The Weeknd

The Weeknd

Lo starboy delle classifiche

Ripercorriamo la formidabile ascesa di Abel Tesfaye, lo starboy canadese partito con la valigia a forma di hard disk, zeppa di mixtape pronti da postare sul Tubo, e approdato in breve tempo ai vertici delle classifiche mondiali. Con numeri da Guinness

di Claudio Fabretti, Tommaso Benelli, Stefano Fiori, Giuliano Delli Paoli

Prima di diventare il numero uno del pop anglofono, almeno in termini di numeri – campione di streaming su Spotify e addirittura "artista più famoso al mondo" secondo il Guinness World Record - The Weeknd era semplicemente Abel Makkonen Tesfaye, classe 1990, genitori etiopi, di Toronto (Canada). Anima rhyhtm'n'blues e aggressività hip-hop proiettate verso luminosi orizzonti electropop. Un giovane producer partito, come tanti, con la valigia a forma di hard disk, zeppa di mixtape pronti da postare sul Tubo e via a incrociare dita e qualcos'altro. Nient'altro che pura e semplice gavetta al tempo del World Wide Web. Al netto dell'indubbio talento, manifestato fin dalla prima, magnifica trilogia di Ep, la sua parabola ha del miracoloso e ricorda da vicino quella di divi del pop cresciuti, però, in un'altra epoca, quando stardom e celebrità erano supportati da un fiorente mercato discografico, pronto a catapultare in orbita l'aspirante fenomeno del momento. La formidabile ascesa di The Weeknd, invece, è avvenuta controvento. Come in una sorta di innaturale eccezione al gioco al ribasso del musicbiz contemporaneo. E tutta costruita sulle nuove armi a disposizione: il web, lo streaming, l'interazione tra musica, immagini e produzione televisiva. Fino ad accendere le sue "Blinding Lights" (incidentalmente, canzone più ascoltata di sempre su Spotify) su quel palcoscenico globale che oggi fatica maledettamente a tenere in vita nuovi idoli finendo col fagocitarli spesso anzitempo.
Impressionante anche la sfilza di riconoscimenti portati a casa in pochi anni: quattro Grammy Awards, diciotto Billboard Music Awards, cinque American Music Awards, quattro Mtv Video Music Awards, tredici Juno Award, un Mtv Europe Music Award e una candidatura agli Oscar (per il brano "Earned It", inciso nel 2014 per la colonna sonora del film "Cinquanta sfumature di grigio").
Un electroboy dal gusto retrò. Il suo falsetto cristallino non può non evocare vibrazioni jacksoniane, seppur filtrate da una precisa identità vocale che il critico J.D. Considine ravvisa in un differente utilizzo del tremolo, poiché "The Weeknd predilige optare per il melisma tipico della musica araba rispetto alla tipica impostazione blues di Michael Jackson". Del resto, lo stesso The Weeknd si è sempre riferito a Jackson come l'idolo della sua infanzia, considerandolo come "un padre" e affermando come in particolare l'album "Off The Wall" lo avesse ispirato nel canto. Fatto sta che la sua voce limpida, angelica anche nel cantare di notti lascive e allucinate, è diventata uno dei marchi pop più riconoscibili e apprezzati del Duemila. E la macchina perfetta del suo After Hours til Dawn Tour – a breve in arrivo anche in Italia (Milano, Ippodromo Snai, 26 e 27 luglio) – ne è solo l'ultima, luccicante testimonianza.

Dalla trilogia alla terra promessa

 

The WeekndAbel Makkonen Tesfaye nasce il 16 febbraio 1990 a Toronto, in Ontario (Canada). È il figlio unico di Makkonen Tesfaye e Samrawit Hailu, una coppia di immigrati etiopi trasferitisi in Canada alla fine degli anni Ottanta. Trascorre la gioventù nel distretto di Scarborough, in condizioni non facili: il padre abbandona presto la compagnia ed è soprattutto la nonna materna a prendersi cura di lui, mentre la madre è impegnata a sostenere la famiglia, dividendosi tra i lavori di infermiera e ristoratrice e frequentando la scuola serale per imparare l'inglese. Sarà proprio la nonna a insegnargli l'amarico, la lingua semitica che usa come prima lingua, spingendolo anche a frequentare una chiesa ortodossa etiope. Sono anni turbolenti, che Abel descriverà come "il film Kids senza l'Aids", raccontando di aver iniziato a fumare marijuana a 11 anni, per poi passare a droghe più pesanti durante gli anni della scuola superiore, e di aver anche compiuto piccoli furti nei supermarket assieme a un amico di scuola.
Dopo aver frequentato gli istituti di West Hill e Birchmount Park senza aver conseguito il diploma, a 17 anni inizia a scrivere canzoni, dapprima assieme al producer The Noise, all’insegna di morbide sonorità R&B, poi, nel 2010, formando il gruppo The Weekend in compagnia di un altro produttore, Jeremy Rose. Leggenda vorrebbe che il nome prescelto fosse stato proprio ispirato dal momento dell'abbandono della scuola superiore. Ma la presenza di una omonima band canadese costringe il giovane Tesfaye a modificarlo per ragioni di copyright in The Weeknd. Sarà questo il suo marchio da solista. Perché Abel, a 20 anni, ha già le idee chiarissime e sa anche come diffonderle nell'evo digitale: caricando su YouTube le sue prime tracce, inclusa una realizzata con il rapper Drake.
Inizia così a piazzare in Rete le varie "What You Need", "Loft Music" e "The Morning". Poche settimane e un tripudio di click e condivisioni come nel più classico dei copioni gli cambia praticamente la vita. Il suo è un mix di sample rubati al panorama indie (vedi "Gila" dei Beach House in "Loft Music") e inseriti in un contesto electro-r'n'b mai invadente sotto il profilo ritmico, ben coalizzato da giochini al laptop appena abbozzati e schiamazzi elettronici da contraltare a un tessuto propriamente soul. A testimoniare questa sua intrigante commistione d'intenti i tre splendidi Ep lanciati nel corso del tempo, con la complicità dei producer Doc McKinney e Illangelo: "House Of Balloons", "Thursday" e "Echoes Of Silence", di seguito raccolti nel definitivo Trilogy, su etichetta Republic Records.

 

Sono scenari borderline, già tanto celebri quanto controversi, quelli che fluiscono lungo il corso dei dischi; storie di perdizioni, sesso e abusi di sostanze proibite, messe in scena dall'evocativa voce dai tratti femminili di Tesfaye. Grazie a "House Of Balloons", in particolare, The Weeknd diviene nuova icona di una tendenza musicale - una combinazione di soul ed elettronica - che gode di particolare fortuna, basti citare il contemporaneo exploit di un ragazzo prodigio londinese di nome James Blake. Con "Thursday" si fa più evidente il tentativo di ribadire lo spessore di questi ritratti di dissoluzioni notturne, a partire dalla veemente "Lonely Star", un j'accuse sentimentale che si accende in un chorus scandito da un ossessionante drumming. L'esasperante tensione narrativa prosegue con le distorsioni industriali di "Life Of The Party", prima che eteree note di pianoforte riempiano l'aria per il progressivo sfuggire di "Thursday". Fin dalle prime tracce emerge una delle caratteristiche che distingue, tematicamente e nel mood, questo secondo mixtape: un maggior pathos avvolge il racconto, siamo per lo più in territori di rassegnazione e ricordi piuttosto che di promesse e celebrazioni; questo scarto emotivo si traduce in un suono più sfumato e dilatato, con maggiori sensazioni ed effetti room.
Assistiamo così al morbido deliquio accompagnato da suggestioni etniche di "The Zone" che introduce allo spasmo della separazione in "The Birds Pt.1", assieme al brano d'apertura, l'episodio più immediato dell'album. Solo una chitarra acustica fa da sottofondo al pianto solitario di "Rolling Stones", prima che l'atmosfera ridivenga satura con la conclusiva "Heaven Or Las Vegas", un lento incedere post-dubstep, notturna preghiera di definitivo commiato da Dio.
Anche nei suoi campionamenti, The Weeknd mette in mostra una notevole versatilità, attingendo a nomi insospettabili come Siouxsie and the Banshees (il sample di “Happy House” in "House Of Balloons"), Cocteau Twins e Martina Topley-Bird. Del resto, il campionario delle sue influenze è molto vario, visto che, per sua stessa ammissione, spazia dall'icona Jackson a fenomeni rap come 50 Cent, Wu-Tang Clan ed Eminem, da numi del rock anglosassone come David Bowie, The Smiths, Bad Brains e Talking Heads alle vellutate sfumature pop di Lana Del Rey.

 

La trilogia di mixtape è il trampolino di lancio per l'album d'esordio, che esce sotto i migliori auspici per il giovane canadese, pronto a oltrepassare il muro del cameratismo indie nella sua odierna accezione electro-soul. Kiss Land (2013) viene così prodotto con arguta meticolosità. I suoi suoni mostrano una nuova direzione. Se da un lato l'eccellente predisposizione ai controlli pare aver trovato il giusto equilibrio mediante una patina elettronica oscura e densa, dall'altro lato l'eccessiva rincorsa alla melodia da conficcare in testa a ogni costo finisce spesso con l'esaurirsi nel più cieco e bieco dei saccheggi travestisti da celere estratto.
Così, in "Adaption" l'indimenticabile "Bring On The Night" dei Police è palesemente dilatata in un riverbero di battiti r'n'b, mentre in "Belong To The World" l'intera sezione ritmica è letteralmente stracciata da "Machine Gun" dei Portishead. Insomma, il confine tra plagio e campionamento a tratti pare aver smarrito la propria sacrosanta labilità.
Tuttavia, non mancano momenti in cui il giovane Abel punta maggiormente su stesso, mostrando le proprie qualità, come accade nell'introduttiva "Professional", divisa com’è in due atti, tra una morbida ed eterea alzata di sipario e un immacolato cambio di ritmo posto al terzo minuto con l'intento di spiazzare, nonostante l'ennesimo prestito ("Professional Loving" di Emika) sia ancora una volta dietro l'angolo. Stesso dicasi di "Love In The Sky", elevata abilmente al cielo mediante un tastierone grasso all'occorrenza con rimandi eighties e una mal celata paura del mondo a spingere l'ugola calda e per certi versi ancora acerba.
In realtà, a scuotere il giovane musicista canadese è un imprecisato terrore per gli spazi ignoti, come da lui stesso dichiarato più volte. Una recondita paura dell'oscurità occupa i testi e la mente di Abel. Registi come John Carpenter, David Cronenberg e Ridley Scott ne alimentano la fantasia. L'umore è di conseguenza nero e per certi versi "caotico". L'utilizzo ottenebrante del synth segnala atmosfere in generale cupe e vibranti. Malgrado ciò, le cose funzionano comunque a singhiozzo, tra una melodia fin troppo spenta ("Tears In The Rain") e un’impalpabile corsa in salsa electro ("Wanderlust").
In conclusione, l'album d'esordio mostra un Tesfaye che riesce solo in parte a lucidare e perfezionare quel suo personale mondo musicale fatto di estratti appena intuibili, stravolti fino a poco tempo fa alla stregua di un Jamie Woon d'oltreoceano magicamente travestito da hipster. D'altronde, la tenera età suggerisce anche questo. E non potrebbe essere altrimenti.

Sfumature di successo

 

The Weeknd - Lana Del ReyDopo due anni in cui collabora con star ben collaudate come Sia e Ariana Grande, The Weeknd piazza un altro colpo con la lussureggiante e lussuriosa "Earned It (Fifty Shades Of Grey)", che ammicca all'universo di Prince. Viene nominata all'Oscar come miglior canzone inedita e vince la Best R&B Performance. Il videoclip del brano è curato da Sam Taylor-Johnson, regista del film "50 sfumature di grigio", e include anche la protagonista della pellicola, Dakota Johnson. È uno dei pezzi forti della tracklist del sophomore Beauty Behind The Madness (2015), il lavoro che lancerà in orbita The Weeknd aggiudicandosi il quadruplo disco di Platino e un Grammy come Best Urban Contemporary Album.
Non è impresa da tutti quella di riuscire a trasformarsi, con credibilità e successo, da promessa indie, lodata da webzine specializzate ed esperti del settore, a popstar globale apprezzata dalle masse. Il rischio è sempre lo stesso: deludere e sdegnare gli ammiratori della prima ora e non riuscire a essere abbastanza cool e immediati per destare l'attenzione del grande pubblico. Ma Abel Tesfaye dimostra una determinazione e un fiuto tali da riuscire a mettere d'accordo un pubblico piuttosto trasversale. Inevitabile, quindi, la definitiva dichiarazione d'intenti: rivolgersi all'hit-maker più gettonato degli ultimi venti anni, Max Martin, per realizzare quel piccolo gioiello di sincopi su giro basso da urlo che è "Can't Feel My Face", probabilmente il pezzo che meno fa sentire la mancanza di Michael Jackson dai tempi del debutto solista di Justin Timberlake. Con una voce così soave e vibrante, del resto, chi meglio di The Weeknd potrebbe farci evitare rimpianti, già forte anni fa di una ruvida e riuscitissima cover di "Dirty Diana" e capace di ribadire immediatamente il concetto con l'ancora più scoppiettante "In The Night", che sembra prelevata direttamente dalle partiture di "Bad".
Tesfaye conferma di non essere uno sprovveduto, del resto chi ha composto perle del calibro di "Wicked Games" o "Lonely Star" non può esserlo, e la riuscita dell'album non punta tutto su ingombranti paragoni con gli idoli del passato, evitando di snaturare completamente quello stile che tanti plausi gli aveva fatto guadagnare. L'ossatura portante è tutta affidata alle sue ormai proverbiali e languide melodie adagiate su basi sinuosamente minimali: percorse da flebili scariche elettriche (a spiccare è soprattutto "Often", raffinata ma sboccata ode all'eiaculazione femminile) o offuscate da sinistri scenari industrial che lasciano il segno ("Real Life" e "The Hills").
Come se ci trovassimo di fronte al suo "My Beautiful Dark Twisted Fantasy", per ispirazione e presunzione, ecco sbucare fuori proprio Kanye West e mettere lo zampino dietro il connubio vintage-futurista dell'ottima "Tell Your Friends", perfetta nel seguire gli irresistibili fraseggi funky-soul di "Losers", in cui The Weeknd sembra più un novello Bill Withers che la versione pop del suo amico e mentore Drake.
Beauty Behind The Madness è una elegantissima farfalla, ma nasconde ahimè un pungiglione nella coda, il cui veleno rende troppo amara la scelta, tutta marketing e dollari, di lasciare il palcoscenico al mattatore Ed Sheeran e annoiare col vetusto electro-blues di "Dark Times". Funziona un po' meglio il matrimonio con Lana Del Rey, gli intenti stilistici dei due sembrano almeno più affini, ma quanto proposto dalla tribolata "Prisoner" poco aggiunge a quanto espresso in precedenza, se non un innegabile tocco glamour.
Quando poi irrompe l'enfasi Aor della ballatona "Angel", ci si arrende all'idea che qualche compromesso fosse inevitabile, se si voleva allungare il passo da Frank Ocean, Miguel e (ottima) compagnia indie-cantante. Resta la consolazione che tale obiettivo sia stato raggiunto con pezzi più tediosi che smaccatamente ammiccanti alle classifiche e che, in fin dei conti, quanto di bello ascoltato nei precedenti undici brani non venga minimamente intaccato.
Il successo del disco non è altro che la consacrazione di una popstar di prima grandezza con alle spalle una consistente gavetta e un talento intatto: qualcosa che non accadeva da tempo nel panorama mainstream d'oltreoceano e di cui si sentiva assolutamente bisogno. E le altre star iniziano a contenderselo a colpi di featuring e collaborazioni: partecipa come ospite al singolo "FML" di Kanye West, incluso nell'album "The Life Of Pablo" di Kanye West, con cui già aveva lavorato alla stesura di "Tell Your Friends", collabora con il rapper Future per il singolo "Low Life" (estratto dal suo "Evol"), affianca Beyoncé su "6 Inch", uno dei pezzi forti del pluripremiato "Lemonade" e viene scelto da Rihanna come opening act delle date europee del suo Anti World Tour insieme a Big Sean, salvo poi dover annullare la sua partecipazione in vista della lavorazione del nuovo album.

Manifesto da star

 

The WeekndDiventato davvero una “fottuta star”, The Weeknd si sente finalmente libero di fare un po’ quello che gli pare. Come pubblicare, a un anno di distanza dal precedente bestseller Beauty Behind The Madness, un nuovo e altrettanto lungo album, di nome Starboy (2016) che, pur facendo nuovamente sfoggio di ospiti altisonanti, rinuncia in parte a quelle caratteristiche che avevano reso la sua recente proposta così appetibile per il grande pubblico.
In cerca di maggior rigore, stavolta Abel Tesfaye riduce all’osso le sonorità più funky (ne rimane vaga traccia in “Sidewalks”, accompagnato dall’onnipresente Kendrick Lamar), preferisce le aggressive ritmiche electro-punk di “False Alarm” ai clangori industriali e rifugge i tormentoni di facile presa radiofonica per trovare riparo nei club alla moda (la Uk-house di “Rockin’” e la palpitante “Secrets”, che campiona magistralmente The Romantics e i primi Tears For Fears).
Pur non raggiungendo l’austerità dei suoi esordi, l’anima di Starboy indugia su una dozzina di sfumature della splendida title track e si snoda quindi come un lento continuum che raramente scade in svenevoli prevedibilità nu-soul (“True Colors” e “Attention”) e più spesso rimane miracolosamente in bilico tra il narcotizzante e l’ammaliante (“Reminder” e “Nothing Without You” tra le migliori).
Lo spettro di Michael Jackson continua ad aggirarsi tra le idee e le corde di Tesfaye, tanto nei lenti - su tutti l’impeccabile “I Feel It Coming” feat. Daft Punk, midtempo electropop imbevuto di synth e riff anni 80 - quanto nelle fugaci incursioni sui dancefloor più eleganti (“Love To Lay” e “A Lonely Night”). A differenza del furbo Bruno Mars, intento a omaggiare il suo idolo e affini al limite del parodistico, il canadese, amante del trip-hop quanto del soul, si dedica a traslare la lezione del re del pop in una dimensione più cupa, paranoica e sessualmente torrida, che nella proposta di Jackson veniva sfiorata più coi testi ad effetto che con la musica.
In questo gioco di equilibri tra vintage e futurismo non potrebbero calzare meglio le collaborazioni coi Daft Punk e quella, rinnovata, con la musa Lana Del Rey (non soltanto nello “Stargirl Interlude” ma anche nell’alienante “Party Monster”); spalle perfette per aiutare The Weeknd a stilare il suo manifesto definitivo che nemmeno produttori solitamente ingombranti come Max Martin o Diplo riescono a scarabocchiare.
Si poteva forse tagliare qualcosa, asciugare un po’ di romanticismo (“Die For You”) e mescolare meglio la tracklist per evitare un’eccessiva omogeneità soprattutto sul finale, ma ormai è chiaro che tra violenti cortometraggi e macchine lussuose anche presunzione e megalomania siano diventate parte integrante della sua cifra stilistica.
Fa parte del gioco, inevitabile conseguenza della fama… D’altra parte, quando si scende a patti con la pop music, ben altri eccessi sono difficili da mandare giù.

Con Starboy The Weeknd vince un altro Grammy per la stessa categoria, entrando così nella storia come il primo artista a collezionare lo stesso premio due volte. Nel frattempo, ricambia la cortesia a Lana Del Rey, partecipando al duetto del suo singolo “Lust For Life”, contenuto nell'omonimo album della cantante di New York.

 

Quindi, cogliendo tutti di sorpresa, The Weeknd pubblica My Dear Melancholy (2018), un progetto di sei tracce che debutta per la terza volta consecutiva al primo posto della Billboard Top 200: “Pray For Me” feat. Kendrick Lamar viene anche inserita nel trailer di "Black Panther", il film vincitore di un premio Oscar.
Con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere, Tesfaye ci riconsegna - com'è intuibile già dal titolo - il lato più malinconico e appassionato della sua personalità artistica, quello che avevamo imparato a conoscere all’inizio della sua carriera e che pensavamo ormai relegato al passato. Ispirato dalla recente separazione dalla cantante Selena Gomez, My Dear Melancholy è composto da sei meste ballate electro-r&b, notturne e glaciali come lo furono gli episodi più emozionanti di “House Of Balloons”, “Thursday” e “Echoes Of Silence" (i suoi primi tre, splendidi, mixtape). Sono ventidue minuti di dolore e struggimento, nei quali il falsetto di Abel emerge, lacerato, da un oceano di flutti sintetici e ombrosi.
In cabina di produzione troviamo nomi di prim’ordine, da Nicolas Jaar a Skrillex, da Guy-Manuel de Homem-Christo a Gesaffelstein (accreditato addirittura come featuring in “Hurt You” e “I Was Never There”), ma nessuno di questi aggiunge un tocco significativo a questo lavoro, che suona fin troppo personale e sentito per lasciare spazio a contaminazioni. L’umbratile funk-soul di “Try Me”, la paranoica tensione di “I Was Never There”, l’elegia sofferta di “Privilege” sono i punti più alti di un’opera forse priva della magia e della lussuriosa ambiguità degli esordi, ma alimentata dalla medesima vena creativa e per questo, ora più che mai, convincente e riconciliante.

 

Nel frattempo The Weeknd trova anche il modo di debuttare nel cinema, nei panni di stesso, nell’acclamato thriller “Diamanti grezzi” (2019) di Josh e Benny Safdie, distribuito in tutto il mondo dalla piattaforma Netflix.

Luci accecanti e idoli da Fm

 

The WeekndNel 2020, è subito pronto un altro colpo da ko: il nuovo singolo “Blinding Lights”, pezzo dal sapore sintetico anni Ottanta che si rivela rapidamente un nuovo successo mondiale. Raggiunge il primo posto in oltre trenta paesi, e diventa la colonna sonora anche della campagna di Mercedes-Benz EQC. È la hit del 2020, al terzo posto della Spotify Daily Global Chart con quasi due miliardi di streaming.
Il singolo trascina al successo l'album After Hours (2020), che raccoglierà 190 milioni di streaming su Spotify e 53 milioni di views su Youtube. Non un concept e non una semplice raccolta di singoli, ma qualcosa in più. Nel suo nuovo album, The Weeknd diviene regista e interprete di un vero e proprio film in musica, un racconto di perdizione dal taglio cinematografico e incentrato sui retroscena oscuri della vita di una popstar tormentata dai demoni del passato. Tra fiction e realtà, quella popstar è lui, e la scelta di mantenere ambiguo il confine tra le due è ciò che dona al disco, e quindi alle sue canzoni, quell'accattivante tensione in più.
Con un look rinnovato, un po' Michael Jackson e un po' divo del sesso anni Ottanta, ora Abel Tesfaye sceglie di fare della sua vita un thriller psicologico dai risvolti pulp e allucinati, nero come la notte e rosso come il sangue, già annunciato dalle tinte macabre della trilogia di video che ha preceduto l'album.
Il disco si presenta come una malinconica danza tra sintetizzatori vintage, cuori infranti, droghe e lusso sfrenato; ed è Las Vegas, la Città del Peccato, il tempio in cui si consuma la tragedia umana raccontata in queste canzoni. Fin dai primi ascolti, sono due pareri discordanti quelli che si incrociano in testa. È sempre più profonda, da un lato, la convinzione di come l'R&B oscuro e lussurioso che The Weeknd ha di fatto brevettato dieci anni fa non sia più in grado di reggere per un disco intero. Anche provando a variare sul tema - la trap di "Heartless", i ritmi spezzati di "Too Late", la drum 'n' bass di "Hardest To Love" - siamo di fronte a una buona metà di tracklist che è semplicemente riempitiva, il solito collante di filler che dà all'album quella coesione rassicurante e innocua che puntualmente si ritrova in ogni nuovo album di Tesfaye. Eppure, è una strana eccitazione quella che accompagna il confronto con quest'opera, quasi fossimo di nuovo in grado di percepire il brivido dell'evento.
A prescindere dalle sue note dolenti, con questo lavoro del 2020 The Weeknd è riuscito a risvegliare dal suo torpore lo "spirito" dell'album pop, consegnandoci un kolossal da consumare trepidanti, con cui intrattenerci ed emozionarci tutti assieme, in diretta. Come un nuovo film che sbanca il botteghino, così è il teatrale e super-pop After Hours. E le sue migliori scene di tensione sono le sue canzoni più disinibite e ruffiane, come la power ballad in hi-fi "Scared To Live", il palpitante languore notturno di "After Hours", o la micidiale sezione synth-wave composta da "In Your Eyes", "Save Your Tears" e dalla splendida "Blinding Lights", che col suo trasporto di tastiere epico e romantico rende perfettamente chiara l'idea di "affogare nella notte" cantata tra i suoi versi.
"I'm that nigga with the hair/ singin' 'bout poppin' pills, fuckin' bitches, livin' life so trill", cantava Abel Tesfaye cinque anni prima. E in barba ai buoni propositi, è ancora qui che lo ritroviamo nel mezzo di questo disco, e in ginocchio, a terra, alla fine del viaggio: "Non voglio più toccare il cielo", canta nella finale "Until I Bleed Out", "voglio solo tagliarti fuori dai miei sogni, fino a sanguinare". È il finale toccante di un disco che puoi quasi ascoltare con gli occhi, dove lo scintillante lavoro di produzione (tra i nomi, Daniel Lopatin e Kevin Parker) ha lo stesso effetto appagante di quella che nel cinema verrebbe definita una "fotografia da urlo".
Per un artista che non ha mai fatto mistero della sua vita dissipata, un disco intrecciato a questo modo con la sua persona, così oscuro e allo stesso tempo così accessibile, è semplicemente un trionfo di pop art. Non è tanto Las Vegas come si diceva prima, ma la stessa carriera di The Weeknd a essere teatro della sua tragedia. E questo album, con le sue menzogne e i suoi difetti, ne è una rappresentazione quantomai sincera e affascinante.

 

Con After Hours, The Weeknd resta ancorato alla posizione numero 1 della Billboard 200 per quattro settimane consecutive, segnando un altro record: è il primo artista a classificarsi contemporaneamente numero uno non solo nella Billboard, ma anche nelle Hot 100 e Artist 100. Con questi numeri, After Hours diviene l’album in streaming R&B numero 1 di sempre, seguito da Starboy al numero 2.
Segue una nuova raffica di collaborazioni: il singolo “Smile” con il compianto rapper Juice Wrld (dall'album “Legends Never Die”), “Over Now” per il dj Calvin Harris, la hit “Off The Table” assieme ad Ariana Grande (da “Positions”), la prima collaborazione con Maluma intitolata “Hawái Remix” (per la versione deluxe dell'album “Papi Juancho”) e il remix di “Blinding Lights” in collaborazione con la nuova stellina spagnola Rosalía (con successivo bis in “La fama”), e ancora “Tears In The Club” con FKA Twigs, “Poison” per la compianta Aaliyah, “One Right Now” di Post Malone, “Moth To A Flame” degli Swedish House Mafia e il ritorno di fiamma con Kanye West per il singolo “Hurricane” (contenuto nell'album “Donda”), con cui i due si aggiudicheranno un Grammy per la Miglior collaborazione con un artista rap.
Tanto per cavalcare l’onda, esce anche la raccolta The Highlights (2021), ideata per la sua esibizione durante l’Halftime Show del Pepsi Super Bowl LV 2021, in cui The Weeknd raccoglie i suoi brani più celebri degli ultimi dieci anni.

 

The WeekndA gennaio 2022 è il turno del quinto album in studio, Dawn FM, promosso a livello internazionale attraverso il suo primo tour musicale negli stadi After Hours til Dawn Tour. Come si diceva, The Weeknd ha ormai raggiunto l'invidiabile posizione di chi può fare qualsiasi cosa con la garanzia che, per male che possa andare, nella peggiore delle previsioni cadrà comunque in piedi. D'altronde, la sua voce angelica si è rivelata un calmante per tutti coloro che nei burrascosi due anni della pandemia da Covid-19 si sono sintonizzati sulle sue canzoni: nella dicotomia quiete-controversia, melodie carezzevoli e testi ambigui, si è potuta infatti ritrovare quella dinamica di tensione e rilascio che è tipica dell'esperienza catartica.
L'idea interessante alla base di Dawn FM (2022) sta proprio nella piena consapevolezza delle doti ansiolitiche delle proprie canzoni, e nell'ironico distacco che The Weeknd prende da queste. La fantomatica "Dawn FM" che dà il titolo, come chiarito dai diversi skit sparsi tra le canzoni e recitati dall'attore Jim Carrey, ricorda un prodotto ibrido tra "Matrix" e la "Life Extension" di "Vanilla Sky", un'ipnotica trasmissione radio in grado di infondere calma e tranquillità ai suoi ascoltatori fino all'annichilimento di ogni idea e volontà. L'offerta di un abbraccio amico quanto sinistro, capace di risucchiare nell'oblio semplicemente assecondando all'infinito il nostro piacere (allegoria del capitalismo? Dell'intrattenimento? O banalmente del fan-service tanto caro all'industria pop di oggi?).
The Weeknd torna a giocare con la sua immagine, ma dove in After Hours questo era in funzione del dramma e della teatralità, in Dawn FM è semmai in funzione di un'ironia più tagliente e dal doppio fondo, diretta contro l'artista (si guardi la copertina) sia contro la percezione dello stesso e dalla sua musica da parte del pubblico. In tutto ciò, il grande pregio del canadese sta nel non aver cambiato il tono della musica, provando a renderla in qualche modo più grottesca o artificiosa. La sua idea di canzone, levigata anche grazie alle mani dei sempre presenti Daniel Lopatin, Max Martin e Oscar Holter, si mantiene adagiata su una rilettura lussuosa e iper-digitalizzata della tradizione black anni 80, ricca di lustrini e sciccherie e in cui, se il soul non manca mai, si fanno più calcati gli accenti dance.
Non è un caso che il nume tutelare di Michael Jackson aleggi lungo tutta la prima parte di album, con grandi aperture melodiche - ombrose nella convulsa "Gasoline", accese in "Take My Breath", storia di un gioco erotico letale scandita da beat ossessivi e arpeggi di synth alla Moroder - ma anche groove densi e frizzanti ("Sacrifice"), sofisticata eleganza synth-pop ("How Do You Love Me?") e ballate rétro-soul in grande spolvero ("Out Of Time", dove le tastiere hanno la stessa fragranza dei fiati di una volta). Come non è un caso che la sesta traccia sia "A Tale By Quincy", una breve storia di errori e legami familiari perduti raccontata dal grande Quincy Jones, produttore di riferimento del divo di "Thriller". Ma lo snodo fondamentale nell'idea del disco coincide con lo skit al termine di "Out Of Time", in cui la voce di Carrey, rallentata in un magma di tastiere notturne, recita:

Ci sei quasi, ma niente panico. C'è ancora della musica in arrivo, prima di essere completamente avvolto dall'abbraccio beato di quella piccola luce che vedi in lontananza. Presto sarai guarito, perdonato e rinfrescato. Libero da ogni trauma, dolore, colpa e vergogna. Potresti anche dimenticare il tuo nome, ma prima di abitare per sempre in quella casa, eccoti trenta minuti di facile ascolto con alcune slow songs. Su 103.5 dawn FM

The Weeknd è quindi l'interprete, ma anche lo spettatore e il narratore onnisciente di questo grande spettacolo meta-musicale. In questo caso la sua bravura sta nel non palesarsi come geniaccio provocatore, ma nel nascondersi nel luogo più impenetrabile, ossia i suoi brani, così che il concept si possa scoprire solo ascoltando il disco per intero, ma di certo non in radio o in playlist. Eppure Dawn Fm non riesce fino in fondo a scongiurare il rischio dei lavori di questo tipo, finendo con l'essere un'operazione tanto colta quanto furba, nella quale le uniche vittime, in fin dei conti, restano le canzoni. Tirate di qua e di là tra la loro eruttante natura pop e il bisogno di incastrarsi nel concept provocatorio, si aggirano tutte su una durata minore, due-tre minuti scarsi, molto Spotify-friendly, in cui se da un lato è evidente la superiore cura concettuale ed estetica, dall'altro si nota una perdita di slancio, di estro, con conseguente mancanza di sorprese.
Ciò non toglie che, estrapolate dal disegno dell'album, queste canzoni di "facile ascolto" restino ottimamente riuscite, per il modo in cui vivono della stessa anima romantica e larger-than-life che ha fatto la fortuna dei successi più recenti del canadese - a discapito della vecchia componente "droga nel bicchiere" che ora non c'è quasi più (sempre che la "Dawn Fm" non sia in realtà allegoria della droga, in quel caso dimenticatevi per sempre questa recensione). "Here We Go... Again" (con Tyler, The Creator), "Starry Eyes", "Don't Break My Heart" sanno che tasti toccare, evocando le profondità della notte, l'intimità, vetri fumé, battiti cardiaci, senso di abbandono, e ancor meglio fanno "Best Friend" e "Less Than Zero", la prima sensuale nel muoversi tra le sue possenti vibrazioni sintetiche, la seconda spinta dalla leggerezza aerodinamica di una scintillante chitarra acustica.
Se Dawn FM è un falso, è senz'altro un falso d'autore da cui non è difficile lasciarsi sedurre. Eppure, sarà l'impossibilità di ignorare il disegno complessivo del disco, o il fatto che è il secondo album in cui Abel insiste su questo tipo di immaginario, ma c'è qualcosa di Dawn FM e del suo romanticismo, del suo innegabile richiamo pop, del suo fascino, che ispira un certo distacco, lo stesso che fa storcere il naso ogniqualvolta la forma sovrasta la sostanza. O forse siamo solo tremendamente stufi di accendere la radio e trovare musica piatta e dozzinale, che un'auto-parodia del pop narcotizzante non ci risulta tanto arguta quanto snervante e dimenticabile.
E in tutto ciò, perché coinvolgere Jim Carrey? Solo amicizia, o c'è un ennesimo significato nascosto, superiore, meta? Forse c'è Jim Carrey perché "Dawn FM" ha anche un po' dell'esistenzialismo di "The Truman Show", chissà, o forse perché tanto nel pop vale tutto, e allora questo disco è una grande performance comica in cui The Weeknd si concede solo a tratti, dietro una maschera che ha il suo stesso volto, dietro un cantante che ha la sua stessa voce e a canzoni che sono sia veleno che antidoto nel modo in cui alleviano dalla stessa esasperazione a cui costringono.
Nell'ardua sfida di trovare un seguito all'album di maggior successo mondiale degli ultimi anni, Abel Tesfaye è tornato in campo con una musica che è sia elemento che sua rappresentazione, disinnescando sul nascere ogni possibile rumore in un'opera in cui l'escamotage ironico, al netto del giudizio che gli si vuole attribuire, è forse il solo, autentico, gesto artistico percepito.

 

Dopo aver interpretato se stesso in “Diamanti grezzi” di Josh e Benny Safdie e aver prestato la sua voce nelle serie tv “American Dad!”, “Robot Chicken” e “I Simpson”, e soprattutto dopo aver composto un inedito per l’atteso “Avatar: la via dell'acqua”, la corale e tambureggiante “Nothing Is Lost (You Give Me Strength)”, Abel Tesfaye, sempre più stella interplanetaria del pop, ha finalmente deciso di cimentarsi con una soundtrack ufficiale, composta per la serie "The Idol" di Hbo, di cui è attore e anche produttore con il regista Sam Levinson (“Euphoria”) e lo sceneggiatore Reza Fahim. The Weeknd interpreta Tedros, losco proprietario di un club di Los Angeles e leader di una setta segreta, con il quale intreccia una relazione la giovane popstar Jocelyn (Lily-Rose Depp, figlia di Johnny). La produzione è stata accompagnata dalle immancabili polemiche per i contenuti provocatori e sessualmente espliciti.
Se il personaggio di Tedros, che Abel interpreta con bravura, ha un carattere tanto sfuggente quanto oscuro, le melodie scritte ex-novo sono tutt’altro che imprendibili, e per molti aspetti sono in linea con le sue ultime produzioni. In soldoni: dolci ballate con i sintetizzatori ariosi che seguono in questo caso gli insegnamenti di Giorgio Moroder, a cui evidentemente Tesfaye si ispira per questa sua nuova veste di compositore tuttofare per il cinema e le piattaforme streaming. A cominciare da “One Of The Girls”, interpretata con JENNIE & Lily-Rose Depp, e da “Dollhouse”, in compagnia stavolta solo di Lily-Rose Depp, figlia di Johnny e Vanessa Paradis, anche lei nel cast. Una canzone, quest’ultima, talmente laccata che sembra una delle tante B-side di Lana Del Rey, altra stella con cui Testfaye ha collaborato in passato.
Composto da sei Ep separati e fatti uscire tra il 9 giugno e il 9 luglio 2023, The Idol, Vol. 1 (Music From The Hbo Original Series) raccoglie inevitabilmente momenti topici del copione per farne musica, perlopiù passaggi in cui la tensione e l’amplesso di turno sono ai massimi livelli. Altrettanto piaciona, ma allo stesso tempo intensa, è la cover di “My Sweet Lord” di George Harrison, interpretata per l’occasione da Troye Sivan, che ne restituisce una versione gospel, intonata però in una cattedrale semi-abbandonata con il synth ancora una volta in prima linea sul finale. Ci sono poi Madonna e Playboi Carti in “Popular”, singolo che espone The Weeknd a un ardito confronto con due star distanti anni luce nel tempo e nella musica. Stavolta il passo è caraibico mentre le parole indagano sul senso del successo e dei suoi innegabili piaceri.
Tra i tanti altri chiamati in causa, spicca Moses Sumney in “Get It B4”, il brano meglio suonato del lotto, con un ritmo sospeso e una melodia da commedia soulful che riscalda. “Double Fantasy” con Future è invece l’altra hit in perfetto stile The Weekend fase Dawn Fm, quindi concepita senza troppe moine per scalare tutto lo scibile con un motivetto, ahinoi, irresistibile solo sulla carta, in cui si inserisce il più classico dei bridge in salsa rap. Tra alti e bassi, vocalizzi a sprazzi (“Take Me Back”), si smarca a dovere la strumentale “Devil’s Paradise”, con il sax a farla da padrone prima che il synth provi per un attimo a rubare nuovamente la scena.
The Idol, Vol. 1 (Music From The Hbo Original Series), al netto di qualche passaggio ben riuscito, divide e pone una questione: a chi giova tutta questa sovraproduzione? A Tesfaye senz’altro. Ma a chi lo segue dall’inizio la sua nuova veste di "cantattore" forse per il momento poco interessa. E, in fondo, va anche bene così.

 

Contributi di Beniamino Cianferoni ("Thursday")