Quando nella primavera del 1998 Lenny Kravitz pubblicò “5”, il suo quinto album, in molti rimasero sorpresi dal suo piglio pop e soprattutto dalle sonorità più moderne, levigate, non più analogiche insomma. Una vera novità (solo) per uno come lui, appassionato di modernariato. Fu inizialmente un insuccesso e solo diversi mesi dopo, grazie al suo singolo più rozzo (“Fly Away”) e alla poco fantasiosa cover di “American Woman”, il disco raggiunse grandi numeri, diventando il suo maggior successo discografico e trasformando per sempre, e negativamente, la sua carriera.
Da allora il buon Lenny ha fatto di tutto per barcamenarsi tra il suo ruolo di icona e
sex symbol e il dimostrare di essere ancora, nonostante tutto, un
rocker duro e puro, finendo prima in territori pericolosamente
trash (“Lenny” e “Baptims”) e poi in quelli di un citazionismo secchione e senza troppi guizzi (“
It Is Time For A Love Revolution” e “
Black And White America”).
Cos’altro gli rimaneva da fare quindi, ormai famoso e in formissima cinquantenne ma con quotazioni in costante calo, se non tentare la carta di realizzare un nuovo “5”? Non che il nuovo album di Kravitz ricalchi pedissequamente il suo best-seller, la patina vintage è decisamente più accentuata stavolta, ma i due dischi condividono lo stesso dinamismo sonoro, la stessa luminosità e ariosità melodica. “Strut” è insomma il suo lavoro più divistico di sempre, quello in cui, ormai fuori tempo massimo, non si avverte più la pressione di dimostrare qualcosa se non quella di voler intrattenere e divertire, strizzando l’occhio alle sue fan.
Il risultato? Curatissimo, altalenante come sempre ma finalmente meno dispersivo con l’agile funk-rock retrofuturista di “Sex” e della
title track a dettare le coordinate di un lavoro che dà il suo meglio nelle sensuali sinuosità di “Frankenstein”, negli umori ottantini e metropolitani di “New York City” (probabilmente una nuova “Mr. Cab Driver” nelle intenzioni) e nel furbo ed efficace singolo di lancio, “The Chamber”, delle vistose influenze
disco-rock alla
Blondie.
Se non fosse per un paio di immancabili ballate
stonesiane, meno melliflue del solito, e il brano rockeggiante d’ordinanza (“Dirty White Boots”) si potrebbe anche azzardare che “Strut” sia l’album di Kravitz più (primi) anni Ottanta e con in mente il
jet set notturno dello Studio 54 piuttosto che quello del
CBGB’s o dei grandi festival rock (mai così lontani come stavolta).
A confermarlo l’effluvio di fiati e sassofono che vanno a costituire l’ossatura soprattutto della seconda parte del disco, quasi da
plastic big band tra una rigorosa
cover di Smokey Robinson (“Ooo Baby Baby”) e qualche brutto scivolone (una terribile “Happy Birthday”, che sa di tardi
Supertramp, e il banalotto
stomper alla Knack di “I’m A Believer”).
I difetti son sempre gli stessi quando si parla di Kravitz: troppi rimandi, poche idee davvero originali e poche sfumature, un ingombrante senso di grandeur. Eppure stavolta è finalmente riuscito a realizzare un lavoro conciso e con un dietro un concept se non altro più definito e meno sbrodolato del solito (tiene addirittura fuori dalla tracklist ufficiale due brani dal sound che non avrebbero sfigurato su “Circus”, per la gioia dei primi fan), insomma un disco con un’identità precisa all’interno della sua discografia. Sarebbe bastato solo questo a fargli guadagnare una risicata sufficienza, tuttavia resta sempre l’impressione che manchi ancora qualcosa…
01/10/2014