Warren Defever è personaggio carismatico e dalle forti
ambizioni. Passeggia tra i generi con una disinvoltura invidiabile, alla ricerca
di una sintesi tra vecchio e nuovo che fa apparire ormai lontanissimi i tempi
dell'inquieto "Livonia". Oggi se ne esce con un lavoro (il primo dopo
l'abbandono della 4AD) in cui non smentisce la sua fama di eccentrico,
consegnandoci un disco gradevole e a suo modo raffinato, anche se non del tutto
convincente.
Lo vediamo all'opera, indaffarato, mentre imbastisce
canzoni come fossero puzzle in cui ogni tassello si porta dietro un po' del suo
mondo privato e delle sue passioni musicali. Certosino, lavora con cura, sembra
non lasciare niente al caso, ma non sempre l'ispirazione asseconda le sue
scelte. Se la "Introduction" accarezza tinte psichedelico-spaziali, con "After I
Leave U" siamo già in territorio pop, ma dall'anima electro e dal respiro
profondamente alieno (in "In My Dreams", invece, prevarranno tinte moderatamente
malinconiche). Il mood jazzato di "I Thought I Saw" diffonde una
contagiosa sensazione di elettricità, mentre "*C*A*T*S*" fonde la pulsazione
sintetica con un senso di misteriosa ipnosi. Un respiro di morbida evanescenza
si avverte anche dietro l'esile struttura di "Your Bones", in cui ancora
gravitano essenze jazzy dentro un fondale appoggiato su di un luccichio di
synth.
Ma, ormai, lo sappiamo: Defever ama confondere le carte in
tavola, muovendosi su più livelli e facendo perdere spesso la bussola delle
emozioni. Bisogna, quindi, abituarsi a un continuo rinfrescarsi di idee e
soluzioni musicali. Che, poi, a dirla tutta, è anche cosa che ci permette di
mantenere desta l'attenzione. E' diletto puro, allora, dondolare il capo sulla
cadenza vagabonda di "You Need a Heart" o sull'arioso pop-jazz di "Get Your
Curse". Le voci di Erika Hoffmann, Andrea FM e Lovetta Pippen si alternano con
grazia lungo i brani, muovendosi tra picchi angelici, abbandoni ironici e un
cantilenare contagioso.
Una tavolozza stracolma di colori, ma in cui a
prevalere sono soprattutto le sfumature con cui le varie tonalità si
(con-)fondono. Un bignami post-moderno di generi e stili, di facile lettura e
gradevole compagnia. Capace anche di farci scuotere un pochettino nell'r&b
di "Seven Minutes", tutto lustrini sintetici e scodinzolamenti free-jazz (il sax
mordi-e-fuggi di Matthew Bauder)". Insomma, un bel mucchio di carinerie, fino
all'apoteosi romantica della tenera ballata folk-blues di "Send My Face",
giocherellona - ma con garbo e timidezza - nel suo sfiorare il cuore.
20/12/2006