Lana Del Rey

Lana Del Rey

Born to sing

La vicenda artistica della diva per eccellenza del pop contemporaneo. Una carriera iniziata rilasciando video su YouTube e proseguita tra passerelle, continue trasformazioni e l'amore indissolubile per l'estetica, la musica e la poetica dell'America dei gloriosi e irripetibili anni 50

di Gianfranco Marmoro, Giuliano Delli Paoli

Genesi di una diva

New York, 21 giugno 1985. La Grande Mela si appresta a vivere il suo primo giorno d’estate, tra un cocktail da sorseggiare a Orchard Beach e un canestro da mirare al playground "The Cage" del Greenwich Village. Siamo nel mezzo dei decantati anni 80, gli Stati Uniti sono al massimo splendore e il capitalismo ha ormai azzannato l’orso comunista in vista della definitiva resa dei conti. Sono i giorni della massima espansione reaganiana. Tutto brilla. I centri commerciali fungono da collettore sociale di un boom economico che tanto ricorda quello dei cosiddetti anni ruggenti, mentre le radio celebrano Bruce Springsteen, Bryan Adams e Madonna. E’ in questa culla luccicante, e in apparenza confortante, che nasce Elizabeth Woolridge Grant, in arte Lana Del Rey. Cresciuta a Lake Placid, figlia di Rob Grant - un esegeta del web che la sosterrà fin da subito nella sua carriera musicale - la piccola Elizabeth trascorre la sua infanzia in un mondo quasi fatato. Un microcosmo accogliente, che purtroppo si trasformerà di lì a poco in un vero e proprio incubo. L’adolescenza sarà infatti il periodo più buio e pericoloso della vita della Grant, caduta ancora quindicenne, alla stregua di una Drew Barrymore "qualunque", nel vortice dell’alcol. Un dramma che affronterà rifugiandosi presso la Kent School, il luogo ideale per essere curata.
Uscita in fretta dal tunnel della bottiglia, la futura stella del pop decide di intraprendere gli studi in filosofia presso la Fordham University. Una scelta sentita, come quella di prestare aiuto ai senzatetto e agli alcolisti in una comunità di recupero newyorkese, a conferma di un cuore grande e nobile. Lo stesso cuore che alimenta i testi delle sue prime canzoni.

ldr_preDopo aver imparato a suonare la chitarra a diciotto anni, la ventenne Elizabeth inizia a esibirsi nei club della metropoli americana con il nome d'arte di May Jailer, moniker con il quale registra nel 2005 financo un disco a mo’ di demo, Sirens, al quale seguirà Rock Me Stable, inciso a sua volta con il suo nome di battesimo.
Fin dai primi "vagiti", Lana si ispira a un immaginario sepolto dalla memoria, dal flusso incessante delle tendenze usa e getta e da uno star-system sempre più disorientante. Lana insegue il ricordo di un'America verace, genuina fino al midollo; sogna gli States dei Cinquanta, la vita agreste e le sue nobili fattorie. Ma soprattutto gli States dei drive-in e dei Playboy da nascondere sotto il letto, o da poggiare sul sedile vuoto di un camion che affronta la Route 66 come un cavallo selvaggio del vecchio west. La cantautrice newyorkese adora anche la leggerezza e il sole della West Coast, così come i disegni di Sam Rockwell e il suo “fottuto” realismo romantico.
Del resto, è lei stessa un'inguaribile romantica. Una fan sfegatata delle auto d'epoca, delle white Mustang, così come della ben più economica Ford Del Rey, quest'ultima tra le vetture più acquistate dalla generazione del proprio padre. Un marchio che diventa anche il proprio moniker. Mentre le sue graziose movenze richiamano fin dalla prima ora tutta la sensualità dell'indimenticabile Bettie Page. Lana Del Rey è infatti una vera e propria eroina omaggiante una precisa estetica del passato. Una diva fuori dagli schemi imposti a metà dei primi Anni Duemila, periodo in cui si affaccia sul mondo della musica che conta. Un universo nel quale spunta alla stregua di una cartolina sbiadita raffigurante una pin-up lasciata per anni nel cassetto di un garage abbandonato del Texas. Una visione tanto ammiccante, quanto figlia di un mondo che non c’è più. Un’America distante anni luce da quella di oggi. Di certo, un'America capace ancora di credere in quel sogno che finirà per disgregarsi lentamente tra le piantagioni insanguinate del Vietnam, le bombe balcaniche e soprattutto quelle mediorientali.

Gli Stati Uniti celebrati nelle canzoni di Lana del Rey non hanno nulla da invidiare a quelli di oggi, tutt’altro: con essi rivive il ricordo di un’utopia che nel lungo dopoguerra ha alimentato per diverse generazioni le speranze di un mondo migliore. Speranze vissute non solo al di là dell’Atlantico, ma in tutto l’Occidente. Un sogno e un immaginario, quelli presentati e sposati appieno dalla Del Rey, contornati spesso da un amore per la propria terra esposto ai quattro venti in tutte le salse, magari tenendo ben stretta la bandiera a stelle e strisce nell’ennesimo videoclip da diffondere a iosa, come le incalcolabili e ufficiose ghost-track mai inserite in un disco ufficiale. Una bandiera da stringere forte a sé, come se fosse un amante in partenza per il fronte. Un amore viscerale per gli States decantato nei testi e osannato con melodie d'antan. Note che sembrano ricongiungere in un punto imprecisato della galassia musicale Angelo Badalamenti e Chris Isaak, Judy Garland e Hope Sandoval.

Per avere un'idea del suo essere aliena e sostanzialmente fuori da una certa contemporaneità, basta osservare l'interpretazione dal vivo della bellissima “Video Games” in una delle sue prime apparizioni oltreoceano. Movenze al rallentatore e sguardo da gatta morta capace di annientare un intero capannone dei marines: sono queste le prime avvisaglie della musicista statunitense. Una capacità innata di salire in alto e riscendere con la propria ugola, senza che l’ascoltatore abbia il tempo di intuire le coordinate spazio-temporali, che appartiene solo alle grandissime. L'esordiente Lana Del Rey è una dea d’altri tempi che entra in punta di piedi nel secondo decennio del nuovo millennio. Un esordio preceduto da un primo timido Ep, Kill Kill, prodotto nel 2008 con il nome d'arte Lana Del Rey A.K.A. Lizzy Grant.
Il suo primo vero trampolino di lancio è tuttavia YouTube. E’ da lì che, qualche mese dopo, la definitiva Lana Del Rey piazzerà i suoi primi irresistibili colpi, che la porteranno dritta tra le braccia dell'etichetta Stranger Records. E’ il preludio alla prima definitiva consacrazione del 2012. Il videoclip semi-amatoriale di “Video Games” sarà infatti il primo fuoco d’artificio sparato altissimo nel cielo della musica pop. Un cortometraggio in cui è racchiuso tutto quello che in seguito Lana Del Rey esporrà al mondo, incantandolo oltre ogni misura, raggiungendo numeri da capogiro, copertine da mille e una notte per qualsiasi top model che si rispetti e finanche l’apprezzamento di marchi come Gucci, che spesso e volentieri la preferiranno alle ben più magre e cibernetiche modelle contemporanee.

Dall'anonimato a Vogue

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L'industria musicale del primo biennio del secondo decennio del nuovo millennio è agli sgoccioli e sta raccogliendo quei pochi frutti adatti al grande pubblico, pescandoli nel grande panorama di musicisti che proliferano grazie alla rete e alla produzione lo-fi. Il grande successo di Adele convince qualche manager a investire risorse nella ricerca di artisti pop in equilibrio tra mainstream e alternative. Inoltre, il vuoto lasciato da Amy Winehouse colloca nel limbo la grande musica pop americana. Colpevole o vittima di questo sdoganamento del pop indie, Lana Del Rey diventa lemme lemme il personaggio capace di concentrare un'attenzione enorme da parte dei mass media. Inevitabilmente, ciò devia l'attenzione dalla musica sull'autenticità dell'artista. 
Born To Die, primo Lp della musa newyorkese, necessita di una doppia lettura: oltre al contenuto puramente musicale, merita analisi anche il fenomeno mediatico. Una serie di notizie e scoop modificano le attese e le prime convinzioni del pubblico, e l'ingenua e timida stella nascente lascia il cuore dei primi blogger entusiasti per entrare nel sistema produttivo più ampio e professionale delle grandi case discografiche. Chiunque conosca gli oltre sessant'anni di storia del rock non può negare l'importanza della promozione (che ora definiamo, con tono snob, marketing) nella costruzione della cultura pop-rock, e non c'è nulla di nuovo nell'interesse di manager e produttori per un talento emergente. Nonostante nessuno abbia mai accusato i Sex Pistols di aver firmato per la grande industria della Emi-Virgin, né tantomeno i Velvet Underground di incidere per la puritana e obsoleta Verve/Mgm (infatti il loro passaggio all'Atlantic fu conseguenza di una epurazione del presidente della label, pronto a liquidare tutti gli artisti dediti alle droghe), nel 2012 il popolo del web indie-addicted chiede vendetta per l'inganno perpetrato alle sue spalle da Lana Del Rey/Elizabeth Grant. Sono forse delusi gli irruenti sostenitori della prima ora, quelli che la credevano una loro figlioccia. Ma Lana è “semplicemente” una donna matura e consapevole. Cammina da sola. Anzi, il gossip e il marketing lastricano il suo cammino verso il successo e la notorietà.

Evidentemente, si ignora con dolo che il progetto di Born To Die raccoglie i semi di un lungo lavoro, dopo un esordio diffuso in formato digitale e poi, intelligentemente, ritirato dall'etichetta 5 Points, e soprattutto dopo il brano "Video Games" - notevolmente diverso dal normale pop radiofonico – capace di raccogliere inattesi consensi su iTunes e tra i naviganti dell'etere. Le perplessità dell'autrice, tra l’altro, la dicono lunga sulla presunta macchinazione promozionale. Comprensibile il disappunto di tutti coloro che apprendono quasi sgomenti della passione per l'alta moda della Del Rey, o della presenza di un ricco staff che lavora dietro le quinte. E ci sono anche amicizie con un artista emergente (Woodkid) noto per i suoi commercial per Lipton e Vogue e i videoclip per Katy Perry, e (orrore!) Lana si avvale di uno staff di avvocati per evitare le truffe del music business. Poveri ingenui detentori della purezza artistica, i fan dell'indie reggono in prima battuta male il colpo, abbagliati dalla bellezza (quella sì, innegabile) di "Video Games", si lasciano prendere in giro dal business. Dove lei è stata celebrata e amata, ora c'è solo spazio per inevitabili accuse di plagio ("Video Games" assomiglierebbe a un brano dell'artista greca Eleni Vitali, "Dromoi Agapisa Pou"), malignità sulle labbra a canotto, o critiche sulla scarsa resa live (la sua esibizione al Saturday Night Live è stata definita "disastrosa"), le accuse piovono come se un'orda di amanti traditi svelasse i segreti che si celano sotto le lenzuola. Ma la verità è solo nella sua musica, un patrimonio personale che Lana Del Rey rilascia in piena libertà e che deve aver turbato molti sogni erotici.

Born To Die è un album di musica pop, e la musica pop non ha l'autenticità come requisito primario. Ciò che resta evidente è la sua capacità di scrivere canzoni che assorbono illusioni e speranze della sua generazione. Se Nancy Sinatra è il riferimento evocato, non vanno taciuti altri illustri precedenti: Bobbie Gentry, Peggy Lee, Dusty Springfield, Lulu, Julie London potrebbero sostituire l'immagine di Lana Del Rey in copertina senza alterarla. Il look da femme fatale, in bilico tra Marlene Dietrich, Judy Garland e Jessica Rabbit, nasconde quel po' di svogliatezza e fragilità che può a tratti rendere il tutto goffo, ma tradisce la presenza di emozioni.
"Video Games" resta un autentico fulmine a ciel sereno per la musica pop, è la sua "Time After Time" - anche se non ci sarà Miles Davis a traghettarla verso l'eternità. Anche le ambigue costruzioni letterarie e sonore di "Blue Jeans" sono capaci di rivelare dettagli a ogni ascolto, con pulsioni trip-hop adatte alle doti interpretative di Lana.
Trasferitasi in Scozia, la cantante riversa il suo passato "made in Usa" nelle inflessioni soul della intrigante e disturbante "Off To The Races", un soul-hip-hop oscuro e malsano che acquista spessore dopo più ascolti, trasformandosi da un probabile pasticcio armonico in una versione punk-pop dei Portishead.
Non convincono, invece, altri incroci soul-pop: "National Anthem" (con tanto di citazione di "Bitter Sweet Symphony" dei Verve) e "Summertime Sadness" hanno la colpa di riproporre gli stessi archetipi sonori, senza magia evocativa e con evidenti ingenuità. La title track "Born To Die", pur restando controversa per molti, è invece una delle soluzioni sonore più stimolanti del disco, e il tocco dark-gothic che caratterizza il brano - così come il video di Yoann Lemoine (Woodkid) - sono l'edificazione più ambiziosa e riuscita.
Lana Del Rey sta crescendo insieme alle sue canzoni: le ingenuità carezzevoli di "Diet Mountain Dew", "Dark Paradise" e "Lolita" (una delle tre tracce bonus dell'edizione limitata) sono contestuali per qualsiasi album di musica pop e non sottraggono verve. Il fascino autobiografico di "Radio", il mieloso incidere di "Carmen" e il pregnante passo soul alla Macy Gray di "This Is What Makes Us Girls" completano un quadro complesso e ricco, che rende il lavoro qualcosa in più di una raccolta di singoli. Sempre caratterizzato da una produzione impeccabile (forse giusto un po' troppo omogenea), "Born To Die" è puro pop. Lana ama definirlo Hollywood Sadcore, ma la presenza di molte stand-out track lo rende più ricco e amabile, e le ammalianti note della superba "Million Dollar Man" - una torch song elegante e sensuale che Fiona Apple bramerebbe avere nel suo repertorio - sono testimonianza di un talento autentico.
Lana non è una one hit wonder e la sua musica ripristina l'amore per la musica pop anche nei cuori più pavidi. "Video Games" è il perfetto esempio di pop trasversale, capace di emozionare più di una sensibilità, e la canzone è destinata a essere una tra le più interpretate e rilette nel prossimo decennio. Se per qualcuno è troppo poco, beh, abbia almeno il buon gusto di tacere.

Un anno dopo le inutili discussioni e le fumose teorizzazioni critiche, Lana Del Rey celebra i quasi tre milioni di copie vendute di Born To Die offrendo un Ep con otto canzoni che abilmente ripropongono le stesse perplessità dell’album madre. Meno patinato e omogeneo di Born To Die, il Paradise Ep non è un’appendice furba e insipida, ma un manifesto di creatività che non resta insensibile alle suggestioni di altri panorami musicali. Ancora una volta è l’America on the road la protagonista della sua musica, ed è quasi una versione al femminile di Bruce Springsteen (epoca “Tunnel Of Love” per intenderci), quella che “Ride” e la successiva “American” rimarcano con un citazionismo distratto e suggestivo, mentre Lana Del Rey sottolinea il tutto con sognanti aperture vocali tra sensuali sospiri e poche urla, per un controllo emotivo singolare che evidenzia una scrittura solida e consapevole.
Si resta altresì affascinati dalla capacità di trasformare la prevedibile “Cola” in un altro esercizio di stile, ed è solo l’aperitivo per le tre delizie nascoste in questa “Paradise Edition” (ovvero l’album Born To Die a cui è stato annesso questo Ep). La struttura quasi dark di “Body Electric” riprende le suggestioni di “Video Games” e “Blue Jeans”, trascinandole in una dimensione più intima e meno mainstream, mentre ” Gods & Monsters” è una pop-song che nelle mani di produttori e cantanti patinate sarebbe stata un furioso singolo da milioni di copie. La riscoperta dell’ex B-side “Yayo” aggiunge poi un altro tassello al malinconico libro di confessioni in musica di Lana Del Rey, che insieme a “Million Dollar Man” e alla citata “Video Games” mette in gioco tutti gli elementi del cantautorato femminile più colto, contaminandoli con una sensualità tutta personale.
E' “Bel Air”, però, il vero gioiello che toglie ogni dubbio sulla sua reale statura artistica, con un leggiadro arrangiamento dream-pop e flessuose armonie vocali, che prendono corpo a ogni ascolto, svelando nuove sfumature. Nonostante sia infatti legittimo il disappunto per un’operazione commerciale come quella della “Paradise Edition”, le otto tracce inedite e le tre bonus track della prima limited edition qui riproposte sono più che sufficienti per una rilettura soddisfacente dell’intero progetto, la cui ombra già si allunga sulla produzione pop mainstream (leggi Rihanna - “Diamonds”). L’universo musicale di Lana ostenta una sensibilità femminile che si può vagheggiare ma che resta difficile da comprendere. Una donna che parla di sesso ("my pussy tastes like Pepsi Cola" afferma senza remore in “Cola”), che si avvale di un team di uomini che realizzano le sue ambizioni (il produttore Rick Rubin in “Ride”) e non rinuncia al gossip e alla forza sensuale della sua immagine può essere oggetto di desiderio, ma mai amata. La musica della Del Rey è come una relazione clandestina che turba il menage mettendo a rischio la tua pace familiare: ti sussurra infatti le note della sensuale “Blue Velvet” senza troppa passione ma con quella malizia che eccita la fantasia, lasciandoti consapevole che il meglio deve ancora venire, in canzoni costantemente in bilico tra autenticità e menzogna che scorrono come una colonna sonora di un film immaginario.

Ultraviolenza e ultracorpi

ldr_uv2L’ora della verità per Lana Del Rey arriva nel 2014: Born To Die è stato un evento musicale o è un falso? I complottisti sono già tutti agitati come ai tempi del libro di Bill Kaysing “Non siamo mai andati sulla Luna”, e tutto sembra accreditare le ipotesi della inconsistenza dell’evento discografico (oddio, molti lo pensano, senza neppure caldeggiare l’idea della macchinazione o del falso storico). Kaysing affermava che negli anni 60 la tecnologia non era sufficiente per andare sulla Luna, i complottisti moderni sostengono che l’evoluzione scientifica ha dato vita a un mondo virtuale dove tutto è possibile, con la Del Rey a essere solo l’ultima versione delle eroine alla Lara (notare la coincidenza) Croft. Gli americani finsero di andare sulla Luna per motivi economici, il complotto Rey serve per ricreare suggestione intorno a un mercato discografico in perenne crisi. Ovviamente Stanley Kubrick (il titolo è comunque un omaggio al suo “Arancia Meccanica”) non era più disponibile per realizzare i falsi filmati della impresa discografica, ed ecco spuntare il nome di David Lynch, il regista perfetto per dar vita a una diva contemporanea dai contorni misteriosi e ambigui. Questa storia sembra comunque piena di ombre e luci, a partire dalla bandiera patriottica sventolante nel preview di Born To Die: che sia la stessa dell’allunaggio? Le labbra di Lana sono così grandi solo per un errore fotografico di prospettiva che non ha tenuto conto delle luci e dei riflettori, o è una grossolana distrazione del regista? I ritocchi fotografici servono a nascondere la sua vera natura? Complotti e scherzi a parte, un dato di fatto incontrovertibile è il successo di Born To Die: il nome di Lana Del Rey è uno dei pochi entrati nell’immaginario comune (un tempo definito collettivo), uno dei pochi idoli contemporanei noti sia al giovane fan della musica indie che all'attempato adoratore dei Pink Floyd o dei Radiohead, e giuro che non c’è nulla di più divertente che vedere le smorfie sul volto di un amico a cui chiedi: “Ti piace?”.
Il successo della cantante indiscutibilmente è frutto anche di un perfetto marketing, che è riuscito a concentrare l’attenzione sul personaggio oltre che sulla musica. La differenza però con quegli artisti che negli ultimi anni hanno rappresentato la pop music da classifica (RihannaKanye WestBeyoncé, Justin TimberlakeLady GagaPharrell Williams) è data dalla consapevolezza artistica della protagonista e dal suo coinvolgimento creativo più intimo, meno legato alle logiche delle classifiche.
Born To Die era un disco dal fascino ruffiano e trasversale, capace di conciliare mainstream e fenomenologia indie, ma quelle canzoni rappresentano l’identità che Elizabeth Woolridge Grant ha voluto dare alla sua creazione: il fascino glamour, il tocco dark alla Lynch, i temi ricorrenti della morte, del sesso e i rituali associati a questi elementi (amare cattivi ragazzi e vestirsi/svestirsi di rosso fuoco) sono la sceneggiatura entro la quale l’artista si muove a suo agio, una realtà virtuale dove poter essere autentica e artefatta nello stesso istante.

Non è quindi strano che Ultraviolence suoni come un sequel di un colossal di successo, ma quello che subito colpisce l’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto e cinico è il nuovo abito sonoro cucito intorno alle canzoni, un raffinato timbro monocromatico infarcito di blues, country, dream-pop, che svela di continuo infinite sfumature. I complottisti avranno vita dura nel demolire la nuova impresa della ventottenne di New York: le undici canzoni di Ultraviolence (quattordici nella limited-edition) sono ancor più intense, e se molti le troveranno simili o affini è solo perché la personalità di Lana Del Rey emerge su qualsiasi cosa lei canti, anche adesso che la sua voce sembra rivolgersi con toni estatici a un pubblico di anime erranti senza corpo. 
Non ci sono più le orchestrazioni possenti e si sono diradate le melodie cantilenanti: qui il languore lirico segue le orme più di “Body Electric” e “Yayo” del “Paradise Ep” o della sua irraggiungibile “Video Games”, l’energia delle chitarre e un uso più intenso di echi e riverberi ampliano il pathos e la magniloquenza delle sonorità, preservando quella densità sensuale da set cinematografico erotic-noir, anche se ascolti ripetuti svelano sempre nuove fonti di piacere, come il tono quasi shoegaze di "Cruel World". 
Gli amanti di dietrologia stiano tranquilli, perché svanita la coltre di gossip e di inutili teoremi sulla figura femminile-femminista di Lana Del Rey, quello che resta è un album di belle canzoni il cui potere persuasivo cresce nel tempo: il primo singolo “West Coast” è l’unico brano dove sono rimaste tracce di quel trip-hop che si agitava in molte tracce di “Born To Die”, ma il produttore Dan Auerbach (sì, quello dei Black Keys) ha trasferito le pulsioni ritmiche in un contesto roots che il coro angelico alla Julee Cruise rende ancor più drammatico e aspro. 
Le successive pillole-video di “Shades Of Cool” e “Ultraviolence” hanno reso ancor più evidente il tono narcolettico dell’album e la maggiore natura psicologica della scrittura di Lana Del Rey, ormai decisa a sfondare il confine tra pop e songwriting dopo aver sconfitto il preconcetto di indie against mainstream. “West Coast” non ha conquistato le classifiche (un timido 20° posto in Inghilterra) ma la title track sembra aver le caratteristiche giuste per affascinare quel pubblico che conosce la sua voce attraverso le colonne sonore di “Maleficent” e “Il Grande Gatsby”. Soave e ricco di atmosfere sognanti, "Ultraviolence" è un brano apparentemente innocuo, che detta però le coordinate dell’intero lavoro, una raccolta di canzoni che parlano di drammi personali, sogni infranti, amicizie spezzate in un concept-album più coeso e maturo del fortunato predecessore.
Non è un album nato per esigenze contrattuali o per raccogliere il successo del precedente capitolo: la mancanza di un singolo trascinante non è casuale. “Shades Of Cool” è lo schiaffo lirico più netto con il passato: l’ariosa ed eterea melodia, meno barocca che in passato, unisce Pink Floyd, Cocteau Twins, Portishead Goldfrapp, diventando uno dei punti di forza di Ultraviolence. Lana non ha dato credito a chi aveva già condannato “West Coast” come un suicidio commerciale: lei era più stimolata dalla possibilità di incontrare Lou Reed per proporgli una collaborazione in “Brooklyn Baby” (il controcanto che si ode evoca il suo inconfondibile stile), ma il suo sogno si è infranto poche ora prima della morte del musicista. Per fortuna, la viziosa e polverosa ballad è qui a far luce come un faro: una brillante intuizione lirica destinata a raccogliere le gesta di “Video Games”. 
Quello che sorprende è la più coesa e imperturbabile qualità delle canzoni, il quasi blues di “Sad Girl” farebbe gridare al miracolo in qualsivoglia altro album pop, mentre qui è solo un’altra buona canzone, mentre un singolo potenzialmente trascinante come “Money Power Glory” è abbandonato in mezzo alle due canzoni più crude, ovvero la straziante preghiera stile Patti Smith/David Gilmour di “Pretty When You Cry” e la scontrosa “Fucked My Way Up To The Top”, che indugia senza la stessa verve sulle ossessioni liriche e musicali della musicista, restando a conti fatti l’episodio più debole dell’album.

A questo punto è chiaro al lettore che l’autenticità e la pretesa mistificazione del personaggio poco importano. Ultraviolence è un film ancora più avvincente e convincente di Born To Die: l’urgenza e la volontà di riscatto che premevano dietro le fastose ed epiche pagine del precedente capitolo sono lontane, in questo estatico e stregato mondo dell’artista c’è più spazio per il sogno e il romanticismo, come è evidente nelle due tracce conclusive del disco. Piano, violini e voce sono al loro picco emotivo nel travolgente romanticismo di “Old Money”, dove si avvertono raffinate citazioni di Nino Rota, e la cover di “The Other Woman” di Jessie Mae Robinson (portata al successo da Nina Simone e poi interpretata da Jeff Buckley e Sarah Vaughan) palesa ancor di più il carattere onirico del disco, con quel canto rapito da un vecchio grammofono, chiudendo il cerchio che lega inesorabilmente l’artista con il passato del divismo americano. 

Nonostante il gossip e le inevitabili critiche che faranno seguito all’album (ovviamente potete sempre protendere per l’ipotesi dell’inesistenza di una teoria del complotto e diventarne voi stessi parte integrante), la qualità delle canzoni sposta l’analisi sulla musica. Per coloro che sceglieranno di acquistare la limited-edition sarà interessante scoprire che tra esse si nasconde uno dei brani dalle sonorità più innovative e interessanti, ovvero il quasi psych-blues di “Guns And Roses”, ma anche una esoterica performance vocale (“Black Beauty”) e un altro strappo deciso con la musica pop da classifica (“Florida Kilos”), tre brani esclusi per una minore incisività sonora e un'atmosfera più grezza.

ldr_hmTrascorsi meno di dodici mesi, è sempre più evidente che Lana Del Rey abbia scelto di essere se stessa e di non cedere alle mille ipotesi sul suo futuro che fan e stampa hanno messo in piedi dopo il trionfo critico di Ultraviolence. Altro che hip-hop e produzioni altisonanti, il successivo Honeymoon è l’equivalente sonoro di “Viale del Tramonto”, un progetto dove il personaggio si stacca definitivamente dall’anima della sua creatrice e diventa icona di una finzione sonora ancor più raffinata e dolorosa, dove la noia e l’attesa sostituiscono il clamore del successo e le luci dei riflettori. “Ho perso me stessa e ho perso anche te”, canta Lana in “Terrence Loves You”, quasi a sottolineare quel languore melodico che sembra prendere possesso in modo definitivo del suo stile.
E' la diva non diva, che dichiara senza timore “non ho molto per cui vivere/ da quando ho trovato la fama” in “God Know I Tried”, che si prende gioco dei maschi riducendoli a uomini-oggetto in “High By The Beach” (“sei un figlio di puttana/ ma questo non ti rende uomo/ la verità e che non ho mai fatto spesa nelle vostre stronzate/ non ho bisogno del tuo denaro per ottenere ciò che voglio”), in una rappresentazione quasi cinematografica, che più che alle donne di David Lynch assomiglia alle poche e fondamentali presenze femminili di “Querelle De Brest”. Più fragile e umana, ma anche surrealista e felliniana nella sua lasciva voglia di farsi baciare dal sole, “tutto è luminoso ora/ niente più giornate nuvolose/ anche quando arriva la tempesta/ tutto quello che facciamo è giocare/ e ascoltare musica come 'Lay Lady Lay'’”, canta in “Religion”, lasciando intendere di volersi lasciare andare alle passioni vacue ma sane della vita (“non è mai stato una questione di soldi o di droga/ per voi, c'è solo l'amore/ perché sei la mia religione/ quando sono in ginocchio, è come se pregassi”), in un turbinio erotico-sensuale che in “Freak” è ancora più esplicito ("Baby, se vuoi andar via/ vieni in California/ sii freak come me/ baciami mentre lo facciamo/ amarmi è tutto quello di cui hai bisogno per sentirmi"). 

La dimensione musicale che avvolge le canzoni di Honeymoon è indolente, un’evoluzione-involuzione dove resta ben poco spazio per le ruffianerie pop che ancora imperversano nella musica da supermarket. La struttura dei brani è più convenzionale con verso e refrain e una sottile linea di jazz-blues che va da Nina Simone al Miles Davis di Sketches Of Spain”, con il soave e romantico intermezzo di “Salvatore” che profuma di Marlene Dietrich e Jeanne Moreau.
Narcisista, autoindulgente, narcolettico, ripetitivo, malinconico, questi sono gli aggettivi già pronti per salutare Honeymoon, gli stessi con cui qualcuno ha spesso etichettato Van Morrison o Leonard Cohen. Non che Lana abbia la stessa stoffa dei due, ma è uno spunto di riflessione che spinge l’analisi sulla scrittura delle canzoni.
Lana ha affermato che la title track è il brano dove l’album ha inizio e fine, confermando che questa è la musica che lei ama, e non c’è volontà d’incrociare la moda o l’hype. Il trittico iniziale non è solo una sequenza di torch song invaghite di pop e muzak, ma un campionario esaustivo della complessità lirica del suo songwriting, tra melodie che si inseguono e si alternano senza mai modificare l’humus sonoro.
Honeymoon offre ben quattro diverse melodie modulate con abilità e un uso dell’orchestrazione quasi perfetto, mentre “Music To Watch Boys To” scorre le pagine del trip-hop e del melò con un arioso refrain. Ma il culmine è l’ottima “Terrence Loves You”, che mette insieme il Bowie di “Space Oddity” e il Miles Davis di “Time After Time” su un tappeto sonoro quasi jazz e Lynch-iano fino allo sfinimento, tra fraseggi accennati di sax e un refrain più incisivo che cita il Major Tom del Duca Bianco. 

Come in ogni album della Del Rey, ognuno troverà il suo brano preferito che lo asterrà dalla stroncatura e dall’abbandono definitivo, che sia la minimalistica e quasi ossessiva “God Knows I Tried” o l’elettro-soul di “Freak” (siamo dalle parti dei migliori How To Dress Well), la normalizzante “Religion” o persino la latineggiante e quasi burlesque “Salvatore” (un omaggio al suo ex-ragazzo italiano?). 
Per i più oltranzisti, restano quattro brani su cui allungare lo sguardo e l’orecchio: il moderno soul di “Art Deco”, impreziosito da strappi di sax, il potenziale hit “The Blackest Day”, che spicca per orecchiabilità nonostante il tono dark, ma soprattutto “24”, una torch song con influenze mariachi dove la tensione emotiva è più palpabile e vivida. Anche se sono convinto che sarà la soavità quasi perfetta di “Swan Song” a conquistare i cuori dei più restii (non fosse altro perché lei canta “non canterò più”), un altro esempio di eccellente scrittura e arrangiamento che chiude egregiamente la sequenza aperta con la title track, prima che un'innocua e superflua versione di “Don't Let Me Be Misunderstood” cali il sipario sull’album più volutamente noioso e piatto che Lana abbia inciso fino ad ora. Un altro schiaffo alle regole del business da parte di un’artista che più che inseguire è stata inseguita dal successo, una donna che si mette a nudo con uno strip-tease sonoro che stravolge le regole di quei social dove finzione e realtà si sovrappongono.
Honeymoon è la malinconia e lo sconforto che si nascondono dietro l’esternazione di una felicità apparente, un vaporoso chill-out dove le emozioni scorrono inerti, quasi smarrite, l’album pop più triste e poco confortevole mai inciso da una star delle classifiche.

God bless America

ldr_lflNel 2017, sempre più star del web e del pop planetario, Lana Del Rey chiude un cerchio con l’album Lust For Life, anzi un quadrato, nel cui interno campeggiano le quattro immagini di copertina, legate tra loro da un filo comune impercettibile e nello stesso tempo esplicito. Al volto della cantante si accompagna costantemente un veicolo a motore, dominando un immaginario fotografico che si evolve come in una sequenza cinematografica e letteraria, infine sottolineando un percorso creativo ben definito. Dietro lo sguardo fiero e impenetrabile di Born To Die si nasconde infatti un pick-up: veicolo perfetto per catturare il mito "on the road" di Jack Kerouac e traslocarlo nel modernismo lynchiano tanto caro all'artista. La sensualità tipica dell'eroina del cinema noir è invece protagonista della copertina di Ultraviolence, con una foto in bianco e nero che mette in fila gli horror movie di Roman Polanski e i gangster movie di Francis Ford Coppola. In Honeymoon il volto di Lana è in secondo piano, lei quasi accenna un sorriso, mentre dal bordo della tour-mobile in stile hollywoodiano dice addio al mito, riattivando un contatto diretto con il suo pubblico attraverso un numero telefonico privato (1-800-268-7886) riportato sulla copertina. In Lust For Life l'autrice rimette in moto il vecchio pick-up di Born To Die, ormai malandato e scolorito, esibendo un sorriso estroverso e illusorio, sanando così quel gap temporale che ha spinto molti critici a liquidare la sua musica come nostalgica e conservatrice.

Probabilmente l'unico vero peccato dell'artista americana è quello di utilizzare non solo il linguaggio della sua generazione ma anche i mezzi: perfino le foto appaiono come selfie d'autore, ma attraverso il gioco dei media Lana Del Rey ha dato vita a una nuova tipologia di "diva", mai prona alle logiche di quello star-system che ha inaridito la presenza femminile nella storia del rock relegandola spesso a pura immagine. Dietro la presenza sensuale e "femminile" dell'artista americana c'è un universo sensibile che non appartiene al mondo degli uomini, una dichiarazione d'indipendenza che non cede alle continue lusinghe del facile successo. E’ comunque l'album del rinnovamento, un progetto che apre le porte ad altri artisti al fine di contaminare un assetto stilistico a volte statico, ma nonostante le innumerevoli collaborazioni e concessioni, non v'è alcun accenno di crisi d'identità. Quell'incedere beatlesiano che colora le note di "Tomorrow Never Came" non è un elemento inedito nel canzoniere di Lana Del Rey, la presenza di Sean Lennon rafforza solo sinergie liriche già esistenti (valga come esempio "West Coast"), l'unica novità è quel delicato fragore acustico, che ora evoca piccole perle come "Something" e "Imagine". L'esplicito richiamo alla celeberrima "Creep" dei Radiohead nella conclusiva "Get Free" fa invece il paio con la citazione di "Don't Worry Baby" nell'introduttiva "Love", collocando così su di uno stesso piano passato e presente. Ed è proprio in "Love" e nella frase iniziale che si può racchiudere l'universo della musicista americana: "Guarda i tuoi bambini mentre ascolti musica d'epoca, lei arriva dai satelliti che navigano nello spazio; fai parte del passato ma ora sei nel futuro, i segnali di navigazione possono confonderti, ce n'è abbastanza per farti sentire pazzo, pazzo, pazzo".
Ed è appunto questo strano e disturbante gap temporale la vera rivoluzione culturale della musica di Lust For Life, un album che rafforza i contrasti emotivi sposando malinconie da vecchio film noir con hip-hop e altre suggestioni pescate nel vasto immaginario pop americano. Dalla collaborazione con The Weeknd non nasce solo un geniale elettro-soul dal tono mellow, ma anche una delle canzoni più accattivanti del suo repertorio. In converso dall'interazione con A$AP Rocky, si sviluppano due brani quasi dissonanti tra loro: mentre in "Groupie Love" la voce sale di un'ottava (il canto di Lana sfrutta ben tre ottave) nell'altro brano "Summer Bummer" il tono cala di un'ottava, accordando toni nebbiosi e crepuscolari che si tingono di delicata malinconia.
Con Lust For Life Lana Del Rey ritorna sulle orme di Ultraviolence mettendo a fuoco alcune delle migliori intuizioni liriche: il delizioso tocco noir orchestrale di "13 Beaches" non sfigurerebbe in un futuro episodio di 007, mentre l'eccellente "When The World Was At War We Kept Dancing" proietta tutto nel futuro con una melodia elettroacustica sensuale e malsana, che conferma la capacità di rielaborare e rinnovare gli stessi elementi senza mai cedere alla ripetitività. Progetto più commerciale dai tempi di Born To Die, l'album conferma anche la non appartenenza di Lana al mondo indie, preferendo il suono del pianoforte a quello delle chitarre acustiche in aperto conflitto con il tono indolente del moderno cantautorato folk-pop, ed è in questa guisa che si inserisce il piacevole duetto con Stevie Nicks di "Beautiful People Beautiful Problems".

Lust For Life è un progetto in movimento che cerca di aprire nuovi orizzonti senza perdere identità, ed è anche l'album più esplicitamente politico di Lana: le riflessioni di "Coachella - Woodstock In My Mind" e il femminismo non militante di "God Bless America, And All the Beautiful Women In It" confermano una sensibilità sociale e civile molto delicata, ma è nella già citata "When The World Was At War We Kept Dancing" che l'artista imbraccia le armi e stimola le coscienze ("È la fine di un'era? È la fine dell'America? No, è solo l'inizio, se continuiamo a sperare, avremo un finale felice, quando il mondo era in guerra prima, abbiamo continuato a ballare, e lo faremo ancora"). Un album con il quale Lana Del Rey perfeziona la sinergia tra passato e presente. Un'altra piacevole conferma di un'artista dotata di stile e personalità.

ldr_nfrDopo aver attraversato in lungo e largo le assolate e deserte strade americane, per Lana Del Rey è arrivato il momento di intraprendere il viaggio più avventuroso della sua carriera. Abbandonati pick-up e macchine di lusso, l’artista prende il largo al bordo di uno yacht o barca a vela, in compagnia del figlio di Jack Nicholson, rivoltando come un guanto l’estetica di Norman Rockwell, celebrando a piene mani il suo “realismo romantico”, decantandolo con la grazie e consapevolezza di chi ha ormai raggiunto la piena maturità interiore e artistica, raccontando il definitivo crollo del mito della famiglia perfetta e di tutte quelle icone del modello democratico americano, dietro il quale si nascondono da sempre menzogne sociali e politiche. Già, perché Lana Del Rey è l’antitesi di tutto quello che finora ha rappresentato nei suoi incantevoli album. Il glamour di Born To Die si è evoluto in un anti-glamour, allo status di icona femminile definitiva è subentrato un’estetica normalizzata. Lana è passata in solo due anni da oggetto del residuo maschilismo a prototipo di femminilità consapevole. E in Norman Fucking Rockwell! (2019) la realtà ha sistematicamente vinto sulla rappresentazione. L’improbabile abbraccio simulato in copertina, mentre in lontananza tutto brucia, è l’ennesimo segnale di destabilizzazione del sogno a stelle e strisce. Se questo disco fosse un film sarebbe il perfetto seguito di “Magnolia” e Lana Del Rey la degna sostituta di Aimee Mann.
Eppure, la grandeur di queste quattordici tracce è tale che non c’è bisogno d’immagini per far volare, perdonate il gioco di parole, l’immaginazione. Il potere evocativo di musica e testi è talmente intenso da lasciare attoniti. In una discografia che non conosce punti deboli, Norman Fucking Rockwell! si candida come baluardo creativo, grazie a una scrittura solida e priva di qualsiasi velleità da rockstar. Allo stesso tempo, la scrittura riesce a dare ancora più voce a una generazione apparentemente indolente e sfiduciata. Una generazione che ha comunque deciso di non farsi da parte. Mai come in questo caso il termine sadcore appare appropriato per rappresentare la potenza armonica e lirica di un nuovo progetto. Spogliate di inutili orpelli, per l’esattezza quelli che impedivano ad esempio all’album Born To Die di rappresentare fino in fondo lo sconcerto emotivo della splendida “Video Games”, le canzoni mostrano i muscoli anche quando a far da contorno alla voce c’è il cupo riverbero della chitarra acustica, come accade nell’introduzione di “The Next Best American Record”.
Anche la padronanza delle qualità vocali è sorprendente, e le stratificazioni strumentali sono vicine alla perfezione. Lana Del Rey dialoga con piano e orchestra nel delizioso affresco melò della title track, si muove sinuosa tra le articolate armonie di “Fuck It, I Love You” e ostenta sicurezza e raffinato romanticismo d’antan nello spirituale folk-noise di “Mariners Apartment Complex”, che ha anticipato il timbro west coast e meno stereotipato dell’album.
Tutti gli elementi sono perfettamente incastonati, in Norman Fucking Rockwell!, finanche il tocco vintage e nostalgico ha assunto contorni inediti, insoliti, rappresentati al meglio in quel capolavoro cinematico che è “Venice Bitch”, una canzone che sembra scritta da Leonard Cohen o Joni Mitchell nel corso di un acid-trip, con una coda strumentale che rappresenta il vertice creativo della carriera dell’artista. E’ il secondo singolo di ben sei che anticipano l’uscita dell’album. Un ventaglio di canzoni che intensifica un’attesa divenuta sempre più spasmodica. Un’attesa, tuttavia, ripagata da quattordici perle che rielevano la musa newyorkese a regina indiscussa del pop mondiale. Pop di qualità, sia chiaro. Un modello squisitamente popular scevro da laccature forzate e gingilli di circostanza. Un’impalcatura strumentale e melodica che in “Venice Bitch” tocca vertici per alcuni versi mai raggiunti in carriera. Vette che traspaiono dopo un incipit acustico carezzevole e parole che oltrepassano gli orizzonti della libidine, trasportando l’ascoltatore in un limbo di purezza ed erotismo d’alta scuola, smarrimento e incanto. Il tempo assume una centralità tematica assoluta e l’estensione della propria nostalgia infiamma un’anima sempre più disillusa, ormai matura e pronta ad affrontare una nuova stagione della vita. L’amore per il proprio uomo è avvolto così in una coda psichedelica che sfugge dal canzoniere medio della Del Rey. Un amplesso magico di suoni sintetici che ribollono e si snodano con una poetica sconosciuta.
E’ il miracolo di un disco-capolavoro tanto atteso dai fan, quanto inatteso sul piano dell’ispirazione. Otto anni dopo quel giro in moto di quello che ancora oggi resta uno dei videoclilp semi-amatoriali più cliccati del pop, Lana affronta un nuovo viaggio. Stavolta, è il retro di un'auto che corre su strade imprecisate di una altrettanto imprecisata epoca. Strade che fuggono e che incarnano lo scorrere rapido e inesorabile delle lancette, mentre un tappeto di melodie sinuose e sibili trattenuti inonda la scena, prima che il refrain iniziale torni in auge con il proprio carico di passione, mentre le parole ricollocano i sensi là dove erano rimasti, tra il ricordo di una ferita e quello di un’America svanita.
Neppure gli scampoli di trap e hip-hop che fanno capolino, seppur in pochi sparuti episodi, riescono a scalfire il mood dell’album. La versatilità radio-friendly di “Doin’ Time” - cover di un brano dei Sublime - è graziata da un arrangiamento non invasivo o eccessivo. Oltretutto, nonostante condivida con Taylor Swift la produzione di Jack Antonoff, la Del Rey sembra più che mai poco incline ad abbracciare sonorità più pop, restando fedele alle dichiarazioni dell’artista sulla natura psych-soft e sul mood malinconico/romantico del progetto.

ldr_hopeE’ evidente il legame emotivo e creativo tra Norman Fucking Rockwell! e Ultraviolence. A farla da padrone, sono di nuovo le attitudini blues e country che avevano sottolineato le misteriose e stratificate atmosfere del suo album più coeso, il sopracitato Ultraviolence, almeno fino ad ora, visto che quest’ultima prova pare sempre più destinata a prendere lo scettro. E’ soprattutto nella scrittura che risiede la differenza con gli album passati, e al netto della considerevole mole di brani, non ci sono cedimenti. Confidenziale e limpido, è il romanticismo che sprigiona “Love Song”, mentre ha la stessa intensa suggestione noir di “Video Games” la lynchiana “Cinnamon Girl”, così come ha tutte le caratteristiche del future-classic la pianistica “Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me To Have - But I Have It”. Anche in quest’ultimo caso, il miracolo è doppio: la Del Rey paralizza il tempo con un canto tanto epicamente trattenuto, quanto gonfio d’emozione.
E’ la definitiva presa di coscienza di una ragazza divenuta ormai donna, di una star che abbandona la culla del proprio Olimpo per spogliarsi e toccare con mano i drammi quotidiani e reali di una sopraggiunta femminilità. Sylvia Plath è ancora il riferimento primario della Del Rey, e le parole lasciano poco spazio a ulteriori interpretazioni (“I've been tearing around in my fucking nightgown/ 24/7 Sylvia Plath/ Writing in blood on my walls”). Il disincanto di una maturità sempre più invadente lascia spazio alla gradevole ambiguità che s’insinua nelle atmosfere retrò di “How To Disappear”. Mentre le varie “California”, “Bartender” e “The Next Best American Record”, pur restando ancorate a una formula collaudata, non cedono di certo il passo alla prevedibilità e alla noia. Altre perle disseminate nel disco sono destinate a futura gloria, come l’evocativa “The Greatest”, delizioso affresco con fascinazione propria dei 70, in vaga scia folk/soul alla Carole King, e “Happiness Is A Butterfly”, manifesto ideale della maturità musicale e lirica raggiunta in questo album che considerare magnifico è talvolta dannatamente riduttivo. L’ennesimo miracolo irripetibile di una dea nata per cantare.

Annunciato per i primi mesi del 2020, pubblicato prima in digitale nel mese di luglio e finalmente su audiolibro Violet Bent Backwards Over The Grass è un lavoro ambizioso e atipico: 14 poesie che Del Rey afferma essere state ispirate dallo stile di Sylvia Plath, Allen Ginsberg e Jack Kerouac, la cui colonna sonora è affidata al fedele Jack Antonoff, abile nell’offrire un substrato non molto invadente: un accordo di piano, un pizzico d’elettronica, languori chitarristici e un sassofono che cadenzano toni cupi e angosciosi. Su queste criptiche composizioni, Lana alterna interessanti disamine sul ruolo dell’artista (“LA Who Am I To Love You”) e ingenue citazioni di stili poetici ben assortiti: da Dylan Thomas a Jim Morrison.
La voce, a volte in primo piano (“Never To Heaven”) a volte avvolta nella nebbia di pochi accordi (“Salamand”), sottolinea stati d’animo contrastanti, ricorrendo a evanescenze poetiche (“The Land Of 1,000 Fires”) o tempi recitati più loquaci (“Sportcruiser”), senza alcun timore di deludere le attese o di scivolare in toni grotteschi e ameni. C’è perfino un’insolita tenerezza in alcuni frangenti di Violet Bent Backwards Over The Grass (“The Land Of 1,000 Fires”, “Paradise Is Very Fragile”), questo perché Lana non rinuncia ad alcun modulo espressivo, al fine di rendere fruibile un disco di poesie il cui substrato sonoro non è particolarmente originale. Tra le righe si colgono riferimenti alla crisi climatica (“Paradise Is Very Fragile”) e ai nativi americani, anche se le poesie risultano più intense quando Lana Del Rey affonda le mani nell’intimo e nella sensualità quotidiana (“What Happened When I Left You”, “Happy”).

Violet Bent Backwards Over The Grass è uno dei pochi album di slam poetry che riuscirete a sentire almeno una volta senza provare fastidio, nonostante non manchi una lieve auto-indulgenza capace di causare raramente un senso di noia (“My Bedroom Is A Sacred Place Now - There Are Children At The Foot Of My Bed”), ma va dato atto a Lana Del Rey di aver affrontato questa esperienza di poesia e ambient music senza snaturare se stessa. Non c’è ostentazione o arroganza intellettuale, ma solo una donna alle prese con se stessa. 

Pochi mesi ed ecco arrivare Chemtrails Over The Country Club. Un disco che prosegue nella destabilizzazione dell’intellettuale-chic americano e della concezione maschile della musica folk, entrando con più decisione nell’immaginario cantautorale di Joni MItchell, Joan Baez e Stevie Nicks. Una scelta che trova la consacrazione nella bella versione di “For Free” di Joni Mitchell con Weyes Blood che ruba la scena con un’interpretazione che confonde la percezione al punto da indurti a pensare alla voce dell’autrice del pezzo. Ma non è solo in questo insolito finale che viene fuori la sacralità stilistica del folk della Laurel Canyon Boulevard degli anni 70. La forza residua della controcultura nata in quei luoghi è al centro delle eleganti citazioni folk, rock e blues di “Dance Till We Die” e delle delizie acustiche di “Yosemite”.


Nel fluire più omogeneo di Chemtrails Over The Country Club si nascondono poi prevedibili ripetizioni dei cliché creativi dell’artista, con esiti a volte non molto soddisfacenti, al netto dell’onnipresente grazia (“Let Me Move You Like A Woman”), o con introspezioni che non resistono al trattamento minimal della scrittura e degli arrangiamenti (“Breaking Up Slowly”). L’album mantiene infatti quote basse. Una scelta ovviamente voluta, che quantifica un cambio di passo vellutato. Ogni traccia è una piccola grande carezza. Su tutte però svetta “White Dress”, introdotta dal piano e da una voce sospirata. 5 minuti e mezzo di poesia sussurrata e trattenuta. Il canto è finemente appartato. Lana incarna le fattezze di una sirena del deserto. Un ossimoro metaforico che definisce un brano in apparenza spoglio ma in realtà profondo come il mare. Una canzone che spiazza e disorienta con quel melange di nostalgia senza alcuna enfasi che scorre su tonalità bianche e nere. C’è un nuovo modo di intendere quella cosa chiamata noir. Una nuova estetica dell’anima che passa attraverso le note di un’apertura destinata a entrare nella storia della sua discografia, e non solo. 
Chemtrails Over The Country Club è al contempo il punto d’arrivo e una svolta elegante in vista di un futuro ancora luminoso. Un disco in cui la semplicità gioca un ruolo chiave, e i cui punti di forza sono la mestizia e la riflessione. L’ennesimo centro di una carriera semplicemente unica


Tra rimandi, post criptici sui social e abbandoni repentini di questi ultimi che hanno gettato nello sconforto milioni di fan sparsi lungo il pianeta, è arrivato l’annunciato nuovo disco del 2021, Blue Banisters, dopo l’accattivante e parimenti discusso Chemtrails Over The Country Club. Un flusso produttivo che in parte contraddice le mai sopite accuse di una carriera artistica progettata a tavolino, musicalmente inconsistente. Argomentazioni che ormai appartengono al gossip, soprattutto ai detrattori della prima ora. Ormai Lana Del Rey sembra aver acquisito la stessa valenza di Elton John negli anni 70 con una produzione copiosa e liricamente sempre all’altezza.

 

Annunciato con un post su Instagram il 10 aprile e poi successivamente il 27 Aprile con tanto di titolo e annessa clip della title track, come anticipato poc’anzi, l’opera è stata frutto di continui ripensamenti, e alla fine Mike Dean, spacciato come primo produttore, è responsabile di un unico brano. I primi tre singoli, “Wildflower Wildfire", "Text Book" e "Blue Banisters", hanno sollevato fin da subito qualche buona critica, tuttavia senza suscitare eccessivi clamori. E come se non bassasse, svariati brani sono stati poi recuperati dal cassetto dei ricordi, mentre alcune delle tracce incluse nelle prime tracklist sono scomparse. Si tratta di “Fine China", "I Can Fly", "Rock Candy Sweet" e "Wild One". Scarti che confermano la tipica volubilità della Del Rey.
Ma veniamo al resto. Ciò che cattura fin dalle prima note, è l’ancoraggio netto, in particolare nella prima parte dell’album, alle trame di Norman Fucking Rockwell!, al suo pianismo, alle sue atmosfere. Blue Banisters, al di là del marchio indelebile dell’artista, offre inoltre spunti di riflessione e apprezzamento, nonché elementi di “novità”. Il più evidente è che per la prima volta Lana Del Rey rinuncia spesso al consueto languore interpretativo per una più matura e versatile agilità espressiva. Il canto è terribilmente pulito. Si prendano da esempio i vocalizzi di “Arcadia” e “Beautiful”. C’è addirittura dell’altro: in “Dealer” l’ugola muta a seconda dell’occasione come mai in passato.

Sono canzoni dalla scrittura solida che sfumano una nell’altra, dando spesso l’impressione di ritrovarsi all’interno delle stessa pellicola. Una soundtrack di una storia immaginaria, tra rimpianti, sorrisi, strofe birichine, metafore erotiche e romantiche effusioni. Basta un attimo e la decima opera di Lana Del Rey svolta verso l’estasi, offrendo nell’altra metà del piatto una canzoni più belle della sua discografia: “Violets For Roses”. L’avvio è epico quanto il crescendo del refrain. E’ una ballata indimenticabile fin dal primo ascolto. Un instant classic, per farla in breve. Poco più di quattro minuti al piano da tramandare ai posteri. L’ennesimo miracolo di una Dea che ha il dono di paralizzare il tempo e addolcirlo con poche note.  

Quello che accade in seguito è uno strano cambio di registro inaugurato da “Dealer”, brano in prima istanza concepito per l’abortito progetto in collaborazione con i Last Shadow Puppets, per un duetto con Miles Kane che oltre a spezzare con una sezione ritmica più solida l’atmosfera soffusa del disco, beneficia di un’interpretazione sopra le righe di Lana, per l’occasione perfetta interprete oltre che autrice. E non stupisce che anche la successiva “Thunder” provenga dalle stesse sessioni. Una canzone scritta con Zach Dawes e dalla melodia ancora più accattivante. E’ l’altro piccolo grande miracolo del lotto. Con “Wildflower Wildfire”, Lana ripristina poi il consueto mood irresistibile da gatta morta, sognando qui e là Kate Bush (!), prima che un delicatissimo gospel-soul marchi i sentieri di “Nectar Of The Gods”, in uno slancio blues che apre nuove frontiere.

E’ in questa conversione a getto continuo che Blue Banisters assume le fattezze del grande album. Un disco dalle due facce, dalla doppia anima. E solo a primo acchito univoco. Cosa dire infine della coda di “Living Legend” con la voce che emula un’armonica a bocca, suggellando una ballatona acustica d’altri tempi? E delle lacrime trattenute in “Cherry Blossom” o quelle asciugate in “Sweet Carolina”? Lana canta come una musa che si lascia travolgere dal proprio destino. Sogna una vita semplice, una fattoria e un mondo appartato. Il breve (ed evitabile) interludio in omaggio a Morricone ne è la prova. Con “Blue Banisters”, Lana ha definitivamente bruciato ogni rancore. E lo sguardo fermo in copertina, seduta sul terrazzino con i suoi due bei pastori tedeschi, conferma l’umore del momento.

 

Dopo otto album impregnati di amori difficili e peccaminosi, di bar e locali equivoci, droghe e ingannevole way of life americana, nel 2023 per Lana sembra essere giunto il tempo del “born to live”, la cui costante resta il romanticismo hollywoodianoDid You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd (2023) espone fin dalla title track gli umori di una donna matura che contempla la boa prima di girarci intorno, chiedendosi, innanzitutto, “when's it gonna be my turn?”. Un interrogativo che nasconde, forse, anche la sua voglia di diventare madre, per un instant classic che ha nel refrain una potenza melodica fuori dall’ordinario. E’ difatti una nuova "Bridge Over Troubled Water" che conferma, per la nona volta in questi ultimi lunghissimi tredici anni, l’estro di un talento eternamente vibrante. Lana canta di scopate a morte, tra specchi d’argento e piastrelle dipinte sul muro. Il suo labirinto è un eden nascosto ed entro cui continuare a celarsi per non smettere mai di sognare. Ad un certo punto, Lana cita pure Harry Nilsson e spera un giorno di trovare un amico come lui, qualcuno che riesca darle il cinque, prima di appoggiarsi alla sua schiena e sussurrarle all’orecchio: “Come on, baby, you can drive". 
Dopo una canzone così e una altrettanto notevole open track, “The Grant”, ballata in scia gospel dedicata ai suoi cari, Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd subisce una serie di frenate alterne, come la piacevole ma prevedibile  “Candy Necklace”, racchiusa tra due sermoni alla fine eccessivi e che smorzano l’impatto delle successive tracce: una “Kintsugi” che sembra uscita da “Arial” di Kate Bush e una struggente “Fingertips”, che con la sua aspra vena melodica e le ansie messe a nudo dall’autrice si candida come il momento più doloroso e poetico dai tempi di “Video Games”.
Insomma, ci si ritrova presto al cospetto di piacevoli montagne russe. Perché Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd non è di certo l’album più coraggioso di Lana Del Rey, ma è senza dubbio quello più ricco di auspici per il futuro. E anche quello per cui è lecito sperare che Lana saluti per qualche tempo il buon Jack Antonoff, alla cui fidanzata, Margaret Qualley, è appunto dedicata “Margaret”, cantata in duetto con lo stesso Antonoff e i suoi Bleachers. La ripetitività delle melodie è, al netto di questa ovvia constatazione, ancora attraente. La leggerezza di “Paris Texas” ha infatti il candore di un vecchio carillon, mentre la collaborazione con Father John Misty in “Let The Light In” evidenzia una vulnerabilità armonica inedita e più tipicamente country. “Fishtail” scivola poi dal soul alla trap con la consueta eleganza, inaugurando un trittico finale ricco di luci e ombre.
C’è anche il divertente gioco verbale-musicale di “Peppers”, che resta senza dubbio il punto debole dell’album: un crossover hip-hop goffo e impacciato. Stesso vale per il remake di “Venice Beach”, rimodellato come “Taco Truck x VB”: pescare dal proprio canzoniere indica sempre una certa stanchezza. Questa ultima parte, dunque, appare come una zavorra dalla quale Del Rey quasi non riesce a liberarsi. Ma tracce della Lana più passionale e poeticamente maledetta risorgono nella splendida “A&W”, che musicalmente sposta la delicatezza del trittico iniziale verso un mood elettronico aspro, fino a rimettere al centro tematiche bollenti: “A&W”  è infatti una nota catena di fast-food statunitense e allo stesso tempo racchiude nei termini “America” e “Whore” una visione. L’ennesima grandiosa biforcazione del viaggio poetico di Lana Del Rey.

Lana Del Rey

Discografia

Sirens (demo as May Jailer, 2006)

Kill Kill (Five Points Records, 2008)

Lana Del Ray A.K.A. Lizzy Grant (Five Points Records, 2010)

6

Born To Die (Interscope, 2012)

7

Paradise (Interscope/Polydor, 2012)

7

Ultraviolence (Interscope/Polydor, 2014)

8

Honeymoon (Polydor /Interscope, 2015)

7,5

Lust For Life (Interscope/Polydor, 2017)

7,5

Norman Fucking Rockwell!(Polydor/Interscope, 2019)

8,5

Violet Bent Backwards Over The Grass(Polydor/Interscope, 2020)

6,5

Chemtrails Over The Country Club(Polydor, 2021)

7,5

Blue Banisters (Polydor, 2021)

7,5

Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd (Polydor, 2023)

7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Video Games
(da Born To Die, 2012)

Born To Die
(da Born To Die, 2012)

West Coast
(da Ultraviolence, 2014)

Ultraviolence
(da Ultraviolence, 2014)

Music To Watch Boys To
(da Honeymoon, 2015)

Love
(da Lust For Life, 2017)

White Mustang
(da Lust For Life, 2017)

  

Venice Bitch
(da Norman Fucking Rockwell, 2019)

 

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