"La sirena del rock", "la Nico chicana", "il fantasma dal cuore spezzato". Sono tante le immagini ad effetto usate dalla stampa musicale per descrivere una delle cantanti più sensuali e seducenti che abbiano calcato le scene pop degli ultimi vent'anni: Hope Sandoval. I più la ricordano come magica chanteuse dei Mazzy Star, una delle rivelazioni dell'ultimo decennio in ambito psych-pop. Ma, pur senza mettere la parola fine a quella esperienza, la fascinosa Hope ha dato vita di recente a una carriera solista che ha confermato in buona parte il suo talento di "musa" ammaliatrice della nuova scena indie d'oltre Oceano.
Nata nel 1966 a Los Angeles, cresciuta nella parte Est della città con la sua famiglia di origine messicana, Hope Sandoval ha esordito nel 1986 nei Going Home, insieme all'amica Sylvia Gomez. Il repertorio folk del duo ottiene un discreto successo nel circuito dei club californiani e quando Sylvia invia un nastro a Kendra Smith (Dream Syndicate) arriva la svolta. David Roback, insieme a Smith negli Opal, si offre come produttore del duo.
Nel 1987, durante un tour degli Opal, Kendra Smith scompare e Roback propone a Hope di sostituirla. Al ritorno di Kendra Smith, nasce una discussione che termina con il suo abbandono e con il consolidamento del duo David Roback-Hope Sandoval in una nuova band, chiamata Mazzy Star.
Ma Hope non è la solita ragazza-immagine, capace di attirare qualche spettatore in più ai concerti ancheggiando sul palco. E' lei a incaricarsi di comporre i testi, ma non è certo una party-girl: limita al massimo le apparizioni in pubblico e nasconde dietro il microfono una personalità timidissima. "Preferisco lo studio di registrazione al palco - ammette senza esitazioni - Dal vivo, divento nervosa, sul palco mi risulta molto difficile muovermi e parlare con il pubblico. Canto e basta".
Ma è anche questo suo fascino enigmatico a renderla un personaggio speciale nella variegata scena indie dei Novanta. Quasi un'icona mistica di quel pop onirico e psichedelico che costituisce il Dna dei Mazzy Star.
Mentre la furia nichilista del grunge divora l’America, una generazione di musicisti si rifugia in cameretta a sognare con le ninnananne dream-pop e le vertigini shoegaze, magari filtrate dalla sensibilità di numi indie-rock come Galaxie 500 e Yo La Tengo.
Band quali Codeine e Low trasfigurano il rock, scarnificandone il nucleo e lasciandolo fluttuare in tessiture dilatate ed esangui. La narcolessia si fa musica.
I Mazzy Star introducono una decisiva variante alla formula, facendo valere il loro background psichedelico (Roback aveva fatto parte del Paisley Underground, scuola tutta chitarre e nostalgie flower-power) e un talento melodico d’ascendenza folk-pop.
She Hangs Brightly, album di debutto di questo ensemble di ben sette elementi, si situa sulla falsariga degli Opal, lungo i sentieri di un pop dalle tinte eteree e trasognate, perso in una nebulosa di suoni e tintinnii.
I Mazzy Star passano in rassegna una moltitudine di stili: dal country al folk, dal blues del Delta al rock psichedelico, dal soul al noir.
I brani scorrono impalpabili, costruiti su esili strutture armoniche, dalle esangui "Halah" e "Be My Angel" alle più "blueseggianti" "Taste of Blood" e "I'm Sailing".
Le melodie esili di "Ride It On" e "Give You My Lovin" conferiscono un senso di serenità quasi celestiale, appena "turbato" dalla nenia oscura della title track. Il registro tenue e sensuale di Sandoval conferisce ai brani quel tocco di magia in più.
Tre anni dopo, esce So Tonight That I Might See (1993), che accentua la dimensione onirica e spettrale della loro musica. Più che la psichedelia classica dei Jefferson Airplane, il modello sono ora i cerimoniali torbidi di Doors e Velvet Underground.
Il singolo "Fade Into You" esprime proprio il senso di un’evanescenza d’amorosi sensi: un piano soave, tenui tocchi di slide e tamburello a incorniciare una melodia struggente, cantilenata da Sandoval col suo tipico bisbiglio diafano e fatato, per una delle più belle ballate del decennio. L'altra serenata al chiaro di luna è la cover della "Five String Serenade" dei Love, con il violino a infondere dolci languori folk-pop. Una dolcezza che scivola nella trance in "Bells Ring", grazie a una vertigine di distorsioni e riverberi shoegaze, e ancor di più in "Mary Of Silence", raga per colpi d’organo dalle cadenze sonnambule, dove il salmodiare à-la Nico di Sandoval si fa sempre più distaccato, mentre Roback tesse una fitta trama di feedback e wah-wah.
Ma il disco non è solo estasi indolenzite e svenimenti melodici. Su "Bells Rising", ad esempio, sale in cattedra il chitarrismo acido di Roback. "Wasted" rivisita in chiave letargica un classico riff blues. "She's My Baby" sfodera un vibrante rock’n’roll. Il transfer si completa con "Blue Light", lentone atmosferico che conduce in un fumoso night-club degli anni 50.
Le ballate folk di "Unrested" e "Into Dust" preparano il terreno per l'apoteosi finale della title track. Un mantra narcolettico di oltre sette minuti, che aggiorna la "Venus In Furs" dei Velvet Underground al tempo dello slow-core, tra ritmo tribale, echi, droni di chitarre e riverberi; Sandoval è la vestale del tempio, ma ormai è distante, irraggiungibile. Un'allucinazione.
Hope, che vuol dire "speranza", si conferma invece "la voce della malinconia", quasi una "Emily Dickinson della generazione narcolettica", come è stata definita. E tra le note, filtra un rivolo di inquietudine dark.
Come Taylor Parke ha sottolineato sulle colonne del Melody Maker: "Se il rock and roll è morto, questo disco è la luna sulla sua tomba".
Il repertorio dei Mazzy Star non cambia molto con il successivo Among My Swan (1996). Tornano le filastrocche delicate alla Nico ("Disappear" e "Happy"), ma anche le atmosfere country di "All Your Sisters" e la solennità misticheggiante di "Cry Cry" e "Take Everything", ma non manca anche qualche richiamo esotico, come nella sinuosa "Rhymes Of An Hour", con spezie d'Oriente e ricami di chitarra. Molti i riferimenti, da Cohen a Dylan, da Neil Young ai Cowboy Junkies, fino alla scena del Paisley Underground, per un pugno di ballate "psico-folk-rock" che possono apparire, a seconda dei gusti, magiche o soporifere.
Ad emergere, comunque, è sempre il talento di Sandoval, anche in veste di autrice. "Le mie canzoni nascono per caso - racconta - nelle situazioni emotive più svariate. Quando si sente il bisogno di esprimere un'emozione in una canzone, in un quadro o in una poesia, qualunque cosa può diventare il motivo giusto per farlo. Qualsiasi emozione diventa importante. Anzi la più importante in quel preciso momento".
Accantonata per il momento l'esperienza dei Mazzy Star, Hope Sandoval fonda una nuova band, i Warm Inventions, in compagnia dell'ex batterista dei My Bloody Valentine, Colm O'Ciosoig. "E' un progetto che ha preso lentamente forma solo dopo il mio incontro con Colm a San Francisco - spiega Sandoval -. Abbiamo cominciato a frequentarci parecchio e nel frattempo entrambi scrivevamo canzoni e ci lavoravamo su insieme. Alla fine ne avevamo registrate abbastanza da poterle riunire in un disco".
Così dopo l'Ep "di prova" At The Doorway Again, il progetto si perfeziona nell'album Bavarian Fruit Bread (Rough Trade, 2002) che vanta la presenza alla chitarra dell'ex-Pentangle Bert Jansch.
Attingendo dal pop francese di Serge Gainsbourg, dal cantautorato introspettivo di Tim Buckley e Harry Nilsson e dal folk inglese, i Warm Inventions danno vita a un sound suggestivo, che riprende certe atmosfere di film noir ("On the Low") o western (la cover di "Butterfly Morning", dalla colonna sonora di "The Ballad Of Cable Hogue" di Sam Pekinpah) e del Dylan di "Blonde on Blonde" ("Suzanne"), che spazia dalle sontuose movenze folk di "Drop" (firmata da William Reid, ex Jesus And Mary Chain) e della commovente "Charlotte" alla malinconia implacabile di "Around my smile", dalla melodia magnetica di "Feeling of Gaze", accompagnata da un tenero violoncello, alla lunga ballata psichedelica di "Lose Me On The Way".
I brani sono suonati con delicata semplicità, con tempi rallentati e il tratteggio fine di pochi strumenti. Gli arrangiamenti sono sempre eleganti, con la chitarra acustica spesso arpeggiata, timidi inserimenti elettrici e rari abbellimenti di armonica, tromba, glockenspiel e violoncello. Hope Sandoval sparge dolcezza e malinconia a piene mani, intessendo i suoi soavi vocalizzi, ma sembra mantenersi appartata nel suo guscio. Come ha scritto il critico Riccardo Bertoncelli, infatti, "questa musica, bella e voluttuosa, comunica una distanza: Hope è solo apparentemente qui, ma in realtà si nasconde in uno strano anfratto dello spirito, in un mondo lontano e rarefatto di cui ci narra con una voce che, per non essere sopraffatta dall'emozione, è diventata chiara e tagliente come un cristallo".
I madrigali folk-rock di Bavarian Fruit Bread sono quanto di più lontano possa esistere dai ritmi del blues e del soul, ma ne conservano intatto lo spirito caldo e malinconico, la capacità di parlare "da cuore a cuore". Sono un concentrato di sensibilità e tenerezza che, come ha scritto lo stesso Bertoncelli, offre "una via di fuga dalle volgarità del rock loud and noisy".
Quando tutti o quasi coloro che sono stati stregati dal fascino di Hope Sandoval si erano ormai rassegnati a sentirla comparire soltanto in collaborazioni saltuarie (al fianco di Air, Death In Vegas, Vetiver, Chemical Brothers, Twilight Singers, etc.), eccola tornare con un nuovo album insieme ai Warm Inventions, ben otto anni di distanza da Bavarian Fruit Bread.
Registrato tra la North Carolina e l'Irlanda, Throught The Devil Softly riprende il discorso esattamente da dove si era interrotto, atteggiandosi quale fedele rappresentazione di tutto quanto ci si potrebbe attendere da Hope Sandoval: melodie sinuose, gentili arpeggi acustici, sussurri di rara sensualità e qualche riverbero psichedelico. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti a rendere l'album prevedibile o affatto scontato, poiché l'accurato dosaggio della voce della Sandoval si sposa alla perfezione con contesti sonori il cui avvicendarsi ne sancisce la splendida forma interpretativa e la grande cura riposta nei minimi dettagli armonici e nelle stesse cadenze dei testi, che sembrano studiati su misura per esaltare il fascino di un cantato sempre unico.
A Hope Sandoval basta davvero poco per materializzare nuovamente il morbido abbraccio di atmosfere raffinate e mai stucchevoli, sia che si manifestino nell'avvincente immediatezza di ballate sobriamente eleganti ("Blanchard", "Wild Roses", "Sets The Blaze"), sia che si lascino andare a ipnotici mantra in crescendo ("Trouble", "Fall Aside") o al ricorrente romanticismo degli archi ("Thinking Like That").
In Through The Devil Softly, Hope Sandoval sembra essere riuscita a fermare il tempo, confezionando un lavoro che sfugge a ogni limitante categorizzazione temporale, per votarsi invece all'ideale assoluto di una bellezza inossidabile, che l'artista americana, anche dopo aver superato la soglia dei quarant'anni, non cessa di incarnare in maniera magistrale.
Nel 2013, a sorpresa, viene annunciato il ritorno dei Mazzy Star, a 17 anni dalla loro ultima prova discografica. Il nuovo album, registrato in California e Norvegia, prodotto da David Roback e Hope Sandoval, e in uscita sulla personale Rhymes Of An Hour Records, s’intitola Season Of Your Day e vede la partecipazione di tutti i membri originali della band di Santa Monica, più alcuni ospiti, tra cui Colm O’Ciosoig (My Bloody Valentine) e il leggendario chitarrista scozzese Bert Jansch, scomparso nel 2011. Dieci brani tra i 4 e i 6/7 minuti di durata; un impianto dal caldo cuore acustico, impreziosito dall’eccellente lavoro chitarristico di Roback, sempre abile e discreto nell’accompagnamento, efficace nelle svisate slide e nel punteggiare di elettrica gli spazi tra una strofa e l’altra. L’altro fulcro espressivo è senz’altro Hope Sandoval, eterna bambola piena di grazia, cantante misteriosa e affascinante. A completare il quadro occasionali tastiere, glockenspiel e organo, quindi una sezione ritmica contenuta, mai sopra le righe.
E’ un organo Wurlitzer ad accompagnarci per mano all’interno della prima traccia, “In The Kingdom”, e sembra subito che poco o nulla sia cambiato rispetto a 17 anni fa. Nella dimensione dei Mazzy Star è come se fosse passato solo un giorno, mentre le onde di questo sogno psichedelico sciabordano via lo spazio e il tempo. Tempi medi e tenui ballate acustiche restano la norma, a discapito degli episodi più acidi di cui pure i “ragazzi” furono validi rappresentanti: dell’antico filone resta quasi solo la conclusiva “Flying Low”, uno slow blues lisergico e inquietante, tra Hendrix e primi Pink Floyd. Un singolo potenziale – “Let Myself Down” - a sintetizzare il discorso e almeno un paio di ripetizioni tutto sommato poco utili (per chi scrive, si tratta della title track e di “Sparrow”). Ma soprattutto un grande e compianto Bert Jansch, a ricamare con la sua acustica la litania di “Spoon”.
Il resto, o almeno gran parte del resto, è affidato a rilassanti momenti da falò sotto le stelle, morbide dichiarazioni sussurrate, spoglie e suadenti: più che a Nico o ai Cocteau Twins, verrebbe quasi da pensare ai Led Zeppelin bucolici del terzo e quarto capitolo. Ovvero quattro sognatori inglesi che dal loro cottage bramavano la California, in compagnia di David Crosby o di Joni Mitchell. E allora in qualche modo tutto torna, e la ruota panoramica riprende a girare proprio come faceva nei primi anni Novanta: tutto è cambiato eppure nulla è diverso. Almeno nel Luna Park dei Mazzy Star.
Tre anni dopo con il prezioso aiuto di Colm O Ciosoig (My Bloody Valentine), la cantante americana mette insieme un nuovo capitolo con i Warm Inventions, un album ancor più convincente e solido, con una sequenza di brani dalle molteplici sfumature, eppur stilisticamente riconoscibile.
Come Giano bifronte Until The Hunter getta lo sguardo al passato e al futuro, scovando nuove liturgie da intingere in preziose sfumature psichedeliche, che fluttuano sulle gelide movenze di un organo che dissipa calore e magia per ben nove minuti di estatica bellezza (“Into The Trees“).
Quello che si accoda è una collezione di ballad delicate e trasognanti, materia grezza che la voce di Hope Sandoval rende pregevole e unica.
Col passar del tempo la musica dell’artista americana si è insinuata nell’immaginario cinematografico, enfatizzandone la suggestione visuale, spazi deserti e solitari luoghi notturni, hanno catturato nei loro potenziali pixel le sue inflessioni più sinuose e minimali (“Day Disguise”).
Ed è per questa singolare sinergia tra immagini e canto, che non appare strano e curioso scorgere le medesime apprensioni stilistiche di Lana Del Rey (“Treasure”, “A Wonderful Seed”), temperate da una scrittura più devota alle strutture del rock (“The Peasant”) e della psichedelia (“Salt Of The Sea”).
La sensazione più intensa e conciliante è offerta dalla voce di Hope Sandoval, sempre sicura eppur timida (“Isn’t It True “), a volte quasi acerba e insicura (“The Hiking Sea”), improvvisamente fiera e rigogliosa ( l’eccellente duetto con Kurt Vile “Let Me Get There”) e infine confidenziale e leale (”Liquid Lady”).
Dopo cinque anni il duo torna col breve Ep Still, contenente appena tre brani inediti e una cover di una delle loro tracce più importanti, il fenomenale trip raga di “So Tonight That I Might See”. Tre soli brani nuovi ma i californiani dimostrano di aver sempre in mano il grimaldello per aprire le porte per farci entrare nel loro mondo perduto.
“Quiet, The Winter Harbour” è una ballata malinconica degna delle notti fumose di "Twin Peaks", introdotta da un breve piano classico cui segue la chitarra magnifica di Roback, tanto lenta e ipnotica da dar l’impressione di non dover mai finire. Il folk psichedelico di “That Way Again” è un viaggio nel tempo tra Joni Mitchell e Jerry Garcia, una sonnolenta escursione nella storia degli anni 60 al rallentatore. I Mazzy Star continuano a non inventare nulla, ma tutto è sempre perfetto e irresistibile. “Still” (come dire “ci siamo ancora”) è più anomala con il suo chitarrismo scarno ed essenziale, la voce parlata di Sandoval e un arco in sottofondo simile ai leggendari bordoni di John Cale nei Velvet Underground.
La chiusura poteva essere un clamoroso rischio; proporre una versione alternativa di un brano fondamentale degli anni 90 come “So Tonight That I Might See” dimostra una buona dose di coraggio. Se la versione del 1993 era stata il vertice di un album capolavoro, mirabile allucinazione slow-core tra Velvet Underground e Doors, quella del 2018 si libera di ogni struttura per avventurarsi in improvvisazioni senza ritmi con chitarre iperlisergiche che ricordano quelle di Conny Veit di “Hosianna Mantra”, percussioni tribali in stile Maureen Tucker e lunghi tappeti di synth parenti dei viaggi cosmici degli Ash Ra Tempel. Non era facile reggere il confronto con la versione del 1993, ma per quanto nel complesso sia inferiore, questa nuova versione ha una sua originalità e un suo interesse. I Mazzy Star sono ancora tra noi, nel loro mondo ci si sente ancora a casa dopo ben 28 anni.
Ma il 25 febbraio 2020 arriva, come un fulmine a ciel sereno, una notizia tragica che gela i fan: è morto David Roback. Il co-fondatore dei Mazzy Star aveva 61 anni.
Contributi di Raffaello Russo ("Through The Devil Softly"), Ariel Bertoldo ("Seasons Of Your Day"), Gianfranco Marmoro ("Until The Hunter"), Valerio D'Onofrio ("Still Ep")
MAZZY STAR | ||
She Hangs Brightly (Capitol, 1990) | 7 | |
So Tonight That I Might See (Capitol, 1993) | 9 | |
Among My Swan (Capitol, 1996) | 6,5 | |
Season Of Your Day (Rhymes Of An Hour Records, 2013) | 6,5 | |
Still Ep (autoprodotto, 2018) | 7 | |
HOPE SANDOVAL & THE WARM INVENTIONS | ||
Bavarian Fruit Bread (Sanctuary, 2001) | 7 | |
Through The Devil Softly (Nettwerk, 2009) | 7 | |
Until The Hunter ( Tendril Tales, 2016) | 7,5 |
Sito ufficiale | |
Testi | |
VIDEO | |
Fade Into You (videoclip da So Tonight That I Might See, 1993) |