Un disco sulle allucinazioni di Los Angeles, sul sesso, sulla seduzione più sfrontata e sulla fragilità post-coito che fa mettere da parte ogni pudore di maschio e implorare l'amore eterno dalla prima sconosciuta; si potrebbe sintetizzare così il terzo capitolo di Miguel, da molti definito il "Lothario dell'r&b". Lui di certo si presenta in maniera molto poco equivoca, la copertina qui sopra lascia zero all'immaginazione (fa pendant con quella dell'Ep di presentazione di qualche mese fa...).
Ma sotto la patina di muscoli e sguardi tenebrosi, Miguel non è proprio il lascivo puttaniere che vuol interpretare. Un solo ascolto di "Wildheart" è sufficiente per rendersi conto della varietà della proposta e dell'intensità del songwriting, ma ce ne vogliono diversi altri per entrare nel suo mondo. Di sicuro, rispetto al già compiuto e piuttosto fortunato "Kaleidoscope Dream" (2012), "Wildheart" sterza ancor più verso sinistra, rinunciando per la maggior parte al formato radiofonico in favore di brani esangui e spiritati, guidati principalmente da grondanti tessiture di chitarra, stralci di elettronica, vischiose linee di basso e una corposa sezione ritmica; la dicitura r&b, insomma, si sbava di soul alternativo, contaminazioni leftfield-funk, desert-rock, blues ad alto tasso etilico e momenti che quasi strizzano l'occhio a Bristol.
Per nostra comodità si potrebbe, al massimo, indicare Miguel come un vago ponte di congiunzione tra Prince e TT D'Arby, il sanguigno Lenny Kravitz primi anni 90 (il quale è pure ospite in questo disco su "face the sun"), le fughe dal neo-soul di Bilal e Van Hunt e la malinconia post-moderna di Frank Ocean. Ma Miguel vive anche in un mondo tutto suo, dove la forma-canzone è forbita e liquida per sfuggire alle catalogazioni, ma è (fortunatamente) pur sempre capace di accorate aperture melodiche, che rendono l'ascolto avvincente.
L'incedere di "Coffee", per dire, è seducente come pochi, e il video che l'accompagna non bada certo a pudori, eppure nel mezzo di tutta quella carne sembra di scorgere come un velo d'impacciato romanticismo che fa quasi tenerezza. Possibile che un figaccione intamarrito come lui abbia anche un cuore? Certo che sì, un cuore zeppo d'amore, ma anche torbido e voglioso di sesso, come si evince dall'appiccicosa base trip-hop di "valley", o la torrida "FLESH" che s'ispira senza mezzi termini proprio al genietto di Minneapolis. Ma lasciano il segno anche pezzi come "what's normal anyway", dove l'autore riversa il suo sangue misto con parole schiette, la torrida "...goingtohell", una romantica "leaves" da consumarsi al tramonto sulle colline di Hollywood sdraiati sul cofano di una Cadillac, o l'intensa "NWA" con ospite Kurupt, che sfata la canonica marchetta del rapper di turno per far affiorare alla mente sia D'Angelo che Meshell Ndegeocello.
"Wildheart" è densamente popolato e mette tanta carne al fuoco che può risultare indigesta a un primo assaggio, ma la qualità non cede nemmeno nella versione deluxe di 16 tracce, che infila altri tre pezzi belli carichi - "gfg", "destinado a morir" e "damned" - e fortunatamente inserisce un bel vecchio singolo rimasto inedito quale "Simple Things".
Certamente Miguel si presenta con un fare profondamente "americano", una popstar che non nasconde né la voglia di successo né quella di volersi mettere in mostra come un pavone per raccattare più figa possibile, sbattendo i propri sentimenti, belli o scabrosi che siano, in faccia all'ascoltatore senza mezzi termini - chi cerca delicatezze è bene che guardi altrove.
Ma la sua musica continua a essere un crogiuolo impressionante di suoni e atmosfere che non cede all'ascolto facilone, ma guarda anzi coraggiosamente in avanti, con risultati ben oltre la media. Insomma, al terzo album il buon Miguel si riconferma senza dubbio uno dei migliori autori contemporanei del calderone fusion-black. E con la torrida stagione attualmente in corso questo disco rende ancora di più.
14/07/2015