"Se il rock and roll è morto, questo disco è la luna sulla sua tomba"
Taylor Parke, Melody Maker
Una sirena. O più probabilmente un fantasma. Magari quello di una fanciulla dal cuore spezzato che si aggira tra le rovine di un castello o tra le nebbie della brughiera. Di certo, una creatura fuori dall'ordinario, mesmerica e ammaliatrice oltre ogni umana immaginazione.
Hope Sandoval è già di per sé un caso musicale. Giovanissima mezzosangue messicana di Los Angeles, dotata di un canto etereo e fantasmagorico (per l'appunto...) ma al tempo stesso sensuale e avvolgente, accompagna il dissolvimento degli Opal sostituendo di fatto Kendra Smith e proseguendo la loro traiettoria sotto la nuova sigla Mazzy Star, al fianco del chitarrista David Roback.
Mentre la furia nichilista del grunge divora l'America, una generazione di musicisti si rifugia in cameretta a sognare con le ninnananne dream-pop e le vertigini shoegaze, magari filtrate dalla sensibilità di numi indie-rock come Galaxie 500 e Yo La Tengo.
Band quali Codeine e Low trasfigurano il rock, scarnificandone il nucleo e lasciandolo fluttuare in tessiture dilatate ed esangui. La narcolessia si fa musica.
I Mazzy Star introducono una decisiva variante alla formula, facendo valere il loro background psichedelico (Roback aveva fatto parte del Paisley Underground, scuola tutta chitarre e nostalgie flower-power) e un talento melodico d'ascendenza folk-pop.
Fin dall'esordio del 1990 "She Hangs Brightly", questo ensemble di ben sette elementi (imperniato in realtà sul duo Sandoval-Roback più musicisti a supporto) delinea un nuovo concetto di pop psichedelico, trasognato ed evanescente. Una formula che dovrà però attendere l'opera seconda per raggiungere il suo zenit.
"So Tonight That I Might See" (1993) accentua la dimensione onirica della loro musica, indulgendo in ambientazioni allungate e spettrali. Più che la psichedelia classica dei Jefferson Airplane, il modello sono ora i cerimoniali torbidi di Doors e Velvet Underground, rielaborati in chiave abulica e dimessa.
Volendo esagerare, l'iniziale "Fade Into You" si potrebbe definire "la Sound Of Silence degli anni 90". Se non altro per il comune afflato: la malinconia e la quiete come rifugio individuale di fronte all'esplosione di fenomeni di massa (la contestazione allora, il grunge qui), l'altra faccia, introversa ma non meno intensa, dei drammi giovanili del periodo. E la sintonia generazionale verrà confermata dai ripetuti passaggi nelle college-radio, nonché dalle vendite: sarà l'unico singolo dei Mazzy Star a entrare nella Billboard Hot 100, piazzandosi al 44° posto, e nella Uk Chart (n. 48).
"Fade Into You" esprime proprio il senso di un'evanescenza d'amorosi sensi: un piano soave, tenui tocchi di slide e tamburello a incorniciare una melodia struggente, cantilenata da Sandoval col suo tipico bisbiglio diafano e fatato, per una delle più belle ballate del decennio.
L'altra serenata al chiaro di luna è la cover della "Five String Serenade" dei Love, con il violino a infondere dolci languori folk-pop. Una dolcezza che scivola nella trance in "Bells Ring", grazie a una vertigine di distorsioni e riverberi shoegaze, e ancor di più in "Mary Of Silence", raga per colpi d'organo dalle cadenze sonnambule, dove il salmodiare à-la Nico di Sandoval si fa sempre più distaccato, mentre Roback tesse una fitta trama di feedback e wah-wah.
Ma "So Tonight That I Might See" non è solo estasi indolenzite e svenimenti melodici. Su "Bells Ring", ad esempio, sale in cattedra il chitarrismo acido di Roback, che forgia un rock al ralenti dalla coda arroventata. "Wasted" rivisita in chiave letargica un classico riff blues, con una chitarra sferzante a contrappuntare i vagiti celestiali di Sandoval. "She's My Baby" sfodera addirittura un numero di vibrante rock 'n' roll, con tanto di assolo di chitarra elettrica, solo in parte stemperato dall'eco eterea della chanteuse. Il transfer si completa con "Blue Light", lentone atmosferico che conduce direttamente in un'altra epoca, in un fumoso night-club degli anni Cinquanta, sulle note di un organo vintage e di una chitarra acustica che sbava dietro i vocalizzi soft di Hope.
Le ballate folk di "Unreflected" e "Into Dust" preparano il terreno per l'apoteosi finale della title track. Un mantra narcolettico di oltre sette minuti, che aggiorna la "Venus In Furs" dei Velvet Underground al tempo dello slow-core, tra ritmo tribale, echi, droni di chitarre e riverberi; Hope è la vestale del tempio, ma ormai è distante, irraggiungibile. Un'allucinazione.
Se la psichedelia dei Sessanta era baccanale e stordimento dei sensi, quella dei Mazzy Star insegue la stasi, il collasso finale. E dietro l'apparenza idilliaca, mostra un volto ancor più cupo e drammatico. Quello di una generazione depressa, che non riesce a scuotersi dal suo torpore.
Il mondo è un vampiro e Hope Sandoval è il suo fantasma.
27/03/2008