The songs on this album represent certain fantasies that might have been entertained by a young man growing up in the remote suburbs of a north-eastern city during the late fifties and early sixties, i.e., one of my general height, weight and build.
(Donald Fagen - Liner notes from the original 1982 Lp)
Ci sono dei dischi che nascono così, perfetti fin nei dettagli. Prendete questa copertina, semplicemente impeccabile nel ritrarre un accigliato dj in uno studio radiofonico d'antan a un'ora impossibile (le 4.10 a.m.). Prendete questo suono, levigato ed elaborato al limite della maniacalità. O questa incisione - la prima interamente in digitale per un album pop - talmente cristallina che sarà persino utilizzata per testare gli impianti hi-fi. O ancora, queste melodie, così "classiche" che potrebbero essere state composte indifferentemente in un altro evo o l'altroieri.
Normale, si dirà, quando c'è di mezzo Donald Jay Fagen, uno che del perfezionismo aveva già fatto una religione nei suoi dieci anni al fianco di Walter Becker nella gloriosa ditta Steely Dan. Uno abituato a setacciare i sessionmen solo nei quartieri alti, e che anche stavolta non si smentisce: Jeff Porcaro dei Toto alla batteria, Michael e Randy Brecker ai fiati, Marcus Miller al basso, Larry Carlton alla chitarra, Michael Omartian e Greg Philliganes alle tastiere, Valerie Simpson (Ashford & Simpson) ai cori. In più, la mano santa di Gary Katz, già in cabina di regia per tutti i dischi degli Steely Dan, a donare un respiro "cinematico" al tutto.
Eppure, per uno dei bizzarri paradossi di cui si nutre la critica musicale, tanta perfezione riuscirà perfino a indispettire qualcuno: gli oltranzisti del suono grezzo e della fantomatica "genuinità", con in tasca gli aggettivi pronti per l'uso: laccato, iperprodotto, asettico e via vaneggiando. A quanti se ne infischiano di simili contorsioni, basterà invece un solo verso - "Tonight the night is mine late line till the sun comes through the skyline" - per farsi trasportare in questo volo notturno sotto le stelle del jazz, tra highway e grattacieli, con l'orecchio sempre appeso alla radio. Perché è on the air Lester The Nightfly, l'ineffabile dee-jay in cui Fagen s'incarna per mettersi in gioco definitivamente. Ricordi, sogni e fantasie. Tutto in una notte. Con un microfono in mano e una Chesterfield da consumare lentamente, davanti a un vecchio giradischi.
"The Nightfly" è il ritratto dell’artista da giovane. Lo specchio delle fantasie di un ragazzo di periferia cresciuto nell'America al bivio tra anni 50 e 60, come Fagen si autodefinisce nelle note di copertina. Sensazioni che collidono: l'anelito di libertà del jazz contro l'ottusità della vita suburbana, l'ingenuo ottimismo per un futuro tecnologico (il "brave new world" di "I.G.Y.", la nuova frontiera kennedyana), ma anche l'ansia strisciante per la Guerra Fredda (il rifugio atomico di "New Frontier", lo spauracchio cubano di "The Goodbye Look"). E poi lo sguardo che si allarga, dal personale al sociale, l'ironia che si affila, fino a tratteggiare un'istantanea caustica dell'America dei baby-boomer ("What a beautiful world this will be/ What a glorious time to be free").
Il retaggio Steely Dan è palese - l'inconfondibile cocktail di jazz, pop, blues, funk e soul, il tocco sofisticato degli arrangiamenti, l'insistito dialogo voce-backup vocals - ma evolve verso una forma-canzone più asciutta, restringendo gli interventi strumentali. Ne scaturisce un jazz-pop vellutato, eppure capace di colpire dritto al cuore. Fagen si conferma maestro nel manipolare la musica "colta" con un'attitudine squisitamente popular, ma sfugge alla trappola del banale riadattamento alla temperie del momento: dei cliché del periodo (siamo in piena epopea 80), infatti, non v'è traccia. Così oggi "The Nightfly" non suona come "un disco degli anni 80", né si può prestare a raffronti con le opere coeve o successive. È il Dorian Gray del pop: non invecchia mai e non ha mai perso un grammo della sua bellezza.
Ogni brano sorprende per l'alternanza di melodie lineari e deragliamenti jazzy. A cominciare dall'uptempo soul-reggae dell'iniziale "I.G.Y. (International Geophysical Year)", con i sapori retrò di sax e tromba, un assolo di armonica sintetica e il fluire incalzante dei cori su coltri lussureggianti di synth e piano Rhodes. E su cadenze accelerate, in bilico tra swing latino e blues elettrico, decolla anche "New Frontier", l'altro crack del disco, con relativo, mitico video, in rotazione all'epoca sul mai troppo rimpianto "Mr. Fantasy". Un party in un rifugio atomico è già una comica, Fagen vi aggiunge il suo humor sardonico, narrando di un adolescente impacciato alle prese con una sventola bionda ("Introduce me to that big blonde, she's got a touch of Tuesday Weld") e del suo tentativo di trascinarla nella sua insolita "tana" ("It's just a dugout that my dad built, in case the Reds decide to push the button down... We've got provisions and lots of beer..."). Il ritmo è girotondo vorticoso, con l'alternarsi felpato di piano e synth, e nel finale sbuca anche un buffo assolo di armonica, a suggellare un brano dal groove irresistibile.
Movenze danzanti che si fanno più nervose e sincopate su "Green Flower Street", ovvero il funky filtrato dal retrò-gusto degli Steely Dan in una soap interrazziale, con interplay frenetici piano-chitarre, tastiere al galoppo e cori sontuosi (ma l'omaggio è allo standard jazz "On Green Dolphin Street"). Funky che si impregna di afrori caraibici in "The Goodbye Look": un organo Hammond si fa largo in un tripudio di xilofoni, marimba, congas e maracas, per un singolare cocktail-party nella Cuba castrista (il titolo riprende invece una spy-story di Ross MacDonald).
Ma c'è anche il Fagen crooner da night-club, quello che smussa le sue tonalità aspre per gigioneggiare con le coriste nella cover in salsa shuffle di "Ruby Baby" (classico di Jerry Leiber e Mike Stoller), o che si sdilinquisce nella stupenda serenata a "Maxine", sensualissima "señorita in jeans and pearls", con cui viaggiare attraverso luoghi reali e dell'anima (Manhattan, Mexico City) sulle cadenze indolenti del piano, tra un sax ruffiano quanto basta, una chitarra jazzy e giochi di voci alla Manhattan Transfer. Armonie vocali anni 50 che ritornano su "Walk Between Raindrops", altro numero d'alta scuola, deliziosamente swingato e demodé.
La title track condensa tutto lo spirito nostalgico del disco nell'autobiografia di un dandy. Ovvero, Lester La Falena "The Nightfly", professione intrattenitore radiofonico "with jazz and conversations", presso gli studi dell'emittente libera WJAZ. Chitarre stoppate, call and response, svolazzi di piano e melodie suadenti per un bozzetto di soave levità.
Levità che non è mai superficiale, romanticismo che non affoga nella melassa, raffinatezza che rifugge la leziosità: "The Nightfly" è un azzardo giocato tutto sul filo dell'equilibrio. Fagen lo consegnerà ai posteri con la consapevolezza di aver coronato una missione, di essersi consacrato come il Duke Ellington del pop, anticipando, tra l'altro, svariate tendenze a venire, dal new cool all'acid-jazz. Passeranno undici anni prima di un altro suo disco ("Kamakiriad", 1993) e circa venti per ritrovarlo negli Steely Dan ("Two Against Nature", 2000). Ma "The Nightfly" resterà il compagno ideale di ogni notte insonne. Fino a quando un raggio di sole spunterà finalmente dalla skyline.
16/11/2007