Whipping Boy

Heartworm

1995 (Columbia)
alt-rock

Dici Dublino e pensi agli U2. O, se sei un'anima indie, ai My Bloody Valentine. Al limite ai grandissimi Thin Lizzy dell'indimenticato Phil Lynott, la cui statua campeggia fiera davanti a un pub di Henry Street. Di certo, i Whipping Boy non sono il primo nome musicale che associ alla capitale irlandese. All'inizio degli anni Novanta insieme ai Power Of Dreams erano considerati dalla stampa specializzata il futuro del rock alternativo anglofono. Addirittura il New Musical Express, recensendo il bellissimo esordio "Immigrants, Emigrants And Me", di questi ultimi scrisse: "Saranno le stelle di domani". Non ci andò vicino nemmeno di striscio. Quasi nessuno oggi si ricorda di loro, sicuramente qualcuno in più ricorderà i Whipping Boy. Tuttavia non come la band che in realtà più di altre ha saputo condensare in un solo disco lo spirito alternative del loro tempo. Il disagio che muta in rivalsa, lo sconforto in epica, il vuoto dei sentimenti in dichiarazione romantica. Gli anni Novanta hanno vinto, perdendo. E "Heartworm" ne è una specie di manifesto.

Esala rimpianto da ogni nota, il secondo dei soli tre dischi pubblicati dai Whipping Boy. Un senso di incolmabile nostalgia per quello che poteva essere e non è stato. Il disco del possibile botto rimasto invece stella cadente del firmamento rock, destinata col suo fulgore a mantenere vivi i sogni di chi lo ascolta ma condannata, per l'eternità, all'incapacità di esaudire i propri. Dopo l'esordio rumoroso e acerbo di "Submarine" (1992), la Columbia notò quei quattro giovani che avevano preso il nome dal whipping boy - traducibile in italiano come "capro espiatorio" - ossia il ragazzino sul quale, nelle corti inglesi, ricadevano i rimproveri e le punizioni per le marachelle fatte dal principe bambino. Il management li mise sotto contratto e loro ripagarono con un album che alleviava le abrasioni shoegaze dell'esordio senza rinunciarvi completamente, anzi rincarandole in sfuriate mozzafiato tra un senso per la melodia pop, arrangiamenti di (psico)drammatica eleganza e un umore timbrico vicino ai Red House Painters. Un equilibrio miracoloso tra il brio melodico britannico - contiguo non solo stilisticamente ma anche geograficamente - e l'estetica tutta statunitense dell'afflizione esistenziale che stregò la critica ma non riuscì a fare breccia nel dorato mondo del mercato discografico.

"Heartworm" si apre come fosse un disco dei Tindersticks, con un violino ferale a tratteggiare un interno noir. È "Twinkle", morbosa cantilena pop che fruga tra i velami di tossicodipendenze affettive ("Lei è l'aria che respiro, non così pura per me") prima di essere spazzata via dalla furia devastatrice di un tornado di tremolo. Tornado che muta nel libeccio di "When We Were Young", elegia fremente in memoria di una giovinezza irrequieta, vissuta lungo il filo sottile che separa la bravata adolescenziale dall'atto delinquenziale, l'innocenza dei diciott'anni dalla colpa di non averli più. Mentre la burrasca della sezione ritmica agita di turbolenze noise la melodia jingle delle chitarre - che potrebbe tranquillamente essere uscita dall'esordio degli Stone Roses - il bollettino dagli anni perduti elenca ubriacature moleste, finestre rotte per ammazzare la noia della periferia, serate trascorse tra canne, scazzottate e labbra di ragazze di cui non ci si ricorda più il nome, e poi ancora macchine rubate, poesie, "Starsky e Hutch" alla tv. Una cronaca stentorea di un tempo fermo su se stesso, che doveva ancora compiersi, rompere l'immortalità di chi la morte non conosce ("quando eravamo giovani nessuno moriva e nessuno invecchiava"), di chi non si è ancora spezzato in due innamorandosi ("E la prima volta che hai amato, avevi tutta la vita da dare").

Altre due tracce e arriva la terza hit mancata del disco, la vetta di un'intera carriera e forse di un intero modo di sentire: "We Don't Need Nobody Else", non abbiamo bisogno di nessun altro. Che, urlato in quel modo, con l'urgenza di una telefonata nel cuore della notte, dopo aver descritto l'incomunicabilità come reclusione, l'abulia di una relazione stanca che guarda fisso dentro un oblò affacciato sul nulla, esterna esattamente il contrario. Venne scritta in un periodo di grande difficoltà e sfiducia, quando - col peso del grande salto nel vuoto del passaggio alla Columbia - gli entusiasmi intorno alla band iniziarono a scemare e tutte le persone che fino ad allora l'avevano sostenuta lentamente si dileguarono. "We Don't Need Nobody Else" fu una razione sprezzante, al contempo fiera e fragile.
Il resto dell'album assale di domande inevase, escogitando soluzioni formali sempre diverse, sebbene amalgamate in un malessere di fondo che trova la propria cifra estetica nel suo stesso esorcismo. Dal sussurro notturno di "Tripped" (gli Echo And The Bunnymen innervati di nevrosi made in 90's) al dolente crooning alla Bad Seeds di "The Honeymoon Is Over", dalla pura sfuriata noise-pop di "Blinded" al groove ipnotico della chitarra ritmica in "Users", "Heartworm" raggiunge la quiete suprema nella commovente serenata per archi e chitarra acustica di "Morning Rise". L'alba che sorge di nuovo in occhi abituati a vedere solo notte: "Lascia sorgere il mattino, come i nostri cuori desiderano".

A seguito della pubblicazione dell'album, il manager della band Gail Colson organizzò ai Whipping Boy un tour europeo a supporto di Lou Reed rivelatosi presto un disastro totale, giacché la band girò l'Europa a fare interviste piuttosto che a esibirsi sul palco, compromettendo quindi la possibilità di far conoscere la propria musica fuori dai confini patri. Inevitabile conseguenza fu la rottura con la Columbia nel 1996. In realtà, si trattò di un siluramento unilaterale da parte della casa discografica, a quel punto ai Whipping Boy non restò che cercarsi un'altra etichetta per cui incidere il nuovo materiale che già avevano iniziato a comporre. Il loro ultimo, terzo e non a caso omonimo disco uscì per la Low Rent nel 2000, da allora - a parte un mezzo tentativo di raffazzonata reunion - Ferghal McKee (voce), Paul Page (chitarre), Myles McDonnell (basso) e Colm Hassett (batteria) non hanno più voluto saperne di ritornare a calcare palchi e riprovarci con l'industria discografica.
È andata come è andata, i Whipping Boy sono una storia chiusa. Successo non significa solo diventare ricchi e famosi, significa avere il potere di fare accadere qualcosa. Significa ritrovare "Heartworm" a capo di una lista dei migliori 50 dischi irlandesi di sempre - redatta dagli ascoltatori di Phantom FM, la principale radio dublinese - davanti a "Loveless", "The Joshua Tree", "Astral Weeks", "Jailbreak" e "Rum, Sodomy & The Lash". Significa legare le emozioni l'una all'altra, trattenerle, non lasciare che vadano via. "Heartworm" è questa cosa qua, a distanza di anni ne è conscio anche Ferghal McKee: "Catturammo qualcosa di bello, qualcosa di vero. Questo è fottuto successo".

04/06/2017

Tracklist

  1. Twinkle
  2. When We Were Young
  3. Tripped
  4. The Honeymoon Is Over
  5. We Don't Need Nobody Else
  6. Blinded
  7. Personality
  8. Users
  9. Fiction
  10. Morning Rise
  11. (Ghost Track) A Natural