Tra i più sensibili, ma anche meno celebrati interpreti del periodo shoegaze britannico, i Pale Saints sono stati una band dalla parabola repentina, che pure non ha mancato di incidere dal punto di vista stilistico e, soprattutto, da quello della sensibilità compositiva sul panorama post-wave d’oltremanica, lasciando tracce di sé in numerosi artisti che, anche di recente, coltivano sonorità delicate e sognanti, permeate di un’aura costantemente adolescenziale, eppure pervase da una forza spirituale parimenti trascolorata attraverso chitarre e melodie evanescenti.
Ben lungi dall’essere semplicemente una band da collocare nella scia di My Bloody Valentine o Jesus & Mary Chain, i Pale Saints affondano le proprie radici nelle sfumature più introverse del retroterra wave di fine anni 80, sulle quali si innesta l’ombrosa e delicata ispirazione del leader e cantante Ian Masters.
Leeds, aprile 1987: il chitarrista Graeme Naysmith e il batterista Chris Cooper rispondono a un annuncio scritto a mano da Ian Masters, semplicemente interessato a incontrare musicisti che apprezzassero band quali Dead Can Dance, Television, Eyeless In Gaza, 13th Floor Elevator, a prescindere dallo strumento suonato e da quanto bravi fossero nel farlo. Si forma così, quasi per caso, il nucleo centrale dei Pale Saints, i cui primi due anni di attività trascorrono tra concerti in pub dei dintorni di Leeds e un paio di demo registrati in bassa fedeltà e dai profondi connotati dark: il secondo di questi demo, "Barging Into The Presence Of God", nonostante l’esiguità delle copie prodotte, riceve ottimi riscontri critici, contribuendo a far circolare il nome della band anche al di fuori della città d’origine e fornendole la possibilità di supportare i già più affermati Lush in occasione di un loro concerto londinese. Qui avviene l’incontro con Ivo Watts-Russell, proprietario della 4AD, che si interessa immediatamente alla band offrendole un contratto, prontamente sottoscritto dal terzetto di Leeds, nonostante altre offerte ricevute nel frattempo.
Tutto avviene molto rapidamente, tanto che già prima della fine del 1989 la 4AD pubblica l’Ep Barging Into The Presence Of God, formato da tre soli brani, due dei quali tratti dall’omonimo demo, che già lasciano intravedere le molteplici anime artistiche dei Pale Saints: dalle reminiscenze dark di “Sight Of You” alla liquidità chitarristica tipicamente shoegaze di “She Rides The Waves”, alla cupa introversione di “Mother Might”.
L’anno successivo segna la pubblicazione del primo album vero e proprio, The Comforts Of Madness. Il ritmo incessante dell’introduttiva “Way The World Is”, al limite di certo punk percussivo, sorprende per impatto, così diretto e attorcigliato intorno a un flusso vocale avvolgente e immediato. Le intenzioni stilistiche non sono sempre ben mirate, ma nonostante ciò le canzoni risultano ben scritte e veder convivere varie anime non stona per niente. Si passa dalle pungenti strutture shoegaze (“You Tear The World In Two”) a canzoni di pop vagamente rumorose e deliziose (“Sea Of Sound”).
Risalta da subito la splendida voce di Ian Masters, precisa e ineccepibile nei pezzi più tesi, capace di sorprendenti evoluzioni nei frangenti in cui l’andamento è più diluito ed è necessario cambiare registro interpretativo. Un altro elemento di forza, che scaturisce con grande vigore, è la fantasia con cui vengono gestiti i momenti di “stasi”: il liquido tappeto di chitarre viene spesso frastagliato da metallici barriti di provenienza estranea, quasi fossero ectoplasmi che vagano solitari fra le maglie di ogni composizioni.
L’immediatezza di questa musica si scopre incredibilmente efficace e funzionale nella parte centrale del disco, dove brani dal breve minutaggio come “True Coming Dream” e “Little Hammer” assumono forme tra loro differenti. Se la prima trasuda dolore luciferino, la seconda sprigiona intrecci di melodia appena sfiorata dai colori tenui dell’arcobaleno. Il mix perfetto fra queste anime solitarie, o influenze passate, viene espletato dall’eversiva “Insubstantial”, che presenta un finale colmo di feedback corrosivi.
Le inflessioni dream-pop, con qualche spunto etereo, di “A Deep Sleep For Steven”, unite alla cristallina ispirazione racchiusa in “Language Of Flowers” e soprattutto in “Feel From The Sun” fanno di The Comforts Of Madness una prima prova squisita, espressione di un talento collettivo strabordante e pieno di intriganti sviluppi futuri. E le conclusive “Sight Of You” (splendida) e “Time Thief” non fanno che confermare questa asserzione.
Mentre la band corona la ricerca di una seconda chitarra con l’inserimento in formazione di Meriel Barham, originaria cantante dei Lush, alla fine dello stesso anno, quasi a suggellare The Comforts Of Madness, vede la luce l’Ep Half-Life, Remembered. Irrefrenabili nel loro procedere, le cinque canzoni qui proposte sanno di urgenza espressiva, corroborata da un’inventiva a dir poco miracolosa. Da notare come la versione in cd contiene soltanto quattro tracce, mentre nel vinile si trova una hidden track aggiuntiva.
La title track sprizza colori variopinti, la mastodontica “Babymaker” annichilisce con valanghe di decibel. Incuriosisce il particolare sviluppo di “Two Sick Sisters”, impantanata in una serie di effetti acquatici molto ben compenetrati nei battiti solenni della batteria.
La più accessibile “A Revelation”, forte di un piglio noise-pop molto fresco, si erge a canzone simbolo di questo inizio di carriera, così delicata e docile, fulminea e nervosa. Conclude, con movenze oniriche, la traccia nascosta “The Colour Of The Sky”.
L’anno successivo vede la band, che ormai include stabilmente anche Meriel, lavorare al suo secondo album, nel frattempo anticipato dal Flesh Ballon, altro Ep, questa volta all’insegna degli esperimenti. La lunga “Hunted” accenna soluzioni di psichedelica vagamente acida, la splendida “Porpoise” innesta un ritmo elettronico su fraseggi di tastiera e synth. Una misteriosa voce femminile, fra le righe di “Kinky Love” (cover di Nancy Sinatra), ammalia con ardore passionale, “Hair Shoes (Demo)” spunta dal niente per scombinare certezze mai completamente fissate.
Si tratta poco più che di una parentesi, una prova generale per l’album che segnerà il giro di boa della storia dei Pale Saints, nonché la più sentita espressione artistica di Ian Masters, adesso supportato da una band completa e versatile, ideale contesto per la sua sensibilità scrittoria e per le sue timide ma ferme pennellate compositive.
Nel frattempo, giusto per riassumere questi primi anni di intensa e frammentaria (in termini numerici) attività discografica esce in edizione limitata, per la sezione nipponica della Columbia, Mrs. Dolphin. Una pregevolissima raccolta dei pezzi più incisivi del gruppo, nella quale figurano in prevalenza tracce già precedentemente edite, ad eccezione dell’inedito (e mai ripreso) “Colours And Shapes”, dai sapori delicati e screziati da forti impressione new wave, pare infatti di sentire una versione edulcorata dei primi Echo & The Bunnymen.
È il 1992; è l’anno del gioiello In Ribbons, piccolo capolavoro nel quale la grazia della Barham completa l’immaginario sonoro di Ian Master, adesso dalle tinte più vivide di sempre e capace di alternare con destrezza diversi registri espressivi.
Non vi sono infatti soltanto chitarre shoegaze nei dodici brani di In Ribbons, ma mille altre sfaccettature sonore, a partire dalle variazioni liquide e dalle continue onde emotive che aleggiano sulle melodie incantate del brano d’apertura (e successivo singolo di discreto successo) “Throwing Back The Apple”. Benché nei numerosi passaggi elettrici le ritmiche siano ancora molto presenti, il loro impatto risulta quasi sempre attutito dalle ripetute aperture armoniche incrementali di brani come “Hunted” e “Ordeal”, anche se non mancano momenti dai ritmi serrati e dalla più pronunciata tensione chitarristica, quali “Babymaker” e “Liquid”, ove la presenza del cantato femminile evoca spontanei accostamenti a indie-band al femminile come Breeders e ovviamente Lush.
In Ribbons presenta però anche un’altra faccia, che lo rende lavoro prezioso e unico nel contesto shoegaze, allontanandolo anzi dagli schemi del genere. È una faccia oscura, ma al contempo serena, nella quale lo spirito ombroso di Masters si manifesta sviluppando da un lato gli accenni dream-pop già ravvisabili nell’album di debutto ed elaborando, dall’altro, un’intima e personalissima veste acustica nella quale concede più libero sfogo al suo sublime disincanto.
L’etereo dream-pop di Masters dipana lentamente la sua tensione emotiva, sfiorando astrattezze degne dei Cocteau Twins, soprattutto quando, come in “Thread Of Light”, è la voce femminile a ingentilire sferzate elettriche in dissolvenza, cantando versi di struggente romanticismo che nella “beauty hidden in the pain” inquadrano perfettamente l’essenza di una poetica timida e riservata, che trova in “Hairshoes” la sua versione maschile, con il cantato di Ian sospeso in una placida contemplazione di disarmante bellezza. La stessa che nel gioiello acustico “Shell”, incentrato soltanto su una chitarra e sugli arrangiamenti d’archi, svela un songwriting cristallino ove, spogliato dalle pur splendide componenti elettriche, emerge in tutta la sua cruda dolcezza lo spleen quasi anelato nell’invocazione finale “learn to cry, learn to fly”.
Subito dopo l’uscita del disco viene rilasciato il singolo del pezzo di apertura, “Throwing Back The Apple”. Oltre al brano omonimo e a una reprise con percussioni aggiuntive di “Half-Life Remembered”, vengono piazzati due inediti molto sfiziosi, “Blue Flower” e “Reflections From A Watery World”. La prima, splendidamente decorata da una voce femminile soave, si adagia su una bellezza eterea e sospesa, la seconda, più lacerante e flemmatica, conclude un ciclo di fondamentale importanza per la band.
Proprio dopo aver toccato l’apice della loro carriera, le strade dei Pale Saints e quelle del loro fondatore si separano. Artista meglio a proprio agio nell’essere piuttosto che nell’apparire, Ian Masters lascia infatti la band dopo il tour del 1993.
Orfani della loro figura più carismatica, dei Pale Saints resta ormai quasi soltanto il nome, ciononostante i componenti rimasti nella band tentano di proseguire la loro attività all’insegna di una musica più normalizzata e meno personale, chiaramente influenzata dal grunge che stava arrivando prepotentemente. Data la quasi onnipresenza della voce di Meriel Barham, il gruppo inizia ad assomigliare in maniera abbastanza netta a band come i Belly o i Throwing Muses, anche per il contestuale ingresso nella band di una seconda presenza femminile, impersonata dalla bassista e seconda voce Colleen Browne che, seppur sostituiva Masters nella line-up del gruppo, mai avrebbe potuto prendere il suo posto in termini di ispirazione e sensibilità.
Il risultato di questo radicale cambiamento non è tuttavia disprezzabile, e nonostante la carica sovversiva della loro musica sia diminuita e il confronto col recente passato appaia ingeneroso, le canzoni superano l’esame con una sufficienza netta.
Nel 1994 esce Fine Friend, Ep che anticipa di poco il disco Slow Buildings. Il pezzo omonimo, esemplifica la mutazione sopra citata; si vira verso un dream-pop chitarristico spesso teso e nervoso, adagiato su di una sezione ritmica meno cavillosa rispetto al passato, dove la voce aggraziata della Barham si incastra con grande pregio.
“Special Present” inizia prorompente, con la chitarra che sputa note distorte e disagiate, per poi svilupparsi in maniera molto diluita e coerente, con diversi frangenti di strumentale molto pregevoli, soprattutto quando le due chitarre (Graeme Naysmith e Meriel Barham) dialogano amabilmente. Lo strumentale “Marimba” mette in risalto qualità di improvvisazione inusuali per la band.
Infine, l’ultima testimonianza discografica a nome Pale Saints, l’album Slow Buildings, è un coacervo di idee e soluzioni che spesso vanno in conflitto in quanto leggermente disomogenee; in esso va tuttavia riscontrato l’immane sforzo della band di colmare la mancanza di Masters, che è sempre stato il compositore della maggior parte del repertorio discografico prima di questo lavoro.
Se pregevoli pezzi strumentali hanno dalla loro la fantasia (“King Fade”, la splendida coda di “Henry”), la voce femminile già in precedenza elogiata rende magiche le canzoni che tocca, ora nervose, ora docilmente condotte verso liquidi frangenti ansiogeni. Alcuni frangenti più mastodontici, come la parte finale di “Song Of Solomon”, sanno di post-rock chitarristico ante-litteram, estatico e senza tempo.
Constatati i riscontri in prevalenza negativi ricevuti da Slow Buildings, si conclude con quest’opera il breve ma intenso iter dei Pale Saints. La band si scioglie nel 1997, lasciando come ultima traccia la cover di un pezzo di Tom Waits, registrata in occasione del tributo all’artista californiano dal titolo “Step Right Up”.
Ciononostante, i vari membri della band proseguono la loro attività artistica, impegnandosi in progetti di alterna fortuna: Graeme Naysmith e Chris Cooper daranno infatti vita ai Lorelei e successivamente ai Detonators, mentre Meriel Barham si cimenterà in una carriera solista sotto l’alias Kuchen, con il quale nei primi anni 2000 ha inciso due album di delicata elettronica per l’etichetta tedesca Karaoke Kalk. Da segnalare, inoltre, l’apprezzabile presenza di Colleen Browne come bassista nel terzo album della band, "Heart Throbs".
Ian Masters, invece, fedele alla propria personalità schiva, si ritira nell’ombra, girando il mondo tra Stati Uniti, Brasile e Giappone (dove attualmente risiede) e cimentandosi con una lunga serie di progetti e collaborazioni, dall’impronta spesso sperimentale e il più delle volte usciti in edizioni limitate, tanto da risultare quasi tutti di difficile reperibilità.
Delle band successive ai Pale Saints, è la prima ad avere maggiore visibilità, anche grazie all’iniziale perdurare del rapporto con la 4AD: si tratta degli Spoonfed Hybrid, attivi tra il 1993 e il 1997 e autori di un ottimo album omonimo e un mini intitolato Hibernation Shock, nei quali Masters, affiancato da Chris Trout, accentua i caratteri sognanti della sua musica, recuperando nel contempo i sentori wave delle origini, adesso reinterpretati secondo un registro molto più intimo e raffinato, che non tralascia nemmeno approcci con l’elettronica, evidenti nel mini e più timidi nell’album, incentrato invece soprattutto su un suono arioso e romantico, che sembra quasi tradurre in forma strumentale più complessa e quasi orchestrale le composizioni mature e molto prossime a quanto di meglio espresso con i Pale Saints.
Nel frattempo Masters intraprende anche una collaborazione breve e per lui insoddisfacente (basti vedere il riferimento tuttora presente sul sito di “The Institute of Spoons”, che documenta la sua attività attuale) con gli His Name Is Alive, insieme ai quali nel 1996 registra l’album “Stars On E.S.P.”. Insieme a Warren Defever e proprio a margine di quel lavoro, sorge l’ennesimo, fugace progetto di Master, contrassegnato da Ep acustici usciti sotto denominazioni variabili come ESP Neighbourhood, ESP Dolphins e ESP Summer: con quest'ultima pubblica un interessante e misconosciuto album omonimo.
È però questo ancora il periodo del disorientamento post-abbandono dei Pale Saints, un periodo di produzioni convulse, per quanto non prive di contenuti validi, in particolare quelle del breve periodo Spoonfed Hybrid, al quale Masters resterà indissolubilmente legato, tanto che a tutt’oggi possono considerarsi le ultime produzioni frutto della costanza artistica di questo straordinario autore, in seguito non più in grado (più per limiti caratteriali che di capacità) di dare continuità all’espressione del suo talento.
Dal Miniature Album di divagazioni sperimentali semiserie, uscito nel 1998 a nome Friendly Science Orchestra a tutti gli anni 2000, la storia di Ian Masters è frammentaria e di difficile ricostruzione, fatta di tentativi estemporanei e collaborazioni sempre più orientate alla sperimentazione e su sonorità prossime a territori elettronici. Tra questi tentativi di breve durata possono ricordarsi le tracce a nome Sore & Steal e un album di sperimentazioni rumoriste del 2003 dal titolo I’m Sore, stampato in soli cinquanta esemplari, e infine l’interessante incontro con Marc Tranmer (Montgolfier Brothers, Gnac) che nel 2004 diede luogo a un Ep a nome Wingdisk.
Le ultime notizie di Ian Masters sono del 2007, anno in cui ha contribuito cantando dei pezzi sui lavori della band alt-rock giapponese Luminous Orange e di quella elettroacustica statunitense Dive Index.
Nonostante non sia più protagonista in prima persona, Ian Masters sembra dunque quasi incapace di restare lontano dalla musica, strumento naturale di espressione della sua timida personalità, incurante di qualsiasi meccanismo dello show-business eppure testimone tra i più lucidi e importanti della musica britannica dei primi anni 90, alla quale il nome dei suoi Pale Saints resta indissolubilmente legato.
PALE SAINTS | ||
Barging Into The Presence Of God (Ep, 1989) | 6,5 | |
The Comforts Of Madness(1990) | 7,5 | |
Half-Life, Remembered (Ep, 1990) | 7 | |
Flesh Baloon (Ep, 1991) | 7 | |
Mrs. Dolphin (raccolta, 1991) | 6,5 | |
In Ribbons (1992) | 8,5 | |
Fine Friend (Ep, 1994) | 5,5 | |
Slow Buildings (1994) | 6,5 |
SPOONFED HYBRID | ||
Spoonfed Hybrid (1993) | 7,5 | |
Hibernation Shock (Ep, 1996) | 6,5 |
Sito Pale Saints (semi-ufficiale) | |
Sito Institute of Spoons (Ian Masters) | |
Testi | |
VIDEO | |
Sight Of You (da The Comforts Of Madness) | |
Time Thief (da The Comforts Of Madness) | |
Half-Life (da Half-Life, Remembered) | |
Kinky Love (da Flesh Baloon Ep) | |
Blue Flower (da Throwing Back The Apple Ep) | |
Throwing Back The Apple (da In Ribbons) | |
A Thousand Stars Burst Open (da In Ribbons) |