È stato bello avere vent’anni negli anni 90: l’ultimo periodo di relativo benessere più o meno generalizzato, nessuna pandemia a limitare le libertà individuali, la manifestazione delle ultime piccole vere rivoluzioni musicali. Il grunge da un lato dell’Atlantico e lo shoegaze dall’altro aprivano un decennio che avrebbe partorito anche trip-hop e britpop, oltre alla stagione d’oro del rock alternativo italiano. Quasi ogni giorno veniva pubblicato un album “imperdibile”, e non si trattava di un abbaglio giovanile, no, molti di quei dischi restano ancora oggi dei “fondamentali”, ritenuti tali anche dalle generazioni che, per ovvi motivi anagrafici, non vissero in diretta tutte quelle emozioni.
Lo shoegaze, germogliato in Inghilterra sul finire degli anni 80, nacque con il preciso intento di sperimentare nuovi suoni, giocando gran parte della propria estetica sul ruolo delle chitarre, e in particolare dell’effettistica a loro applicata. Un suono “rumoroso” ma avvolgente, che sapeva essere confortevole per tutti coloro che sentivano il bisogno di abbandonarsi tra grovigli di suoni, non sempre perfettamente distinguibili, e voci che non di rado si perdevano sullo sfondo. Molteplici le declinazioni, dalle più “pop” alle più angoscianti, ma poche le formazioni che riuscirono a guadagnarsi una certa notorietà al di fuori della nicchia d’appartenenza.
Le vendite furono per tutti senz’altro modeste, specie se consideriamo che in quegli anni i dischi si vendevano ancora copiosamente. Ma molti di quei lavori consolidarono con il tempo la propria importanza, fino ad essere considerati vere pietre miliari della musica rock. Basti pensare a quanto realizzato da band quali My Bloody Valentine, Slowdive e Ride, capaci di fissare in maniera forte le coordinate stilistiche del genere, e di influenzare in maniera determinante un numero incalcolabile di musicisti successivi.
La stagione shoegaze non durò molto, e l’avvento in terra d’Albione del britpop contribuì nel giro di pochissimi anni a farla tramontare anzitempo. Ma i germi continuarono a essere presenti sottotraccia, tanto da identificare per sempre quel particolare wall of sound costituito da vere e proprie cascate di suoni, opera di chitarristi ricurvi sulle pedaliere, intenti a fissare non tanto le proprie scarpe (da qui il nome, a volte usato in maniera dispregiativa dai detrattori del genere) quanto i livelli di distorsori, delay e riverberi.
OndaRock ha sempre seguito con estrema attenzione sia i classici dello shoegaze, sia gli acclamati ritorni delle band storiche, sia le tendenze più recenti, spesso non a caso – ma a volta un po’ troppo frettolosamente - catalogate sotto il termine “nu-gaze”. Di seguito abbiamo selezionato album finora mai approfonditi su queste pagine, che meritano di essere recuperati. Non si tratta in nessun caso di dischi “minori”, tutt’altro: ognuno di loro ha dato un contribuito necessario a determinare o a consolidare le caratteristiche peculiari dell’estetica shoegaze. Bello riascoltarli in sequenza, per continuare a sognare tutti assieme ad occhi aperti… (Claudio Lancia)
ADORABLE - Against Perfection (Creation, 1993)
Tassello fondamentale della prima ondata shoegaze, gli Adorable arrivano da Coventry, nel cuore inglese del West Midlands, suonando uno psych-power-pop che raggiunge la quadra che forse solo Ride e Lush sono riusciti a realizzare in quegli anni: l’alchimia ideale tra shoegaze e pop-rock, rappresentata già dal primo singolo “Sunshine Smile” (1993), poi lasciato fuori dall’album di debutto.
“Against Perfection” è infatti composto da dieci brani con riff killer e refrain indimenticabili come nell’anthem “Glorious” e nella lunare “A To Fade In”. Conducono la voce e le parole di Piotr/Peter Fijalkowski, che s’ispira in maniera dichiarata a Ian McCulloch di Echo & The Bunnymen, in un percorso intimo e individuale dove la consapevolezza si raggiunge attraverso ricordi della vita familiare (“I Don’t Wanna Be/ Faded Skin/ I Don’t Wanna Fade Out/ I Wanna Fade In/ I Wanna Fade In” – “A To Fade In”) e dichiarazioni di amore e rabbia (“I can't follow what I don't believe in/ And that's why there's nothing left of me/ ‘Cause I don't believe in you/ You’re so beautiful” – “Homeboy”) lasciandosi andare a un canto liberatorio a piena voce che ricerca il sing-along come rito per esorcizzare il futuro.
Chiude perfetta in una perfetta chiusura del cerchio – non ricercata, come da titolo programmatico, ma trovata – “Breathless”, con le sue chitarre imperiose e quei versi indelebili, fragili e romantici: “I’m breathless and speachless/ But still, there is so much to say/ In words with one syllable/ I love you”. (Maria Teresa Soldani)
BAILTER SPACE - Vortura (Flying Nun Records, 1994)
In principio furono i Gordons, un trio chitarra-basso-batteria che suonava un rumorosissimo post-punk testimoniato da un paio di dischi (usciti tra il 1981 e il 1984) che seppero dire la loro in terra neozelandese. Terminata quell'esperienza, il chitarrista Alister Parker proseguì la propria avventura musicale dando vita, insieme all'ex-batterista dei Clean, Hamish Kilgour, ai Nelsh Bailter Space, nome poi abbreviato in Bailter Space. Se i primi album, e soprattutto "Robot World", erano stati tentativi non del tutto riusciti di mediare, via post-punk, tra l'energia del noise-rock e l'estasi dello shoegaze, con "Vortura" la band all'epoca composta da Parker (voce, chitarra), John Halvorsen (chitarra, voce) e Brent McLachlan (batteria, sampler) raggiunse il picco della sua creatività, imbastendo una manciata di brani di grande impatto, per la cui registrazione la band volò per la prima volta negli Stati Uniti, dove entrò in ben cinque diversi studi di registrazione. Se il carroarmato noise-rock di "Projects" fa leva su sonorità più prossime a un rumorismo roboante (ripreso, con piglio industrial, da "I.C.Y." e, con foga punk, da "Dark Blue"), con la successiva "Process Paid" ecco un mix di shoegaze e noise-rock che ritroveremo anche in "Shadow", laddove "X" ruota intorno a sonorità più oniriche, mentre "Voices" e "No. 2" evocano i Sonic Youth epoca "Dirty". "Galaxy" è invece una ballata distorta dal sapore velvettiano; in "Reactor" si sente l'eco dei Jesus and Mary Chain; "Control" chiude con toni asfissianti e insieme apocalittici. (Francesco Nunziata)
BAND OF SUSANS - The Word And The Flesh (Restless, 1991)
Lasciatasi alle spalle due dischi eccellenti (“Hope Against Hope” e soprattutto “Love Agenda”), la Band Of Susans optò per un sound relativamente più accessibile, registrando un “omaggio all’accordo Mi” con una formazione che si era da poco rinnovata con l’arrivo dei chitarristi Anne Husick e Mark Lonergan, che andarono ad affiancare i veterani Robert Poss (chitarra, voce), Susan Stenger (basso, voce) e Ron Spitzer (batteria). In “The Word And The Flesh”, disco che si allontana dal noise-rock degli esordi, quando non sono coinvolte in composizioni dal respiro austero (“Ice Age”) o imparentate con il post-punk (la chiaroscurale ballata "Estranged Labor"), le chitarre si gettano a capofitto in un continuum di accordi che rappresentano l’equivalente minimalista (non a caso il disco è dedicato al compositore Julius Eastman) delle texture post-psichedeliche degli shoegazer. Del resto, se si confronta la copertina di “The Word And The Flesh” con quella di “Loveless” dei My Bloody Valentine (anch'esso uscito nel 1991, ma due mesi dopo il disco di Poss e soci) si capiscono tante cose: in entrambe, domina l’immagine ravvicinata di una chitarra, ma è evidente che quanto vuole trasmetterci la band di Kevin Shields (disorientamento, alterazione psichica, l’idea che la stratificazione esasperata delle chitarre possieda la capacità di spingere l’ascoltatore verso territori metafisici) è ben diverso da ciò cui tende la Band Of Susans, ovvero la ruminazione ossessiva intorno alla densità della distorsione, ai timbri e alle loro collisioni più o meno evidenti. Ruminazione che dà vita a brani cadenzati (“Now Is Now”), ipnotici (“Trouble Follows”), spavaldi ("Sermon On Competition, Part 2"), trascinanti come inni punk’n’roll (“Plot Twist”) o power-pop (“Silver Lining”) ma che, all’occorrenza, sa lasciare il passo a esperimenti per distorsioni modulate (“Tilt”). A rendere ancora più evidente il retaggio minimalista di questa musica, ecco in chiusura una rilettura del “Guitar Trio” di Rhys Chatham, con quest'ultimo a dare man forte con la sua sei corde. (Francesco Nunziata)
BLIND MR. JONES – Stereo Musicale (Cherry red, 1992)
È durata solo due Ep e altrettanti Lp la carriera dei Blind Mr. Jones, ma sono bastati a fare della band del Buckinghamshire un nome cult della scena shoegaze dei primordi. Già enormemente apprezzati dai colleghi, tanto che Neil Halstead ha suonato la chitarra nel loro primo Ep e Johnny Greenwood l’armonica nel secondo, con l’ingresso in formazione del flautista John Tegner e quindi con “Stereo Musicale”, assumono piena padronanza dei propri mezzi, trovando dunque un suono peculiare e riconoscibile. È un dettaglio semplice l’aggiunta del flauto, ma in grado di personalizzare la proposta a tal punto da diventarne marchio di fabbrica indiscutibile. Lo strumento di Tegner può peraltro assumere diversi ruoli nell’economia dei brani: può fungere da fulcro melodico in luogo della chitarra (“Sisters”, “Spooky Vibes”) o da spezia di momenti più distesi e psichedelici (“Lonesome Boatman”). Guai a dire però che senza flauto “Stereo Musicale” non sarebbe un capolavoro dello shoegaze. Brani come la micidiale “Henna And Swayed” o la turbinante “Dolores” mostrano come le chitarre di James Franklin e Richard Moore possano talvolta eguagliare gli squarci di luce degli Slowdive; mentre la sezione ritmica dà prova della sua tempestosità in “Going On Cold”. (Michele Corrado)
BRIAN JONESTOWN MASSACRE - Methodrone (Bomp!, 1995)
È targato 1995 il debutto del longevo e prolifico ensemble psichedelico di Anton Newcombe, formatosi a San Francisco all’inizio del decennio. Fin da subito la band ci pone di fronte a un contrasto stridente: i riferimenti a Brian Jones dei Rolling Stones – scomparso prematuramente in circostanze misteriose – e al suicidio di massa di Jonestown – dove quasi mille seguaci del santone Jim Jones si tolsero la vita in uno degli eventi più traumatici della storia americana – sono accostati alla sensualità dello slow-shoegaze di “Methodrone”, che inizia questa storia con “Evergreen”, dialogo tra Newcombe e le vocalist Elise Dye e Paola Simmonds. Si agitano già diverse anime della band, che andranno a definire anche le traiettorie successive degli altri album verso una psichedelia totale tra Spacemen 3, Jesus and Mary Chain, Loop, Velvet Underground e 13th Floor Elevators. Con un cantato tra lo svogliato e il suadente degno di Ian Brown, contrappuntato dalle voci femminili, l’album procede tra psych-rock (“That Girl Suicide”, “She’s Gone”), slow-shoegaze (“Wasted”, “Short Wave” in mood Sonic Youth), dream-pop (“Everyone Says”, la ballad “I Love You”), dark-new wave (i quasi dieci minuti lisergici di “Hyperventilation”) e intermezzi drones (“Records”). La lentezza e la ripetizione sono le chiavi di tutto, per impostare e moltiplicare i suoni delle chitarre in successioni circolari in cerca di trascendenza. I Brian Jonestown Massacre partono dallo shoegaze, come i Catherine Wheel di “Ferment” (Fontana, 1992), per poi approdare a forme meno immediate e più formalmente sfaccettate. Entrambi gli album restano però due capisaldi dello shoegaze. (Maria Teresa Soldani)
BRIGHT CHANNEL – Bright Channel (Flight Approved, 2004)
Registrato in una settimana sotto l’egida di Steve Albini, l’omonimo debutto dei Bright Channel (da Denver, Colorado) è uno dei migliori esempi di commistione tra shoegaze, noise-rock e post-punk, un lavoro in cui le acide e nebulose tessiture del primo, gli strappi catastrofici del secondo e le stentoree geometrie ritmiche del terzo danno vita a brani tanto granitici quanto carichi di pathos. Il terzetto composto da Jeff Suthers (voce e chitarra), Shannon Stein (basso) e Brian Banks (batteria) suona la carica con le trame rumorosissime di “Final Stetch”, infilzate dagli acuti stridenti e dalle bordate malefiche della chitarra. La potente e secca produzione dell’ex-Big Black ci mette del suo per rendere l’esperienza ancora più esaltante, tra cadenze marziali e distorsioni in libera uscita (“Vehicle”, “Boiler”), ballate agrodolci che si trascinano tra indolenza e rassegnazione (“Ricochet”, “Reckoning”), epiche trasfigurazioni del vivere metropolitano (“Motion Building”), chitarre scintillanti che sembrano scivolare dentro il tunnel della malinconia (“New Observation”), code in drone-mode (“Ice Field”) e oblique reminiscenze degli U2 della prima ora (“Light Workers”). Come dimostra “Witness”, uno dei brani migliori del lotto, la musica dei Bright Channel è costantemente in bilico tra estasi allucinata e febbrile esplosività. (Francesco Nunziata)
CHAPTERHOUSE - Whirlpool (Dedicated, 1991)
La breve storia dei Chapterhouse prende il via nel 1987, a Reading, quando cinque ragazzi inglesi comprendono che il vento sta cambiando, e le chitarre sono destinate a riconquistare un ruolo privilegiato, dopo un decennio di plasticosità sintetizzata. Pubblicato il 29 aprile 1991 (quindi diversi mesi prima di “Loveless”, che arrivò nei negozi soltanto il 4 novembre dello stesso anno), il loro primo album, “Whirlpool”, fu uno dei lavori che contribuì a definire le coordinate stilistiche shoegaze, pur dovendosi accontentare di appena tre settimane di presenza nelle chart inglesi, raggiungendo al massimo la posizione numero 23 (ma “Loveless” dovette accontentarsi della 24°, anche se nel tempo venderà certamente di più). I Chaptherhouse mutuano alcuni beat ritmici dalla contemporanea scena di Madchester (“Falling Down” è esplosività pop, con un riff in wah-wah che anticipa “Mysterious Ways” degli U2), miscelandoli a melodie pop e chitarre ultra-effettate. Pur evitando le smanie iper-produttive dei My Bloody Valentine, mettono in mostra i caratteristici “mulinelli” shoegaze, specie in “Treasure” e “Guilt”, una delle tracce in grado di codificare l’estetica del genere. Nei dieci brani di “Whirlpool” c’è maestosità (”April”), sperimentazione (“Autosleeper” è il più strutturato) e, a fornire ulteriore valore aggiunto, la prestigiosa presenza di Rachel Goswell degli Slowdive, ospite in “Pearl”. La versione espansa del 2006, edita da Cherry Red, contiene sette bonus track, riprese dagli Ep “Freefall”, “Sunburst” e “Pearl”, fra le quali spiccano la poderosa cavalcata “Need” e una “Inside Of Me” incredibilmente simile ai Sonic Youth periodo “Goo”. Seguirà, nel 1993, “Blood Music”, non pervenuto nelle classifiche di vendita, disco che già rappresenterà il canto del cigno per il quintetto inglese, il quale tornerà attivo giusto per un paio di compilation celebrative (“Rownderbowt” nel 1996, “The Best Of Chapterhouse” nel 2007) e una breve reunion programmata per qualche nostalgica apparizione live. (Claudio Lancia)
THE CHARLOTTES - Things Come Apart (Cherry Red, 1991)
Essere stati nelle grazie del grande John Peel è sicuramente un buon biglietto da visita. All’epoca (siamo alla fine degli anni Ottanta), gli inglesi Charlottes avevano appena pubblicato il loro primo album, “LoveHappy”, in bilico tra noise-pop e twee-pop e il famoso dj se li coccolava a dovere. Eppure, sarà con il successivo “Things Come Apart” che il quartetto di Huntington raggiungerà il picco della propria creatività, guadagnandosi anche un posto tra gli appassionati dello shoegaze, grazie a una manciata di brani meno ruvidi rispetto a quelli apparsi sul disco precedente e caratterizzati da un invidiabile piglio melodico. Con la chitarra di Graham Gargiulo a fare la parte del leone, con i suoi riff ronzanti e le sue esplosioni torrenziali (con punte di caos lisergico in “Liar”), la sezione ritmica impegnata in un martellamento pressoché incessante (David Fletcher al basso e Simon Scott alla batteria) e la voce di Petra Roddis a svolazzare candida con le sue istantanee agrodolci, “Things Come Apart” si impone come uno dei dischi shoegaze più accattivanti e relativamente orecchiabili della prima ora, capace di ballate solenni come “Prayer Song”, di febbrili allunghi punk’n’roll’n’gaze (“See Me Feel”, “Beautify”, “Love In The Emptiness”), di torridi o “ventosi” assalti al fortino del rock (“Mad Girls Love Song”, “Blue”). “We're Going Wrong”, con le sue scariche dissonanti e le sue indolenze oniriche, è ciò che maggiormente si avvicina ai maestri My Bloody Valentine. Negli oltre nove minuti di “By My Side”, la band si gioca invece la carta del volo psichedelico, fragoroso e delicato al tempo stesso. In coda, anche il classico degli Shocking Blue, “Venus”, viene tramortito dall’assalto rumoroso e avvolgente di una formazione che merita di essere assolutamente riscoperta. (Francesco Nunziata)
COLFAX ABBEY – Drop (Prospective, 1996)
Il quintetto dei Colfax Abbey, originario di Minneapolis, fu responsabile di una delle avventure più interessanti dello shoegaze americano, in virtù di un sound che, a quel genere codificato oltreoceano, aggiungeva dosi massicce di dream-pop e un non disprezzabile afflato space-rock, come ben evidenziato fin dai primissimi secondi di “Feel”, brano d’apertura di questo loro esordio targato 1996. Ma tutto il disco è un continuo rincorrersi di voci distanti, mareggiate elettriche (quelle di “Shy Away” sono al limite dell’estasti dronica) e punti di fuga siderali che in “Chamaleon” convergono in malinconica eleganza “pop”. Il talento melodico della formazione guidata dal cantante e chitarrista Christian Rangel è indubbio e viene valorizzato da costruzioni ipnotiche come quelle di “Once In Awhile”, da anthem delle sfere celesti (“Silver”) e da epiche riletture di certe sonorità new wave più inclini all’abbandono estatico (“Snowshine”). I brani più sperimentali sono gli ultimi due: "On The Edge Of A Heathery Moor" (che si affida a percussioni tribali e a una tavolozza sonora fortemente impressionista) e “Shanesong”, le cui trame psichedeliche e cosmiche si disfano progressivamente, mentre la voce di Rangel assomiglia sempre più al vagito indistinto di una strana creatura, metà alieno, metà robot. (Francesco Nunziata)
CURVE – Doppelgänger (Anxious, 1992)
Una drum-machine all’occorrenza supportata da una batteria vera e propria, le eteree atmosfere del dream-pop e le stratificazioni chitarristiche tanto care allo shoegaze: questa la formula musicale dei londinesi Curve, duo composto dalla cantante Toni Halliday (una Liz Fraser dalle tinte gotiche) e dal programmatore e polistrumentista Dean Garcia. Intorno ai vocalizzi della prima e ai ritmi ballabili del secondo (una sintesi ben evidenziata già nella doppietta iniziale costituita da “Already Yours” e “Horror Head”) si consuma tutta la traiettoria di “Doppelgänger”, loro disco d’esordio impreziosito dalla curatissima produzione di due maestri quali Flood e Alan Moulder. Aspirando all’orecchiabilità, ma comunque desiderosi di non appiattirsi su soluzioni scontate, i due (qui supportati da ben tre chitarristi e da un batterista) cesellano brani in cui la dimensione onirica può ora prevalere sulle linee meccaniche della drum-machine (la title track, “Split Into Fractions” e sostanzialmente anche la dilatatissima ballata “Sandpit”), ora mantenersi in equilibrio instabile con le stesse, producendo risultati in alcuni casi anche più evocativi ("Lillies Dying", “Think And Act”, “Faît Accompli”) ora, ancora, guadagnare le retrovie per lasciare spazio a chitarre noise che sanno di Jesus and Mary Chain (“Ice That Melts the Tips”). Come il disco shoegaze che gli Eurythmics non hanno mai registrato (la band di Annie Lennox e Dave Stewart fu quella in cui Garcia suonò il basso durante i concerti del biennio 1983/84), “Doppelgänger” è uno di quei dischi in cui sia il corpo che l’anima sono coinvolti a pieno regime. (Francesco Nunziata)
DOU WEI & E – Huan ting / 幻聽 (Zhong-Xin Yinxiang Chuban She, 1999)
Dou Wei (竇唯) è uno dei nomi più importanti del rock cinese. Dal 1988 al 1991 leader degli Hei Bao (黑豹), poi solista e al contempo eminenza grigia dietro ai dischi della moglie, la popstar Faye Wong (王菲), si è prodigato in campi molto diversi fra loro: dall'heavy metal al pop da classifica, passando per il rock alternativo, il trip-hop, l'ambient e le colonne sonore. Il suo lascito più importante risiede probabilmente nei primi due dischi come solista: "Hei meng" ("黑夢", 1994), manifesto generazionale nel segno di un art rock sui generis, con influenze spazianti dal gothic rock al reggae, e "Yan yang tian" ("艷陽天"), capolavoro fra dream-pop e cantautorato. In un articolo sullo shoegaze è tuttavia "幻聽" ("Huan ting", "Allucinazioni uditive") il suo disco da indicare. Si tratta del debutto del progetto Dou Wei & E (竇唯·譯), in cui viene accompagnato da un trio chitarra-basso-batteria. Diversi brani dell'album sono invero catalogabili anche e forse soprattutto come dream-pop, tuttavia quando il distorsore affonda ne escono momenti troppo acuminati per poter rientrare in quel campo, il che spinge all'adozione dell'etichetta shoegaze: si pensi in particolare a "Na ne" ("哪呢"), "Dang kong shan" ("盪空山") o al ritornello della title track. Pubblicato originariamente in Cina nell'ottobre 1999, l'album è stato ristampato nel settembre 2001 per il mercato di Taiwan, con una copertina completamente diversa. (Federico Romagnoli)
DROP NINETEENS – Delaware (Caroline, 1992)
I Drop Nineteens creano una variazione americana dello shoegaze, con sfumature dream, noise e emo, in un album che non avrebbe sfigurato nel catalogo della Sarah Records. La band si forma a Boston, la città di Pixies e Dinosaur Jr., diventando il nome di punta della Caroline Records insieme agli Smashing Pumpkins, al debutto nel 1991 con “Gish”. “Delaware” è un album composto di bozzetti: con morbide ballad noise (“Ease It Halen”), impressioni shoegaze (“Kick the Tragedy”, “Angel”), fragili canzoni twee (“Baby Wonder’s Gone”, “My Aquarium”), graffi alt-rock à-la Throwing Muses (“Happen”) e nubi post-hardcore (“Reberrymemberer”). Oltre al brano di apertura “Delaware”, compiuta sintesi dream-noise-emo, spiccano “Winona” e la conclusiva “(Plus Fish Dream)”, tra shoegaze e noise-pop. Niente di particolarmente originale, eppure “Delaware” ci restituisce l’incompiutezza, l’emozionalità e la vitalità di un’età perduta. L’album riscuote più successo in Uk che negli Usa, allora travolti a livello mainstream e underground da grunge, alternative rock, post-hardcore e post-rock. Tempo e luogo sono sbagliati e i Drop Nineteens si sciolgono nell’oblio dopo due anni dal loro debutto, con una parabola a-sincrona simile a quella degli Slowdive che pubblicano “Souvlaki” (Creation, 1993) contestualmente all’esplosione del britpop di Blur e Oasis. (Maria Teresa Soldani)
ECSTASY OF ST. THERESA – Susurrate (Reflex, 1992)
A un certo punto, anche a Praga arrivò l’eco dello shoegaze e molti musicisti in erba impazzirono per quelle sonorità insieme distorte e angeliche. Il chitarrista, cantante e sound designer Jan Muchow fu tra quanti piazzarono in cameretta il poster di Kevin Shields. Chiamati a raccolta alcuni amici, diede vita al progetto Ecstasy Of St. Theresa, registrando quindi “Pigment”, un Ep di quattro tracce che faceva leva su di un ibrido tra shoegaze e post-punk, raggiungendo nella struggente e assordante “Honeyrain” il suo picco emotivo. Dopo aver ascoltato “Loveless”, il suono della band entrò più chiaramente nel recinto in cui i My Bloody Valentine si erano già imposti come i più grandi in assoluto. Così, mentre la Cecoslovacchia era ormai prossima alla dissoluzione, gli Ecstasy Of St. Theresa, presi in prestito degli amplificatori Marshall dal Prague Music Center, registrarono, insieme all'ingegnere del suono Colin Stuart (evidentemente stuzzicato dalla passione che il solito John Peel nutriva per quei ragazzi praghesi), il loro primo Lp, “Susurrate”, impreziosito dalla voce di Kateřina Winterová, all’epoca già attiva anche come attrice. Se brani come “Pistacchio Places” e “Seven” mostrano ancora qualche scoria post-punk (la prima suona come gli Swans degli esordi filtrati dall'estetica di "Isn't Anything"; la seconda, invece ha la forma di un rituale pagano in orbita Virgin Prunes), la bellissima “Swoony” (uno dei massimi capolavori dello shoegaze, per quanto mi riguarda) si immerge totalmente in nebbie allucinate cariche di tensione metafisica, con le chitarre in dronica estasi a guidare una lentissima, disperata ascesa dai toni sinfonici. Dopo il rumore meccanico (pensate a “Cassetto” dei Neu! suonata da una band industrial) con liturgia sussurrata di "To Alison", “Ice Cream Star” si lancia in una progressione spaziale, prima che tutto s’impenni in magniloquenza assordante e distorta. A ruota segue, dunque, “Sweetabyss”, con le sue ipercinetiche accelerazioni e i suoi schiamazzi chitarristici che fanno pensare a campane impazzite nelle mani di torme di fanciulli sonici. In "Thorn in Y'r Grip", la band alterna invece un indemoniato pow-wow a oasi riflessive. La lunga coda di “Absinth”, per distorsioni incendiarie, feedback fuori controllo ed eruzioni sotterranee, è il loro omaggio al Caos. (Francesco Nunziata)
FLYING SAUCER ATTACK - Flying Saucer Attack (VHF, 1993)
Progetto varato nel 1992 dall’inglese David Pearce e dalla compagna Rachel Brook, i Flying Saucer Attack suonavano quella che lo stesso Pearce definì come “rural psychedelia”, in pratica un mix di psichedelia, shoegaze, space-rock, tracce di kraut-rock e di lo-fi indie di matrice neozelandese. L’esordio omonimo del 1993 è già un disco maturo, forte di una sintesi “sballata” tra i ritualismi cosmici di “In Den Gärten Pharaos” (le due parti di “Popol Vuh”, ma anche “Moonset”, un arcano rituale per percussioni, droni e clarinetto free-jazz catturato chissà dove nello spazio più profondo) e le stratificazioni chitarristiche (leggi: coltri impenetrabili di distorsioni e feedback) dei My Bloody Valentine, che proprio in una sorta di cacofonia celestiale cercavano quel sovrappiù di stimolazioni sensoriali per raggiungere l’estasi sonica (“Make Me Dream”, “A Silent Tide”, “The Drowners”, quest’ultima una cover di un brano dei Suede). Le dolci melodie di “My Dreaming Hill” e “Wish” fanno pensare invece ai Jesus And Mary Chain che rifanno una ballata dei Velvet Underground, pur non disdegnando, come nel caso della seconda, di puntare dritto verso le stelle, facendo esplodere le chitarre in un’abbacinante pioggia di asteroidi, oppure costringendole a diventare serpentine radioattive. In coda, la ballata psych-folk di “The Season Is Ours” ci guida infine dentro una misteriosa foresta dello Spirito. (Francesco Nunziata)
FURRY THINGS – The Big Saturday Illusion (Trance Syndicate, 1996)
Scoperti da King Coffey, leggendario batterista dei Butthole Surfers, i texani Furry Things si guadagnarono un posto in primissima fila tra gli esponenti dello shoegaze statunitense con questo bell’esordio che lo stesso Coffey volle fortemente marchiato con il simbolo della sua etichetta, la Trance Syndicate. Contraddistinto da una solida componente psichedelica, spesso coniugata secondo stilemi garagisti, “The Big Saturday Illusion” è disco a suo modo ambizioso, ma mai autocompiaciuto e questo perché Ken Gibson (il maggior compositore della band, nonché cantante, batterista, chitarrista, pianista e organista) sa come tenere la barra dritta anche durante i momenti più dilatati. Dopo “Introism” (brano d’apertura pressoché strumentale, in cui dominano i feedback e la sensazione di galleggiare a mezz’aria, immersi in una bolla spazio-temporale), si procede puntando dritto verso una sintesi tra sonorità relativamente più dure e un pulviscolo chitarristico più insidioso (“Still California”), salvo lasciare spazio, subito dopo, a uno dei momenti più sperimentali del disco, quella “Cats” costruita armeggiando con un nastro rallentato o velocizzato (a mimare i lamenti di un gatto…), un groove dritto e gli arpeggi onirici della chitarra. Sostanzialmente, ogni brano fa storia a sé, dimostrando la volontà dei Furry Things di non ripetersi.
Se, quindi, “Colortime”, nonostante le distorsioni fluttuanti e un piccolo assolo di flauto, è da intendersi come un omaggio al rock’n’roll, le stratificazioni ossessive di “Attic” chiamano direttamente in causa i My Bloody Valentine, laddove “Lawnmower Sounds” è un incubo noise-drone in cui tutti gli strumenti suonano come filtrati da una lavatrice. Tra sperimentazione e astrazione (l’ipnotismo para-industriale di "Porno Queen's Love Dive", l’ambient di “Angel Warm and Cold”, attraversata da sinistri presagi, da incubi metafisici), tra epici ritornelli che fanno decollare ballate lisergiche (“Take You Away”) ed equilibrismi tra deliquio dream-pop, miraggi Stereolab e scariche rumoriste (“Piled High”), il disco giunge all’ultimo miglio con la giusta dose di spavalderia, andando a chiudere in bellezza con i sedici minuti di “Nothing From Zero”, nella cui ouverture marziale si riconoscono anche echi kraut-rock. Dopo una rincorsa a perdifiato, il brano si disperde tra gli angoli più bui dell’universo, lasciandosi dietro una sequela di corde torturate, di enigmi sonori. E quando tutto sembra finito, ecco la rinascita a suon di organo scoppiettante, vocalizzi distorti e un clima di giubilo da post-catastrofe. Che pazzi, questi texani! (Francesco Nunziata)
GRAZHDANSKAYA OBORONA – Solntsevorot/ Солнцеворот (HOR, 1997)
Grazhdanskaya Oborona (Гражданская
Оборона, ossia Protezione civile) è stato uno dei progetti storici del rock russo. In alcuni tratti della sua esistenza si è trattato di una band vera e propria, in altri del nome utilizzato dal solo Yegor Letov (Егор Летов) per diffondere una parte delle sue creazioni. Di Letov si è già parlato su OndaRock quattro anni fa, in occasione della ristampa del suo album più noto, "Russkoe pole eksperimentov" ("Русское поле экспериментов"), alla cui recensione si rimanda per un'introduzione al personaggio. In un articolo specifico sullo shoegaze l'attenzione si deve spostare tuttavia su un altro disco, appartenente alla fase post-sovietica, con Letov finalmente libero da minacce e costrizioni. Pur pubblicato solo nella primavera del 1997, "Solntsevorot" ("Солнцеворот", "Solstizio") venne registrato nel corso del '95, nell'appartamento di Letov, a Omsk. Non senza difficoltà, dato che i vicini di casa protestarono continuamente per il rumore. In seguito Letov avrebbe utilizzato mezzi più professionali, ma all'epoca da un lato le sue possibilità economiche erano ancora ristrette (solo in seguito sarebbero arrivati i concerti davanti a migliaia di persone), dall'altro era difficile scrollarsi di dosso la soluzione casalinga, utilizzata nel corso di tutti gli anni Ottanta per evitare problemi con le autorità. Il disco è forse il migliore che abbia registrato dopo la caduta dell'Urss e nonostante possieda la stessa grana chitarristica satura, tipica da sempre del lavoro di Letov, mostra una stratificazione dei suoni più accurata delle sue vecchie produzioni: quanto basta per spostare le coordinate da noise-rock e hardcore punk, a shoegaze e garage rock, con conseguente risalto anche per le melodie, mai così a presa rapida. (Federico Romagnoli)
HELEN - The Original Faces (Kranky, 2015)
Prima di mettere in iato il progetto Grouper e proseguire col moniker Nivhek, Liz Harris esce con questo disco shoegaze sospeso tra dream-pop e noise, glaciale come il vento che batte il nord del Pacifico. Insieme a lei, Scott Simmons e Jed Binderman (Eternal Tapestry). Quanto è fragile, minimale e concreto il suo contemporaneo lavoro a nome Grouper, “Ruins” (Kranky, 2014), tanto rimane potente, fragoroso ed evanescente “The Original Faces”, quasi come se le anime che agitavano Harris nei precedenti album necessitassero di una scissione e di un'articolazione indipendente. Tutto viene processato, distorto, riverberato. Apre “Ryder”, con una intro scordata e sfrangiata, dove un inquietante incanto dreamy si infrange subito contro una sezione ritmica granitica, come se i più sghembi My Bloody Valentine fossero chiamati a suonare per una puntata di “Twin Peaks” (1990-2017) di David Lynch e Mark Frost. Splendido lo shoe-surf-rock di “Allison”, sospeso tra anni 60 e anni 90, delizioso il noise-pop di “City Breathing”, mentre “Dying All the Time” è la quintessenza shoegaze del disco, tra figure di batteria ricche di piatti, i synth di Harris e il giro di basso che rilancia in avanti il brano. Tutto l’album (ri)suona come se provenisse da un luogo lontano, filtrato dallo spazio, dal tempo, dalle emozioni e dal vuoto, restituendo – come nel finale di “Felt This Way” – anche le parentesi, le interferenze, gli strappi come se anche questi fossero parte di un tutto. (Maria Teresa Soldani)
LEVITATION – Need For Not (Rough Trade, 1992)
Attivi per soli quattro anni, i londinesi Levitation hanno inciso due Lp ingiustamente poco citati. È in particolare il primo dei due, “Need For Not” del 1992, a meritarsi il titolo di culto sotterraneo dello shoegaze. Guidato dall’ex-House Of Love Terry Bickers, il quintetto costruisce nel proprio debutto uno shoegaze verticale e poderoso. In “Need For Not” c’è poco spazio per immersive nebulose e dolci riverberi. Eccezion fatta per la ballata psichedelica “Smile”, i restanti otto brani sono un impetuoso susseguirsi di violenti wall of noise. La brutalità noise della proposta non tarda a farsi assaggiare grazie a brani posti come “Against Nature” e “Hangnail”, posti a inizio scaletta a mo’ di monito. I Levitation non sono però una band tutta muscoli, nei momenti più distesi delle canzoni traspaiono dunque echi dream-pop, come in “Arcs Of Light And Dew” dove tra la rugiada si intravedono le aure di Cocteau Twins e Chameleons. Molto particolare è poi la scelta di cesellare diverse delle canzoni con dettagli barocchi come rintocchi di clavicembalo o stridere d’archi che, insieme alle strutture mai semplici dei brani, svelano il retaggio prog della formazione. (Michele Corrado)
LILYS - In The Presence Of Nothing (Slumberland, 1992)
Per Kurt Heasley, i My Bloody Valentine furono una ragione di vita. L’amore per la band di Kevin Shields risaliva al 1988, anno in cui il chitarrista e cantante di Washington, D.C. aveva cominciato a fare musica con lo pseudonimo Lilys, cercando proprio di emulare i suoi maestri. Dopo tre anni di dura gavetta e un continuo via vai di collaboratori, Heasley riuscì a mettere per la prima volta la sua firma su un vinile: si trattava del singolo “February Fourteenth”, profondamente influenzato da quelle sonorità la cui eco arrivava, chiara e imperiosa, dalla costa orientale dell'Irlanda. Qualche mese dopo, supportato da alcuni musicisti già attivi in altre formazioni (tra cui il chitarrista Archie Moore e i due batteristi Harold "Bear" Evans e Mike Hammel), Heasley registrerà “In The Presence Of Nothing”, disco in cui l’amalgama tra melodie estatiche e vortici di rumore è di tutto rispetto. Tra le soffocate trame di “There's No Such Thing As Black Orchids” e quelle trascinanti di “Claire Hates Me”, trovano posto la droning-ballad di “Elizabeth Colour Wheel”, una “Collider” che mostra le due facce dello shoegaze (quella morbida e quella ruvida, quest’ultima ritoccata con chitarre ancora più aggressive in “Tone Bender”), il volo punk-gaze dello strumentale “Periscope”, il dream-pop per chitarre tremolanti e armonie vocali incrociate di “It Does Nothing for Me", i mulinelli rumoristi che, a più riprese, dilaniano la folk-ballad di “Snowblinder” e i dodici minuti di “The Way Snowflakes Fall", il cui compito è quello di traghettare lo shoegaze in un’enigmatica landa tribal-ambient. (Francesco Nunziata)
LOVESLIESCRUSHING - Xuvetyn (Projekt, 1996)
Pionieri dello shoegaze a stelle e strisce, i Lovesliescrushing si formarono nel 1991 a East Lansing, nel Michigan, quando il chitarrista Scott Cortez e la cantante Melissa Arpin-Duimstra presero a fare esperimenti sonori col desiderio di trovare un punto d’equilibrio tra lo shoegaze dei My Bloody Valentine, il dream-pop dei Cocteau Twins, l’ambient di Brian Eno e alcune delle pagine più evocative della classica contemporanea (György Ligeti, Arvo Pärt, Henryk Górecki). Dopo aver pubblicato un non proprio esaltante “Bloweyelashwish” (1993), il duo toccò l’apice della sua creatività con il successivo “Xuvetyn”, lavoro che dimostrò la grande capacità di Cortez di trasformare (complice un vasto armamentario di pedali ed effetti) il suono della chitarra in abbacinanti affreschi metafisici, dentro cui la voce della Arpin-Duimstra, anch’essa filtrata, tratteggia i confini di sogni che nascondono le tracce di una miriade di altri sogni esplosi. L’iniziale “Valerian (Her Voice Honeyed)” è già un degno manifesto della loro arte, ma il primo colpo da maestro è “Mandragora Louvareen”, in cui emerge nitido l’incanto di una musica nata al culmine di uno scontro tra il respiro spettrale di angeli moribondi e le rumorose oscillazioni di galassie lontanissime, oscillazioni che, quando si distendono in sterminato abbandono, assumono connotazioni sinfoniche (si ascolti, ad esempio, “Xarella Almandyne”), altrove declinate con piglio cosmico (“Milkysoft”, "Luma (Weblike And Crescent)") o con sfumature misticheggianti, come se i Cocteau Twins si fossero dati alla musica sacra (“Blooded And Blossom-Blown”, “Flowered Smother”, “Mother Of Pearl”). In “Virgin Blue-Eyed”, i bisbigli diventano echi che diventano bisbigli e le campane instancabili-minimaliste si trascinano dietro una melodia-carillon. “Bones Of Angels” oscilla senza sosta tra tentazione della quiete e desiderio dell’annichilazione. “Seesaw”, con le sue distorsioni come mareggiate siderali, condensa in poco più di un minuto tutto l’amore per la "Sanguinosa Valentina". Poi, sempre più rarefatti e inafferrabili, i due scolpiscono la bellissima “Silver (Fairy-Threaded)”, che procede da una commovente liturgia della solitudine verso un climax harsh-noise, prima di scagliare l’ultimo sguardo, timido e disperato, verso il Silenzio. Altra vetta è rappresentata da “Golden-Handed”, degna delle pagine più abbacinanti dei Black Tape For A Blue Girl, il progetto varato agli inizi degli anni Ottanta da Sam Rosenthal che, guarda caso, è anche il patron della Projekt, l’etichetta che consentì a “Xuvetyn” di vedere la luce. (Francesco Nunziata)
LUCYBELL – Lucybell (EMI, 1998)
Formazione storica del rock alternativo cileno, tuttora attiva (l'ultimo album, “Mil caminos”, è uscito giusto l'anno scorso), con l'omonimo album pubblicato nel 1998 perfeziona la formula già presentata con “Peces” e “Viajar” e restituisce l'immagine più intensa, vibrante, coraggiosa del quartetto di Santiago, colto un attimo prima della defezione di due dei suoi membri originari (il tastierista Gabriel Vigliensoni e il bassista Marcelo Muñoz). Più romantico, sperimentale e decentrato (diversi i momenti che sforano i sei minuti), l'album rosso dei cileni non sacrifica i tratti eminentemente rock della loro proposta, la sospende però in flussi ben più ipnotici, diluiti, ben più inseriti nei codici shoegaze rispetto al passato e con un singolare fiuto per l'elettronica, che dalle evoluzioni trip-hop di “Viajar” qui prende addirittura inedite pieghe davvero prossime alla drum'n'bass (i temi ritmici che introducono la batteria prima del ritornello della lunga cavalcata “Intento no marearme”). Tra le lente fluttuazioni di “Flotar es caer”, downtempo aggiornata al linguaggio polivalente dei grandissimi Soda Stereo (e c'è qualcosa di Gustavo Cerati, nelle interpretazioni più emotive di Claudio Valenzuela) ai saliscendi nelle coloriture à-la Ride di “Dame calma”, passando per episodi più slanciati come la propulsiva “Caballos de histeria” e il tema in scia gotica di “Sólo soy un adicto”, tutta distorsioni e cambi di scena, la band firma il suo canzoniere più intenso e viscerale, spinge la propria ricerca fino al punto di rottura, un attimo prima che sintetizzatori e glitch prendano il sopravvento e l'assetto dei Lucybell venga totalmente stravolto. Un canto del cigno straordinario, per uno dei dischi che meglio ha saputo incanalare il potenziale dello shoegaze in una cornice più ampia e ardita. (Vassilios Karagiannis)
LUSH – Gala (4AD, 1990)
La prima incarnazione dei Lush si presentò sulla scena londinese nel 1987 con il nome di Baby Machine ed era influenzata da tante cose diverse: i Cocteau Twins, il garage-rock, il post-punk e il pop degli anni Sessanta. Senza riuscire a farsi notare dagli addetti ai lavori, i Baby Machine lasciarono ben presto il posto ai Lush, la cui formazione ruotava intorno al duo di cantanti e chitarristi costituito da Miki Berenyi ed Emma Anderson. Dopo aver firmato per la prestigiosa 4AD, la band registrò (con Chris Acland alla batteria e Steve Rippon al basso) un trittico di lavori (il mini-album “Scar” e gli Ep “Mad Love” e “Sweetness And Light”) che ebbe ottimi riscontri critici, grazie al suo sapiente mix di shoegaze e dream-pop, con più di un guizzo post-punk tra le righe. Per cercare di sfondare sul mercato americano e su quello giapponese, nel 1990 la 4AD decise di raccogliere questo materiale sulla compilation “Gala”, che aggiungeva al malloppo anche la cover di un brano degli ABBA (“Hey, Hey Helen”) e una “Scarlet” (già in scaletta su “Scar”) in versione leggermente più lunga e originariamente pensata per una compilation approntata dal Melody Maker. Il risultato è un tre quarti d'ora di musica in cui si alternano momenti più eterei, in cui si sente l’eco dei Cocteau Twins (“Sweetness And Light”, “Sunbathing”, “Thoughtforms”, “Scarlet”, “Etheriel”), ad altri (in numero maggiore) relativamente più robusti e, all’occorrenza, caratterizzati da un piglio catchy (“Breeze”, “De-Luxe”, “Second Sight”) o da un approccio più rumoroso (“Leaves Me Cold”, “Downer”, “Baby Talk”) che in “Bitter” deborda in cavalcata garage-pop. (Francesco Nunziata)
MEDICINE - Shot Forth Self Living (Def American, 1992)
Creatura di Brad Laner, ex-batterista dei Savage Republic, i Medicine si formarono nel 1990 in quel di Los Angeles e con “Shot Forth Self Living” esordirono sulla lunga distanza, imponendosi immediatamente all’attenzione del pubblico più smaliziato, grazie a composizioni accattivanti per il loro substrato melodico, ma anche intelligenti per la loro capacità di sperimentare soluzioni tutt’altro che scontate, a cominciare da “One More”, sostenuta da una chitarra che suona come una sirena stridente che non la smette di farci pensare alla “Metal Machine Music” di Lou Reed rivisitata dai Jesus and Mary Chain. Il risultato è l’epitome del loro shoegaze-noise-pop. Invece di limitarsi a disturbare/sommergere dolci melodie con coltri più o meno opprimenti di feedback (tra i brani relativamente più lineari, “Defective”, “A Short Happy Life” e “Miss Drugstore”), Laner (voce, chitarra, pianoforte e percussioni) e soci (Jim Goodall alla batteria, Jim Putnam alla chitarra e all’elettronica, Eddie Ruscha al basso e ai nastri e Beth Thompson alla voce) si divertono anche con rumorismi anarchici (“Aruca”), declinano numeri più psichedelici (“5ive”, ovvero i Boo Radleys catapultati in pieno Paisley Underground), masticano groove funkeggianti (“Sweet Explosion”), spingono una nenia obliqua verso un disastrato ingranaggio psycho-industriale (“Queen Of Tension”), congedandosi infine con la magniloquente “The Christmas Song”, in cui lo shoegaze punta dritto verso le stelle, lasciandosi dietro una scia di miasmi doom. (Francesco Nunziata)
THE MEETING PLACES - Find Yourself Along The Way (Words On Music, 2003)
Los Angeles, settembre 2001. Quattro amici (Scott McDonald, chitarra; Chase Harris, voce, chitarra; Dean Yoshihara, batteria; Arthur Chan, basso) decidono che è ora di mettere a frutto le proprie comuni passioni musicali, fondando The Meeting Places. Un paio d'anni sono più che sufficienti per farsi le ossa tra prove, qualche concerto in giro e la scrittura dei primi brani, destinati a trovare posto su “Find Yourself Along The Way”, loro disco d’esordio pubblicato nel 2003 dalla Words On Music. Il risultato è prezioso, perché la formula (shoegaze + dream-pop + suggestioni cantautoriali ascrivibili all'Americana più atmosferica) si tramuta in una serie di brani di sicuro impatto. Affidata a "Freeze Our Stares", l'apertura propone una ballata lussureggiante che, nel suo evocare miraggi di Slowdive e My Bloody Valentine, si lascia cullare da chitarre in perpetua fluttuazione dronica, le stesse che ritroveremo a puntellare i ritmi più sostenuti e il piglio catchy, che sa di Jesus and Mary Chain senza oscurità, di "On Our Own". Quel piglio sarà in parte ripescato anche in "Blur The Line", un brano che, oggi come oggi, potremmo definire come una delle possibili anticipazioni delle estatiche cavalcate dei War On Drugs. La band suona con trasporto e senza strafare, guidata dalla voce magnetica di Harris lungo le delicate trame psych-folk di "See Through You" e “Turned Over”, attraversando con decisione quelle baldanzose di "Wide Awake" (comunque pronta a impennarsi in shoegaze-apoteosi, che diventerà mirabile poesia spaziale nella bellissima "Same Lies As Yesterday") e quelle solenni di "Where You Go". E se il boogie onirico di "Now I Know" potrebbe essere letto come un loro personalissimo omaggio a “I’m Waiting for the Man” dei Velvet Underground, “Take To The Sun" dimostra infine che i Meeting Places sono a proprio agio anche con le partiture più astratte. (Francesco Nunziata)
MY VITRIOL - Finelines (Infectious, 2001)
Esce come una meteora nel 2001 da una giovanissima band anglo-indiana formatasi al college a Londra, che dopo tre anni di tour abbandonerà temporaneamente la carriera musicale per finire l’università. Il nu-gaze dei My Vitriol è una scarica di romanticismo e adrenalina, con enormi chitarre à-la Trail of Dead sopra ritmiche vigorose e il cantato morbido di Som Wardner. L’intro sognante di “Alpha Waves” apre la strada alla folgorante “Always Your Way”, anthem passionale tra shoegaze e emo. Un album di una forza eccezionale, figlio di quegli anni 90 che sembrano “nominalmente” citati in “The Gentle Art Of Choking”, quintessenza di sensibilità ed energia. Sedici brani che lasciano il segno, alternando pieni/vuoti e bridge sospesi (“Infantile”). Il messaggio della band è chiaro: bisogna tirare tutto fuori, schizzare via sulla cassa e il rullante, alzare gli amplificatori e saturare le chitarre per trovarsi “in fuga da fermo” (“Conscience is my greatest curse/ The fridge is full of just deserts/ Fall into all your avenues/ And I'm falling at your feet/ And I'm crawling at your feet” - “Cemented Shoes”). Con un improbabile look da Tokio Hotel – che a breve compiranno il loro scempio sulla parola “emo” - con “Finelines”, i My Vitriol conducono una vera e propria operazione a cuore aperto per gli amanti dello shoegaze e della sua rinascita a inizio millennio. (Maria Teresa Soldani)
SERENA MANEESH - Serena-Maneesh (HoneyMilk, 2005)
Una delle realtà più affascinanti dello shoegaze del primo decennio del nuovo millennio furono senza dubbio i Serena Maneesh, guidati dal cantante e multistrumentista Emil Nikolaisen. Ciò che allontanava la band norvegese dal solito revival di quelle sonorità che My Bloody Valentine e compagnia bella avevano portato ad alti livelli a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo era la sua capacità di contaminarsi con tante cose diverse. Così, se la traccia su cui si apre il sipario di questo omonimo debutto sta a metà strada tra i Jesus and Mary Chain e le pulsazioni ipnotiche del “Velluto Sotterraneo”, “Selina's Melodie Fountain” è ancorata a uno schema ritmico geometrico che rimanda direttamente alla new wave più ballabile ed è continuamente destabilizzata da bordate rumoriste e geyser lisergici. Questo trattamento è riservato anche al sunshine-pop di “Un-Deux” e “Sapphire Eyes”, con quest’ultima a darsi anche arie kraut-rock con la complicità degli Stereolab. Un groove sincopato percorre, dunque, le trame spaziali di “Candlelighted”, una forma mutante di garage-rock psichedelico si materializza in “Beehiver II”, mentre “Don't Come Down Here” strimpella la nostalgia strizzando l’occhio anche ai Pink Floyd, prima di deragliare in tormento sonico. E se “Her Name Is Suicide” è la loro versione del dream-pop e “Chorale Lick” dice di essere pur sempre figlia di “Psychocandy”, ma di avere intenzioni più bellicose, i dodici minuti finali di “Your Blood In Mine” rappresentano il trionfo della loro arte psichedelica, tra ambientazioni esotiche che mimano gli anfratti più oscuri dell’anima, crescendo tribaloidi tipo i Can che jammano con i Clipd Beaks mentre un sassofonista ci dà dentro di free-jazz e, per finire, una coda per pianoforte solitario. (Francesco Nunziata)
SOUTHPACIFIC - Constance (Turnbuckle, 2000)
È un tripudio strumentale, fatto di spazi aperti e distese siderali, di feedback e vibranti motivi chitarristici, quello che ci accompagna nel corso dell'ora di “Constance”, unico album pubblicato dal terzetto canadese. Con l'eccezione di “Built To Last”, suadente slow-jam psych con i primi My Bloody Valentine nello specchietto retrovisore, la voce umana è del tutto assente, per un'ora di contemplazioni che tengono sempre fede ai dettami dello shoegaze, ma lo ibridano con copiose dosi di space-rock (alla maniera dei migliori Flying Saucer Attack) e dolci allusioni psichedeliche, senza disdegnare per questo anche curiose parentesi elettroniche. È più che sufficiente perché la band disegni tratteggi cosmici in cerca dell'insondato (“Analogue 9”), accenni carezze acustiche sul calare della sera (“A Better Life Since”), intense cavalcate tracciate da tremolo e groove sotterranei di basso, che, alla maniera dei Furry Things, vorresti non finissero mai (“Stay Ahead, Far Behind”). In mezzo, tanto spazio per contemplazioni al confine con l'ambient (“Pintail Gate”), sguardi puntati al cielo, ma col ritmo ben piantato sulla terra (“Instrumental”), loop che si accartocciano e si ricompongono, ma che risultano più intensi e fissa-scarpe che mai (“Instrumental”). Un one-shot prezioso e luminoso, per una band recentemente tornata a pubblicare (il singolo “Depths”, più dream-pop e placido, diffuso giusto l'anno addietro), ma che già nella sua fase originaria ha saputo esprimersi con assoluta lucidità. (Vassilios Karagiannis)
STARFLYER 59 - Starflyer 59 [Silver] (Tooth & Nail, 1994)
Prendete una buona dose di shoegaze britannico, un pizzico di dream-pop e le rocciose e metalliche distorsioni del grunge (quello più “sabbathiano”, insomma). Agitate il tutto per qualche secondo e avrete il suono degli Starflyer 59, progetto varato nel 1993 dal cantautore, cantante, chitarrista e, all'occorrenza, batterista californiano Jason Martin. L'esordio sulla lunga distanza, con copertina argentata ("Silver" è il nome con cui è conosciuto tra gli appassionati), la partecipazione del bassista Andrew Larson e del batterista Dan Reid e l'annuncio, alla fine delle note di copertina, "Starflyer exclusively rides triumph motor bikes", arrivò nel 1994 e si fece apprezzare per la sua compattezza, accentuata anche da una durata non eccessiva (34 minuti). La capacità di Martin di costruire brani in cui sonorità "pesanti" convivono con diafane linee vocali e, all'occorrenza, con efficaci dosi di melodia, è indubitabile e si esprime al meglio in brani come “Blue Collar Love”, "Monterey" (che svela, tra le righe, una certa passione per gli Smashing Pumpkins), l'epica "Sled", la visionaria "2nd Space Song", l'indolente "Droned" e una "The Dungeon" per cui si potrebbero invece chiamare in causa i Soundgarden. Brani come "Hazel Would" e "Happy Days Are Here Again" sono invece caratterizzati da una chitarra dissonante e rumorosissima che porta impressa sulle proprie corde il nome dei My Bloody Valentine. E se “She Only Knows” è il brano più vicino al dream-pop, la chiassosa euforia da cui germoglia "The Zenith" fa addirittura emergere influssi power-pop. (Francesco Nunziata)
SWALLOW - Blow (4AD, 1992)
Una parabola velocissima quella degli Swallow, duo inglese composto da Mike Mason e Louise Trehy. Sfruttando il momento d’oro dello shoegaze riuscirono a strappare un contratto con la 4AD, grazie a un demo inviato alla label. Non avevano abbastanza canzoni per completare un disco, quindi in fretta e furia misero a punto tutto l’occorrente per incidere “Blow”, imitando le proprie band preferite. “Blow”, che rimase il loro unico album, venne pubblicato il 20 luglio 1992: undici tracce devote al caratteristico suono fissato dai My Bloody Valentine, basti ascoltare l’iniziale “Lovesleep”, titolo-omaggio alla formazione di Kevin Shields, così come il nome stesso scelto dal duo. “Tastes Like Honey” è invece chiaramente ispirata da “Alison” degli Slowdive, altro gruppo che, assieme ai Cocteau Twins influenzò il loro modo di suonare. “Blow” scorre in costante bilico fra shoegaze e dream-pop, andando a sfociare nelle imperiose “Cherry Stars Collide” e “Head In A Cave”, poste strategicamente a fine tracklist. Nel settembre successivo gli Swallow pubblicarono l’interessante appendice “Blowback”, esperimento contenente otto alternative take quasi interamente strumentali. Poi il cambio di etichetta, il passaggio alla Rough Trade, un ulteriore Ep contenente quattro brani, “Hush”, un tour con i Mazzy Star e i preparativi per un nuovo album che non vide mai la luce. Quelle canzoni, rimaste in formato demo casalingo, saranno pubblicate soltanto nel 2009, in digitale, nel postumo “Soft”. Mike e Louise resteranno poi ai margini del giro che conta, rappresentando una delle tante meteore che non seppero resistere alla prepotente onda d’urto britpop, che nel giro di pochi mesi fece percepire come precocemente superata l’intera scena shoegaze. (Claudio Lancia)
VELDT – Afrodisiac (Mercury, 1994)
Nel 1992, quando i Veldt registrarono il loro primo Ep, “Marigolds”, per una band composta per tre quarti da musicisti di colore era molto difficile entrare nelle grazie di una major. All’epoca, infatti, tutte le etichette di grido erano alla ricerca dei nuovi Living Colour, ma alla band di Raleigh, North Carolina, non poteva fregare di meno di seguire la scia hard-rock/funk/metal di Vernon Reid e compagnia bella. Quello che invece avevano in testa era ben altro: una fusione tra lo shoegaze britannico, l’alt-rock più in voga del momento e il soul psichedelico. Era addirittura dal 1986 che la band messa su dai gemelli Chavis (Daniel alla voce e Danny alla chitarra) andava facendosi le ossa suonando dinanzi a platee piccole o meno piccole, cosa che aveva comunque consentito al quartetto (completato da Marvin Levi alla batteria e dal “bianco” David Burris al basso) di affinare sempre più capacità tecniche, songwriting e interplay. Insomma, anche se non erano i Living Colour, sapevano il fatto loro. Così, quando infine apposero la firma sul contratto offerto loro dalla Mercury, tutto sembrò rappresentare nient’altro che la giusta ricompensa dopo tanti sacrifici. “Afrodisiac”, questo il titolo del loro primo disco, divenne subito un piccolo oggetto di culto, spinto anche dalla discreta accoglienza, nel circuito underground, del singolo “Soul In A Jar” (che offrì ai Jesus and Mary Chain l’opportunità di un remix a suon di scansioni industriali e feedback), ma caratterizzato anche da brani trascinanti e carichi di groove “(It’s Over”), accorati inni contro la misoginia (la splendida "Revolutionary Sister"), ruvide deflagrazioni melodiche (“Dusty Blood”, “Last Call”), ritornelli che assomigliano a tuffi nell’enigmatica euforia della nostalgia (“You Take The World”) e, ancora, da ballate circondate da spazi infiniti (“Juicy Sandwich”, “I Couldn't Care Less”). Ma tutta la tracklist merita di essere ripercorsa con attenzione, dal romanticismo carico di pathos drammatico di “Heather” (forte della migliore performance chitarristica del disco e impreziosita dal sax dell’ospite Arthur Phillips), all'“Outro (Shaved”) strumentale, passando per i Cocteau Twins riletti al cospetto di Prince di “I Wanna Be Where You Are” o utilizzati per scardinare lo scrigno dei segreti dei Temptations (“Daisy Chain”), senza dimenticare – e sarebbe un peccato gravissimo! – quella "Until You're Forever”, per cui bisogna pensare a un matrimonio in cielo tra i My Bloody Valentine più rarefatti e gli U2 della prima ora, facciamo quelli di “New Year’s Day”. Tra il tono soulful della voce di Daniel e i fraseggi della chitarra di Danny (che riesce a passare, senza intoppi, dalle texture degli shoegazer ai disinneschi hard-rock tanto cari a certo alt-rock di quegli anni, incrociando a più riprese anche le luccicanze oniriche del dream-pop) si consuma il disegno di un disco che va giù tutto di un fiato, senza stancare mai. (Francesco Nunziata)
WALRUS - Hikari No Kakera (Baidis, 2000)
Guidati dal cantante e chitarrista Akitomo Tanaka, i Walrus si sono guadagnati un seguito di culto nell’ambito della scena shoegaze soprattutto per le undici tracce contenute in “Hikari No Kakera”, quarto loro disco la cui pubblicazione risale ormai a più di venti anni fa. Volendo mettere i puntini sulle “i”, però, l’approccio della band giapponese al suono che i My Bloody Valentine portarono a vette inarrivabili è tutt’altro che ortodosso, vista la pesante contaminazione dello stesso con stilemi space, post- e alt-rock. Il risultato è, in ogni caso, di grande impatto emotivo, grazie anche a un afflato epico che attraversa da cima a fondo questi cinquantasei minuti e rotti di musica. Ma andiamo per ordine. L’avventura dei Walrus ebbe inizio nel 1997, quando Tanaka formò la band chiamando a raccolta l’altro chitarrista Atsushi Kobayashi, il bassista Kaoru Miura e il batterista Kenroh Wakasugi. Messo nero su bianco sul contratto controfirmato dalla locale Baidis, i quattro incisero l’anno successivo “Virus” e “Vaccine”, due album di alt-rock robusto e con qualche tentazione prog. Fece meglio “Seven” (1998), in cui la trama shoegaze era più marcata e meglio declinata. Ma il picco della loro creatività lo raggiunsero con il già citato “Hikari No Kakera”, che giunse nei negozi circa un mese prima dell’inizio del nuovo millennio. Come testimonia il primo brano in scaletta, “Exit”, caratterizzato da distorsioni diluvianti, il suono della band è diventato ancora più rumoroso e dilatato, e se ci fosse ancora qualche dubbio, a demolirlo basteranno pochi secondi della title track, una stupenda cavalcata space/shoegaze ad accompagnare la fragile, distante voce di Tanaka alle prese con una linea melodica che fa di tutto per resistere alla forza di un vento incontenibile. La continua tensione tra epica grandeur, melodia e rumore (quello del noise-rock psichedelico e quello, “tessiturale”, dello shoegaze) rappresenta l’essenza anche di ballate dell’esosfera quali “Toneriko”, “Tsuki” e “Wade”, tutte impreziosite da ritornelli indimenticabili, ma anche di “Dyed”, che andrà a chiudere l’album con una nota di profonda malinconia. Dal canto suo, se “Matataki” diffonde un senso di dolcissima desolazione, “Nemuri” si prende la scena con il suo shoegaze estatico, ma di un’estasi che suona stranamente esotica, come se le palme accarezzate dal vento si trovassero a metà strada tra due vette coperte da nubi coloratissime. Ecco, quindi, una “Iro no aru Basho e” che fa pensare agli Hawkwind rifatti dai Soundgarden, laddove “Spit” la band di “Space Ritual” la catapulta tra i solchi di un disco dei Cows. Prima di disperdersi nel silenzio, “Orange” fa letteralmente tremare le pareti con un’acidissima sfuriata noise-rock. "Hikari No Kakera" è una delle gemme nascoste dello shoegaze. (Francesco Nunziata)
WHIPPING BOY – Submarine (Liquid, 1992) Se lo shoegaze vi fa venire in mente soltanto spazi sconfinati e accecanti distese di luce, probabilmente è perché non avete mai ascoltato il superbo esordio dei Whipping Boy, “Submarine”. Di loro potete già leggere la pietra miliare di “Heartworm”, disco più noto e di culto nella loro discografia (per quanto possa aver senso parlare di popolarità con una band così di nicchia), ma in uno speciale sullo shoegaze è il primo lavoro a meritare una doverosa menzione. Lo shoegaze di questo album è cupo, claustrofobico, perennemente sull’orlo di un collasso di nervi. Per tale motivo “Submarine” occupa un posto a sé stante nel genere, di cui rappresenta una delle declinazioni più “dark”. Le linee di chitarra reiterate sembrano chiudersi verso l’interno piuttosto che cercare una deflagrazione. Scordatevi voci eteree e celestiali: Fearghal McKee eredita il cantato spigoloso del post-punk, non disdegnando sortite in pieno screaming. L’uno-due iniziale è al fulmicotone, mentre “Sushi” rallenta il passo, ma solo per gridare più disperatamente. “Astronaut Blues” è il momento più rarefatto, seguito dalla dolcissima melodia di “Bettyclean”. Ma è solo una transizione verso i paesaggi gelidi di “Snow” e soprattutto della title track, che chiude il disco tra dissonanze e rumorismi. Gli scarsi riscontri in termini di vendite avrebbero portato allo scioglimento della band qualche anno dopo, ma “Submarine” parla ancora oggi con tale potenza che la sua importanza all’interno dello shoegaze non è minimamente in discussione. (Gioele Sforza)
WHIRR – Distressor (Graveface, 2012)
Dal 2010 in poi lo shoegaze, la cui linfa vitale sembrava essersi affievolita, ha vissuto una prosperosa fase di rinascita. Proprio nello scenario appena citato si andranno ad inserire gli statunitensi Whirr che, quello stesso anno, pubblicheranno dapprima una demo e poi “Distressor”, il loro primo lavoro organico: un disco che oscilla tra velleità rumoristiche e il dream-pop più dilatato, senza mai cedere troppo alle lusinghe dell’una o dell’altra parte. I Whirr lasciano librare nell’aria fumi nostalgici e morbose catarsi, con le chitarre che ricoprono di feedback e distorsioni le voci, quasi sempre intellegibili. Alcuni pezzi funzionano meglio di altri. È il caso di “Leave”, una ventata di spleen in piena faccia e inno nu gaze, di “Child”, con i suoi rimandi a “Only Shallow” dei My Bloody Valentine, di “Ghost” e del languore senza tempo di “Sandy”. Le altre canzoni di “Distressor” paiono invece perdersi in melodie, riverberi e rumori troppo omogenei per rimanere impressi, piccole indagini emozionali e sonore che verranno portate a compimento nei lavori successivi, “Pipe Dreams” e “Sway”. (Giulia Quaranta)
ADORABLE - Against Perfection (Creation, 1993)
BAILTER SPACE - Vortura (Flying Nun Records, 1994)
BAND OF SUSANS - The Word and the Flesh (Restless, 1991)
BLIND MR. JONES – Stereo Musicale (Cherry red, 1992)
BRIAN JONESTOWN MASSACRE - Methodrone (Bomp!, 1995)
BRIGHT CHANNEL – Bright Channel (Flight Approved, 2004)
CHAPTERHOUSE - Whirlpool (Dedicated, 1991)
THE CHARLOTTES - Things Come Apart (Cherry Red, 1991)
COLFAX ABBEY – Drop (Prospective, 1996)
CURVE – Doppelgänger (Anxious, 1992)
DOU WEI & E – Huan ting /幻聽 (Zhong-Xin Yinxiang Chuban She, 1999)
DROP NINETEENS - Delaware (Caroline, 1992)
ECSTASY OF ST. THERESA – Susurrate (Reflex, 1992)
FLYING SAUCER ATTACK - Flying Saucer Attack (VHF, 1993)
FURRY THINGS – The Big Saturday Illusion (Trance Syndicate, 1995)
GRAZHDANSKAYA OBORONA– Solntsevorot / Солнцеворот (HOR, 1997)
HELEN - The Original Faces (Kranky, 2015)
LEVITATION – Need For Not (Rough Trade, 1992)
LILYS - In The Presence Of Nothing (Slumberland, 1992)
LOVESLIESCRUSHING - Xuvetyn (Projekt, 1996)
LUCYBELL – Lucybell (EMI, 1998)
LUSH – Gala (4AD, 1990)
MEDICINE - Shot Forth Self Living (Def American, 1992)
THE MEETING PLACES - Find Yourself Along the Way (Words On Music, 2003)
MY VITRIOL - Finelines (Infectious, 2001)
SERENA MANEESH - Serena-Maneesh (HoneyMilk, 2005)
SOUTHPACIFIC - Constance (Turnbuckle, 2000)
STARFLYER 59 - Starflyer 59 [Silver] (Tooth & Nail, 1994)
SWALLOW - Blow (4AD, 1992)
VELDT – Afrodisiac (Mercury, 1994)
WALRUS - Hikari No Kakera (Baidis, 2000)
WHIPPING BOY – Submarine (Liquid, 1992)
WHIRR – Distressor (Graveface, 2012)
VIDEO
My Bloody Valentine "Only Shallow"(1991)
Ride "Vapour Trail"(1990)
Slowdive "Alison" (1993)
Adorable "Sunshine Smile" (1993)
Swervedriver "Rave Down" (1990)
Chapterhouse "Pearl" (1991)
Telescopes "To Kill A Slow Girl Walking" (1990)
Lush "Sweetness And Light" (1990)
Blind Mr. Jones "Spooky Vibes" (1992)
Band of Susans "Now Is Now" (1992)
Catherine Wheel "Texture" (1992)
Curve "Coast Is Clear" (1991)
Soda Stereo "Sequencia Inicial" (1992)
Drop Nineteens "Winona" (1992)
Lilys "There's No Such Things As Black Orchids"(1992)
Flying Saucer Attack "My Dreamin' Hill" (1992)
Whipping Boy "Safari" (1992)
Furry Things "Nothing From Zero" (1995)
Grazhdanskaya Oborona "Nechego teryat'" (1997)
Lovesliescrushing "Ghosts That Swirl" (1996)
Veldt "It's Over" (1994)
Dou Wei & E "Dang kong shan" (1999)
My Vitriol "Always Your Way" (2001)
The Meeting Place "On Our Own" (2003)
Whirr "Ghost" (2011)
Helen "Dying All The Time" (2015)
Brian Jonestown Massacre "I Love You" (1995)
Classifica shoegaze di OndaRock |