Il sodalizio artistico-familiare degli Yo La Tengo ha dato vita a una delle saghe più importanti dell'alternative rock americano, non solo per la qualità delle produzioni, ma anche per l'atipica longevità artistica, paragonabile a pochi altri fenomeni del genere. Nonostante i tanti (e forse troppi) dischi pubblicati, gli Yo La Tengo sono sempre riusciti a coniugare l'attitudine sperimentale con una lucidità d'intenti stupefacente, che ha impedito loro di sprofondare in quell'intellettualismo onanista e cervellotico in cui molti esponenti del circuito "indie" sono rimasti intrappolati. La loro psichedelia di matrice tipicamente velvettianaè stata aggiornata negli anni, attraverso un'operazione di riciclaggio creativo di stilemi del passato, ma anche di assorbimento delle tendenze più originali del momento.
La lunga storia degli Yo La Tengo comincia nel 1984 a Hoboken, piccola cittadina del New Jersey (Usa). E' qui che il cantante e critico musicale (per il "New York Rocker") Ira Kaplan e la compagna Georgia Hublay, batterista e cantante anch'essa, decidono di coltivare la loro comune passione per il rock all'interno di una band. Il curioso nome prescelto deriva dalla passione di Kaplan per il baseball: "Yo La Tengo" è infatti l'espressione, in spagnolo, tipica dell'outfielder che grida: "Ho la palla!".
Nel primo album, Ride The Tiger (1986), a dare man forte al duo, provvede anche un nutrito gruppo di musicisti, dal chitarrista Dave Schramm al bassista e produttore Clint Conley (Mission Of Burma). Il disco si distingue subito per un sound affascinante, molto chitarristico, con variazioni psichedeliche che richiamano soprattutto Television e Feelies. Il talento di Kaplan si esalta nella cavalcata strumentale di "The Evil That Men Do", ma anche nel country-rock sommesso di "The Way Some People Die". La ricerca della trance, altro aspetto tipico della band, emerge soprattutto in ballate acide come "Forest Green" e "The Cone Of Silence". Meno indovinata, invece, la cover di "Big Sky" dei Kinks. Seppur ancora acerbo, l'album mette subito in luce la principale qualità dalla band: l'eclettismo. Il loro sound è intellettuale, ma senza rinunciare alla freschezza primigenia del rock; sa essere rumoroso, ma riesce a conservare sempre una nitida vena melodica; può essere cupo e nevrotico, quando a dominare è il baritono "reediano" di Kaplan, ma anche fragile ed etereo, quando prevale il delicato soprano di Hubley.
New Wave Hot Dogs (1987), oltre a rivelare nella scelta del titolo quell'ironia sardonica tipica della band, ne affina ulteriormente lo stile, accentuando la componente "rock" a scapito di quella "country", ancora tangibile nel disco d'esordio. Domina la chitarra di Kaplan, sulle orme di Neil Young e Tom Verlaine in versione rispettivamente meno nevrotica e meno alienata. La mancanza della seconda chitarra di Schramm, tuttavia, si fa notare, e a tratti si ha la sensazione che il gruppo metta in campo troppe intuizioni senza riuscire ad afferrarle tutte. La vibrante "House Fall Down", l'eterea "Blocks from Groove St." e la cupa cover della reediana "It's Alright (The Way That You Live)" offrono i momenti migliori.
Il disco sarà riedito in cd insieme al successivo President Yo La Tengo (1989), anch'esso tanto ricco quanto, a volte, dispersivo, dal folk quieto di "Alyda" al feedback in loop di "Barnaby Hardly Working", dalla cover di "I Threw It All Away" di Bob Dylan fino ai dieci minuti della rumorosa maratona chitarristica di "Evil That Men Do (Pablo's Version)", al crocevia tra Neil Young e i Mission Of Burma, e al thrash furibondo di "Orange Song".
Schramm torna a unirsi alla band per Fakebook (1990), una raccolta di cover (Kinks, Flying Burrito Brothers, John Cale, Cat Stevens, Flamin Groovies, Daniel Johnston etc.) riarrangiate in modo semplice ma suggestivo, con l'aggiunta dell'inedita "Summer".
Pur ricchi di spunti interessanti, questi ultimi lavori avevano ridimensionato gli Yo La Tengo a surrogato anni 80 dei Velvet Underground, relegandoli così a un pubblico di nicchia, nonostante una buona presenza della band nella programmazione del circuito radio dei college.
In coincidenza con l'arrivo in pianta stabile del bassista James McNew (ex-Christmas) e con l'emergere di Hubley come prima voce, ecco allora il salto di qualità nella carriera della band con May I Sing With Me (1992). Kaplan e soci, infatti, prendono coraggio dedicandosi pressoché esclusivamente a una particolare formula di psichedelia chitarristica; l'aggiunta di strumenti elettronici contribuisce a personalizzare e mettere finalmente a fuoco il loro suono, sempre più all'insegna di una "trance rock" sommessa e lucida, priva di quell'alienazione caratteristica della maggior parte delle band del settore. Il suono degli Yo La Tengo continua comunque a oscillare tra noise-rock e melodie pop. Al primo estremo si situa "Mushroom Cloud Of Hiss", tour de force chitarristico marchiato a fuoco da una sequela di dissonanze e di feedback, con la batteria di Hubley a imprimere cadenze sempre più forsennate. Sul fronte melodico, invece, dominano le tenere cantilene di Hubley: "Satellite", "Always Something" e "Swing For Life", ma a lasciare il segno è soprattutto il folk spigliato di "Upside Down". Se il riff hard-rock di "Some Kinda Fatigue" sposa i Velvet Underground con Jason & the Scorchers, il lungo trip lisergico di "Sleeping Pill" asseconda le ambizioni più sperimentali del gruppo. Sono semmai la frenesia e l'iperattivismo di Kaplan a fare danni, compromettendo il suadente appeal di "Five-Cornered Drone (Crispy Duck)" e guastando la tela dei delicati vocalizzi di Hubley in "Detouring America With Horns". May I Sing With Me segna comunque un salto di qualità nella produzione della band, inaugurando la fase più creativa della sua carriera.
A prendere le distanze in modo ancor più netto dalla babele sonora degli esordi è il successivo Painful (1993), che non rinnega del tutto le asperità rumorose alla Sonic Youth, ma le affoga in un clima pacatamente ipnotico, in una psichedelia onirica più che narcotica, dove bisbigli e droni fanno da padrone, relegando sullo sfondo le sferragliate di chitarra. Gli Yo La Tengo si rifugiano in un'oasi sonora che solo occasionalmente s'infiamma. Lontano dall'irruenza garage degli esordi, il loro umore si avvicina a quello dei contemporanei shoegazer. Kaplan e Hubley si alternano al canto in "Big Day Coming" e "Nowhere Near", mantenendo intatta l'atmosfera trasognata: un vortice di suoni, di rumori e di droni amalgamati tra loro fino a formare un unico insieme, che potrebbe continuare a fluttuare all'infinito. La new age non è poi così lontana. "Sudden Organ" è una ballata che non lascia scampo, mentre il riff di "From A Motel 6" è degno dei migliori Sonic Youth. La lunga jam strumentale di "I Heard You Looking", infine, compendia al meglio l'attitudine melodica e l'anima rumorista della band.
Electr-O-Pura (1995) segna però un piccolo passo indietro, smarrendo quella tensione quasi "mistica" che pervadeva Painful. Torna, in particolare, l'altalena tra toni duri e morbidi che nasconde una certa confusione di stili. Hubley è sempre più protagonista: è lei a tenere in piedi brani come "Pablo And Andrea" (un'incantevole brezza alimentata dal soffice finger-picking di Kaplan) e la rumorosa "(Straight Down to the) Bitter End". Il baritono di Kaplan, invece, troneggia in "Tom Courtenay", un'accattivante armonia pop che omaggia il beat inglese degli anni 60, e, con aplomb alla Verlaine, in "Flying Lesson (Hot Chicken #1)". L'animo romantico della band si crogiola nella melodia blues di "My Heart's Reflection" e nell'organo gospel di "Hour Grows Late", mentre il chitarrismo del suo leader si esalta nei riverberi lisergici di "Decora" e nella sarabanda di "Blue Line Swinger", che chiude il disco in un'orgia di tremolii e riverberi, contrappunti e feedback.
Genius + Love = Yo La Tengo (1996) è un doppio cd (metà cantato, metà strumentale) che raccoglie tracce rare e inedite.
Ma la band ha ormai affinato il suo stile ed è pronta a pubblicare il suo definitivo capolavoro: I Can Hear The Heart Beating As One (1997). Oltre a portare a maturazione spunti e stili abbozzati nei lavori precedenti, il disco presenta alcune novità: gli Yo La Tengo si cimentano per la prima volta con sonorità bossa nova ("Center of Gravity"), flirtano con l'elettronica sperimentale dei classici (Can, Kraftwerk) e dei loro contemporanei (Stereolab) nel singolo "Autumn Sweater" e coinvolgono il bassista James McNew al canto ("Stockholm Syndrome"). Ma è tutto il sound della band a risultare più originale ed emozionante.
La gamma di soluzioni sonore è sorprendentemente vasta. Ci si può così imbattere nello pseudo-grunge alla Superchunk di "Deeper Into Movies" e nell'assolo di tromba in stile Galaxie 500 dell'incantevole "Shadows", nella litania letargica e finemente jazzata di "Moby Octopad", nei deliziosi droni elettronici e nelle misticheggianti frasi d'organo di "Autumn Sweater". Ma Kaplan sa ancora come avventarsi sull'ascoltatore con la grinta di un hardrocker, come conferma l'energica "Sugarcube". E se "Stockholm Syndrome" è un gioiello di pop acustico che ha il sapore della classicità, lo spleen psichedelico della band torna a balenare tra le dissonanze ipnotiche di "Damage". Brilla per eccentricità persino una cover in chiave boogie/shoegazer della "Little Honda" dei Beach Boys.
A rischiare di far affondare il disco, semmai, sono i dieci minuti della strumentale "Spec Bebop", fin troppo pretenziosa e autoindulgente. Ma per fortuna provvede Hubley a chiudere in bellezza l'opera con una candida versione di "My Little Corner of the World", degna di una Nico sopravvissuta al post-rock.
I Can Hear The Heart Beating as One è una sorta di catalogo virtuale degli stili e delle tendenze in voga alla metà del decennio Novanta. Una sintesi preziosa che conferma il talento degli Yo La Tengo come compositori e musicisti. Stupisce come dopo già tanti anni di carriera, la band del New Jersey riesca a sfoggiare una capacità creativa e una lucidità d'intenti ancora maggiore di quella dei loro primi lavori. Merito più della buona sorte comune che nelle doti individuali dei singoli membri, stando a quanto racconta Kaplan: "Siamo stati fortunati a scoprire di essere tre individui uniti, capaci di muoversi in avanti con delle intenzioni comuni".
Proseguendo nell'evoluzione del loro sound verso un rock "a 360 gradi", gli Yo La Tengo realizzano con And Then Nothing Turned Itself Inside Out (2000) un nuovo florilegio di citazioni da cultori, un nuovo saggio del loro sound "maturo", fatto di atmosfere rilassate, psichedeliche e jazzate. La (insolita) pausa di tre anni che lo ha preceduto è servita al trio per aggiustare il tiro verso un rock ancora più onirico, di cui i 77 minuti del disco sono la summa: "Abbiamo provato molte diverse sequenze dei brani", raccontano, "ma in qualsiasi modo facessimo, non riuscivamo mai a togliere alcun pezzo, ci convincevano veramente tutti".
Ormai veterani dell'indie-rock a stelle e strisce, profondi conoscitori di tutte le sue pieghe e i suoi anfratti, gli Yo La Tengo abbassano il volume dell'amplificatore e tornano a strizzare l'occhio alle sonorità folkeggianti di Fakebook, ma anche al contemporaneo post-rock. Perfino le reminiscenze dei Velvet Underground finiscono così con l'annegare in un'atmosfera di quiete irreale. L'iniziale "Everyday", ad esempio, avvolge subito l'ascoltatore in questo clima idilliaco, con i bisbigli delle tastiere e le frasi minimali di chitarra appena turbati dagli accenti sinistri del basso. Ed è difficile riuscire a sopravvivere a questa malia crepuscolare incappando nei sussurri languidi di "Saturday", nelle malinconia indolente di "Our Way To Fall" o nella tenera cantilena di "Tears In Your Eyes". Ma non mancano episodi più eccentrici, dalla melodia acida alla Stereolab di "Let's Save Tony Orlando's House" al piglio marziale di "Last Days Of Disco", reminiscente dei Can di "Future Days", fino alla sobria cover di un classico disco-music come "You Can Have It All" di George McRae. Le distorsioni e i feedback del passato più "velvettiano" resistono nella sola "Cherry Chapstick". Il tutto prima che la notte inghiotta il gruppo nei 17 minuti di psichedelia sonnambula di "Night Falls On Hoboken".
La saga degli Yo La Tengo prosegue con Summer Sun (2003) nella direzione di una progressiva dilatazione degli spazi e di un'intelligente contaminazione elettronica, anche se forse è venuta a mancare quell'obliqua ispirazione che aveva animato i momenti migliori della band di Hoboken. Gli Yo La Tengo si spingono ora verso raffinate suggestioni jazzistiche e lounge, richiamando alla mente una versione più rarefatta degli Stereolab. Tra fluttuanti strumentali come l'iniziale "Beach Party Tonight" e inattese tentazioni funky, i momenti migliori vengono dalle suggestive aperture melodiche sussurrate da Kaplan, come nelle tenui "Season Of The Shark" e "Tiny Birds" o nelle più incalzanti "Don't Have To Be So Sad" e "Moonrock Mambo". La rilettura di "Take Care" dei Big Star, affidata alla voce sottile di Hubley, condivide lo stesso sorriso dolceamaro che illuminava il capolavoro della band di Alex Chilton, "Third". Il "party sulla spiaggia", insomma, è pur sempre una festa notturna per gli Yo La Tengo, con la sabbia che conserva il ricordo dell'ultimo tepore del sole e l'orizzonte sconfinato del mare a segnare la dimensione dell'animo.
L'Ep Today Is The Day (2003) raccoglie tre brani non inclusi nell'album: "Styles Of The Times", "Outsmarter" e il breve intermezzo strumentale di "Dr Crash". A quasi vent'anni dal loro esordio, gli Yo La Tengo mantengono intatta la loro classe, ma la sensazione è che questi veterani dell'indie-rock siano ormai animati soprattutto dalla voglia di ritoccare con qualche nuova pennellata un quadro fin troppo familiare.
Fortunatamente, a tenere alta l'attenzione sulla loro stagione d'oro arriva l'ottima antologia doppia Prisoners Of Love - A Smattering Of Scintillating Senescent Songs 1985-2003, contenente ben 26 brani.
Nel 2006, arriva la reazione. I'm Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass. Orgoglio e calci nel sedere a chi è dedito a bruciare novità su novità in pochi minuti. Mette subito le cose in chiaro il poderoso riffone di "Pass The Hatchet, I Think I'm Goodkind", vago, ma neanche tanto, sapore krauto, distorsioni e jam acida, il passato che torna, il chitarrismo psichedelico di Kaplan a contorcersi. Ma l'album ci consegna soprattutto una sfilza di deliziose canzoni pop.
Si parte lanciati dai fiati di "Beanbag Chair", pressante incedere di piano e melodia cullante nell'inciso, a fondere classe e bubblegum; si attraversano lande funky-soul, nella sbarazzina "Mr.Tough"; si attraversa la soleggiata e lieve "The Weakest Part"; ci si lascia carezzare dalla velata "Sometimes I Don't Get You", trasudante pace assoluta. E alla fine si affonda il colpo in due gioiellini di maestosa purezza: "I Feel Like Going Home", dolcissimo pop-folk affidato a una Hubley sirena incantatrice; e "Black Flowers", ballata pianistica con linea canora epica e toccante.
Scuola, talento e fantasia. "The Race Is On Again", il pezzo doveroso, chitarra psych, binari ad accompagnare il tragitto, personalità, e, ancora una volta, piacere. "The Room Got Heavy", percussioni acquose e pulsazioni electro, battiti sexy, Hubley a recitare sotto ipnosi. Relax e trance. "Daphnia", sognante spartiacque di nove minuti per piano e acustica con qualche folata di violini.
Il porto è vicino, ecco "I Should've Known Better" nei panni della giostra e "Watch Out For Me Ronnie" in quelli della sfrenatezza. Manca il finale da ko. "The Story Of Yo La Tengo", la nascita da fiotti di distorsioni ambient, i colpi di batteria ben assestati, la chitarra che comincia a tessere, la melodia e la carica rock finché morte non le separi, 12 minuti di omaggio che scorrono fino all'esaurimento.
Nel 2009 esce Popular Songs, altra prova di grande classe, seppur non travolgente. Il disco è diviso idealmente in due parti, e tale suddivisione risulta ancora più evidente nel formato su doppio vinile.
Le prime nove tracce sono lo specchio dello stato dell'arte dell'alt-rock contemporaneo. Ma non è un album di grandi chitarre, bensì di grandi atmosfere, con vette come la notturna "By Two's". Sulla stessa lunghezza d'onda si posizionano "I'm On My Way", una sorta di revisione di "Star Me Kitten" dei Rem, e la malinconica "When It's Dark".
C'è poi il lato allegro, ben rappresentato dall'irresistibile fuzz-boogie "Something To Hide" e dalle divertenti reminescenze sixties funky di "Periodically Triple Or Double". Il desiderio di arrangiare con partiture d'archi un paio di brani ha portato la band a contattare Richard Evans. I sorprendenti risultati sono la psichedelica "Here To Fall" e la spensierata "If It's True", con ulteriori richiami agli anni 60. Anche quando progettano brani light pop come "All Your Secrets" o "Avalon Or Someone Very Similar" dimostrano di essere una spanna sopra tutte quelle alt-pop-rock band sorte un po' ovunque nell'ultimo decennio.
Le tre lunghe tracce poste in chiusura del disco (le quali ne compongono la seconda ideale parte) rappresentano tre differenti lati della psicologia Yo La Tengo: "More Stars Than There Are In Heaven" è uno slow-shoegaze che farà la gioia dei fan dei My Bloody Valentine; "The Fireside" rievoca gli esperimenti ambient di Brian Eno, con quegli accordi di chitarra acustica ripetuti ad libitum su un tappeto di effetti sonori mai invadente; mentre l'impostazione cinematica di "The Fireside" è figlia di progetti portati avanti di recente dalla band, la quale si è occupata della realizzazione di una serie di colonne sonore raccolte nell'album pubblicato circa un anno fa They Shoot, We Score; in questo caso è evidente l'influenza del lavoro svolto per il road movie "Old Joy". La conclusiva "And The Glitter Is Gone" è la botta noise finale, quasi 16 minuti che innestano nel disco l'unico ingrediente che ancora mancava.
A metà gennaio 2013 viene pubblicato Fade, il tredicesimo album del trio del New Jersey. La principale differenza fra Fade ed i dischi più recenti della band è l’evidente sforzo di sintetizzare i tratti strumentali, evitando di dilungarsi inutilmente o virare verso percorsi troppo tortuosi. Ulteriore divergenza è data dal minore apporto delle chitarre, in favore di atmosfere sovente più rarefatte ed arrangiamenti che mal celano desideri di grandeur, con gli archi che in un paio di occasioni tendono a prendere il sopravvento. Anche questa volta le due tracce più lunghe sono posizionate alle estremità dell’album. “Ohm” è l’instant classic che tutti si augurano di trovare in ogni nuovo lavoro di Kaplan e soci; “Before We Run” rappresenta invece il congedo appassionato e viscerale, l’epilogo di un percorso di dieci tracce che per metà rappresentano la sintesi di quanto fatto sinora dalla band e per metà lancia il trio nella costruzione di quadretti bucolici rilassati ed armonici. “Is That Enough” è un racconto della prateria, una di quelle idee alt-country rivedute e corrette in salsa Kaplan che ti fanno innamorare sin dal primo ascolto, “Well You Better” è un up-tempo sfizioso e gradevole, in grado di far muovere il culetto anche nelle giornate più disgraziate, “Paddle Forward” è l’arrembaggio più canonicamente (e malinconicamente nel tratto) alt-pop. “Stupid Things” è il brano-ponte verso la tanto sbandierata dissolvenza, che si staglia davanti ai nostri occhi nelle meraviglie acustiche di “I’ll Be Around”, nella pace dei sensi di “Cornelia & Jane”, nelle visioni paesaggistiche e cinematiche di “Two Trains” e “The Point Of It”, forti di una classe ed un’eleganza inarrivabile. Fade è un disco confortevole, una casa sicura ed inviolabile per tutti coloro che amano i suoni e le attitudini di Ira, Georgia e James. Prodotto dall’esperto John McEntire, che oltre ad essere un affermato producer è noto nell’ambiente come drummer di Tortoise, Red Krayola e The Sea And Cake, Fade è stato registrato presso i Soma Studios di Chicago. E' prevista una deluxe edition con un sette pollici bonus contenente le cover di “I Saw The Light” di Todd Rundgren e “Move To California” dei Times New Viking. La versione in vinile assicura anche un esclusivo coupon utile per scaricare una jam di ulteriori undici minuti.
Il 28 agosto 2015 arriva Stuff Like That There, album che contiene nove cover, tre rivisitazioni di brani già pubblicati in passato e due inediti. A venticinque anni esatti da Fakebook, quello che fu il loro quarto lavoro in studio, i signori Yo La Tengo ripetono così l’esperimento di pubblicare un album nel quale alternare revisioni personalizzate di brani altrui e tracce autografe. Per l’occasione il trio torna ad essere un quartetto: accanto a Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew, c’è il ritorno alla chitarra di Dave Schramm. La compresenza di due chitarristi rende possibile un lavoro impressionante sulle sei corde, intrecci e intarsi che si rincorrono per tutta la durata delle quattordici tracce, slide e ritmiche che a volte porgono il fianco a delicati fraseggi elettrici, senza mai andare sopra le righe, in un’atmosfera complessiva tanto soffusa quanto (a volte troppo?) controllata. Sì, perché Stuff Like That There è un disco carezzevole, fatto di spazzole, tremoli, vibrati e voci dolcissime, in uno spettro sonoro che si muove dalle introspezioni notturne di “Naples” all’alternative country di “I’m So Lonesome I Could Cry” (l’originale era di Hank Williams), il tutto reso con quell’andatura cinematografica, tipica dei lavori firmati Yo La Tengo, fra le poche formazioni al mondo in grado di raccontare per immagini immaginarie (scusate il giochino di parole) e non soltanto attraverso i suoni. Per alcuni tratti la batteria non è nemmeno contemplata (vedi la nuova release di “Deeper Into Movies”), ma tutto resta sempre saldato assieme in maniera straordinariamente robusta, per un risultato finale che si presenta rigorosamente tenue e coeso.
Fra le cover c’è soltanto un brano davvero iper famoso, ed è l’hit dei Cure “Friday I’m In Love”, la quale subisce lo stesso trattamento di quasi tutti i pezzi prescelti: viene privata di gran parte del fervore originale, rallentata e resa in forma più “depressa”. Lo stesso destino è assegnato a “I Can Feel The Ice Melting”, brano dei Parliament di George Clinton, qui reinterpretato senza la cadenza funk che lo caratterizzava. Il quartetto di Hoboken spazia in maniera assolutamente trasversale, reinterpretando antipodi stilistici che vanno dai Lovin’ Spoonful a Sun Ra, confermando (se mai ce ne fosse ancora bisogno) quell’essenza onnivora che nel 1997 generò il caleidoscopico “I Can Hear The Heart Beating As One”. I brani autografi, sia quelli inediti, sia quelli rivisitati per l’occasione, si fondono perfettamente con il resto del menù, attraverso un trattamento dei suoni decisamente folk oriented. Resterà deluso chi si attendeva qualche squarcio elettrico in più, o chi sperava di stanare eventuali slanci experimental- shoegaze, cose alle quali i signori ci avevano abituati: per qualcuno Stuff Like That There potrebbe risultare un tantino monocorde, ma qui va apprezzata la rigorosa definizione di un mood che parte dall’analisi di strutture spesso lontane dalle proprie, centrando l’obiettivo di caratterizzare le canzoni prescelte attraverso quello stile notturno e cinematico che è un po’ il trademark Yo La Tengo. Un interscambio davvero raro da riscontrare in musica, ed in questo caso perfettamente riuscito.
In There’s A Riot Going On accade un’ulteriore lieve rivoluzione, ma attiene più alla metodologia che allo stile, Ira Kaplan e Georgia Hubley assecondano la passione di James McNew per le nuove tecnologie di registrazione, sperimentando sonorità e linee armoniche dagli esiti incerti e privi di una finalità ben precisa, generando una serie di caleidoscopiche improvvisazioni e incidentali frammenti lirici. Con questo insolito processo creativo i Yo La Tengo gettano nel caos l’ascoltatore, alle prese con un album la cui completa percezione appare improbabile e faticosa, musica e voci sembrano quasi andare alla deriva, lasciando più di una vittima sul duro campo di battaglia.
Il richiamo allo storico album di Sly & The Family Stone è strettamente politico, le divisioni che attanagliavano l’anno 1971 sono similari a quelle attuali, ma nel tempo l’animo umano è stato corroso dal cinismo dall’indifferenza e dalla mancanza di prospettive possibili. Non avrebbe avuto senso per la band americana, esternare queste rinnovate paure generazionali con l’irruenza del passato, o di quel lontano capolavoro con cui hanno condiviso il titolo e la bandiera.
Ed è qui che entra in gioco la scelta di far fluire la musica in piena libertà e indolenza, senza mai tentare di canalizzare l’ispirazione in qualcosa di troppo definito. Camaleontici come sempre Ira, Georgia e James non lasciano fuori nulla nel loro improvvisato calderone di stili, l’approccio è come sempre indolente, svogliato, lievemente nostalgico, ma tutto appare più intimo, confidenziale, come se la moderna ribellione sia narrabile non più con le grida ma con un flebile sussurro, con un affresco sonoro sofferto ma mai compiacente.
La lunga sequenza di quindici brani di There’s A Riot Going On tende all’evanescenza, alla sublimazione, l’arguta varietà di stili espressi in quasi trentacinque anni di carriera, fa capolino tra architetture sonore che pian piano perdono i confini senza mai ritrovarsi.
Fuzz psichedelici adagiati su ritmi tribali (“You Are Here”), struggenti astrazioni velvetiane (“She May, She Might”), melodie folk solari e quasi hippie (“Polynesia #1”), leggerezze pop (“For You Too”), intriganti esotismi inzuppati nell’elettronica (“Let's Do It Wrong”, “Esportes Casual”) e l’estroso e malinconico refrain surf di “Shades Of Blue” rappresentano l’anima più tangibile di questo nuovo album dei Yo La Tengo. Il resto è frutto di divagazioni (“Ashes”), arpeggi (“Dream Dream Away”), fluidi ambient (“Shortwave”) e contaminazioni world-music (“Out Of The Pool”), che si trastullano con residui jazz-lounge (“What Chance Have I Got”) e doo-woop (“Forever”), lasciando fermentare un mix di suoni tribali, musica latina, world e jazz alla maniera di Sun Ra (“Above The Sound”).
L’ennesimo miracolo in casa Yo La Tengo avviene grazie alla capacità dei musicisti di restare coerenti e altresì coscienti dei propri limiti espressivi (si ebbene esistono), tenendo insieme una serie di canzoni ricche di contrasti e ossimori, senza far mai tracimare le innumerevoli modulazioni sonore ricche di improvvisazione.
Verso la fine di aprile 2020, in piena esplosione del contagio pandemico del Covid-19, la band riesce a riunirsi nella sua Hoboken, piazza un microfono in mezzo alla stanza e inizia a suonare in libertà. Di queste session, durate una decina di giorni in totale, rimangono cinque brani estesi e astratti, riuniti in We Have Amnesia Sometimes. Più che canzoni, sono esplorazioni sonore intorno ad alcune idee rock, dove però il termine deve essere inteso in senso assai ampio, così da ricomprendere la psichedelia più vaporosa, il kraut-rock più mistico, il post-rock più ambientale e dronico. Opere come questa sembrano degli instant-album che interpretano quasi in diretta la realtà, ma che non è facile capire come possano resistere alla prova del tempo. Anche gli Yo La Tengo hanno voluto partecipare a questo racconto in divenire, pubblicando un lavoro che probabilmente rimarrà un unicum nella discografia e che, pur percorrendo stili e soluzioni ben conosciute agli appassionati del rock più astratto e immaginifico, non manca di riflettere la disorientante fragilità del 2020.
Diciassette album e una manciata di colonne sonore come “Old Joy” (2006) di Kelly Reichardt, raccolte in They Shoot We Score (Egon, 2008), gli Yo La Tengo si riaffacciano sul mondo con This Stupid World (Matador, 2023), realizzando un album in totale autonomia, senza alcun supporto esterno, in piena filosofia indie.
Fin dall’opener “Sinatra Drive Breakdown” a dominare sono i (meravigliosi) contrasti, tra sussurri e sferzate di chitarra, noise e figure esili della batteria, che a loro volta lasciano lo spazio delle frequenze basse alle corde di James McNew. Al passo successivo ci troviamo di fronte a un gioiello di songwriting, il brano “Fallout”, manifesto della musica della band di Hoboken il cui ritornello si snoda tra cori quasi impercettibili, groove surf e riff tipici di quel suono indie-rock anni 90 tanto familiare a Dinosaur Jr. e Sebadoh.
Così Georgia Hubley alla batteria e Ira Kaplan alla chitarra, coppia nell’arte e nella vita tra le più intense della scena indie – come Mimi Parker e Alan Sparhawk nei Low, o Kim Gordon e Thurston Moore nei Sonic Youth – bilanciano timbri vocali e cori tra foga noise-pop e ballate Americana (“Aselestine”), divertissement indie-rock tra Ted Leo e Pavement (“Tonight’s Episode”, “Until It Happens”) e perfette equazioni "Yo La Tengo" (“Apology Letter”).
Nell’ultima sezione del disco aumentano i decibel, l’elettricità e l’emozionalità sotto la buona stella dei Velvet Underground e degli Spacemen 3, tra cavalcate dal sapore noise-psych rock e voci sussurrate che da “Brain Capers” portano al muro di feedback e al coro proemiale di “This Stupid World”, all’insegna della percussività e della reiterazione.
Chiude in maniera sontuosa, poetica ed evocativa “Miles Away”, altra perla rarefatta tra beat dal sapore elettronico, sonorità shoegaze e la voce lieve di Hubley, in cui dolore e nostalgia si sciolgono in una litania che perde infine la parola.
This Stupid World è un mondo stilistico ed emotivo che sfonda la quarta parete e fa vibrare l’ascoltatore, tornando alla compiutezza e pienezza di un punto fermo della maturità come “Fade” (Matador, 2013) e regalandoci la migliore prova della band negli ultimi anni.
Contributi di Gabriele Benzing ("Summer Sun"), Ciro Frattini ("I'm Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass"), Claudio Lancia ("Popular Songs", "Fade", "Stuff Like That There"), Gianfanco Marmoro ("There's A Riot Going On"), Antonio Silvestri ("We Have Amnesia Sometimes"), Maria Teresa Soldani ("This Stupid World")
Ride The Tiger (Coyote, 1986) | 7,5 | |
New Wave Hot Dogs (Coyote, 1987) | 6 | |
President Yo La Tengo (Coyote, 1989) | 6 | |
Fakebook (Bar None, 1990) | 6 | |
May I Sing With Me (Alias, 1992) | 7,5 | |
Painful (Matador, 1993) | 7 | |
From A Motel EP (Matador, 1994) | ||
Electr-O-Pura (Matador, 1995) | 5 | |
Camp Yo La Tengo EP (Matador, 1995) | ||
Genius + Love (Matador, 1996) | ||
I Can Hear The Heart Beating As One (Matador, 1997) | 8 | |
And Then Nothing Turned Itself Inside-Out (Matador, 2000) | 7 | |
The Sound Of The Sounds Of Science (Egon, 2002) | ||
Summer Sun (Matador, 2003) | 5 | |
Today Is The Day EP (Matador, 2003) | ||
Prisoners Of Love - A Smattering Of Scintillating Senescent Songs 1985-2003 (Matador, 2005) | 8 | |
I'm Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass (Matador, 2006) | 7,5 | |
They Shoot, We Score (antologia di colonne sonore, Egon, 2008) | ||
Popular Songs (Matador, 2009) | 7 | |
Fade(Matador, 2013) | 7 | |
Stuff Like That There (Matador, 2015) | 6,5 | |
There's A Riot Going On (Matador, 2018) | 7,5 | |
We Have Amnesia Sometimes(Matador, 2020) | 6 | |
This Stupid World (Matador, 2023) | 8 |
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