Recensendo la precedente fatica di Harry Styles, il piacevole ma non del tutto a fuoco "Fine Line", ci si era domandati se un ex-membro di una boyband si sarebbe mai aspettato un plauso così ampio e trasversale da parte di critica e pubblico (anche colto), come mai si era forse visto prima. Adesso che quel successo è stato addirittura confermato dai tanti e apprezzati singoli estratti da quel progetto e che gli hanno impedito di trasformarsi in una one hit wonder (condizione che comunque gran parte dei suoi vecchi compagni di squadra pagherebbe oro per raggiungere) il quesito è fondamentalmente uno: sarà stato in grado, al terzo tentativo, di realizzare un intero lavoro che giustifichi una volta per tutte tanta reverenza, attesa e paragoni ingombranti?
Il ragazzo si è senza dubbio messo d'impegno a realizzare un disco il più possibile coerente, con un'identità ben precisa eppure mai monocorde, mettendo definitivamente una pietra sopra a quell'attitudine da rocker un po' vintage che certa critica voleva, suo malgrado, cucirgli addosso e che cozzava sempre più col suo ergersi a baluardo nella lotta contro la mascolinità tossica. Calcando la mano sulle tinte soul della precedente proposta, stavolta anche Styles decide di volgere lo sguardo agli anni 80 e aggiornarli ma lo fa fortunatamente prestando orecchio a quelli meno ovvi e abusati negli ultimi anni.
Soltanto la sensualità della groovosa "Cinema" potrebbe, per intenderci, rivaleggiare con alcune delle recenti incursioni synth-pop di The Weeknd, perché altrove "Harry's House" risente parecchio della fascinazione per il sophisti-pop che sul finire di quel decennio iniziava a sporcarsi di nuova elettronica e a intravedere derive acid-jazz. Tra le cascate di fiati sintetici delle funkeggianti "Music For A Sushi Restaurant" e "Daydreaming", in cui pare di riascoltare gli Incognito a festa, e le raffinatezze assortite della sorniona "Daylight" che vorrebbero, ambiziose, eleggerlo a novello "The Nightfly", l'album spazia dai synth altisonanti di "Late Night Talking" alla palpitante "Grapejuice" e come un'edizione Bignami ripercorre e mescola un decennio di confetture British e non, dagli Abc ai Wet Wet Wet.
Anche alle prese con le inevitabili ballate, Styles compie la lodevole scelta di asciugare ogni enfasi orchestrale e concentrarsi su interpretazione e songwriting in un paio di quadretti acustici: una "Boyfriends" che sembra un accorato omaggio a John Denver e la pregevole "Matilda" che in tanti in questo momento vorrebbero accostare a Joni Mitchell (probabilmente per via del titolo dell'album) ma che in realtà è parente stretta dei momenti più intimisti dei Travis (e chi altri, se non loro, aleggia sopra la filastrocca di "Keep Driving"?).
Momenti più cantautorali che esulano alquanto dalle coordinate principali del disco ma che mai perdono di vista quel buon gusto di fondo che funge miracolosamente da collante. Dopotutto anche "As It Was", al netto di quel micidiale riff che è stato paragonato agli a-ha (seppur non siano mai stati così orientaleggianti), fa bella mostra di un artigianato melodico degno di Neil Finn e quello di "Satellite" non sarebbe dispiaciuto a Orzabal e Smith in vena di consigli per cuori inesperti.
"Harry's House" è tutt'altro che una piacevole musica di sottofondo per ristoranti fighetti, anche se la sua pacatezza e l'eleganza d'esecuzione, che si traduce in mancanza di picchi più "chiassosi" all'interno della tracklist, potrebbe inizialmente farlo pensare. I suoi tributi però, la sua ricerca storica, a volte sembrano più una dichiarazione di ammirazione per i grandi del passato da parte di un nipote un po' secchione che non la spavalda consapevolezza di un artista che maneggia la materia con esperienza. Styles un grande deve ancora diventarlo, insomma, ma ha intrapreso un percorso pop di tutto rispetto che, date le attuali premesse, presto potrebbe raggiungere un picco in grado di stupire davvero.
21/05/2022