Per gli appassionati di musica pop inglese la parola Liverpool significherà sempre e solo una cosa: The Beatles. Alla fine degli anni Settanta, però, i fasti della città vengono rinverditi da un pugno di band, che per alcuni anni rimettono Liverpool al centro della geografia pop, o perlomeno le permettono di contendere il primato alle immancabili Londra e Manchester. Tra questi gruppi, uno, gli Echo & The Bunnymen di Ian McCulloch e Will Sergeant, riuscirà ad avere tanto successo da giocare per alcuni anni nella "Premier League" del pop d'oltremanica, insieme a U2 e Simple Minds, e a influenzare molte delle successive evoluzioni della musica britannica.
Negli ultimi anni il nome della band è stato associato ai Coldplay di Chris Martin che hanno eletto i Bunnymen a loro numi tutelari (soprattutto ai tempi di "A Rush Of Blood To The Head"), ma la loro influenza non può essere esclusa neanche per quanto riguarda i Verve o i primi Radiohead.
Echo & The Bunnymen hanno avuto a loro favore una attitudine positiva che li ha portati a guidare la gioventù pop fuori dalle secche angosciose del post-punk, verso i romanticismi pop di metà anni Ottanta e le celebrazioni edoniste della Cool Britannia. Hanno però avuto anche una qualità che i gruppi successivi, immersi nell'iperrealismo degli ultimi decenni, non hanno saputo replicare: quella visionarietà naif che fa sì che, ascoltando Ocean Rain, uno non possa evitare di sentirsi trasportato indietro nel tempo.
Più che altro ci si potrebbe chiedere le ragioni dell'oblio (come abbiamo visto, piuttosto relativo) che ha colpito una band che in Inghilterra è stata regolarmente in vetta alle classifiche e che ha fatto parte di quella seconda "British invasion" con cui la new wave britannica ha colonizzato le radio Usa (dove ci si ricorda di loro, basti dire che la loro "The Killing Moon" apre la sequenza iniziale del film "Donnie Darko" del 2001). Una ragione potrebbe essere la scarsa simpatia del cantante Ian McCulloch, uno con la bocca larga e che non esita a spararle grosse. Basti come esempio la sequela di perle che ha inanellato in una sola intervista ("Record Collector", Gennaio 2004) dove gli si chiedeva di commentare le sue canzoni: "The Killing Moon" è una delle dieci canzoni più grandi di sempre", "Playgrounds And City Parks" è meglio di Shakespeare, avevo i brividi quando l'ho scritta", "Over The Wall", pare che gli Stone Roses non sarebbero mai esisti senza di essa","Nothing Lasts Forever" è la canzone più importante che ho scritto, senza di essa non avreste avuto il più grande ritorno di tutti i tempi (ovviamente quello dei Bunnymen nel 1997)... Viva la modestia.
In realtà è probabile che questo atteggiamento derivi almeno in parte dalla consapevolezza di non aver ottenuto quanto meritava, perché, è importante dirlo a questo punto, i primi quattro Lp dei Bunnymen sono dei grandi dischi pop.
La leggenda narra di un gruppo (The Crucial Three) formatosi nella Liverpool del 1977, da cui sarebbero emersi i fondatori delle tre band destinate a portare alla rinascita la città: Pete Wylie poi nei Wah!, Julian Cope poi nei Teardrop Explodes (e poi solista, cervello fritto dagli acidi, autore di ponderosi saggi su kraut-rock, rock giapponese e archeologia preistorica), e infine Ian McCulloch.
Costui forma nel 1978 un trio col chitarrista Will Sergeant e una drum machine di nome Echo. Presto si aggiunge il bassista Les Pattinson, portando il gruppo al nome Echo & The Bunnymen.
Prima di incidere il disco d'esordio la macchina viene infine rimpiazzata da un batterista vero, ovvero Pete De Freitas.
Preceduto dal singolo "Pictures On My Wall", l'Lp Crocodiles esce nel 1980, ed entra di fatto nel novero degli album fondamentali della new wave inglese. La band si rivela subito straordinaria, a partire da una sezione ritmica in grado di unire propensione melodica, potenza e inventiva, guidando la musica in un gioco di dinamiche fluide, di continue tensioni e rilassamenti, senza mai perdere di vista l'essenza delle canzone. Il vero protagonista è però Sergeant, che si presenta come un vero guitar hero per la generazione post-punk, forte di un repertorio ricchissimo di idee e di uno stile che riprende la psichedelia anni 60 alla luce delle innovazioni introdotte dal primo album dei Television, che ha rivoluzionato l'approccio alla chitarra elettrica. E' il chitarrista a costruire un album dove la concisione e l'aggressività del punk si sposano ad atmosfere sinistre e surreali, portando avanti un senso di mistero e un gusto per le sfumature chiaroscurali che sono caratteri distintivi della wave.
Abbiamo quindi i crescendo nervosi di "Going Up" e gli assalti frontali di "Crocodiles" e "All That Jazz", a dimostrare che non si scherza e che i muscoli giovanili sono pronti alla lotta. A bilanciarli, però, ci sono brani fatti di tessiture impalpabili, di ricami chitarristici pregni d'atmosfera come "Stars Are Stars" o "Monkeys", dove le rullate della batteria lanciano un arpeggio mulinante, lasciando poi distendere il brano in una psichedelia lenta ma colma di tensione. "Pride" riunisce elementi di entrambi i gruppi di canzoni, passando dalla tensione di riff al calor bianco ad aperture melodiche e sognanti, sempre sottolineate dal basso in primo piano di Pattinson.
I pezzi forti però sono dopo: sicuramente tra questi c'è "Rescue", col suo riff ipnotico e il suo ritornello epico, che la avvicinano molto al territorio degli U2, facendone un vero e proprio squarcio di luce nella bruma degli altri pezzi. "Villiers Terrace" è un altro apice, con i ricami chitarristici che assecondano una sezione ritmica più funkeggiante, accompagnata da un semplice motivo tastieristico ad opera di David Balfe dei Teardrop Explodes. Restano infine gli incubi di "Pictures On My Wall", ballata elettroacustica con sinistri bordoni di tastiere, e di "Happy Death Men", gran finale di distorsioni chitarristiche, fra stasi tintinnanti ed esplosioni enfatiche quanto stranianti.
Su tutto questo campeggia l'istrione McCulloch, giovane esegeta di David Bowie e Jim Morrison, col suo timbro basso e soulful e il suo repertorio di lamenti e recitazioni ma anche di ottime intuizioni melodiche. Mai veramente sopra le righe, carismatico, il suo contributo è il perfetto complemento a quel misto di concisione ed espressività che fa di Crocodiles un grande album.
Proprio la sua apparente semplicità (alla base c'è il classico schema basso-chitarra-batteria) rende questo disco immarcescibile, e degno di una ristampa che si premura di aggiungere "Read It In Books" (B-side del primo singolo) e quell'autentica botta di vita che è "Do It Clean": puro rock, diretto, trascinante, gioiosamente melodico.
Il 1981 è un anno decisivo per la new wave inglese, le varie correnti musicali del movimento si delineano come se si fosse prossimi al "rompete le righe"ma, a solo un anno di distanza dalla morte di Ian Curtis e dal successo del suo "Closer", sembra che a prevalere sia l'anima "dark" della nuova onda. Nel corso dell'anno escono capisaldi del "gothic" come "Faith" dei Cure, "Juju" di Siouxsie and the Banshees, "Mask" dei Bauhaus, mentre gli ex-Joy Divison salutano il loro leader scomparso con quel commovente capolavoro che è "Ceremony".
Soltanto considerando questo contesto si può capire come mai Heaven Up Here, il secondo disco di Echo & The Bunnymen, sia così scuro e denso: dai bozzetti di Crocodiles si passa a un kolossal di psichedelia gotica, nel quale la personalità di Will Sergeant dilaga letteralmente, esplodendo in un tripudio di elettricità sapientemente controllata. Nelle note accluse alla ristampa del 2003 McCulloch dà una lettura quasi antitetica: "Eravamo pronti per dare la nostra versione di un album soul, e diventare un gruppo soul. Troppa musica inglese era spigolosa e non sexy. Io avevo sempre in mente "What Goes On" dei Velvet Underground". La realtà è che Echo & The Bunnymen sono un gruppo complesso, che sulla matrice psichedelica di fondo riesce a innestare ogni sorta di influenza grazie alla perizia proteiforme dei musicisti, mentre il cantante ha sempre avuto una propensione soul che non si attenua neanche nel disco più gelido della band. D'altronde l'altro filone della wave è quello ballabile (ora lo chiamano punk-funk...) ed è così che "With A Hip" sembra un esercizio sullo stile dei Pil, mentre "All I Want" sta dalle parti dei Talking Heads, allo stesso modo di "It Was A Pleasure", con un tocco di Joy Division. Non si tratta però dei brani più riusciti. Va meglio con una serie di pezzi che sembrano invece da ascrivere al filone dark-wave, con bassi giganteschi e prominenti, percussioni tribali e martellanti e soprattutto chitarre, tante, pesantemente distorte, trattate con vari effetti e con l'uso dei pedali.
Ecco quindi una "Show Of Strenght" che è esattamente quel che promette e introduce un suono granitico e potente, ma anche la travolgente title track, con la sua orgia di sonorità febbricitanti ed echi, e una "All My Colours" che è una litania alla Jim Morrison svolta su ritmiche da marcia funebre e soffici sonorità esotiche. Per non parlare dell'incubo di "The Disease", col suo recitativo raggelato svolto in un ambiente sonoro spoglio, spettrale. Mai i Bunnymen sono stati così vicini a quella sensazione da "bad trip" che caratterizzava un gruppo come i Banshees.
I brani migliori sono quelli dotati di maggior sintesi: "A Promise" è propulsa da un basso melodico e affilato, su cui la chitarra scatta nervosa, costruendo nelle strofe un crescendo che si libera, sul ritornello, in un luminoso riff ascensionale. Si tratta di pop, anzi di un nuovo inno positivo tipo "Rescue", su cui McCulloch dà una delle sue prove sciamaniche migliori: siamo dalle parti degli U2, ma il vestito sonoro è sempre simile a quello che avrebbero potuto scegliere i Joy Division.
Resta "Over The Wall", ovvero il numero che vale da solo il prezzo del biglietto. E' una odissea lisergica condotta su un basso che si avvita su se stesso e una batteria come al solito metronomica nel controllare le stasi e i rilanci della tensione. La chitarra dà la sua prova titanica montando possente, librandosi in riff oscuri contro il tappeto dei sintetizzatori, placandosi nelle pause. Quando il pezzo sembra richiudersi su se stesso, e destinarsi alla conclusione, improvvisamente tutto esplode di nuovo, tra gli strumenti che battono all'unisono in un ultimo crescendo maestoso e la voce persa in un totale deliquio. Difficile dire con sicurezza, come fa lo stesso McCulloch, che senza "Over The Wall" non sarebbero esistiti gli Stone Roses, ma è innegabile che a questa fonte si siano abbeverati in molti, non ultimi gli U2 col The Edge di "Bullet The Blue Sky".
E' difficile giudicare appieno questo disco: le canzoni dell'esordio davano un senso di compiutezza più rassicurante e apparentemente più soddisfacente, mentre qui ci si trova di fronte a pezzi di cui non si capisce immediatamente la direzione in cui vogliono andare a parare. E' come se il principale scopo fosse di permettere al chitarrista di disporre liberamente i propri colori sulla tela creata dagli altri: quando non c'è più nulla da aggiungere il brano può finire. D'altro canto l'arsenale di trucchi e idee messo in campo da Sergeant è talmente vasto e lo studio delle dinamiche talmente elaborato che l'ascoltatore non può far altro che lasciarsi andare all'ipnosi dei ritmi e delle atmosfere costruite dalla band. Il coinvolgimento emotivo non è forte, questo non è un esorcismo del dolore o uno sfogo emotivo come nel caso dei Cure, qui semmai assistiamo alla creazione di una dimensione parallela tutta cerebrale, psicologica, un mondo alternativo dove la band (il chitarrista in particolare) esercita la propria fantasia di controllo. In questo la band assomiglia ai Banshees, i quali però esercitavano il loro potere sul pubblico assalendolo e seducendolo in modo aggressivo.
La dimensione psichica dei Bunnymen è invece più sfumata, più neutra: possono mostrare i muscoli o deprimersi, l'importante per loro è sapere di avere il controllo della situazione.
Il 1983 è l'anno del pop. Splendono, tra '82 e '83 le supernove di "Thriller"di Michael Jackson, "Rio" dei Duran Duran, "Let's Dance" di David Bowie. Esordisce una tale Madonna. Di fronte al dilagare di musica pop variamente propensa alla dance e all'elettronica, la new wave perde la sua spinta propulsiva: lontane sono sia l'aggressività del post-punk sia l'angoscia esistenziale post-Joy Division. Alcuni semplicemente si sciolgono (Bauhaus), altri si convertono sorprendentemente al nuovo Verbo contribuendovi in modo decisivo (i New Order con "Blue Monday"), altri ancora vanno nella direzione opposta, quella di un rock epico adatto agli stadi. E' qui che gli U2 partono definitivamente per la tangente, con "War".
In questo clima Echo & the Bunnymen si collocano piazzando una fortunata serie di singoli nelle zone alte delle classifiche inglesi: "The Cutter", "The Back Of Love" e una emblematica "Never Stop (Discoteque)". Quest'ultima è forse la concessione più forte al mercato, col suo andamento tribale di percussioni elettroniche accompagnate dalla linea sinuosa del basso, sulle quali si alza però un glorioso ritornello pop in puro stile McCulloch. Il meglio è però "The Cutter", una cornucopia trascinante di suoni psichedelici, condotta dal violino dell'ospite Ravi Shankar, capace di coniugare estasi lisergica e volontà danzerecce con una vena di autentico pop d'autore. L'esplosione maestosa degli archi alla fine, su cui McCulloch si leva in tutto il suo carisma, è il momento in cui i Bunnymen escono dalle nebbie del post-punk per raggiungere l'aria e la luce di un nuovo pop britannico. "The Back Of Love" è un altro successo, che replica lo schema dell'altro singolo in chiave rock, con una giostra maestosa di saliscendi tra riverberi chitarristici, serpentine del basso, crescendo di archi.
Nei concerti alla Royal Albert Hall il pubblico è invitato ad abbandonare il mesto indumento d'ordinanza dei fan della band (l'impermeabile, da cui l'appellativo di "raincoat band") e a lasciarsi andare: "Lay down thy raincoat and groove".
Insomma per i Bunnymen va bene ballare, ma senza rinunciare alla ricerca, e soprattutto all'immersione sempre più profonda nella psichedelia anni 60.
L'album Porcupine, trascinato al successo dai suddetti singoli, è una vera e propria discesa nei meandri della psichedelia più arcana, che lascia davvero poco al facile pop da classifica. Brani come "My White Devil", "Clay", "Porcupine" vedono muoversi il consueto rock della band su un incredibile fondale di echi ambient, riverberi, sonorità sinistre, violini indiani, per un suono denso e stratificato quanto astratto ed evanescente. Il brano che dà il titolo all'album è una melodrammatica ballata che presenta un nuovo e decisivo assetto: la chitarra ritmica è acustica, quella solista resta ovviamente elettrica, dietro si muovono gli archi. Si tratta dell'intuizione che, una volta semplificata, darà vita al suono di Ocean Rain. Le propensioni psichedeliche dei primi brani vengono rese esplicite dalle gag esotiche di "Heads Will Roll", che parte con una chitarra flamenco e finisce in una melodia indiana e, soprattutto, da una serie di brani in cui sono declinate in modo esplicito le tendenze al raga rock già evidenti negli altri brani.
E' dunque lo studio di quella fusione tra rock e musica indiana, sperimentata negli anni Sessanta da uno spettro di gruppi che andava dai Byrds (nella loro accezione più celestiale e memore del pop) ai Velvet Underground (per la lettura in chiave demoniaca), a partorire lo splendido trio finale di "Higher Hell" (lenta e mistica), "Gods Will Be Gods" (estatica e danzante), "In Bluer Skies" (mossa da battiti elettronici e da un crescendo di riff orientali).
Con questi brani siamo distanti dagli esotismi spettacolari di "A Kiss In The Dreamhouse" dei Banshees, e ci troviamo nell'ambito di una seria ricerca musicale, ormai quasi del tutto affrancata dagli stilemi new wave e nonostante ciò del tutto in linea con quella esplorazione di un mondo di forze oscure e potenti che era stata l'obiettivo dichiarato fin da Crocodiles.
"‘Do it clean' è la prima canzone che ho scritto dopo ‘Crocodiles'. Eliminavo la chitarra nel secondo ritornello e ci infilavo roba tipo ‘Fly Me To The Moon' e ‘Girl From Ipanema'. E' una cosa che è stata copiata da molti. Bono!" (Ian McCulloch, dall'intervista di cui sopra).
Il cantante dei Bunnymen ha sempre provato una certa rivalità nei confronti del leader degli U2, forse stimolata dal successo di massa toccato a uno che prima egli reputava, a buona ragione, un proprio pari.
Nel 1984, spinti da questo sano (si fa per dire) spirito di competizione, Echo & The Bunnymen vanno a Parigi a registrare quello che secondo le loro parole sarà "il più grande album di tutti i tempi". "Pubblicizzavamo l'album come il più grande di tutti i tempi perché pensavamo che lo fosse. A volte introduco "The Killing Moon" come la più bella canzone mai scritta. E lo credo davvero"(dalle note della ristampa 2003 di Ocean Rain).
Il ragionamento non fa una piega, ma "The Killing Moon" è sul serio una grande canzone. Secondo una leggenda (messa in giro da lui stesso, è ovvio), Ian McCulloch ne avrebbe sognato il ritornello, cantato nientemeno che da Frank Sinatra. Il brano è una soffice ballata onirica che inizia col lento ma inesorabile incedere di basso e chitarra acustica, per poi spalancarsi in un romantico crescendo sul celebre ritornello "fate up against your will/ through the thick and thin/ he will wait until/ you'll give yourself to him" cantato da McCulloch a pieni polmoni. Sergeant contribuisce all'incanto in modo decisivo, entrando due volte nel pezzo con quelli che sono dei veri e propri assoli, il secondo dei quali, lanciato nel climax finale, trasforma il brano in una "Stairway To Heaven" degli anni Ottanta. E' uno dei brani più emblematici della decade e, giusto o sbagliato che sia, quello per il quale il gruppo verrà ricordato dal grande pubblico.
"The Killing Moon" è però soltanto il biglietto da visita di un album, Ocean Rain, destinato a spiccare nel contesto del rock britannico per la sua assoluta peculiarità. Volendo raggiungere un pubblico più vasto, i Bunnymen non seguono infatti il percorso più facile, fatto di sonorità roboanti ed elettronica patinata, ma vanno sostanzialmente in direzione opposta: realizzano un disco quasi interamente acustico, dominato dalle sonorità degli archi di un'orchestra completa. A questa innovazione si aggiunga il nuovo stile "da crooner" esibito dal cantante già su "The Killing Moon" e si può affermare di trovarsi molto distanti dalla new wave, nonostante persistano alcuni elementi tipici come il basso in primo piano e, in generale, una certa malinconia di fondo.
Tutto viene messo in chiaro dall'iniziale "Silver": la ritmica, piuttosto vivace, è tenuta dal basso e dalla chitarra acustica, Sergeant contribuisce con brevi riff e con un assolo, su tutto svettano la voce e i briosi svolazzi degli archi. L'atmosfera è luminosa, e sembra quasi di vedere McCulloch a sporgersi sulla prua della nave dei Bunnymen, a prendere in faccia il sole e la spuma argentina, in una epopea da romanzo marinaresco. Il concetto è ribadito dai graziosi motivetti di pop sinfonico di "Crystal Days", con un magico riff di Sergeant che percorre liberamente la strofa, e "Seven Seas", col ritornello più gioioso del disco. Costretto a dialogare con una intera orchestra, Sergeant riesce comunque a ritagliarsi spazi da protagonista, come dimostra anche l'assolo quasi destabilizzante con cui stravolge la fragile "My Kingdom".
A dare maggior peso al disco c'è invece il melodramma di una "Nocturnal Me" dove gli archi si fanno minacciosi, seguendo il ritmo marziale imposto da De Freitas. McCulloch si rivela a suo agio anche nel contesto di un brano così pesantemente arrangiato, dimostrando, oltre a una evidente passione per i climi alla Scott Walker, un carisma che fa di lui il protagonista dell'album. L'unico momento dove ritornano le chitarre elettriche è la litania free form di "Thorn Of Crowns", in cui Sergeant mette a frutto l'apprendistato psichedelico dell'album precedente a favore degli istrionismi alla Morrison del cantante. Molto più efficace è però la performance di quest'ultimo nel gran finale di "Ocean Rain", dove la voce inizia praticamente contornata dal silenzio, per poi salire nel crescendo enfatico degli archi fino al climax a pieni polmoni di "screaming beneath the waves".
L'album è la grande prova di McCulloch che riesce, anche nei testi, nell'impresa di creare un nuovo mondo di fantasia, tra il surreale e l'iper-romantico, dove si ritorna bambini per solcare le onde infinite di un immenso mare di cristallo.
Nonostante "The Killing Moon" sia un successo da Top 20, l'album non raggiunge la fama desiderata. Successivamente il gruppo entra in crisi, proclamando anni sabbatici e tentando improbabili ritorni alle radici con set di sole cover al Monro pub di Liverpool. Il problema è che la band è riluttante a seguire le regole del mercato, secondo le quali non si può far altro che continuare a espandere il proprio pubblico. Amati in Europa, soprattutto in Francia e in Scandinavia (dove hanno fatto numerosi tour), non hanno la forza di aggredire gli Usa. Queste le parole di Will Sergeant in proposito: "Odiavo stare via per più di tre settimane: tra noi erano solo silenzi gelidi. L'atmosfera era infernale. Alcuni hanno la capacità di stare in giro, tipo gli U2, ma loro sono irlandesi. Hanno quella mentalità da zingari vagabondi. Noi non l'avremmo potuto fare neanche in un milione di anni".
Nel 1985 Bob Geldof invita Echo & The Bunnymen al megaconcerto di beneficenza Live Aid, in mondovisione, ma loro rifiutano. Gli U2, inutile ricordarlo, invece ci vanno, assurgendo a fama planetaria. Nello stesso anno i Bunnymen registrano il romantico singolo "Bring On The Dancing Horses", pubblicano la compilation "Songs To Learn And Sing", perdono Pete De Freitas.
Recuperato il fuggitivo, i quattro registrano il loro "Grey Album" (almeno a giudicare dalla copertina), intitolato semplicemente Echo & The Bunnymen. Il disco presenta una collaborazione con Ray Manzarek, che suona le sue inconfondibili tastiere sulla doorsiana "Bedbugs And Ballyoo".
A parte questo episodio, il resto del disco presenta però una inquietante involuzione, o per meglio dire, una tendenza all'omologazione, già presente in "Bring On The Dancing Horses". Il sound sbilenco e psichedelico è infatti scomparso, lasciando lo spazio a una produzione piatta e patinata, per quelle che sono semplici canzoni da pop-rock radiofonico. Lo stesso cantante sembra decisamente sotto tono, limitato a un registro confidenziale e intimista.
La svolta paga, concedendo al gruppo il grande successo del singolo "Lips Like Sugar", dotato di sonorità celestiali a cura di Sergeant e di un ennesimo refrain d'afflato corale, per quella che sembra la traduzione in chiave commerciale del romanticismo di Ocean Rain. Nel resto del programma si alternano gradevoli midtempo ("The Game"), refrain pianistici di quelli che piacciono ai Coldplay ("Over You"), sussulti di blanda aggressività ("All In Your Mind"), chitarrine scintillanti ("Bombers Bay") che si uniscono a varie sonorità radiofoniche finora accuratamente evitate, a creare un tripudio di melassa sentimentale.
Per il gruppo è la fine: De Freitas muore in un incidente con la motocicletta. McCulloch pubblica il suo primo album solista, Candleland (1989, con ospite Elisabeth Frazer), il primo di una serie che darà anche Mysterio nel 1992 e Slideling nel 2004, con ospiti il cantante Chris Martin e il chitarrista Jonny Buckland dei Coldplay.
Sergeant ha il coraggio di pubblicare un album a nome Echo & The Bunnymen, Reverberation (1990), con un carneade al posto di McCulloch.
Nonostante tutto questo, cantante e chitarrista si riuniscono nel 1995 nel progetto Electrafixion (con l'album Burned), il preludio al ritorno negli anni Novanta dei Bunnymen.
Paradossalmente, in una l'Inghilterra che sbeffeggia i vecchi vincitori degli anni Ottanta (i Cure, i Simple Minds, persino gli U2) e si nutre solo di techno e britpop, gli Echo & The Bunnymen non sembrano così fuori luogo. In fondo si sono abbeverati alle stesse fonti anni 60 cui ora attingono gli Oasis, McCulloch ha imitato Bowie ben prima di Brett Anderson e ha una boccaccia che lo rende simpatico, quindi perché no?
E' così che Evergreen, nel 1997, si ritrova un coretto ad opera di Liam Gallagher (non accreditato, però) nel brano "Nothing Lasts Forever".
La copertina, a detta di tutti, è una parodia di quella di Crocodiles: sono sempre "lost in the woods" solo che stavolta al posto del look coi ciuffoni ci sono quegli occhiali neri (indossati di notte) che sembrano essere la divisa d'ordinanza dei reduci degli Ottanta nel decennio successivo. Al posto del povero De Freitas c'è un macchinone d'epoca.
Il disco è una collezione di ballate pop-rock dal taglio ultra-melodico, dove gli unici segni che riconducono alla vecchia band sono la voce di McCulloch e gli interventi, peraltro assai misurati, di Sergeant. Per il resto, giudicando dal suono e dalla produzione, potrebbe essere il disco di un gruppo qualunque dell'ondata britpop.
Nella performance dei due ci sono però una spigliatezza e una naturalezza che riscattano il repertorio non memorabile: Sergeant infila le sue zampate su brani come "I Want To Be There (When You Come),"Evergreen", "Baseball Bill", "Altamont", i brani con più mordente. McCulloch dal canto suo dispensa una serie di melodie nostalgiche sul pop chitarristico di "Don't Let It Get You Down" e su ballate orchestrali come "I'll Fly Tonight" e "Nothing Lasts Forever", dove è presente la London Metropolitan Orchestra.
Il tasso di melensaggine è molto alto, e anche il tono confidenziale, da uomo maturo, del cantante può risultare a tratti stucchevole. L'inserzione dell'orchestra non risulta notevole come tredici anni prima, dato che essa è utilizzata in modo molto convenzionale e che negli anni Novanta si tratta di sonorità abbastanza diffuse: sempre nel 1997 i Verve ottengono un successo clamoroso col motivetto d'archi di "Bittersweet Symphony", mentre l'anno dopo i Mercury Rev presenteranno il capolavoro di pop sinfonico "Deserter's Songs". In realtà Sergeant riserva le proprie velleità sperimentali per il progetto Glide, quindi il ritorno della band sembra improntato a una vena decisamente mainstream. Si tratta comunque di un rientro onesto, che non tende a strafare ma punta a inserirsi senza scossoni nella realtà degli anni Novanta.
Seguiranno nel 1999 What Are You Going To Do With Your Life? e nel 2001 Flowers, sulla scia di Evergreen, ma con un progressivo asciugarsi dei suoni.
Nel Duemila c'è il revival della new wave ed Echo & The Bunnymen (ridotti a un duo dalla defezione di Pattinson già ai tempi di Flowers) sono pronti a farsi riscoprire ancora una volta.
Siberia, del 2005, presenta però uno schema abbastanza simile a quello dei precedenti dischi: sempre di ballate si tratta. Il suono ha però acquisito mordente con la decisione di limitare le chitarre acustiche, mettere il basso in primo piano, dare libero spazio all'elettrica di Will Sergeant. Le orchestre di Evergreen non vanno più bene per il nuovo decennio e il gruppo ci guadagna. Il risultato sono le energetiche "Stormy Weather", "Scissors In The Sand", "Of A Life", "Siberia".
Il resto è sempre piuttosto sdolcinato, ma non si può negare che McCulloch abbia mantenuto la capacità di scrivere melodie che rimangono in testa. Sempre nell'intervista del 2004 il cantante ha dichiarato: "Una volta, quando dovevamo fare un album, scrivevo dieci canzoni. Cominciavamo a suonare e io poi avrei aggiunto le mie parti vocali sulle loro melodie. Ora so scrivere melodie io stesso".
Per Slideling, l'album solista del 2003, McCulloch riceve l'aiuto di Chris Martin e Johnny Buckland dei Coldplay, fan dichiarati di Echo & The Bunnymen, tanto da dichiarare di voler scrivere, con "A Rush Of Blood To The Head", il loro "Ocean Rain", e da chiedere in prestito il famoso raincoat di McCulloch per il video di "In My Place".
Intanto si aggiungono alla discografia dei Bunnymen due dischi dal vivo, Live in Liverpool (dal tour di Flowers) e Me I'm All Smiles (dal tour di Siberia), che testimoniano quale sia il vero business dei gruppi che si riformano: i concerti e le partecipazioni ai festival.
Nel 2008 la band dà vita a un grande concerto alla Royal Albert Hall, nel quale riesegue per intero l'album Ocean Rain, di recente oggetto di una ricca ristampa "deluxe" contenente l'intero storico concerto londinese del 1983, per la prima volta per intero su compact disc.
Mai come nell'ultimo decennio, infine, escono tante antologie a loro dedicate.
Così, McCulloch e Sergeant ci riprovano con un nuovo album, The Fountain (2009), che doveva segnare il ritorno alla Warner e che diviene invece la prima uscitadella piccola etichetta Ocean Rain. Non è l'unica novità. Cambia anche il produttore, che stavolta è John McLaughlin già al fianco di gruppi e artisti pop che più pop non si può: Busted, Worlds Apart, 911, 5ive e Westlife. Un mondo lontanissimo, insomma, da quello di Echo And The Bunnymen.
Eppure il risultato è discreto, il sound è talvolta aggiornato quanto basta per avere un certo appeal. Già il primo singolo, "Think I'll Need It Too", ha avuto un buon riscontro in Inghilterra nonostante sia costruito su pochi prevedibili accordi e abbia un ritornello piuttosto banale ("Qualsiasi cosa tu voglia/ qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno/ penso di averne bisogno anch'io"). Quasi una nuova "The Game" immaginata come se fosse incisa dagli Snow Patrol. In altri casi vengono in mente i Coldplay, specie in "Forgotten Fields" o certe cose dei New Order più recenti ("Do You Know Who I Am?", uno dei loro brani più solari di sempre, e "Shroud Of Time").
"Life Of 1,000 Crimes" è un'altra canzone tra le più leggere del loro repertorio, che stavolta strizza l'occhio a certi successi degli ultimi anni (dagli Hard Fi ai Kooks). Chris Martin è ospite nella title track: solida e arrangiata con gusto. Piuttosto anonima è invece "Everlasting Neverendless"; "Proxy" suona come un curioso ibrido tra i Dandy Warhols e il David Bowie di "Suffragette City". "Drivetime" non ha un ritornello memorabile, ma si riscatta grazie alla qualità dell'arrangiamento. McCulloch ha dichiarato di essere fiero della conclusiva "The Idolness Of Gods", una ballad finalmente ispirata anche nel testo, in cui però è il pianoforte, più che la chitarra di Will Sergeant, a emergere.
The Fountain non è il loro miglior disco dai tempi del malinconico What Are You Going To Do With Your Life né da quelli di Ocean Rain, come si affretta ad affermare nelle interviste di questi giorni il leader Ian McCulloch. E' un lavoro dignitoso, come forse è lecito aspettarsi da una band con alle spalle trent'anni di carriera - seppur interrotta per anni e con vari cambi di line-up, talvolta resi indispensabili da eventi anche tragici. Non emoziona come gli Lp del passato, e nel complesso la forma prevale sulla sostanza, ma non è neppure un tentativo disperato di restare al passo con i tempi cedendo alle mode più becere.
Cinque anni dopo, la premiata ditta McCulloch-Sergeant (ora affiancata dal chitarrista Gordy Goudie e dal bassista Stephen Brennan) torna con un nuovo album, prodotto da Youth, bassista dei Killing Joke. Meteorites (2014) - promette il leader - è "quello che gli Echo & The Bunnymen dovrebbero essere: intoccabili, celestiali, belli e reali. Questo disco mi ha cambiato la vita”. La realtà, però, è un po' più prosaica: ormai prigioniera del legame di ferro con i Coldplay, la band di Liverpool non riesce più a impremere il suo marchio ombroso e romantico su numeri pop-rock sempre ben confezionati ma piuttosto asettici. Materiale di media/mediocre qualità, per un fuoriclasse come McCulloch, che pure sbandiera il disco come un suo lavoro solista sotto la sigla dei Bunnymen.
A brillare sono soprattutto le aperture melodiche di "Lovers On The Run" e della stessa title track. Altrove è soprattutto la pretenziosità a far fallire esperimenti come "Is This A Breakdown", "Grapes Upon The Vine" e l'interminabile "Market Town" (quasi otto minuti all'insegna di ritmi ballabili).
Nel complesso, uno dei lavori più deboli dal ritorno in pista del 1997.
La reunion di Echo & The Bunnymen non ha forse creato sfracelli, ma se l'obiettivo era continuare a suonare e scrivere canzoni in modo dignitoso e onesto, si può dire che sia stato ampiamente raggiunto. Il "se", però, è d'obbligo, infatti il sospetto che il cantante aspirasse ancora segretamente alla dominazione mondiale non è del tutto allontanato. In quel caso McCulloch ha fallito, e per di più Bono e gli U2, dopo tanti anni, sono invece ancora al loro posto.
Fin quando però nel Regno Unito ci sarà gente come lui, seriamente convinta di poter scrivere "il più grande album di tutti i tempi", fino ad allora, è certo, il rock inglese non morirà mai.
Contributi di Alessandro Liccardo ("The Fountain")
ECHO & THE BUNNYMEN | ||
Crocodiles (Korova, 1980) | ||
Heaven Up Here (Korova, 1981) | ||
Porcupine (Korova, 1983) | ||
Ocean Rain (Korova, 1984) | ||
Songs To Learn And Sing (antologia, Wea, 1985) | ||
Echo & The Bunnymen (Wea, 1987) | ||
The Peel Sessions (Ep, Strange Fruit, 1988) | ||
Reverberation (Sire Records Company, 1990) | ||
Ballyhoo - The Best Of... (antologia, Wea/Korova, 1997) | ||
Evergreen (London Records, 1997) | ||
What Are You Going To Do With Your Life? (London Records, 1999) | ||
Crystal Days (1979-1999) (cofanetto, Rhino, 2001) | ||
Flowers (Cooking Vinyl, 2001) | ||
Live In Liverpool(live, Cooking Vinyl, 2002) | ||
Siberia (Cooking Vinyl, 2005) | ||
Me, I'm All Smiles (live, Secret Records Limited, 2006) | ||
The Very Best Of Echo & The Bunnymen - More Songs To Learn And Sing (antologia, Korova, 2006) | ||
The Fountain (Ocean Rain Records, 2009) | ||
Meteorites (429 Records, 2014) | ||
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ELECTRAFIXION | ||
Burned (Korova/Wea, 1995) | ||
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IAN McCULLOCH | ||
Candleland (Wea, 1989) | ||
Mysterio (East West, 1992) | ||
Slideling (Cooking Vinyl, 2003) | ||
Pro Patria Mori (Pledge Music, 2012) |
Rescue | |
Crocodiles (live at the Royal Albert Hall, Londra, 1983, da Crocodiles, 1980) | |
Heaven Up There | |
Porcupine | |
The Killing Moon |
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Testi |