Gli anni Novanta sono stati costantemente attraversati da una vena malinconica e indolente, da un umore depresso che ha generato una moltitudine di movimenti musicali (dal cantautorato lo-fi di Smog al tenue pop psichedelico dei Mazzy Star fino allo slo-core anemico di Low e Red House Painters). Quasi in reazione alla grande ubriacatura degli anni Ottanta, all'edonismo che li ha contraddistinti e alla (residua) rabbia post-punk, una generazione di musicisti si è dedicata alla riscoperta delle trame crepuscolari di autori come Leonard Cohen, Tim Buckley e Nick Drake, coniugandole con le partiture cerebrali del nascente post-rock. Agli sgoccioli del decennio precedente, però, i newyorkesi Galaxie 500 avevano già tracciato la via, con un pugno di ballate languide e dimesse, intrise di nostalgia e desolazione.
Nati su iniziativa di tre laureati di Harvard - Naomi Yang (basso), Damon Krukowski (batteria) e il neozelandese Dean Wareham (chitarra e canto) - i Galaxie 500 debuttano con il singolo "Tugboat" dalle tinte vagamente psichedeliche. L'album d'esordio "Today" (1988) perfeziona quello stile, accentuandone gli effetti "estatici" e trascendenti ("Oblivious", "Flowers", "It's Getting Late").
"On Fire" (1989), con la produzione di Kramer, sorta di guru psichedelico dell'epoca e a tutti gli affetti membro aggiunto della band, è il disco della consacrazione. Qui le tenere cartilagini sonore dei Galaxie 500 acquistano davvero un senso quasi mistico. Le atmosfere, sempre più dimesse e abuliche, sono prossime alla trance. Le loro ballate, così intime e struggenti, toccano l'animo umano con la grazia di una carezza e sembrano quasi purificarlo d'ogni affanno terreno, in una lunga, sfibrante opera di catarsi. L'inquietudine di fondo di questi brani viene progressivamente interiorizzata, fino ad assumere tinte sempre più sfocate e astratte. Gli arrangiamenti riescono a ottenere il massimo d'intensità con il minimo di orpelli sonori. Sono sempre pacati e lineari, ma mai banali. Uno strato minimale di chitarre, basso e batteria fa generalmente da sfondo alla voce trasognata di Wareham, intenta a sussurrare melodie delicate; pochissimi gli elementi di disturbo: rari gli assoli, le sovrapposizioni di voci, i cambi di tempo. L'iniziale "Blue Thunder" abbina allo strimpellio di chitarra e a un basso sornione, il cantato in falsetto di Wareham, emulo dei voli pindarici di Frankie Valli.
"Tell Me" sprofonda in catalessi, con una chitarra sempre più ipnotica ad accompagnare la voce esile del cantante, in una soave melodia. Il testo non è altro che un confessione a cuore aperto: "Jesus, can't you see I'm going 'round the bend?". "Snowstorm" è un altro saggio della loro arte incantatrice: la batteria appena accennata di Krukowski's e il liquido solo chitarristico di Wareham conducono il gioco, ma senza mai dominarlo, mentre il basso di Yang s'insinua, narcotico come non mai; quindi, i vocalizzi di Wareham si fanno via via più intensi e anche il drumming sale di ritmo, ma senza mai risultare invadente. La malinconia inestinguibile di "Strange", con chitarra stavolta più serrata, in una cavalcata struggente da crepuscolo del West, riesce a rievocare persino i momenti più lirici di Neil Young; l'elettricità è palpabile anche in "When Will You Come Home", uno degli episodi più autenticamente "rock" del disco, con un riff di chitarra crudo, reminiscente dei tardi Velvet Underground.
Ma la nostalgia più maliarda torna a graffiare nella ballatona acustica di "Decomposing Trees", con un sassofono jazz che si fa largo aggiungendo un tocco di fascino "notturno" in più. E' Yang a cantare su "Another Day", supportata dalla chitarra sostenuta e dai "vocals" di sostegno di Wareham nel coro finale. L'armonica nell'avvio di "Live The Planet" riecheggia un Dylan d'annata, ma è ancora la chitarra lo strumento principe, unita stavolta a un drumming incalzante. In bilico tra folk e psichedelia, "Plastic Bird" è la confessione disperata di un amante che, in un impeto di rabbia, distrugge l'uccellino di plastica che la sua amata gli aveva donato (!). L'album si chiude con un omaggio a George Harrison, una particolarissima cover di "Isn't It a Pity", trasformata in una riflessione sulla vulnerabilità del cantante. Kramer porta in dote la sua voce e un organo "cheap". E non mancano altri ospiti illustri, come Ralph Carney, musicista della band di Tom Waits, che si esibisce al sax tenore in "Decomposing Trees".
La versione rimasterizzata del Cd, uscita nel 1997, include tre tracce bonus dall'Ep "Blue Thunder" (1990): l'atmosferica "Cold Night" più le cover di "Victory Garden" dei Red Crayola e di "Ceremony" dei New Order. Ma c'è quasi il rischio che l'ascoltatore non vi faccia caso, tant'è ormai prigioniero della malinconia infinita di queste atmosfere incantate e siderali, in grado di innalzare il vortice quotidiano dei pensieri verso quella "Galassia 500" che sa tanto d'infinito.
29/10/2006
* Tracce bonus dell'edizione in Cd del 1997