Gli Steely Dan appartengono alla ristretta élite dei musicisti universali, capaci di catturare gli ascoltatori più disparati per gusti e attitudini. Nelle loro canzoni, infatti, l’istinto pop – indispensabile per sedurre il grande pubblico – si unisce a una tecnica quasi avanguardistica che non può passare inosservata anche alle orecchie più esigenti. La loro musica è un jazz alle fragole, fruibile e strepitoso, tutto intriso di proclami di raffinatezza sonora e di amore per l’ambiente sofisticato. Un collage variopinto, frutto di molteplici influenze - jazz, certo, ma anche rock, pop, country, soul, blues, funk - che collimano fra loro, bilanciandosi in perfetto equilibrio.
Prima del loro avvento, le armonie contorte e le tecniche compositive del jazz non avevano quasi mai trovato sbocchi nella canzone popular, nemmeno in quella più nobile (dai Beach Boys ai Beatles): gli Steely Dan sono riusciti a mutuarle all’interno di brani accattivanti, dal groove irresistibile, dove a una robusta sezione ritmica si affiancano chitarre jazz-rock, voicing complessi di piano elettrico, fraseggi di fiati e armonie vocali d’ascendenza soul. Il tutto impeccabilmente eseguito e rifinito in studio.
Eleganza smisurata e professionalità fino all'esasperazione sono le costanti di un aggregato musicale che è sempre riuscito a trasmettere un senso di solarità ad ogni ascolto. Nessuna ossessione per l'innovazione a tutti i costi o per qualsiasi altra ideologia superiore e profonda. La loro missione è riscoprire vecchi suoni, possibilmente fumosi e in bianco e nero come un noir con Humphrey Bogart, e riuscire ad amalgamarli con sonorità e tecniche di produzione moderne.
E' l'amore per la musica, il loro motore propulsore, la voglia di suonare e il piacere di azzeccare il feeling e la serata giusta per dare vita a una jam session all'insegna dell'improvvisazione e del buon gusto.
Gli arrangiamenti sono poi un altro loro segreto: dietro ogni singola sfumatura delle loro canzoni si intuisce il lavoro certosino che questi artigiani del suono sono riusciti a realizzare, con piccoli orpelli che per pochi secondi arricchiscono e modellano una melodia, riuscendo a renderla geniale.
A incorniciare il loro zibaldone pop, testi gustosissimi, per lo più criptici e beffardi, pieni di giochi di parole, termini in slang e riferimenti letterari, legati alla cultura americana e al lifestyle nelle grandi metropoli (New York e Los Angeles in particolare). Uno stile che – come è stato notato - può trovare un efficace alter ego cinematografico nelle commedie newyorkesi di Woody Allen, ugualmente lievi, ironiche e intelligenti.
Intellettuali, elitari, schivi e refrattari ai rituali dello show-business, gli Steely Dan rappresentano una felice anomalia rispetto alle convenzioni del rock, al punto che, nel disco della reunion del 2000, arriveranno ad autodefinirsi "contronatura".
Dal college al vibratore a vapore
Quando si incontrano nel 1967 al Bard College di Annadale-on-Hudson, New York, Walter Becker e Donald Fagen sono due fricchettoni di periferia, con il vizio per il suono perfetto e un debole per il jazz di Charlie Parker, Duke Ellington e John Coltrane. I due decidono subito di trasferire la loro passione sul palco, militando in alcune formazioni locali.
Dopo la laurea di Fagen, nel 1969, mollano tutto e sbarcano a Brooklyn, per unirsi a un gruppo di nome Jay and the Americans, che resterà negli annali della storia del rock solo per essere stato l'anticamera degli Steely Dan.
L'esperienza dura un paio d'anni, ma non impedisce al duo di cimentarsi in altre prove, come la colonna sonora del film You Gotta Walk It Like You Talk It. Trasferitisi a Manhattan, i due futuri Dan tentano l'avventura in proprio, rimediando però solo spiccioli, ad eccezione del brano "I Mean To Shine", affidato all'ugola prestigiosa di Barbra Streisand.
Anche per i genii, però, c'è bisogno dell'incontro fatale, quello che ti schiude le strade giuste al momento giusto. Per il duo Becker&Fagen, l'uomo della provvidenza si chiama Gary Katz, fresco produttore dell'etichetta Abc Records e smanioso di lanciare nuovi talenti sul mercato americano.
Katz rimane sbalordito dall'abilità compositiva e tecnica dei due, e decide di portarli con sé in California, a Los Angeles, dove i nostri scrivono nuove canzoni - una delle quali "Any World (That I'm Welcomed To)" sarà ripresa molto tempo dopo su Katy Lied e affidata alle cure del leggendario batterista Hal Blaine.
E' l'inizio di un sodalizio magico: Katz produrrà tutti gli album degli Steely Dan negli anni Settanta, supportato anche dall'altro uomo-chiave, il tecnico del suono Roger Nichols. La scommessa di Katz è totale: non vuole semplicemente due autori di sicuro affidamento per gli altri artisti del roaster (Three Dog Night, Dusty Springfield), vuole una vera e propria band, di cui Fagen e Becker siano l'asse portante.
Così, nell'estate dorata della San Francisco del 1970, esce un annuncio per musicisti poliedrici "no-perditempo". Alla fine, vengono selezionati in quattro: i chitarristi Danny Dias e Jeff "Skunk" Baxter (proveniente da un bizzarro gruppo chiamato The Ultimate Spinach), il batterista Jim Hodder e il cantante David Palmer.
Nasce così, sotto l'egida della Abc Records, un gruppo di nome Steely Dan (espressione ripresa dal "Pasto Nudo" di Burroughs, dove sta a indicare un vibratore alimentato a vapore!).
Il disco d'esordio, Can't Buy A Thrill, con copertina raffigurante un quartiere a luci rosse negli anni 40 (da qui il titolo?), esce nel 1972 ed è già un piccolo terremoto. La scossa si chiama soprattutto "Do It Again", hit spaccaclassifiche e colonna sonora ideale per ogni viaggio on the road sotto il sole della West Coast: intro sorniona, con le spazzole e le bacchette di Hodder a spargere aromi latinoamericani, poi i giri di piano a preparare l'entrata alla voce di Fagen, qui doppiata da Palmer, quindi l'irresistibile chorus ("You go back jack do it again/ Wheel turnin round and round/ You go back jack do it again") e, dulcis in fundo, l'assolo abbacinante di Denny Dias al coral electric sitar, proseguito da Fagen all'organo plastico. Un piccolo capolavoro, con tanto di storico video che li fotografa dal vivo, capelloni e abbigliati in modo spaventosamente kitsch. L'altro singolo di successo è "Reelin' In The Years", country-rock à-la Eagles, trascinato dai cori e dalla chitarra di Randall, con un piano sincopato e un basso pulsante sullo sfondo.
Il resto dell'album si mantiene su buoni livelli, anche se manca l'acuto. Svettano soprattutto "Dirty Work", con David Palmer alla voce, un soffice piano elettrico e l'assolo di Jerome Richardson al sax tenore; "Kings", con Fagen supportato dai coretti di Clydie King, Shirley Mathews e Venetta Field; il cha-cha-cha nonsense di "Only A Fool Would Say That" e la solare chiusura di "Turn That Heartbeat Over Again". Jim Hodder subentra alla voce in "Midnight Cruiser", mentre Baxter si segnala per un paio di pezzi di bravura alla steel guitar in "Fire In The Hole" e sulla digressione soul di "Brooklyn (Owes The Charmer Under Me)".
Pur frammentario, l'esordio degli Steely Dan mette già in chiaro il marchio di fabbrica della band, del tutto atipico rispetto alla produzione pop-rock dell'epoca. Le incertezze, semmai, riguardano il Fagen cantante: troppo timoroso, al punto da lasciare il microfono a Palmer nelle travagliate esibizioni live, si convincerà solo in seguito delle sue possibilità, rassicurando anche la casa discografica, che dubitava del suo appeal "commerciale". Palmer, invece, lascerà il gruppo al termine della tournée.
Gli (anti) show-biz kids
Se erano stati gli hit a proiettare in classifica il disco d'esordio, il successivo Countdown To Ecstasy (1973) può vantare soprattutto una maggiore coerenza stilistica, con la voce di Fagen in rilievo, Becker finalmente alle chitarre e un maggior uso di progressioni jazz nelle composizioni. Il blues torrenziale "Bodhisattva" ne è già un saggio eloquente, con i suoi cinque minuti abbondanti di chitarrismo nevrotico e backbeat da seduta ipnotica. Un taglio da improvvisazione live connota anche "Show Biz Kids", con un delizioso, ostinato groove su cui la band ricama una jam sbarazzina, in cui primeggia Rick Derringer alla slide. I cori, i fiati e il piano bop di "My Old School" modellano un'altra gemma, impreziosita da uno dei loro tipici testi beffardi.
Ma a suggellare l'affiatamento ormai raggiunto dal gruppo provvedono anche altri episodi, come il cocktail-pop di "Razor Boy", con Victor Feldman al vibrafono e Ray Brown al contrabbasso, la ballata di "The Boston Rag", con un bel solo di Baxter, la salsa jazzata di "Your Gold Teeth", gli aromi country di "Pearl Of The Quarter".
Il disco, tuttavia, segna un arretramento sul fronte commerciale, fallendo l'impatto con le chart. Gli stessi Fagen e Becker non ne sono soddisfatti e ne attribuiscono la "imperfezione" alla fretta con cui era stato concepito, nel mezzo di una massacrante tournée.
Ingaggiati Jeff Porcaro (futuro batterista dei Toto e sessionman di lusso) e Michael McDonald (poi cantante e tastierista dei Doobie Brothers), gli Steely Dan coronano la loro "prima fase" con Pretzel Logic (1974), il disco che meglio ne riassume idee ed estetica.
Ognuna delle canzoni diverrà un classico del loro repertorio. Basti pensare all'ouverture di "Rikki Don't Lose That Number", intrisa di sonorità fusion ammalianti, in cui tutto ruota attorno a un riff di piano, con la voce aspra di Fagen che si fa più rilassata, mentre in sottofondo chitarre distorte riescono a dare quel tanto di carattere che basta. "Night By Night" è un altro tassello imprescindibile di questo disco: un funky moderno, intenso nell'interpretazione vocale di Fagen, con la chitarra "extraordinaire" di Jeff "Skunk" Baxter che ruggisce in sottofondo, mentre Porcaro furoreggia alle percussioni.
"Any Major Dude Will Tell You" è un gioiellino acustico sostenuto da un dolce e ammiccante piano. "Barrytown" sfoggia un ritornello infinito, mentre "East St.Louis Toodle -Oo" offre una deliziosa rivisitazione di un classico di Duke Ellington. "Parker's Band" si muove in equilibrio fra un funky attuale e una fusion solo accennata qua e là. "Through With Buzz" è una piccola canzone arricchita da archi sognanti.
La title track è un elegante blues notturno, introdotto dal piano elettrico e subito afferrato dal cantato di Fagen. "With A Gun" ci immerge in scenari di country-rock selvaggio. "Charlie Freak" scorre fluida su di un piano monocorde che aggiunge qualche ombra imprevista di inquietudine agli umori del disco.
A chiudere, "Monkey In Your Soul", che, come recita il titolo, segna un excursus verso un soul grintoso per le improvvise e repentine unghiate di chitarra, che si contrappongono a balbettanti sax, ottimi sostegni per introdurre il cantato meditabondo di Fagen.
Pretzel Logic seduce la critica ancor più del pubblico. Ma la logorante attività live crea una spaccatura nel gruppo: Becker e Fagen, stanchi di sottrarre tempo prezioso al loro maniacale lavoro di composizione e registrazione, rompono con Baxter, che confluisce con McDonald nei Doobie Brothers; Dias, invece, resta a disposizione per i dischi in studio fino al 1977.
Ricomincio da due
Su Katy Lied (1975), così, il duo deve ricorrere a uno stuolo di sessionmen, inclusi lo stesso McDonald e Porcaro. Il risultato è un buon disco di transizione, che smussa le asprezze fusion di Pretzel Logic, ma non approda ancora alla svolta acid-jazz-pop di Aja. In ogni caso, un altro serbatoio di canzoni memorabili, sempre più rifinite, sempre più sofisticate. L’iniziale "Black Friday" è un blues elettrico riscaldato da un vibrante assolo chitarra di Becker, al pari di "Bad Sneakers", dove tornano gli intrecci vocali di Fagen e McDonald. Cadenze rhythm’n’blues che si riaffacciano nella tortuosa "Chain Lightning" e nella caustica vignetta metropolitana di "Daddy Don't Live In That New York City No More", ritratto di un perdente "rigettato" dalla Grande Mela.
Lo spettro però è, al solito, amplissimo: e se l’atipica melodia di "Rose Darling" riecheggia perfino suggestioni dylaniane e quella di "Throw Back The Little Ones" sembra quasi uscita da un’opera, la stralunata filastrocca del "Doctor Wu" torna a immergersi in atmosfere jazz-soul che il sax alto di Phil Wood affonda in fiumi di nostalgia, e "Your Gold Teeth II", dal testo surreale e quasi "messianico", ripiega in direzione West Coast, con i duetti tra il piano di Fagen e la chitarra jazzy di Larry Carlton. "Everyone's Gone To The Movies", infine, aggiunge una spruzzata di calypso, confermando una sempre più marcata propensione per l’esotico.
Katy Lied diventa disco d’oro e ribadisce l'ottimo feeling fra buone vendite, concerti sold-out e recensioni lusinghiere. Ma a Fagen e Becker non basta: la qualità della registrazione non è soddisfacente, perché non è stato attenuato a dovere il fruscio. Un particolare che li irrita a tal punto che si rifiuteranno di ascoltare l'album nella sua forma finale. Alle loro esigentissime orecchie, l’espressione "lo-fi" sarà sempre e solo sinonimo di "scarsa qualità".
Pur apparentemente in secondo piano rispetto a melodie e arrangiamenti, il ritmo aveva sempre giocato un ruolo rilevante nelle composizioni degli Steely Dan, sedotte da un certo groove nero di scuola Motown.
Sul quinto album, The Royal Scam (1976), ciò emerge in modo più netto, indirizzando il loro prisma sonoro verso vibrazioni reggae, funky e perfino dance, con una orchestrazione più ricca e ariosa, trainata da un mostruoso Larry Carlton alla chitarra, dalle tastiere di Paul Griffin e Don Grolnick, e da un drumming implacabile a cura di Bernard Purdie.
Emblematiche di questo nuovo corso sono soprattutto la spassosa ouverture di "Kid Charlemagne", con il suo scoppiettante groove disco e un incendiario Carlton alla chitarra, il delizioso divertissement reggae di "Haitian Divorce", tutto giocato sul geniale trucco di una chitarra processata al talk-box (qualcosa di simile a quanto i Pink Floyd avrebbero fatto un anno dopo su "Pigs"), o ancora il blues dinoccolato e irriverente di "The Fez", insistito riff di synth su una strofa sola ("Ain't never gonna do it without a fez on/ that's what I am/ please understand/ I wanna be your holy man") e unico brano degli Steely Dan a portare una terza firma: quella di Griffin, presente anche all'organo.
Eppure, l’album è al tempo stesso tra i più cupi dell’intera produzione dei Dan. A cominciare dalla copertina, che ritrae un homeless con le scarpe bucate attorniato da inquietanti (e tragicamente kitsch!) grattacieli-mostri, per proseguire con i testi, ispirati quasi tutti a storie scabrose di desperado in fuga dal crimine: Kid Charlemagne, spacciatore di acido di San Francisco senza più clienti, lo svaligiatore di banche bombarolo di "Don't Take Me Alive", i ladri di gioielli di "Green Earrings", gli sventurati portoricani di "The Royal Scam". E non mancano le consuete gag icastiche – su tutte, la lite familiare di "Everything You Did" ("Alza il volume agli Eagles, i vicini ci ascoltano").
Il lato più riflessivo dei Dan, infine, riemerge nel soft-rock jazzato di "The Caves of Altamira", con ritornello fulminante ("Before the fall when they wrote it on the wall/ When there wasn't even any Hollywood…") seguito dal corpo a corpo tra corde e fiati, nella lambiccata "Don't Take Me Alive" (quasi una versione ante-litteram dei Prefab Sprout), negli svolazzi fusion di "Green Earrings" e nel coro gospel della title track, solenne e sardonico commiato dal disco.
Istantanea della New York post-Watergate e pre-punk, The Royal Scam non sfonderà nelle classifiche e resterà uno degli album più sottovalutati della discografia degli Steely Dan. A ben vedere, invece, può considerarsi uno dei loro vertici assoluti, senz'altro l'ideale baricentro tra il sound chitarristico degli esordi e il trend più "laccato" dei dischi a venire.
Alla ricerca della canzone perfetta
A far decollare le sorti della band sarà il successivo Aja (1977), un clamoroso bestseller (tre milioni di copie vendute rispetto alle 500.000 di ogni lavoro precedente, disco di platino e n. 3 nelle chart), che sublimerà il perfezionismo dei Dan in un nuovo manifesto del loro jazz-pop multicolore.
Tutto è maniacale, su Aja, dal lavoro sul sound, sempre curato e levigatissimo (non caso vincerà il Grammy come Best Engineered Non-Classical Recording dell'anno), alla scrittura dei brani, i più lunghi e jazzati del loro repertorio, eppure capaci di piazzare sempre il ritornello accattivante al momento giusto, intrappolando l'ascoltatore. E maniacale è anche la sua lavorazione, testimoniata dal bel Dvd "The making of Aja", dove il gruppo racconta che l’incisione dei brani avveniva attraverso due passaggi: il raggiungimento della perfezione e il suo superamento, che conferiva al lavoro un afflato più "umano". Una specie di odissea perfezionista trascorsa per mesi in studio da Becker e Fagen, in compagnia di favolosi musicisti, tra cui assi del jazz e della fusion come Wayne Shorter, Larry Carlton, Lee Ritenour, Steve Gadd.
Fuori c’è l’inferno - il 1977 è l'anno dell'esplosione mondiale del punk - ma negli studi di produzione di Gary Katz si vive semplicemente su un altro pianeta, dove può bastare un filo di fruscio a compromettere giorni di lavoro.
Aja attinge alle tradizioni swing e be-bop, ma anche all’"età d'oro" del jazz, da Count Basie a Duke Ellington, attenua la carica rock dei dischi precedenti con la morbidezza dei fiati, e ricama arabeschi sempre più vellutati e complessi. Trapela comunque un'euforia contagiosa, lasciata in dote da quelle memorabili session, con improvvisazioni jazzy che si avviluppano alla perfezione con i tappeti strumentali. A ogni ascolto i brani rivelano sfumature nuove, gli strumenti partecipano a un flusso ipnotico che si fa sempre più sinuoso e coinvolgente, e in cui il narratore Fagen riesce una volta di più ad ammaliare, raccontando di falsi movimenti e di incontri mancati.
Sette tracce, tutte praticamente impeccabili. A cominciare dalla coda, quella splendida "Josie" che incanta a ogni ascolto col suo groove gommoso, il suo chorus irresistibile ("When Josie comes home/ So good/ She's the pride of the neighborhood"), i suoi solidi beat funk, gli intricati controritmi e i concisi solo di chitarra su un morbido sfondo di fiati e synth. Fagen la declama con piglio romantico, assecondato dagli immancabili coretti. Eppure, è una delle loro storie più truci: un affresco di degrado urbano, tra abusi sessuali e droga. Anche l'iniziale "Black Cow", dietro il morbido refrain e i battiti disco-funk, non risparmia dettagli crudi, raccontando la repulsione di un uomo per la moglie infedele.
Ambiziosa e multiforme nei suoi otto minuti, la title track è un saggio di latin-pop in formato-suite, con i magnifici vortici di tastiere e due pezzi di bravura: il solo rapsodico di Wayne Shorter (Wheater Report) al sax, che discende delicatamente verso la ripresa del tema vocale, e l'esplosivo assolo di batteria finale di Steve Gadd. E poi c'è "Deacon Blues", altro memorabile chorus per una ballata amara e disillusa ("Drink Scotch whiskey all night long/ and die behind the wheel"), con il sax tenore di Pete Christlieb sugli scudi.
Proprio questa rassegnazione al lifestyle della Los Angeles dei 70, dove si deve "sgusciare come vipere tra le strade suburbane", è il mood prevalente del disco, e si rinnova in "Home At Last" ("I know this superhighway/ This bright familiar sun/ I guess that I'm the lucky one"), ovvero l'Odissea rivisitata in chiave shuffle, con il piano di Victor Feldman sugli scudi. Il "greatest hit" del disco è però "Peg", deliziosamente swingata su ritmiche quasi disco, con cori soffusi a suggellare un altro refrain immortale: "Pantonal 13 bar blues with chorus" sarà definita dagli stessi Steely Dan.
Disco maturo, al contempo summa e nuovo approdo della Steely Dan-music, Aja lascerà un solco profondo sul pop che verrà, influenzando, tra gli altri, i movimenti new cool e acid-jazz. Allegro e lieve solo in apparenza, è in realtà un disco di amara disillusione sul "sogno californiano". Un'ammissione di frustrazione e fallimento sussurrata nel cuore di un cocktail-party.
Il successivo tour, però, finisce subito, perché Becker & Fagen, approfittando di beghe economiche, fanno marcia indietro. Così, dopo aver infilato uno dei loro pezzi più ironici, "FM", nella colonna sonora del film omonimo, i due si chiudono ancora in sala di registrazione, dove consumano 360 nastri (!) per incidere quello che sarà fino alla fine del millennio il loro ultimo disco in studio, Gaucho.
La gestazione dell’album, però, è turbata da guai burocratici (la Mca Records, che ha acquisito la Abc, rivendica il diritto di pubblicare l'album malgrado Becker e Fagen si siano accasati alla Warner) e, soprattutto, dalle vicende private di Becker: la fidanzata viene trovata morta per overdose nel suo appartamento e il chitarrista deve subire un’accusa di concorso in omicidio (dalla quale uscirà comunque prosciolto); quindi, viene investito da un taxi a Manhattan, procurandosi serie ferite a una gamba.
Infine, il pianista jazz Keith Jarret intenta (e vince) una causa per plagio contro i due, sostenendo che il brano "Gaucho" è troppo simile alla sua "Long As You Know You're Living Yours".
Quando nel 1980, con due anni di ritardo, Gaucho esce finalmente nei negozi, per la band è una liberazione, ma anche un momento di non ritorno: niente sarà più come prima e la lunga pausa che proseguirà fino al 2000 – intervallata solo dalle sporadiche uscite soliste dei due – confermerà il sostanziale esaurimento del progetto.
Intanto, però, c’è un’altra delizia di suono high-tech (altro Grammy Award come album meglio registrato) ed esecuzioni magistrali: nelle session suonano personaggi come Steve Gadd, Rick Marotta, Anthony Jackson, Jeff Porcaro, i fratelli Brecker, Michael McDonald e Mark Knopfler dei Dire Straits (di quest’ultimo, si narra che venne costretto a ripetere la sua parte cinquanta volte!).
E poi, ci sono le canzoni, le melodie, gli arrangiamenti. E i groove, secchi e fulminanti. Come quello dell’opener "Babylon Sisters", dove il timbro della batteria, il tocco delle tastiere e il dialogo tra Fagen e i backup vocals femminili sono tirati a lucido dal fido tecnico del suono Roger Nichols. L’altro botto è "Hey Nineteen", funk-rock sornione da night-club, con un ritornello killer e un ficcante assolo di Fagen al synth: sarà il loro ultimo singolo di successo e l’ennesima riprova del talento del duo nel camuffare in abiti pop complesse strutture armoniche.
Pulsazioni ossessive, pompate da un basso magnetico, scandiscono la cavalcata di "Glamour Profession", dove Becker è rimpiazzato alla chitarra da Steve Kahn, mentre la solare "Time Out Of Mind" vede un giovane Knopfler lanciarsi in un sottile assolo finale. E’ invece Jeff Porcaro, prossimo ai fasti di "Toto IV", il mattatore della title track, con la sua consueta perizia dietro i piatti. Drumming che poi esalta il virtuosismo di Steve Gadd nella struggente ballata conclusiva di "Third World Man" (nell'ultima strofa, Fagen canta anche un verso in italiano: "When he's crying out I just sing that Ghana Rondo/ E’ l'era del terzo mondo/ He's a third world man").
Ma, come si diceva, la benzina è ormai esaurita e nel giugno del 1981, all’apice del successo, Donald Fagen e Walter Becker annunciano la sospensione della loro collaborazione.
Jazz and conversations
Fagen, però, mantiene i contatti con Gary Katz, e appena un anno dopo gli affida la produzione del suo primo disco solista, The Nightfly, dove le caratteristiche degli ultimi due dischi dei Dan vengono estremizzate ed elevate a obbligo esclusivista.
The Nightfly è lo specchio delle fantasie di un ragazzo di periferia cresciuto nell'America al bivio tra anni 50 e 60, come Fagen si autodefinisce nelle note di copertina. E’ un volo notturno sotto le stelle del jazz, tra highway e grattacieli, con l’orecchio sempre appeso alla radio. Perché è on the air Lester The Nightfly, l’ineffabile dee-jay in cui Fagen s’incarna per mettersi in gioco definitivamente. Ricordi, sogni e fantasie. Tutto in una notte. Con un microfono in mano e una Chesterfield da consumare lentamente, davanti a un vecchio giradischi.
Il retaggio Steely Dan è palese, ma evolve verso una forma-canzone più asciutta, marginalizzando gli interventi strumentali. Ne scaturisce un jazz-pop vellutato, eppure capace di colpire dritto al cuore. Fagen si conferma maestro nel manipolare la musica "colta" con un’attitudine popular, ma sfugge alla trappola del banale riadattamento alla temperie del momento, creando un sound senza tempo.
Ogni brano sorprende per l’alternanza di melodie lineari e deragliamenti jazzy. A cominciare dal soul-reggae uptempo dell’iniziale "I.G.Y.", con i sapori retrò di sax e tromba, un assolo di arpa sintetica e il fluire incalzante dei cori su coltri lussureggianti di synth e piano Rhodes. E su cadenze accelerate, in bilico tra swing latino e blues elettrico, decolla anche "New Frontier", l'altro crack del disco, che narra di un party in un rifugio atomico in un girotondo vorticoso, con l’alternarsi felpato di piano e synth, e nel finale sbuca anche un imperioso assolo di armonica. Movenze danzanti che si fanno più sincopate su "Green Flower Street", ovvero il funky filtrato dal retrò-gusto degli Steely Dan, per una soap interrazziale con tanto di ritornello catchy, tastiere al galoppo e cori sontuosi. Funky che si impregna di afrori caraibici in "The Goodbye Look": un organo Hammond si fa largo in un tripudio di xilofoni, marimba, congas e maracas, per un singolare cocktail-party nella Cuba castrista.
Ma c'è anche il Fagen crooner da night-club, quello che gigioneggia con le coriste nella cover in salsa shuffle di "Ruby Baby" (classico di Jerry Leiber e Mike Stoller), o che si sdilinquisce nella stupenda serenata a "Maxine", sulle cadenze indolenti del piano, tra un sax ruffiano quanto basta, una chitarra jazzy e giochi di voci alla Manhattan Transfer. Armonie vocali anni 50 che ritornano su "Walk Between Raindrops", dove jazz e swing flirtano con irriverenza. La title track, invece, condensa tutto lo spirito nostalgico del disco nell'autobiografia di Lester La Falena "The Nightfly", dj della WJAZ: chitarre stoppate, call and response, melodie suadenti e fiati mai sopra le righe imbastiscono un bozzetto di soave levità.
The Nightfly è un azzardo giocato tutto sul filo dell'equilibrio. Fagen lo consegnerà ai posteri con la consapevolezza di aver coronato una missione, di essersi consacrato come il Duke Ellington del pop.
Walter Becker, l'architetto sonoro, quello che tra i due prediligeva il lavoro in cabina di regia, opererà invece in prevalenza come produttore in ambito pop (notevole il suo contributo a "Flaunt The Imperfection" degli inglesi China Crisis) o jazz-fusion (la Windham Hill lo chiamerà a dirigere la sua nuova scuderia jazz).
Strade parallele, dunque, ma destinate prima o poi a ricongiungersi.
Un primo contributo al riavvicinamento viene dai riccioli castani di Roseanne "Rosie" Vela, ex-vocalist degli Elo, attrice, modella e indossatrice (celebri le sue copertine su "Vogue"). La sua splendida grazia e le carezze sensuali della sua voce sono pane per i denti di Fagen e Becker, che si piazzano rispettivamente al synth e alla chitarra nelle nove ballate di "Zazu" (1986), primo e unico album della musa texana, magnificamente prodotto dal solito Gary Katz e altrettanto superbamente inciso, come da prammatica.
Rosie Vela scrive tutti i testi e canta con struggente dolcezza, ma il marchio Steely Dan non può passare inosservato in carillon fatati come "Fool's Paradise", "Magic Smile", "Interlude", che valgono all'album un meritato successo.
Con gli anni Novanta, prosegue il ravvicinamento graduale tra i due. Come nelle coppie che si fidano poco di sé stesse, ciascuno produce il progetto dell'altro, prima della sospirata reunion.
Nel 1991 comincia Fagen, affidando a Becker la produzione di Kamakiriad, sua opera seconda, che di fatto appare un disco degli Steely Dan sotto altro nome.
L'auto avveniristica - una fiammante Kamakiri, a bordo della quale il protagonista gira il mondo in un futuro ipotetico - è in realtà una macchina del tempo: la nostalgia del "volo notturno" è venuta meno e si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un mood più "sfrenato", quasi a voler fare un passo indietro verso i primi Dan, aggiornati con la tecnologia dei 90. E' venuta meno, però, buona parte del groove, le trame sono meno variegate e imprevedibili, e anche le melodie non riescono sempre a graffiare.
Se Aja riusciva a travalicare la perfezione alla ricerca della "umanità", qui, al contrario, domina un senso di asettico controllo sugli strumenti, che suonano spesso elettrici anche quando sono acustici (la batteria, i fiati). La classe, tuttavia, resta intatta, finanche le liriche da vino e aperitivo fashion, e si comincia a intuire che, in realtà, ogni cosa dell’uomo in questione serve a completare quella che ha fatto prima, pure ad anni e anni di distanza.
Come in The Nightfly, sono otto le tracce, e stavolta nessuna sotto i cinque minuti. Il primo singolo "Tomorrow's Girls" suona come se "Josie" e "Peg" fossero state trasformate in androidi: sono diventate delle splendide "party girl", atterrate dall'iperspazio per sollazzare i terrestri ("A virus wearing pumps and pearls"), in una radiosa jam impreziosita dai consueti cori. Fagen continua a inseguire il ritornello accattivante – ascoltare per credere "Springtime" e "Florida Room" - ma predilige ora sofisticate creature artificiali, come "Countermoon", un soul mutante condito da cori gospel e fiati da big-band, "Teahouse On The Tracks", sensuale intreccio di cori e fiati su un battito disco, e il tour de force di "On The Dunes", altro numero soul trasformato in una multiforme suite astratta.
Il lato più "groovy" dei Dan risuona invece nelle pulsazioni funky di "Trans-Island Skyway" e "Springtime", e nei sette minuti di sincopi nervose di "Snowbound", il brano firmato anche da Becker, che per l'occasione torna a imbracciare basso e chitarra.
Troppo sofisticato e cerebrale per far breccia nel pubblico, Kamakiriad sarà ulteriormente oscurato dal lieto evento che in tanti aspettavano: ritrovato il feeling, Fagen ingaggia Becker per i suoi concerti negli Usa trasformandoli, di fatto, in un tour degli Steely Dan. Ovviamente è un successo, e il risultato è un album dal vivo, Alive In America, che ha il principale compito di far sentire al mondo com'è il suono granitico degli Steely Dan dal vivo.
Fagen, poi, ricambierà il "favore" a Becker producendo il suo primo album solista, Eleven Tracks Of Whack (1994), che passerà però praticamente inosservato.
Gli irriducibili
La vera e propria reunion avviene all'alba del nuovo millennio con Two Against Nature, e i 20 anni che hanno separato questo lavoro dal loro ultimo Gaucho sembrano non essere passati. Donald Fagen e Walter Becker, tornano da vecchi, da sorpassati, a dire la loro sulla musica contemporanea, con il loro amore per il jazz e per la musica colta coltivato in maniera paradossale. Two Against Nature: due contronatura, quali effettivamente Fagen e Becker sembrano essere, così lontani dai suoni del presente e così certosini nel perseguire la loro idea di musica.
Emoziona riascoltare la voce di Fagen, pastosa, arrochita dagli anni, eppure sempre eclettica, nel suo volgere dalla tenerezza al sarcasmo, dall'amarezza al nonsense. Si comincia in sordina, con il basso e la chitarra che dialogano tra loro in una ritmica funk, in modalità simili alle ultime prove del gruppo. La title track svolge le stesse funzioni del vecchio "Aja", un brano lungo otto minuti multiritmico, potente e quasi rapsodico, con i fiati in evidenza. Una novità, invece, il fatto che i due siano presenti su quasi tutti i brani come strumentisti, preferendo affidarsi più a sé stessi che agli ospiti, all'opposto di Gaucho, dove la qualità degli ospiti rendeva tutto splendente e potente. Two Against Nature è viceversa un disco sussurrato, più minimale nella forma. Dei vecchi collaboratori restano qua e là Lou Marini e Dave Tofani, più Hugh McCracken, chitarrista, passato alla storia più che altro per il fortunato contributo all'armonica nel memorabile "New Frontier" di Fagen.
Il risultato è un lavoro discontinuo, troppo spesso asettico e involuto, dove anche i brani migliori ("Cousin Dupree", "Gaslighting Abbie", "West Of Hollywood", con interminabile assolo finale di sax) non riescono a eguagliare i loro omologhi dei tempi d'oro. Ma la classe resta: i testi sarcastici e oscuri fanno da contrappunto alle sonorità morbide e ariose, alle armonie dissonanti e agli arrangiamenti limpidi. Su tutto, la solita perfezione del suono, che vale l'ennesimo Grammy Award per l'album meglio registrato (oltre a quelli per miglior album pop cantato, migliore performance cantata, con "Cousin Dupree", e album dell'anno).
La Mca ne approfitta per pubblicare quella che è, ad oggi, la miglior antologia degli Steely Dan, il doppio Show Biz Kids: The Steely Dan Story 1972-80, contenente ben 33 brani, selezionati con indubbia competenza. Praticamente imprescindibile per avere una panoramica il più possibile esaustiva sulla carriera del gruppo.
Insolitamente presto rispetto ai loro tempi di lavorazione, a soli tre anni di distanza da Two Against Nature esce Everything Must Go (2003), che consolida la ritrovata unità d’intenti.
Ancor più asciutto nei ritmi e certosino nel suono, il disco prosegue l'improbabile percorso controcorrente del duo, sempre più elitario e avulso dai trend contemporanei. Le coordinate restano sempre le stesse: delicatessen pop su battiti funky e r'n'b, gusto jazzy e minestroni fusion dal suono retro-moderno. La varietà di tastiere (piano acustico, Rhodes, organo, sintetizzatore) garantisce i consueti suoni vellutati e, seppur senza la solita adunata di turnisti, la line-up resta di tutto rispetto, con Keith Carlock alla batteria, Jon Herington e Hugh McCracken alle chitarre, più le tastiere aggiunte di Ted Baker.
Eppure, si consolida l'impressione di un perfezionismo ormai eccessivo, freddamente patinato e incapace delle zampate melodiche dei ruggenti Seventies. Restano, invece, i colpi del fuoriclasse, come la sonata di piano Wurlitzer nell'iniziale "The Last Mall", l’assolo di synth di Fagen che pare un’armonica in "Godwhacker" e in "Lunch With Gina", il sax romantico della title track o i ricami dell’organo nella torbida "Green Book". O ancora l'assolo di slick guitar di Becker nella stessa "Godwhacker". E se c'è un brano che per un attimo riporta davvero la mente indietro di tre decadi, quello non può non essere "Pixeleen".
Ma quella degli Steely Dan post-2000 è ormai soltanto buona musica da sottofondo, da cocktail-lounge per intellettuali, ben esemplificata dal singolo "Blues Beach", tanto suadente e raffinato quanto, in definitiva, privo di mordente.
Nel frattempo, però, la sigla Steely Dan è diventata un mito. Al punto che Becker e Fagen sono stati introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame per il loro contributo alla musica pop americana e hanno ricevuto persino due lauree ad honorem. Per tacere della moltitudine di gruppi pop che ai due ex-compagni di college devono praticamente l'esistenza: dai Deacon Blue (e qui dice già tutto il nome) ai Prefab Sprout, passando per High Llamas, Bible, Style Council, China Crisis e chi più ne ha più ne metta.
E poi c'è un immarcescibile Donald Fagen, pronto a sorprendere di nuovo, a tredici anni dal suo ultimo lavoro solista, con un nuovo disco.
Ecco allora Morph The Cat (2006) dove il musicista del New Jersey ripropone i suoi canoni estetici, la musica durante la chiacchiera e per l’incontro prima di mezzanotte. Sia negli esercizi lenti ("Morph The Cat") che in quelli veloci ("H Gang"), c’è il ripiego su segmenti senza ombra, per la prima volta parte di ricordi individuabili e quasi decifrati. E anche laddove sembra prendere il sopravvento una forma di blues d’oltralpe come in "What I Do", tutto si riconduce al picco d’atmosfera in cui tutto è respirabile, dagli stacchi di chitarra e armoniche agli assoli di tastiere.
In "Security Joan" si torna completamente agli Steely Dan, sia nel ritmo che nelle ansie, così come negli intermezzi di basso e negli enormi accordi di piano che delimitano il movimento. Molto riconoscibili anche l’"uso" delle strofe in eco corale e i passaggi in bemolle, senza dimenticare il ritornello che spezza. Non risulta noioso nemmeno un lunghissimo guitar solo che, pur in distorsione, gioca sul limpido irreprensibile.
In definitiva, Morph The Cat è l’ennesima ricostruzione della sua carriera, con le privazioni e le aggiunte del caso, ora figlie del tempo, ora no, ma sempre meticolose nel loro essere impeccabili e pensate. Allora si può restare estasiati in quel circondario alla "Love Boat" in cui ti immette "The Great Pagoda Of Funn", con le sue trombette turate e il suo jazz da crociera. L’inflessione sonora è al metronomo, ma è proprio l’uso geniale della prevedibilità la migliore prerogativa di Fagen, tanto da creare qui una forma insostituibile di intrattenimento. E può scioccare pure il funk di "Brite Nitegown", parente stretto delle trovate di Quincy Jones per Michael Jackson, sempre in bilico tra bar e sale da ballo.
Nell’estate del 2007, gli Steely Dan ripartono in tour, e per la prima volta in quarant’anni raggiungono anche l’Italia, nella ormai storica serata di Lucca, accompagnati dalla "miglior band mai avuta", secondo le parole dello stesso Becker. Come ogni "classico" che si rispetti, il loro repertorio riesce a resistere all’usura del tempo, catturando sempre nuovi appassionati.
Nel 2012, invece, torna il Fagen solista con Sunken Condos, coprodotto da Michael Leonhart, il cui gusto per l’orchestrazione jazzy e l’arrangiamento perfetto frutta un sound ancora una volta impeccabile, grazie anche ai soliti favolosi sessionmen (tra i quali brilla il chitarrista Jon Herington) e agli arrangiamenti eleganti, in cui s’insinua, a tratti, un’inconsueta armonica à-la Wonder. A convincere è anche il groove complessivo del disco, che su questo fronte - dall’iniziale funk sfrenato di “Slinky Thing” al serpeggiante incedere disco del singolo “I’m Not The Same Without You” fino alla tiratissima cover di “Out Of The Ghetto” di Isaac Hayes - segna un passo avanti rispetto al più statico e rilassato Morph The Cat.
I problemi, semmai, vengono da una scrittura sempre più autoreferenziale. Prendiamo “Miss Marlene”, ad esempio, che pure è una delle tracce più riuscite dell’album: praticamente una fusione fredda in salsa shuffle delle immortali “I.G.Y.” e “Ruby Baby”, condita dai soliti ghirigori preziosi delle chitarre e dai coretti femminili d’ordinanza. Oppure quel wah di chitarra settantesco di “Good Stuff” a riecheggiare divorzi haitiani di steelydaniana memoria. O ancora l’organo e i fiati di “The New Breed”, a ricreare l’impasto sophisti-jazz del “My Rival” di “Gaucho”. C’è tanto autocitazionismo, insomma, e qualche episodio risulta invero stucchevole (la fiacca “Memorabilia”, la pretenziosa chiusura di “Planet d'Rhonda”). Ma a chi ha inventato dal nulla uno stile e l’ha protratto per decenni con inveterata classe, si può tutto sommato perdonare. Tanto più se si pensa a come le armonie vocali di quell’ugola aspra e arrochita riescano ancora a incantare, oggi come allora. E al cospetto del modernariato d’alta scuola di “Weather In My Head”, un bluesaccio chicagoano venato di funk che sembra uscito dritto dai Seventies, e “The New Breed”, midtempo gigione, giocato sul synth Prophet-5 e sugli intarsi di mellotron, non resta che togliersi il cappello.
È il solito, inguaribile Fagen, che ti guarda divertito, con quel suo sorrisetto sardonico, tra un cocktail e l’altro. Jazz alle fragole, si era detto, e così sarà per sempre: prendere o lasciare. Noi, anche stavolta, ce lo sorseggiamo volentieri.
Per niente facili e decisamente poco allineati, per dirla con Fossati, Donald Fagen e Walter Becker sono oggi più mai "two against the nature". Due inguaribili "passatisti", che guardano da sempre alle grandi orchestre di Duke Ellington e Count Basie, che non possono fare a meno di citare nelle interviste la loro passione per Charlie Parker e Sonny Rollins, salvo poi allontanarsene vistosamente nei risultati. Lontani da qualsiasi tentazione citazionista, come veri artigiani della musica capaci di scandagliare quell'oceano di suoni che è stato il jazz tra il 1920 e il 1950, decostruendo sonorità e note, immaginando melodie lunatiche che sembrano uscire da una personalissima visione del musical. Sempre, in fin dei conti, uguali a sé stessi, dal lontano 1972, l'anno del loro esordio. Tutto passa, eccetto il loro ottimo feeling per le buone armonie vocali e la musica leggera e intelligente.
Contributi di Ugo Coccia, Stefano Pretelli ("Pretzel Logic") e Angelo Franzese ("Morph The Cat")
Un ringraziamento particolare a Beppe Colli per il prezioso riferimento bibliografico "Steely Dan 2000" (Blow-Up, 23 aprile 2000)
STEELY DAN | ||
Can't Buy A Thrill (Mca, 1972) | 7 | |
Countdown To Ecstasy (Mca, 1973) | 6,5 | |
Pretzel Logic (Mca, 1974) | 8,5 | |
Katy Lied (Mca, 1975) | 7,5 | |
The Royal Scam (Mca, 1976) | 8,5 | |
Aja (Mca, 1977) | 9 | |
Greatest Hits (2 cd, Mca, 1978) | ||
Gaucho (Mca, 1980) | 7,5 | |
Gold (anthology, Mca, 1982) | ||
Becker & Fagen: The Early Years (antologia, Aero, 1983) | ||
Reelin' In The Years (anthology, Mca, 1985) | ||
A Decade Of Steely Dan (antologia, Mca, 1985) | ||
Citizen Steely Dan 1972-1980 (anthology, Mca, 1993) | ||
Alive in America (live, Giant, 1995) | 7 | |
Two Against Nature (Giant, 2000) | 5,5 | |
Show Biz Kids: The Steely Dan Story 1972-80 (antologia, Mca, 2000) | ||
Everything Must Go (Reprise, 2003) | 5 | |
WALTER BECKER | ||
Eleven Tracks Of Whack (Giant, 1994) | ||
Tangos Y Otros Pecados (MultiKulti, 2006) | ||
DONALD FAGEN | ||
The Nightfly (Warner, 1982) | 9 | |
Kamakiriad (Reprise, 1993) | 6,5 | |
Morph The Cat (Emi, 2006) | 6 | |
Sunken Condos (Reprise, 1993) | 6 |
Sito ufficiale degli Steely Dan | |
Sito ufficiale di Donald Fagen | |
Testi | |
Foto | |
Video: "Do It Again" | |
Video: "Kid Charlemagne" | |
Video: The making of "Peg" |