Adesso che una “fottuta star” lo è per davvero, The Weeknd può permettersi di fare un po’ quello che gli pare. Come pubblicare, a un anno di distanza dal bestseller “Beauty Behind The Madness”, un nuovo e altrettanto lungo album che, pur facendo nuovamente sfoggio di ospiti altisonanti, rinuncia in parte a quelle caratteristiche che avevano reso la sua recente proposta così appetibile per il grande pubblico.
In cerca di maggiore rigorosità, stavolta Abel Tesfaye riduce all’osso le sonorità più funky (ne rimane vaga traccia in “Sidewalks”, accompagnato dall’onnipresente Kendrick Lamar), preferisce le aggressive ritmiche electro-punk di “False Alarm” ai clangori industriali e rifugge i tormentoni di facile presa radiofonica per trovare riparo nei club alla moda (la Uk-house di “Rockin’” e la palpitante “Secrets”, che campiona magistralmente The Romantics e i primi Tears For Fears).
Pur non raggiungendo l’austerità dei suoi esordi, l’anima di “Starboy” indugia su una dozzina di sfumature della splendida title track e si snoda quindi come un lento continuum che raramente scade in svenevoli prevedibilità nu-soul (“True Colors” e “Attention”) e più spesso rimane miracolosamente in bilico tra il narcotizzante e l’ammaliante (“Reminder” e “Nothing Without You” tra le migliori).
Lo spettro di Michael Jackson continua ad aggirarsi tra le idee e le corde di Tesfaye, tanto nei lenti (l’impeccabile “I Feel It Coming”) quanto nelle fugaci incursioni sui dancefloor più eleganti (“Love To Lay” e “A Lonely Night”). A differenza del furbo Bruno Mars, intento a omaggiare il suo idolo e affini al limite del parodistico, il canadese, amante del trip-hop quanto del soul, si dedica a traslare la lezione del re del pop in una dimensione più cupa, paranoica e sessualmente torrida, che nella proposta di Jackson veniva sfiorata più coi testi ad effetto che con la musica.
In questo gioco di equilibri tra vintage e futurismo non potrebbero calzare meglio le collaborazioni coi Daft Punk e quella, rinnovata, con la musa Lana Del Rey (non soltanto nello “Stargirl Interlude” ma anche nell’alienante “Party Monster”); spalle perfette per aiutare The Weeknd a stilare il suo manifesto definitivo che nemmeno produttori solitamente ingombranti come Max Martin o Diplo riescono a scarabocchiare.
Si poteva forse tagliare qualcosa, asciugare un po’ di romanticismo (“Die For You”) e mescolare meglio la tracklist per evitare un’eccessiva omogeneità soprattutto sul finale, ma ormai è chiaro che tra violenti cortometraggi e macchine lussuose anche presunzione e megalomania siano diventate parte integrante della sua cifra stilistica.
Fa parte del gioco, inevitabile conseguenza della fama… quando si scende a patti con la pop-music, ben altri eccessi sono difficili da mandare giù.
(29/11/2016)