La stampa inglese, che più di tutto ama affibbiare etichette improbabili, se non totalmente strampalate, li chiamò gli "shoegazers", i "fissascarpe", per la loro abitudine, nemmeno poi così strana, a starsene a capo chino sugli strumenti durante i concerti, negandosi anche la minima forma di comunicazione con il pubblico. La spiegazione poteva cercarsi magari nel fatto che i cosiddetti "shoegazers" (vanno doverosamente citate band come Slowdive, Ride o Pale Saints) erano tutt'uno con la loro musica, o meglio con i loro inestricabili grumi sonori, con le loro chitarre sovraccaricate di feedback ed effetti stranianti e stordenti, con le voci e le melodie appena abbozzate, bisbigliate e sommerse da un oceano di rumore.
La strada fu aperta a metà anni ottanta dagli scozzesi Jesus & Mary Chain, ma furono gli anglo-irlandesi My Bloody Valentine a elevare questo stile ai suoi livelli più eccelsi. La ricetta inventata dai Jesus & Mary Chain era di una semplicità estrema: innocue melodie pop nel più puro stile britannico venivano sistematicamente e brutalmente violentate da chitarre distorte ai limiti del noise. Ma laddove gli scozzesi erano ancora in qualche modo legati ai canoni della "canzone", i My Bloody Valentine, guidati dal chitarrista Kevin Shields, portarono questa ricerca sonora verso lidi totalmente inesplorati.
Dopo anni di Ep e cambiamenti di formazione la parabola dei "veri" My Bloody Valentine (cioè il quartetto formato da Kevin Shields e Bilinda Butcher, voci e chitarre; Debbie Googe, basso; Colm O'Ciosoig, batteria) durò praticamente lo spazio di due soli, straordinari album, "Isn't Anything" e, appunto, "Loveless". In questi due lavori è racchiusa tutta l'enorme portata innovativa della loro opera, una vera e propria rivoluzione che avrebbe segnato molto del rock a venire: quello realizzato da Shields e compagni è un ibrido pressoché inconcepibile, eppure grazie a loro diventato realtà, tra le armonie stravolte dal rumore dei Velvet Underground e quelle fragili e sognanti dei Cocteau Twins; i My Bloody Valentine erano garage-rock e acid-rock, erano la psichedelia più lisergica e il dark-punk più oscuro, erano una pop-band di stampo beatlesiano travestita da noise-band "radicale", e viceversa. Erano tutto e il contrario di tutto, insomma, ed è chiaro che la loro testimonianza sonora ultima e definitiva, non poteva che essere un disco che richiamava e riassumeva trent'anni di storia del rock ma che non somigliava a nient'altro che fosse mai stato prodotto nella storia del rock: un macigno di suoni caotici, stratificati e sovrapposti, che non concede pause, che trascina in un viaggio che è insieme infernale e celestiale. Il tutto orchestrato dal luminoso e folle genio di Kevin Shields, che ha scritto, arrangiato e prodotto l'album: ed è sempre lui che, facendo largo uso di campionamenti e manipolazioni di ogni genere, è riuscito a deformare la musica fino a renderla un unico, compatto, muro di suoni stranianti e martellanti, toccando spesso e volentieri la pura avanguardia.
L'iniziale "Only Shallow", con quel suo impasto di strati e strati di chitarre instabili e tremolanti, quel ritornello squarciato dall'elettronica, la voce della Butcher dolce e distante come quella di un angelo (o di un diavolo tentatore?), il tutto condotto a ritmi trascinanti, è subito rappresentativa delle intenzioni di Shields. A contare non sono più le canzoni o le melodie in sé (che pure sono bellissime nella loro semplicità), ma i vortici di suoni amalgamati tra di loro fino a formare un unico insieme che potrebbe continuare a fluttuare così, senza peso e senza forma, per minuti e minuti (non a caso dal vivo le canzoni venivano dilatate a dismisura). "Loomer" è un brano che in altre mani sarebbe terrorizzante, un potenziale hardcore di potenza tellurica, ma con i My Bloody Valentine, grazie al contrasto con la voce sempre più eterea e impalpabile, anche il rumore più aggressivo diventa estasi paradisiaca.
Il capolavoro nel capolavoro, un brano più unico che raro, che dimostra l'autentico genio musicale di Kevin Shields è "To Here Knows When", ovvero un tentativo inedito e probabilmente ineguagliabile di noise "da camera": la melodia c'è ed è dolcissima, lontana, quasi subliminale, sepolta sotto tonnellate di rumore, mentre la distorsione estrema ed informe della chitarra è qui accoppiata ad un quartetto d'archi "artificiale", ma nessuno di questi elementi è in contrasto con l'altro, tutto si fonde alla perfezione, con una naturalezza sconcertante.
I brani centrali sono più regolari, veloci e potenti come si conviene a una vera rock-song, salvo essere qua e là solcati e resi "estranei" da strambi motivetti elettronici: ma poi si ascolta una canzone come "Come In Alone" e come per magia siamo tornati nei Sixties ad assistere a un immaginario duetto tra i Beatles e i Velvet Underground, ennesima dimostrazione di come il genio dei My Bloody Valentine sia tutto nella loro abilità davvero unica a rendere omogeneo ciò che apparentemente sembra inaccostabile.
"Sometimes", introduce anche la chitarra acustica ad accompagnare il sussurro malinconico di Shields, ma il sottofondo noise è sempre lì, incombente e tumultuoso, pronto in ogni istante ad impadronirsi della canzone. Ma ancora una volta nessuno degli elementi in contrasto prende il sopravvento sull'altro: tutto è immobile, come in contemplazione: è l'equilibrio perfetto tra melodia e rumore, dolcezza e violenza, in definitiva tra ordine e caos. Inattesa e bellissima, come un improvviso squarcio di luce che trapela da nubi temporalesche, arriva "Blown A Wish", un coro di voci e suoni che sembrano volteggiare in un'atmosfera onirica, irreale, e in questo caso sembra davvero di vedere i magici Cocteau Twins alle prese con le alchimie di John Cale. Ancora un veloce garage-rock "What You Want", conduce al brano di chiusura, la lunga "Soon", ovvero quando il rock ‘n roll flirta con la tecnologia e la house-music, un'idea che sarà approfondita quasi contemporaneamente dai Primal Scream di Bobbie Gillespie (non a caso sarà proprio con i Primal Scream, che Shields avvierà una proficua e duratura collaborazione).
Dato alle stampe questo capolavoro i My Bloody Valentine sparirono dalla circolazione. Insieme a loro giunse alla fine anche il grande sogno degli "shoegazers": una rivoluzione incompiuta, la loro, che si risolverà nel giro di pochi anni nella triste "restaurazione" del britpop, con gruppi come gli Oasis, i quali non faranno che banalizzare e rendere totalmente anonimo quel connubio tra chitarre distorte e melodie di impronta Sixties che, con quest'album soprattutto, ma anche con le altre loro opere, e con quelle dei loro compagni d'avventura, i My Bloody Valentine e gli "shoegazers" avevano portato a livelli extraterrestri. E "Loveless" resterà per sempre il loro manifesto: arte astratta, una dimensione parallela, un sogno ad occhi aperti.
02/11/2006