici) debutto, il loro secondo capitolo.
Nell'ultimo anno la compagine di Sheffield era diventata rapidamente un fenomeno mediatico, aveva saputo sfruttarlo ed era stata la scintilla che aveva permesso alla cittadina dello Yorkshire di risplendere come non accadeva da anni, sfornando giovani band di belle speranze (Little Man Tate, Millburn, Harrisons, Reverend and the Makers su tutte).
Favourite Worst Nightmare esce nell'aprile del 2007 e rappresenta per il gruppo di Alex Turner uno scoglio da arginare per potersi confermare e togliersi di dosso l'etichetta di futura, ennesima, meteora della musica d'oltremanica.
Muovendosi nella stessa direzione del disco di debutto, i dodici episodi di Favourite Worst Nightmare riescono tuttavia a destreggiarsi abilmente tra le chitarre spigolose e l'esplosività della batteria pestata da Matt Helders, mentre il talento compositivo di Turner trova la definitiva consacrazione.
Già dal primo singolo estratto, intitolato “Brianstorm”, ", come a voler rimarcare la volontà di ricominciare tutto da capo, è evidente come le Scimmie non intendano adagiarsi sugli allori. Il brano si riveste di una carrozzeria rutilante di chitarre angolose e sbatacchianti, e rimane intrappolato nelle spire di un unico riff ripetuto senza requie fino alla completa saturazione.
La stampa descriveva il loro suono come “very, very fast and very, very loud” rispetto alla prima prova (che di certo non mancava di questi due elementi) e pezzi come “Teddy Picker”, con i suoi colori acidi e una progressione ritmica geometrica, la glamourous “D Is For Dangerous” e “Old Yellow Bricks” (con la chitarra asportata ancora sanguinante direttamente da "When The Sun Goes Down") non fanno altro che confermare la definizione sopracitata. Ma nella nuova produzione c'è spazio anche per novità e per suoni più curati e “vintage” (ad esempio la cavalcante “The Bad Thing”, la ballata fluttuante “Only Ones Who Know”, la più complessa “If You Were There, Beware” e la cinematografica “505”) che aprivano nuove direzioni nel percorso intrapreso dai quattro di Sheffield.
In "Fluorescent Adolescent", invece, il gruppo torna sulle strade che conosce meglio, confezionando un bell’esempio di sobrio e cadenzato brit-rock, in sospensione tra Blur e Supergrass, mentre in "Do Me A Favour" si palesa una vena più sofferta e una maggior fantasia nell'organizzare la struttura delle melodie.
Favourite Worst Nightmare è una sorta di party estemporaneo senza inizio né fine, un flusso di corpi e movimenti sconnessi ed elettricità, uno sregolato deragliamento di tutti i sensi o un viaggio al termine della notte, che forse si riallaccia involontariamente alla grande utopia baggy degli Stone Roses di "Fools Gold" o dei Primal Scream di "Loaded". La percezione è quella di una netta volontà da parte della band di arricchire gli elementi e lo spettro stilistico del proprio suono, attraverso un impiego più o meno massiccio di effetti speciali e astuti trucchi di computer grafica.
The Last Shadow Puppets: sulle orme degli Style Council
La direzione è quella che di fatto Alex Turner intraprende discostandosi dai suoi Monkeys e immergendosi in un nuovo gruppo, denominato The Last Shadow Puppets, in cui ad affiancarlo è l'amico e collega Miles Kane, leader dei liverpooliani Rascals. Nel progetto risulta poi coinvolto in veste di produttore (nonché autore delle parti di batteria) il re mida delle produzioni indie James Ford (titolare anche dei Simian Mobile Disco). L'elemento di maggiore interesse di questo ambiziosissimo lavoro è tuttavia un altro: l'impiego in tutte le composizioni di un sfarzosa orchestra (la London Metropolitan Orchestra, per la precisione), coordinata da Owen Pallet (Final Fantasy, autore peraltro di tutti gli arrangiamenti). Occorre inoltre aggiungere che il grosso delle registrazioni si è svolto in Francia, lontano dai clamori e dalla dolce vita londinese.
Il frutto della collaborazione, The Age Of The Understatement, vede la luce nell'aprile del 2008 e rappresenta un vero e proprio cambio di rotta per il percorso musicale di Turner. I ritmi frenetici ed elettrici lasciano spazio a orchestrazioni e ad arrangiamenti baroque che rimandavano al cinema degli anni Sessanta. Se fino a quel momento le Scimmie Artiche venivano associate ad artisti e gruppi come i fratelli Gallagher, i Jam o i Clash, ora i nomi che vengono scomodati appartengono a un ambiente musicale più classico e patinato: Burt Bacharach, Ray Davies, Elvis Costello e Serge Gainsbourg. Turner sta quindi diventando adulto a tutti gli effetti e la musica dei Last Shadow Puppets è lo specchio di questa evoluzione, che ricorda da vicino quella cool del suo “maestro” Paul Weller ai tempi degli Style Council.
Un debole per i lenti e una particolare predilezione per le situazioni malinconiche gli Artic Monkeys l'avevano palesata sin dai primi lavori, ma qui si porta tutto alle estreme conseguenze e si bada di più alla qualità del vestito sonoro. Da questo punto di vista, i momenti degni di nota sono più di uno: dalle reminiscenze morriconiane di "The Age Of The Understatement" si passa al felicissimo giro di accordi di "Standing Next To Me", attraversando il sottile erotismo della notevole "The Chamber" (ma anche "My Mistakes Were Made For You" non scherza) e la costruzione più articolata di "I Don't Like You Anymore", che rinnova le intuizioni della vecchia hit "When The Sun Goes Down" secondo una nuova sensibilità.
Qua e là affiorano passaggi dal tono più barocco come "Only The Truth" o "Black Pant", alternati a pezzi in cui un vago sentore di colonna sonora "jamesbondiana" inizia a farsi strada ("In My Room", ad esempio).
Più Bordeaux d'annata che birra senza pretese, insomma. Perché a volte la vera rivoluzione (come il disco mostra bene) è la tradizione.
Josh Homme e la svolta stoner
Cambiamenti, mutazioni ed evoluzioni stilistiche e sonore confluiscono sul finire dell'estate 2008 in quello che sarebbe divenuto il terzo capitolo del combo di Sheffield, Humbug. Per far sì che ciò possa accadere, c'è però bisogno di cambiare aria. Turner& C. decidono così di fare armi e bagagli e trasferirsi nel deserto del Mojave, nello studio Rancho de La Luna, in compagnia del losco figuro che risponde al nome di Josh Homme.
Le registrazioni, curate dal sopracitato leader dei Queens Of The Stone Age, prendono il via in novembre e sin da subito i quattro di Sheffield lasciano intendere che i tipici suoni brit avrebbero lasciato spazio a riffoni e groove massicci di “sabbathiana” memoria (“My Propeller”, “Crying Lightning”, “Potion Approaching”). I caschetti da fedeli baronetti vengono sostituiti da folte e lunghe capigliature. I jacket Fred Perry e le scarpe Adidas vengono riposti nell'armadio e iniziano a comparire le prime giacche e stivaletti di pelle.
Percepibile allo stesso tempo è la nuova direzione sonora intrapresa dai quattro. I ritmi appaiono ora più lenti e diluiti e le chitarre, meno sferraglianti, si lanciano in territori psichedelici e fluttuanti (“Fire And The Thud”, “Dance Little Liar”). La reazione da parte della critica e della fan base è ancora una volta più che positiva (a parte alcune voci fuori dal coro che denunciano la mancanza di brani dal piglio contagioso).
Humbug, in definitiva, appare la prova di una maturazione artistica definitivamente raggiunta dalla band di Sheffield e un punto di svolta dato dalla necessità di allontanarsi dalla soffocante provincia per andare alla ricerca di nuovi, eccitanti quanto rischiosi percorsi. Un disco "di transizione", momento di raccordo ipotetico tra un passato che forse non appartiene più alla band sheffieldiana e un futuro ancora nebuloso al quale Turner e soci dovranno decidere quale volto attribuire.
Prima del nuovo capitolo della sua band, Turner trova il modo di varare un lavoro nuovo di zecca che reca, per la prima volta, il proprio nome e cognome. L'occasione gli viene fornita dalla colonna sonora di un film di Richard Ayoade, alla quale il nostro ha contribuito con sei composizioni inedite e autografe, raccolte in un mini-album che porta lo stesso titolo del film, Submarine.
Il ragazzo-prodigio di Sheffield, di sicuro uno dei più dotati songwriter inglesi della sua generazione, da tempo vive più o meno stabilmente in America, dove si è trasferito per seguire gli impegni televisivi della sua bellissima fiamma Alexa Chung; eppure, a sentire pezzi come "Stuck On The Puzzle" o "Piledriver Waltz", quella che rimbalza nelle orecchie dell'ascoltatore è la genealogia gloriosa e svettante di John Lennon, Ray Davies, Paul Weller o Noel Gallagher. C'è poco da fare, il ragazzo ha stoffa e non si lascia di certo imboccare, mirando alla forma asciutta ed elegante di canzoni che si godono sinceramente per il loro tenue bozzettismo acustico (dalle parti quasi di Badly Drawn Boy, sentite "Glass In The Park") e per quel gusto mai dissimulato (e tutto britannico) per mattine uggiose trascorse a osservare una luce incerta e il verde uniforme di prati inglesi appena tagliati.
In attesa della quarta prova degli Arctic Monkeys, il soggiorno in questo sottomarino sospeso si rivela inaspettatamente incantevole.
Il ko mancato
Nel 2005 in pochi avrebbero scommesso su quella che di fatto si preannunciava come una delle tante next big thing destinate a spegnersi nel giro di poco, pochissimo tempo. E invece gli Arctic Monkeys sono riusciti album dopo album a confermarsi e a confermare le loro capacità. Arrivare al quarto album, dopo aver superato la prova della conferma (secondo disco) e quella della maturità (terzo) è la dimostrazione di come i quattro di Sheffield siano stati in grado di tenere saldo il controllo sul proprio futuro non lasciandosi divorare dalle spietate macchine tritatutto della stampa e delle major discografiche.
Mantenendo sempre una certa indipendenza, ecco quindi che Alex, Matt, Jamie e Nick arrivano alla soglia del 2011 con la certezza di non aver molto da perdere.
Suck It And See (2011), pubblicato nel mese di giugno e registrato come il precedente in terra californiana, appare come il tentativo di voler fungere da collegamento tra le prime due produzioni, frastornanti e cavalcanti, e il più psichedelico e rifinito Humbug. Alla produzione non c'è più Josh Homme (solo un'apparizione amichevole in "All My Own Stunts"), sostituito dal sempre amatissimo compagno di strada James Ford, eppure la genesi tutta californiana dei nuovi pezzi risalta all'orecchio subito e senza troppi sforzi (sentite "Suck It And See"), assieme a un altro elemento tutt'altro che secondario: mai come oggi gli Arctic Monkeys suonano come un gruppo di ragazzi che ingannano il tempo a ricamare divagazioni nostalgiche di se stessi chiusi nella cripta-rifugio della propria sala prove.
Il risultato, che tuttavia rende questa la produzione più debole della band dello Yorkshire, è quindi un intrecciarsi di chitarre e ritmi sostenuti (“Library Picture”, “Brick By Brick”), ballate acustiche (“Reckless Serenade”, “Suck It And See”, “Piledriver Waltz”) e viaggi anfetaminici nell'arido deserto del Joshua Tree (“Don't Sit Down Cause I've Moved Your Chair”, “She's Thunderstorms”).
L'economia del disco viene soprattutto riscattata dalle ballate, su tutte l'apertura toccante e profonda di "She's Thunderstorms" e la chiusura sofferta e bellissima di "That's Where You're Wrong". Ma trapela spesso uno slavato impressionismo sentimentale che dimostra come le troppe collaborazioni e i progetti multipli abbiano finito per disperdere l'ispirazione di Turner in mille rigagnoli, dal respiro via via sempre più corto.
Suck It And See schizza immediatamente al numero uno in Uk, scavalcando al primo colpo tutte le varie Adele e Lady Gaga del caso. Eppure suona come un rifiuto cortese ma nettissimo di fronte a responsabilità di leadership morale mai davvero cercate. A distanza di otto anni dall’esordio, molti dei fedeli fruitori del rock d'Oltremanica si aspettavano che gli Arctic Monkeys potessero assestare il colpo definitivo, quello che avrebbe loro dato modo di assurgere a ultima vera rock band d'Albione. E invece per l'incoronazione toccherà attendere l'uscita di Am, quinta fatica del combo di Sheffield, in uscita a settembre del 2013.
L'età del dubbio
L’arte del compromesso che prova a fare i conti con l’irrimediabile scorrere delle lancette. Turner ne è al corrente e, ogni mattina, si sofferma quei dieci minuti in più di fronte allo specchio nell’atto preoccupato di scovare qualche filo bianco nell’ormai mitologico ciuffo very Gene Vincent. Eppure di dubbi è disseminato tutto AM (2013), quinto capitolo dei Monkeys, costruito abilmente per essere vissuto e consumato come la classica raccolta di canzoni pop-rock, dove la robustezza primigenia si mescola alla ballata, al solito trattata con sferzante e irriverente verve. Il materiale è sempre il solito, o forse no. I riff schiacciassassi non mancano, la batteria di Helders è sempre ipervitaminica e memore della lezione grohliana (“R U Mine” anche detto contentino per i fanatici che non amano la sorpresa), e il mix con i ritmi sintetici e gli scioglilingua creati nei suburbia bronxiani pulsano con efficacia altrove piuttosto rara: “One For The Road”, loneliness ballad sinuosa e quasi frenata, sintetica eppure tradizionale, con quel riff arpeggiato e raddoppiato dal synth, e l’assolo finale che conduce al groove sonnolento di “Arabella”, ennesima icona sensuale, magari viziosa, comunque tranquillizzante, spezzato da un break copia-incollato dall’antologia di Iommi.
Certo, può accadere che quando vuoi tutto rischi di non stringere nulla e “I Want It All” suona come un pericoloso scivolone nei pressi dei Muse. Incertezze, irrequietezza, indecisione, le nuove parole di Turner paiono una confessione celata da un apparente vena adolescenziale cerchiobottista che culmina in una seconda parte a tratti commovente: dalla sarcastica “No.1 Party Anthem”, che omaggia John Lennon come se in consolle ci fosse Spector, inno al guancia a guancia un po’ sbronzo, ai “Mad Sounds” che si genuflettono al cospetto di Lou Reed, fino all’elementare eppure stravagante, quasi estraneo, strumming acustico che conduce per mano “Fireside” e all’esagerata logorrea su base hip-pop di “Why’d You Only Call Me When You’re High?”, risolta con notevole maestria in poco più di due minuti. Il finale affidato a “I Wanna Be Yours” trasuda ancora paura e speranza ("… non mi arrugginirò mai …").
Prova e poi giudica, come si diceva la scorsa volta, e Alex sogghigna, ma invero trema e forse trama la svolta definitiva.
La svolta Turner-centrica
Nel maggio del 2018 è la volta del discusso Tranquillity Base Hotel & Casino, un album in cui si impone la personalità di Alex Turner più della storia stessa della band. In realtà, la prima nota positiva è proprio questa: la scrollata di spalle che questo lavoro rappresenta nei confronti del disco precedente, un blockbuster che cinque anni prima lasciava in eredità una sovraesposizione mediatica scomoda da gestire per lo schivo frontman. Conclusasi l’esperienza Last Shadow Puppets dopo un secondo album e un tour mondiale nel 2016, in difficoltà nel cogliere nuovi stimoli creativi dalla tanto amata chitarra, Alex ha preferito ripiegare sullo Steinway Vertegrand regalatogli dal manager in occasione dei suoi trent’anni, trovando sui tasti di questo una nuova linfa compositiva. E il risultato delle nuove sessioni di scrittura e composizione, avvenute nella casa di Turner a Los Angeles, è il disco che ci troviamo ad ascoltare, prodotto al solito assieme al fido James Ford.
Stiamo parlando di un disco abbastanza deludente. Se le premesse erano buone e la scelta di mettersi in gioco stravolgendo i propri canoni stilistici è certamente da premiare, non lo è però il risultato, che ci consegna una band, o sarebbe meglio dire un autore, decisamente fuori fuoco. Tranquility Base Hotel & Casino è talmente Turner-centrico da esserne dipendente, a partire dagli arrangiamenti, tutti vicini a un blando piano-rock privo di particolari guizzi, ma finalizzato solo ad accompagnare le parole e la voce di Alex, a questo giro vagamente Bowie-ana nell’impostazione. Quest’ultima, un po’ come le trame armoniche su cui poggia, spesso si slancia in strutture che si dilungano eccessivamente, finendo con l’annoiare invece che avvolgere. Lo stesso frontman, inoltre, sembra non cantare più per il pubblico, né per se stesso, ma per il sé allo specchio: lo si riesce quasi a vedere, compiacersi delle sue pose, crooner narciso della sua vita privilegiata. I testi che intona, poi, sono deliri un po’ patetici da star incompresa, i quali, più che stimolare empatia, generano distacco e disinteresse.
L’idea alla base degli arrangiamenti sarebbe quella di ambientare queste composizioni nella Hollywood malinconica e decadente di qualche decennio fa, sulla scia, per intenderci, dei recenti lavori di Lana Del Rey e Tobias Jesso Jr. L'estetica da piano bar, la patina raffinata e la veste volutamente rétro di queste canzoni, però, appaiono piatte e stereotipate, forse anche perché sfavorite dall’essere al servizio di composizioni piuttosto modeste. L’album - fa strano scriverlo per quelli che sono i suoi protagonisti - funziona più come prodotto lounge-pop che come opera da cui lasciarsi coinvolgere ed emozionare. Come musica d’accompagnamento, si fa apprezzare discretamente, ma è un po’ avvilente che una band come gli Arctic Monkeys, appartenente all'Olimpo del rock contemporaneo, sia oggi schiava dei vezzi del leader e non riesca a proporre qualcosa di più stimolante.
In Tranquility Base Hotel & Casino, a salvare dalla completa delusione sono i singoli episodi: il passo cadenzato e gli impasti vocali di “Four Out Of Five” non avrebbero sfigurato in Humbug; l’elegante art-pop di “The World’s First Ever Monster Truck Front Flip” farebbe la gioia dei Grizzly Bear; i saliscendi psych-pop di “Golden Trunks” e “She Looks Like Fun” oscurano da sole l’ultimo dei Last Shadow Puppets; la conclusiva e lennoniana “The Ultracheese”, seppur legata ad alcuni cliché melodici, è ottima come romantico congedo. Ma sono solo piccoli lampi di luce in un disco per lo più nebbioso e monocolore, un’opera composta secondo l’autoritario gusto di Turner, ma che non fa che evidenziarne l’attuale confusione e carenza di idee.
Nel dicembre del 2020 gli Arctic Monkeys pubblicano il loro primo album dal vivo, Live At The Royal Albert Hall. L'operazione ha un risvolto benefico, poiché tutti i ricavi dalle vendite del disco (così come dei biglietti del concerto, svoltosi il 7 giugno del 2018) vanno a War Child UK. Le venti canzoni in scaletta ripercorrono un po' tutte le tappe discografiche della band di Sheffield, dagli esordi ben rappresentati da "The View From The Afternoon", "I Bet You Look Good On The Dancefloor" e "From The Ritz To The Rubble" agli album successivi (belle le versioni di "Cornerstone" e "Don't Sit Down 'Caus I've Moved Your Chair"). Di particolare interesse sono - e non potrebbe essere altrimenti - le versioni dagli ultimi due album in studio. È in questo repertorio che si apprezzano al meglio le doti canore di Turner, quantomai duttili in “Arabella”, “One Point Perspective” e “Star Treatment”, molto vicine al concetto di “crooner” in brani quali “Do I Wanna Know”, “Four Out Of Five” e una notevole versione di “Tranquillity Base Hotel & Casino”.
Al di là delle versioni che faranno felice l'ampia fanbase degli inglesi, il “Live At The Royal Albert Hall” è l'istantanea di una delle più importanti band del Ventunesimo Secolo ritratta in un momento di grazia assoluta.
La serie di trasformazioni camaleontiche di Turner e compagni prosegue con The Car (2022), il settimo disco in carriera per le Scimmie Artiche, che colpisce per l'immancabile aspetto cinematografico fin dalla copertina, scatto del batterista Matt Helders, che raffigura una solitaria auto bianca in lontananza, parcheggiata su un tetto a Los Angeles. Ispirata principalmente alle opere di William Eggleston, padre della fotografia artistica a colori, l'immagine è perfetta nelle linee al punto da sembrare un diorama, ricostruzione di ambienti solitamente protagonisti di una branca della staged photography, nella quale il fotografo è anche burattinaio dell'intera scena (basti pensare ai panorami cittadini silenziosi e surreali di Frank Kunert).
Grazie agli scatti condivisi con Turner, il gruppo è giunto alla stesura del brano “The Car”, fissando un punto di partenza per sviluppare il resto dell’opera. Il quartetto va oltre la science fiction permeata di psichedelia dello scorso episodio e torna sulla Terra con suoni più chiari e definiti, accompagnati dagli immancabili giochi linguistici dai doppi/tripli significati contenuti nei testi.
Le influenze principali in materia di sonorità oscillano tra le avanguardie di Japan e del David Sylvian solista, alcune incursioni tra funk e soul à-la David Bowie e l’art-rock di “Imperial Bedroom”, su una base di pop sofisticato che rimanda a Blue Nile e Prefab Sprout. A dettare il passo del disco sono il pop orchestrale degli archi sinuosi e del piano di “There'd Better Be A Mirrorball”, e il ritmo funky seventies e i cori di “I Ain't Quite Where I Think I Am”, ma a catalizzare su di sé buona parte delle attenzioni è l'irresistibile slow ballad “Body Paint”. Sebbene all'inizio possa suscitare perplessità, è possibile ritrovarvi un filo conduttore con il passato del gruppo, riconducendola a un'evoluzione della più adolescenziale “Love Is A Laserquest” nell’andamento e di “Dance Little Liar” nelle liriche, a riprova del fatto che la direzione intrapresa dal quartetto possa essere considerata coerente.
Presentano gli aspetti tipici di una colonna sonora le atmosfere ambientose tra Sylvian e Brian Eno di “Sculptures Of Anything Goes”, retta da synth e drum machine, e quelle della jazzata “Jet Skis On The Moat”. Sorprende la venatura glam-rock conferita dall’assolo di chitarra di “The Car”, inaugurando la seconda metà del percorso dove le sonorità tendono ad appiattirsi un po’, tenendo fede a quelle già proposte nei brani precedenti ed esponendo il lato debole dell’opera, l’unico a fronte di scrittura e arrangiamenti quasi perfetti, ovvero la leggera monotonia di Turner nel ruolo di crooner. “Big Ideas” punta su sinfonie orchestrali con guitar riff nel finale, mentre “Hello You” si colloca tra funk e soul, concludendo con gli arpeggi fingerstyle di “Mr Schwartz” e gli archi dal tocco beatlesiano in stile “The Long And Winding Road” di “Perfect Sense”.
Più deciso del suo predecessore, The Car segna la svolta decisiva nel processo di maturità degli Arctic Monkeys, ben differente forse da ciò che ci saremmo aspettati anni fa, ma che tutto sommato, dopo ripetuti ascolti e un’attenta analisi, rientra nel processo naturale della band (derive turner-centriche, più o meno apprezzate, comprese), lontano dalle dinamiche della discografia odierna che forse vorrebbe immortalare i Nostri nelle vesti di eterni ragazzi, ancora sulla cresta dell'onda indie-garage.
Contributi di Davide Sechi ("AM"), Tommaso Benelli ("Tranquility Base Hotel & Casino"), Fabio Guastalla ("Live At The Royal Albert Hall"), Martina Vetrugno ("The Car")
ARCTIC MONKEYS | ||
Whatever People Say I Am, That's What I'm Not(Domino, 2006) | 7 | |
Favourite Worst Nightmare(Domino, 2007) | 6,5 | |
Humbug(Domino, 2008) | 6,5 | |
Suck It And See (Domino, 2011) | 5,5 | |
AM (Beggars Banquet, 2013) | 7 | |
Tranquility Base Hotel & Casino (Domino, 2018) | 6 | |
Live At The Royal Albert Hall (Domino, 2020) | 7 | |
The Car (Domino, 2022) | 7 | |
THE LAST SHADOW PUPPETS | ||
The Age Of The Understatement(Domino, 2008) | 7 | |
Everything You've Come To Expect (Domino, 2016) | 6 | |
ALEX TURNER | ||
Submarine (Domino, 2011) | 7 |
I Bet You Look Good On The Dance Floor | |
When The Sun Goes Down | |
Brianstorm | |
Fluorescent Adolescent | |
Teddy Picker | |
Crying Lightning | |
Cornerstone | |
My Propeller | |
Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair | |
The Hellcat Spangled Shalalala | |
Suck It And See | |
Black Treacle | |
R U Mine | |
Do I Wanna Know? | |
Why'd You Only Call Me When You're High? |
Sito ufficiale | |
Testi |