U2

U2

Il fuoco indimenticabile

Hanno tenuto alta per anni la fiaccola del rock celtico, tra salmi e invettive. I loro dischi sono diventati "classici" in un'epoca in cui il rock stava perdendo il suo alone mitico. Oggi si propongono come rockstar consumate e ironiche, che giocano con i generi musicali più disparati e si appoggiano a produttori altrettanto esperti. Tutto quello che avreste voluto sapere sugli U2

di Claudio Fabretti

Gli U2 sono una delle pochissime band attive a partire dagli anni 80 capaci di assurgere allo status di "mito" del rock al pari delle formazioni "classiche", nate e cresciute nei decenni precedenti. Il segreto del loro successo è un mix perfetto di furore ed epicità, di ansia e spiritualità, concentrate in un formato canzone sì tradizionale, eppure capace di rinnovare il vecchio rock'n'roll con le suggestioni e le fascinazioni tipiche del post-punk e della new wave.

La loro storia ha un inizio semplice, comune a svariate rock-band d'ogni tempo. È il 1976 l'anno in cui il futuro batterista Larry Mullen jr. mette un avviso nella bacheca della Mount Temple School di Dublino, la prima scuola non confessionale d'Irlanda: "Cercasi musicisti per fondare band". Rispondono Dave Evans, chitarrista, detto "The Edge", Adam Clayton, bassista, e Paul Hewson, cantante, ribattezzato Bono Vox dal nome di un negozio di apparecchi acustici di una via del centro di Dublino. Cominciano a suonare come Feedback, poi diventano Hype, infine, su suggerimento di Steve Averill dei Radiators, scelgono U2, dal nome di un tipo di aerei spia americani della seconda guerra mondiale.
I quattro sono giovanissimi: Mullen ha 14 anni, The Edge 15, Clayton e Bono 16. "Ero un buono a nulla - racconta quest'ultimo - L'unico lavoro che riuscivo a fare era il benzinaio. Ma la musica per me era la cosa più facile del mondo, mi aiutava a uscire dalla banalità di una vita da ragazzo di periferia". La morte della madre, cui dedicherà "I Will Follow", segna per Bono un punto di svolta: la band è la sua nuova famiglia. Così come gli amici con cui divide le scorribande nella Dublino underground, a cominciare da quelli del Lypton Village, un collettivo di adolescenti che tentavano di fuggire dal grigiore del sobborgo di Ballymun, da una vita quotidiana divisa tra scuola, religione e squallore sub-urbano, rifugiandosi nella musica, nell'arte, nell'eccentricità dei modi e del look. Bono è proprio uno dei "leader" di quella strana combriccola, insieme a tal Fionan Harvey che assurgerà a nome di culto del dark-punk alla guida dei Virgin Prunes. E del "circolo" facevano parte anche i fratelli Evans, Richard e David. Mentre il secondo con il soprannome di The Edge darà vita agli U2, il primo - ribattezzatosi Dik Prune - si aggregherà a Friday e ai suoi Prunes.

Nel 1978 gli U2 sono già così affiatati da vincere un concorso rock a Limerick, Irlanda. "Eravamo invincibili perché uniti. Eravamo degli idealisti arrabbiati con la voglia di venire alle mani con tutto il mondo", racconta Bono. Poco dopo, l'incontro cruciale con il manager Paul McGuinness segna l'inizio ufficiale di una carriera da sogno. Anche se la Cbs ci va cauta e decide di stampare in sole mille copie numerate il primo singolo degli U2, un Ep dal titolo U2 Three contenente tre brani: "Out Of Control", "Boy-Girl" e "Stories For Boys". E' soprattutto la prima a lasciare il segno con la sua carica prorompente di pathos e adrenalina post-punk. Fatto sta che le copie dell'Ep vengono esaurite in poche ore: Bono & C. cominciano a essere una realtà, almeno a Dublino.
Il 1979 è anche l'anno della prima tournée nei locali di Londra. L'anno seguente gli U2 intraprendono un tour in Irlanda e pubblicano un nuovo singolo dal titolo "Another Day". McGuinness ottiene un contratto con la Island Records (l'etichetta di Bob Marley) per 100.000 sterline, con le quali il gruppo può pubblicare il proprio secondo singolo dal titolo "11 O'Clock Tick Tock" e ripartire per un tour in Gran Bretagna come spalla dei Fashion.

Boy e October, i primi due album firmati dalla formazione irlandese, sono un cocktail di freschezza, ingenuità ed energia rock. I suggestivi colpi di chitarra di The Edge e la voce intensa e graffiante di Bono sono già il marchio della fabbrica U2. E le prime composizioni sono intrise di spiritualità: Bono, The Edge e Mullen, che frequentano per un certo periodo il gruppo cristiano Shalom, ne sono gli artefici. Solo Clayton ne rimane distante. Mentre le altre band si cibano di sesso, droga e rock'n'roll, gli U2 leggono i salmi. "Ci sono poche cose, credo, che possono rivaleggiare con l'eroina per chi cerca una via d'uscita da una vita mediocre - sostiene Bono - Nel mio caso è stata la fede a condurmi in alto. È piu' una questione di spiritualità che di religione. I nostri occhi sono aperti a un altro mondo, che esiste oltre i limiti monocromi e unidimensionali di quello che ci circonda". È un Cristianesimo radicale, rivoluzionario. "Più del punk, un movimento della classe media che ha poi costretto la classe operaia a dargli la credibilità".

Il trascinante singolo "I Will Follow", propulso dall'incendiario riff di chitarra di The Edge, è il capolavoro del disco d'esordio, Boy (1980), griffato in copertina dal viso innocente di Peter Rowen, fratello minore di Guggi dei Virgin Prunes. Sono due semplici accordi a far deflagrare il brano, tutto costruito attorno al chitarrismo ficcante di The Edge, con la sezione ritmica del duo Mullen-Clayton a puntellare il tutto e la voce ancora acerba di Bono a donare un senso di esuberante freschezza giovanile. Grazie anche alla produzione calibrata del fido Steve Lillywhite, il suono degli U2 svetta subito per energia e carica emotiva, coniugando la lezione post-punk dei Joy Division, citati apertamente in "A Day Without Me", omaggio commosso al loro leader Ian Curtis.
Si alternano inni epici come la succitata "Out Of Control", ripescata dall'Ep d'esordio, "The Electric Co.", saggio della maestria di The Edge nel costruire serrati tappeti ritmici, carichi di effettistica, come anche in "Twilight" e "Into The Heart", che indaga sulle paure adolescenziali e sul desiderio di fuga dal mondo degli adulti.
Ma non mancano anche riflessioni più meste e accorate: "Shadows And Tall Trees", ad esempio, è un'ode metropolitana cullata dolcemente dalla batteria di Mullen e dalla chitarra acustica, con Bono intento a narrare mondi notturni e sotterranei.
Nel complesso, un esordio forse ancora grezzo, ma di dirompente vitalità, che mette già in mostra tutta la potenza e l'affiatamento della band dublinese.

October (1981) approfondisce in modo più consapevole il tema dell'adolescenza già affrontato nel debutto. È proprio con questo album che Bono e soci dichiarano apertamente la loro religiosità. Il disco si apre con il grido di Bono che intona "Gloria", che può essere visto come una preghiera, un vero inno a Dio, ma anche come la testimonianza della perplessità per il crescente successo che gli U2 stanno vivendo e del difficile modo di conciliarlo nell'ambito di una concezione cristiana della vita. "Gloria" è uno stupefacente condensato di energia rock e talento melodico: la strofa trascinante e sorretta dal riff di The Edge ci conduce all'epico ritornello dove Bono ha libertà di spaziare con la propria voce sui ricami effettistici della chitarra e dove l'ispirato basso di Clayton svisa sulla cassa in quattro di Mullen. Il tema portante della religiosità si può incontrare anche in pezzi come "Rejoice", "With A Shout" e "Scarlet" (titolo attribuito in un primo tempo all'album), dove Bono ribadisce il concetto che la sua fede non è uno stereotipo ma un sentimento, radicato nella sua cultura e nella sua educazione irlandese.
Oltre alla fede, October mette in evidenza il clima di tensione che si viveva in quegli anni di scontri in Irlanda del Nord. In particolare, con "Tomorrow" gli U2 affrontano il tema della lotta politica e religiosa che infiamma il loro paese e del sangue versato per le strade di Belfast. "Tomorrow" è la canzone più "Irish" degli U2: la presenza nell'accompagnamento delle tradizionali uilleann pipes, le cornamuse irlandesi, rivela il legame dei quattro dublinesi con la tradizione folk del loro paese. Le cornamuse, affiancate alla voce carica di emozione di Bono, danno a questa canzone un'intensità particolare, accentuata ancora di più nel finale dal falsetto disperato di Bono.
Ma la canzone che forse dà quel tocco magico all'album è proprio la title track, "October", pezzo lento e caratterizzato dal suono del pianoforte, che esprime la malinconia tipica dell'autunno. Il disco si chiude con una canzone che è anche una domanda "Is that all?", ovvero è tutto qui quello che abbiamo da dire con la nostra musica? Gli U2 si domandano se la musica sia in grado di migliorare il mondo.

I temi sociali e politici aumentano nel terzo album, War (1983), soppiantando le tematiche adolescenziali degli esordi. In copertina, il viso sconvolto e inquietante di Peter Rowen, il bambino di "Boy". Ma ora lo sguardo è severo e le labbra sanguinano: è l'atto d'accusa dell'infanzia contro la guerra.
L'hit da ko è la marziale "Sunday Bloody Sunday", che ricorda uno dei drammi dell'Ulster: l'uccisione a Derry, nel 1972, di tredici civili da parte dei paracadutisti britannici. Introdotta dal pattern rullato di batteria su cui si inseriscono l'immortale riff di The Edge e il vocalizzo di Bono, con filigrana di violino elettrico folkeggiante in controluce, la canzone è un inno di pace, ma sarà scambiato per propaganda nazionalista.
Brilla, più che mai ispirato, il nuovo sound degli U2: metà ombrosità wave, metà enfasi solenne di marca celtica. Ne sono campioni preziosi la disperata "Like A Song", dove l'incedere frazionato di batteria e chitarra trascina un'altra invettiva di Bono contro la guerra e le ingiustizie del mondo, al centro anche dell'altra filippica di "Seconds" (con The Edge sugli scudi anche nelle parti vocali, in un intenso j'accuse contro la corsa agli armamenti), ma anche la vibrante "Two Heart Beat As One", love-song dedicata da Bono alla moglie, Alison, sostenuta dal quattro corde di Clayton lungo caratteristiche linee di basso post-punk.
Ma il vero capolavoro dell'album è lo struggente inno di "New Year's Day". Nasce da uno spunto curioso: Clayton stava cercando di suonare "Fade To Gray" dei Visage (la band new romantic con Billy Curie e Midge Ure degli Ultravox, oltre al duo Steve Strange-Rusty Egan e tre quarti dei Magazine), quando ideò l'incredibile giro di basso che avrebbe poi fatto da architrave al brano, in combutta con il sognante giro di piano suonato da The Edge e il ritmo incalzante del drumming. Su questo formidabile tappeto sonoro si stende la voce di Bono, in un nuovo saggio della sua graffiante estensione. Il singolo entrerà dritto nella Uk Chart, forte anche di un efficace videoclip, girato nei ghiacci della Svezia. Il testo, invece, si ispira alla battaglia di Lech Walesa e del sindacato polacco di Solidarnosc, vincitore, nel 1983, del premio Nobel per la pace.
Il commiato di "40" è una struggente galoppata verso l'infinito, con il bel riff ipnotico e suadente di basso che si muove sinuoso sulla batteria sincopata, mentre Bono declama l'ormai immortale slogan pacifista "How long to sing this song?".
War suggella la maturità dei "primi U2", quelli nati sui docks del porto di Dublino e cresciuti a pane e post-punk. Ma non sarà che una fase della loro lunga e, in seguito, ancor più fortunata carriera.

Una bandiera bianca, issata da Bono sul palco nel suggestivo scenario rosso-arancio di Red Rocks (Usa) durante il concerto immortalato in Under A Blood Red Sky, chiarirà definitivamente la "linea": "Ho paura quando vedo le persone pronte a uccidere per stabilire un confine - racconta il leader degli U2 - Mi piacerebbe vedere un'Irlanda unita, ma non credo che si possa puntare una pistola alla testa di qualcuno per fargli assumere il tuo punto di vista. L'Ira ha sempre avuto idee sincere, ma sbagliate. Ora, dopo il Good Friday Agreement, il mio Paese è tornato a sperare".
Registrato dal vivo e uscito sotto forma di mini-Lp, Under A Blood Red Sky raccoglie le migliori canzoni tratte dai primi tre album e dai primi 45 giri, dalle quali emerge chiara la matrice post-punk della band: canzoni dirette e senza fronzoli, riff taglienti, una ritmica incisiva e vibrante e, su tutto, l'interpretazione calda ed evocativa di Bono. Con otto tracce per un totale complessivo di 35 minuti di musica, gli U2 dimostrano qui di possedere quell'energia misteriosa e rara capace di trasformare un concerto rock in un evento unico e memorabile.
In una tracklist di hit consolidati, da segnalare la chicca "Party Girl", una delle prime b-side memorabili della band dublinese.

Il rifiuto della guerra torna in The Unforgettable Fire: il fuoco indimenticabile è quello della bomba atomica di Hiroshima, simbolo definitivo della barbarie della guerra, di ogni guerra.
È anche il primo album del sodalizio con Brian Eno, maestro dell'ambient music, e con Daniel Lanois, tecnico canadese del suono e pupillo del "non musicista", ancora incerto su come il suo approccio possa coniugarsi con quello dei quattro irlandesi. Difficile stabilire che ruolo possa aver giocato Eno nella maturazione del sound del gruppo, fatto sta che il più marcato accento sulle tastiere, sempre più in evidenza nella costruzione dei brani, potrebbe essere attribuito proprio alla longa manus del genio di Woodbridge.
Il rock forte e intenso dell'esordio acquista una patina magica, colorandosi di tonalità sempre più solenni ed epiche. Le canzoni narrano di un'America in crisi, delusa dalla mancata realizzazione dei suoi ideali: uno dei brani, "MLK", è un omaggio al profeta nero della pace Martin Luther King, ma anche "Elvis Presley And America", con le sue suggestioni dylaniane, guarda oltreoceano.
A far decollare il disco è però soprattutto il singolo "Pride (In The Name Of Love"), intonato da Bono in un registro epico e disperato, e sorretto da un memorabile fraseggio chitarristico di The Edge, che condensa al meglio il suo stile, ricco di powerchords e delay. E' un'altra commossa dedica a Martin Luther King, personalità che aveva lasciato il segno in Bono & C., freschi reduci da una visita a Chicago alla mostra commemorativa sul reverendo-leader del movimento nero.
"Pride" diventa uno dei grandi inni del decennio e, insieme alla commovente title track, maestosa e sinfonica rievocazione degli orrori di Hiroshima e Nagasaki, trascina gli U2 nell'olimpo del rock mondiale.
Ma il disco vive anche di episodi meno noti, eppure sempre preziosi e toccanti, come l'affresco visionario della misteriosa città di "Promenade", l'amara riflessione sui demoni della droga di "Bad" - emozione al calor bianco con il minimo degli orpelli (due-accordi-due, la linea vocale in perfetta simbiosi con la chitarra e i colpi della batteria) - e l'elegia malinconica del ritorno a casa di "A Sort Of Homecoming", una delle ballate più classiche del repertorio del gruppo.
The Unforgettable Fire è il primo album degli U2 a entrare nei Top 10 di "Billboard" ed è la svolta dell'intera carriera della band, che accentua il suo impegno sociale. All'esibizione sul palco di Live Aid a Wembley, in cui Bono salta dal palco in mezzo al pubblico, seguono il tour "Conspiracy Of Hope" per Amnesty International, il contributo a "Sun City" contro l'apartheid, le incursioni con Greenpeace per il caso-Sellafield, e il "Self Aid" a favore dei giovani disoccupati irlandesi.
La rivista musicale Rolling Stone proclama gli U2 "il gruppo degli anni Ottanta".

Ma alla vetta delle classifiche di Stati Uniti e Gran Bretagna (e non solo), Bono e compagni arrivano nel 1987, con The Joshua Tree. Il titolo fa riferimento a un cactus gigante che cresce nella Death Valley, ribattezzato Joshua dai primi mormoni giunti in America, come a paragonare quel luogo alla Terra promessa di Giosuè. È il disco della maturità, sapiente sintesi tra la tecnologia di Eno, l'irruenza selvaggia del trio batteria-basso-chitarra e l'estensione vocale di Bono, con qualche incursione nel blues e nel country.
Imperniate sui fraseggi “ritmici” della chitarra di The Edge, con il suo corredo di riverberi, powerchords e delay, le canzoni brillano per incisività degli arrangiamenti e potenza melodica, guadagnando una carica epica che si mantiene tuttavia a distanza di sicurezza dagli eccessi retorici degli anni a venire. Il titolo originario dell’album doveva essere “Desert Songs”, e non a caso: gli spazi selvaggi e sterminati dell’America fanno infatti da scenario dominante a un compendio di riflessioni, racconti e invettive che orienta il fuoco sacro degli esordi verso un songwriting più articolato, in grado di coniugare l’essenzialità a nervi scoperti del post-punk con le tessiture sonore blues e roots rock, senza rinunciare a una vocazione pop che si traduce in un pugno di ritornelli irresistibili.
La prima parte del disco è una sequela impressionante di hit, a cominciare dall’incipit di “Where The Streets Have No Name”, al cui perfezionamento – secondo Eno – furono dedicate metà delle registrazioni dell’intero album. Una intro da antologia del rock – l’organo in dissolvenza, l’arpeggio di sei note in delay di The Edge, la batteria marziale di Larry Mullen – prepara il terreno a una delle performance vocali più memorabili di Bono, al quale si deve anche lo spunto del testo (un viaggio in Etiopia con la moglie dopo il Live Aid). La folgorazione dell’ouverture si stempera nell’andatura ciondolante di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”, altra prodezza vocale di Bono, stavolta alle prese con un gospel dagli accenti biblici, che si interroga sulle difficoltà della fede. Completa la tripletta-killer iniziale il fortunatissimo – anche oltre i meriti - singolo "With Or Without You", sorta di “bolero rock” a metà tra love-story e confessione religiosa, che parte sornione e decolla in un climax sulle corde della “infinite guitar” di The Edge (la chitarra dal sustain regolabile a piacimento), valorizzando le acrobazie vocali di Bono.
Chiuso idealmente il prologo con la ruvida “Bullet The Blue Sky” – denuncia della politica imperialista dell’America reaganiana in Nicaragua ed El Salvador, scandita dal basso pulsante di Adam Clayton e dai riff di The Edge a mimare il rombo degli aerei da guerra – il disco svela però una seconda parte ancor più sorprendente, con tracce meno celebri, ma spesso anche più suggestive. Come il blues semiacustico di “Running To Stand Still” che, sulla falsariga della sempiterna “Bad”, lavora per sottrazione, scarnificando gli arrangiamenti (una slide, qualche ricamo di elettrica, poche frasi di piano, l’armonica finale) e lasciando il proscenio a Bono, per narrare la desolazione degli eroinomani dublinesi tra le Seven Towers, i sette palazzi dove i tossici andavano a bucarsi. Emozione col minimo degli orpelli, come nella meravigliosa “One Tree Hill”, dedicata – insieme all’intero disco - a Greg Carroll, roadie della band, morto in un incidente in moto a Dublino: la collina di One Tree Hill nei pressi di Auckland (Nuova Zelanda), terra nativa del giovane maori, fa da sfondo a un commosso ricordo dell’amico scomparso, con i vocalizzi struggenti di Bono a impreziosire un testo personale, colmo d’emozione e lirismo.
A riprendere il filo della denuncia politica sono invece due ballate al cardiopalmo: “Red Hill Mining Town” e “Mothers Of The Disappeared”. La prima scende in campo al fianco dei minatori britannici bersagliati da Margaret Thatcher, sulle note di un’accorata ode elettrica. La seconda, cullata dal ticchettio della pioggia e dal synth di Eno, oltre che dall’acustica di Edge, è un’elegia ipnotica che omaggia le Madri di Plaza de Mayo e la memoria dei desaparecidos argentini.
Ma torna anche l’epopea degli spazi sconfinati e del deserto americano: soffusa, tra le vibrazioni d’armonica blues-country di “Trip Through Your Wires”, e in tutta la sua potenza evocativa tra i riff incandescenti della splendida “In God’s Country”, ovvero il lato oscuro del sogno a stelle e strisce, con piglio rock’n’roll e intro molto simile a quella di “Where The Streets Have No Name. L’apocalittica jam-session di “Exit” - storia di un religioso serial-killer ispirata dalla lettura del romanzo “The Executioner's Song” di Norman Mailer - dimostra infine come anche gli U2 abbiano recepito la lezione degli psicodrammi di Patti Smith.

The Joshua Tree suggella la stagione più creativa degli U2, proiettandoli in testa alle chart del globo, con oltre 20 milioni di copie vendute, e fissando uno standard rock del decennio. Ma non solo: grazie a questo album Bono e compagni entrano definitivamente nel costume e nell’immaginario mondiali. Lo certificherà una celebre copertina del Time dello stesso anno 1987 (onore concesso, prima di loro, solo a Beatles, Band e Who).

Gli U2 completano la loro "americanizzazione", nei suoni e nel look. E negli Stati Uniti riescono a collaborare con "mostri sacri" del calibro di Bob Dylan, Robbie Robertson, Roy Orbison e B.B. King con cui si esibiscono nel tour di Rattle & Hum, dal quale sarà tratto l'omonimo live, contenente nuove versioni dal vivo dei loro classici, cover e alcuni inediti, tra i quali si segnalano in particolare l'omaggio al soul Motown di "Angel Of Harlem", l'umbratile tensione di “Heartland”, il tenero romanticismo di “Love Rescue Me” e la riflessione in punta di voce della ballata “All I Want Is You”.
A deludere sono soprattutto le nuove versioni di inni storici come “Helter Skelter” e “All Along The Watchtower”, ma anche l'Aor manierato di pezzi come “Desire” e “Silver And Gold”, outtake di grana grossa, un po' come la produzione fin troppo mainstream di Jimmy Iovine.

Molto meglio, invece, la sfilza impressionante di strepitosi “lati B” di quel periodo, in seguito raccolti nell’antologia The Best of 1980-1990/ The B-Sides. Per citarne alcuni: “Spanish Eyes”, “Sweetest Thing”, “Love Comes Tumbling”, “Walk To The Water”. Tutte canzoni di serie A, che avrebbero potuto tranquillamente figurare negli album migliori della band dublinese.

Ma in patria gli atteggiamenti "messianici" dei quattro sacerdoti del rock suscitano l'ilarità di gruppi come The Joshua Trio e Sultans of Ping. Questi ultimi dedicano loro l'irriverente "U Talk 2 Much" ("gli U2 parlano troppo"). Contro la band dublinese si levano anche gli strali della cantante Sinead O'Connor, che li accusa di gestire in modo mafioso la scena rock irlandese tramite l'etichetta "Mother Records".

Per gli U2, però, è tempo di cambiare ancora. Nel 1991 infatti, con Achtung Baby, Bono e compagni inaugurano la svolta tecnologica degli anni Novanta. La confusione ultrasonica si erge al posto del Muro che è crollato due anni prima. Berlino è il centro del mondo. Dunque, Berlino è lo stimolo che attende di essere vissuto, per ogni forma d'espressione che abbia intenzione di modernizzarsi. La produzione è affidata a due già testati guru: Daniel Lanois, già fidato collaboratore della band, spalleggiato dal genio incontrastato delle produzioni Brian Eno, il "quinto U2". La location sono gli Hansa Studius, i celebri studi nei quali David Bowie registrò, sempre con Eno, la sua "trilogia berlinese". Il "sesto U2", il fotografo Anton Corbijn, firma la copertina-collage, costruita sulle immagini di un viaggio a Santa Cruz e in Marocco. 
Gli U2, da qui in poi, non sono più semplici "musicisti", sono uno spettacolo a 360°, che comprende ritmo, armonia, immagine, fotografia, grafica, movimento, teatralità, poesia. Ed è da tutti questi elementi che scaturisce Achtung Baby. Il graffiante suono di The Edge è il nettare dell'intro rumorosa di "Zoo Station"; la ritmica industriale di Larry Mullen e del basso rugginoso di Adam Clayton crescono freneticamente; la voce filtrata di Bono è ora diventata luciferina e il frontman canta, in un testo vagamente dadaista, ispirato dallo zoo di Berlino, che ora si sente pronto. "Sono pronto. Pronto a dire di essere felice di essere vivo. Sono pronto, pronto per la spinta". E questo è il biglietto da visita dei nuovi U2.
La seconda traccia, "Even Better Than The Real Thing" è costruita su una struttura rock classica e ci rivela un Edge a suo agio alla slide guitar. Ma è alla terza traccia che gli U2 si confermano maestri nel confezionare ballate destinate a lasciare un segno nel tempo: "One" diverrà forse il brano più celebre del gruppo. Un brano assieme evocativo e spirituale, che tratta di amore in maniera universale ed è interpretato da Bono con la devozione di una preghiera.
Il secondo capolavoro del disco è quella "Until The End Of The World", voluta da Wim Wenders nella colonna sonora del suo omonimo film. Un saggio di tetro rock, a far da contorno a un ipotetico dialogo tra Gesù e Giuda, calato in un atmosfera diabolica che strizza l'occhio alla blasfemia. Il timbro acuto e metallico di The Edge si fa più aggressivo e culmina in un assolo tagliente. "Who's Gonna Ride Your Wild Horses" è un'altra ballad romantica, animata da una delle ritmiche più convolgenti del gruppo, battuta dalla nobile mano di Mullen. Il brano che segue è l'unico vero respiro fino a questo punto, "So Cruel", episodio meno incisivo, ma non privo di spunti (su tutti la ritmica secca e precisa).
Ad aprire la seconda metà dell'album è il suo manifesto, "The Fly": il riff ingombrante di The Edge suona come un ronzio minaccioso e inesorabile, la voce nuovamente filtrata di Bono lo fa entrare nel primo di una serie di alter ego che metterà in scena sul palco per vari anni a venire; il ritornello mostra un geniale gioco di controcanti in pulito falsetto del chitarrista contrapposti alla demoniaca voce di Bono. "Mysterious Ways" regala consistenti echi funky e si rivela uno dei brani più giocosamente selvaggi di tutto il disco. The Edge suona un wah riconoscibilissimo e insostituibile, Adam Clayton traccia una delle sue linee migliori del disco e Larry Mullen definisce il tutto con un drumming potente, inclusi bonghi dal vago sapore africano. "Tryin' To Throw Your Arms Around The World" è il momento più gioioso del disco, con la sua andatura da scanzonata. A seguire, però, arriva l'amara dolcezza di "Ultra Violet (Light My Way)", che costruisce la sua emotività su una calda sensazione di lontana speranza. "Acrobat" è un pezzo tirato e teso, reso tagliente da un The Edge frenetico e nervoso, che conferisce ulteriore enfasi all'emozionato cantato di Bono. Il finale è apparentemente tranquillo, ma carico di paura e cupezza: "Love Is Blindness". La struggente consapevolezza cui giunge Bono è che l'amore è cieco, da qui il parallelismo tra l'amore e un incombente senso di morte. The Edge si concentra su organo e tastiere, appoggiandosi sulle note flebili di Clayton e sui battiti sottili di Mullen. L'ironia e il frastuono della modernità si ritirano per fare spazio a un'amara riflessione sul disincanto.

Il successivo "Zoo Tv" è uno show abnorme, ispirato dall'universo cibernetico dello scrittore William Gibson e dal famigerato "villaggio globale" di McLuhan. Un inferno di suoni e di informazioni, che bombardano il pubblico da decine di teleschermi collegati a due satelliti. In questo contesto e durante il tour colossale nasce un album che sembra più una raccolta di b-side di Achtung Baby.

Co-prodotto da the Edge, Brian Eno e Flood, Zooropa non è l'album più innovativo, ma di certo più sorprendente, sperimentale e azzardato che la premiata ditta U2-Eno-Flood abbiano mai realizzato (senza Lanois che nel frattempo stava promuovendo il suo nuovo album solista). Lo stesso Bono Vox definirà l'esperimento "un album pop surreale". E nessuna definizione sembra essere più indovinata.
Il vocalist riprende in mano il telecomando multimediale sulla sua TV planetaria, comincia a cambiare canale ed ecco la title track: il wah-wah cibernetico di Edge fa da contrappunto alla voce di Bono, che ormai sembra essere l'unico elemento umano tra il basso di Clayton e la batteria di Mullen, caricate elettronicamente da Eno. C'è un nuovo cambio di canale e "Babyface" è la risposta di Bono, Edge e co. alla splendida "Satellite Of Love" della "musa" Lou Reed.
Si cambia ancora con "Numb": con una base industrial e un rap "mutante", sembra quasi essere un grido di allarme dell'artista che dai tempi dei Kraftwerk è ormai "vittima" della tecnologia (o solo di sé stesso?). I synth di Eno si intersecano con una ritmica elettronica costante, mentre con "Lemon" si passa a un pop elettro-funk più vicino a certe sonorità dei Talking Heads di Byrne: è senz'altro la track più immediata di tutto l'album tra strumenti tradizionali in chiave funk-rock e i synth di Eno.
La quinta traccia, "Stay" (dalla colonna sonora di "Faraway, So Close" di Wim Wenders) entra subito a far parte del repertorio classico della band: un'armonia semplice basso-chitarra-batteria viene costruita su una solida base synth che sembra riempire tutti gli spazi. La struggente interpretazione di Bono Vox merita davvero un plauso per un testo intimista, quasi una confessione ("a vampire or a victim"?).
Una fanfara staliniana tratta dalle "canzoni preferite di Lenin", fa da intro a quella che Bono definisce un "blues industriale". In "Daddy's Gonna Pay For Your Crashed Car" è Clayton a farla da padrone, con un potente basso marziale e anche "Some Days Are Better Than Others" è introdotta dal basso, stavolta molto liquido, di Clayton. Un altro loop prende vita e risalta tra le spire della chitarra di Edge e l'intrattenimento "rumoristico" ambient di Eno. Il "quinto U2" poi si siede al pianoforte-harmonium e decide di intonare un pezzo, "The First Time", il cui pallore ricorda molto proprio Lou Reed e i Velvet Underground di "Heroin" con un riferimento alla parabola del figliol prodigo, così come anche "Dirty Day" sembra omaggiare Lou Reed oltre che Charles Bukowski al quale è dedicata.
Infine l'ultimo zapping: con "The Wanderer" i Kraftwerk incontrano Ennio Morricone, mentre il "vagabondo" tra i fuochi d'Irlanda, le lande desolate americane di Wenders e Leone, e il cuore dell'Europa, ancora vaga alla ricerca della verità. O di sé stesso. Johnny Cash è l'ospite d'onore di questo strano mondo chiamato Zooropa.

Intanto, l'impegno politico del gruppo si trasferisce nello scenario dei Balcani in fiamme. La Jugoslavia dilaniata dagli odi etnici appare agli U2 una metafora del conflitto irlandese tra cattolici e protestanti. Parte, insieme a Brian Eno, il progetto-Passengers: "Miss Sarajevo", cantata con Luciano Pavarotti, è una commovente preghiera di pace in cui l'elezione di una reginetta di bellezza diventa il simbolo della normalità perduta nella guerra. "Questa notte dobbiamo vergognarci di essere europei", grida Bono durante un concerto.
Poi, sempre sul terreno politico, arriveranno gli incontri con Salman Rushdie e il concerto con i premi Nobel per la pace nordirlandesi John Hume e David Trimble.
I sacerdoti del rock cambiano pelle. Lustrini e occhiali da sole a goccia al posto dei giubbotti da liceali; capelli rasati al posto di quella zazzera post-punk che - come dice Bono - "ha contagiato intere schiere di calciatori di serie B". L'intimismo degli esordi ha lasciato spazio all'ironia. Il bersaglio è il "mercato globale", che fagocita tutto e tutti. Anche le rockstar. Addio salmi. Benvenuti al supermarket rock del Duemila.

Il rock è invecchiato", dichiara Bono dopo l'uscita di Pop (1997). "Cambiare è il solo modo per sopravvivere", precisa il chitarrista The Edge. Così i quattro apostoli del "fuoco sacro" d'Irlanda approdano addirittura in una discoteca post-moderna che centrifugava suoni, rumori e immagini. Motivi pop, piu' facili ed effimeri, testi meno impegnati e ritmi martellanti stile techno, vogliono rappresentare, nelle intenzioni di Bono e soci, "l'industria della musica". Ma gli U2 sanno benissimo di essere ingranaggi di quel sistema, con i loro capricci da rockstar e i loro show faraonici. Così, ormai, preferiscono affidarsi all'ironia, nelle canzoni e nelle scenografie dei concerti. La parabola dell'apocalisse consumistica di fine secolo, iniziata con lo show di "Zoo Tv", raggiunge l'apice sul palco del "Pop Mart tour", un supermercato ambulante del rock decollato da Las Vegas e approdato anche in Italia per due date, a Roma e Reggio Emilia. Tutto diventa eccessivo, dall'immenso arco giallo che sovrasta il palco a un limone di nove metri, da un'oliva infilzata su uno stuzzicadenti di 35 metri a un megaschermo da 700 metri quadrati traboccante frammenti psichedelici e pop-art.
Il suono puro degli U2 si trasforma in una miscela impazzita di atmosfere ipnotiche dance e di ritmi accelerati techno e jungle, di un elettro-pop che oscilla tra Depeche Mode e Chemical Brothers. Una incursione nel mondo luccicante ed effimero delle discoteche, in cui c'è spazio per la dance volutamente triviale di "Discotheque", ma anche per gli assoli di chitarra della ballata "Staring At The Sun", forse l'unica vera consolazione dei nostalgici (meno graffiante l'altro episodio melodico di "If God Will Send His Angels", spicchio di amara disillusione che sarà incluso nella colonna sonora di "City Of Angels").
Non manca, comunque, qualche ulteriore spunto d'interesse, come "Do You Feel Loved", riflessione sulla fine di una storia d'amore vicina a certe sonorità britpop del periodo (Suede, Blur), o l'intensa "Please", che mima un dialogo con un terrorista dell’Ira, alla disperata ricerca della strada per la pace (“You had to win/ You couldn’t just pass/ The smartest ass/At the top of the class/ Your flying colours/ Your family tree/ And all your lessons in history/ Please… please… please get up off your knees…/ Please… please… leave me out of this…”). Al brano sarà anche abbinato un suggestivo video, diretto da Antony Corbijn.
Ma si può parlare davvero di una svolta commerciale per i quattro ex-integralisti del rock'n'roll? "Non vogliamo restare schiacciati da queste influenze, ma documentarle - si difenderà Bono - È un po' come facevano i Beatles. Gli U2 non saranno mai un gruppo dance. Se la gente ballerà con i nostri pezzi, lo farà a casa, non sulla pista". Ma per i nostalgici dei primi U2 non c'è piu' spazio: "Il rock - si giustifica Bono - rischiava di mummificarsi come la musica folk. Dovevamo venir fuori dal rigore anni Settanta e imparare a prenderci in giro. È quello che stiamo facendo con i nostri ultimi show".

Soltanto nel 1988, cantavano in "God Part II" (da Rattle & Hum): "Non credo negli anni 60, nell'eta dell'oro del pop/ Si glorifica il passato, mentre il futuro è sempre piu' sterile". Oggi, gli U2 scoprono il pop e guardano al futuro. Per loro, come per altre rockstar (David Bowie, Bruce Springsteen, Sting, il rock è diventato un vestito troppo stretto, e il trasformismo quasi una necessità. "Le nostre canzoni piu' interessanti sono nate dalla sperimentazione - spiega il chitarrista The Edge - Tentiamo cose inedite, perché è il solo mezzo per mantenerci in vita. All'improvviso la formula basso-chitarra-batteria è diventata logora. Invecchiando, il rock si è appesantito. Ora stiamo lavorando su nuovi ritmi, ma non possiamo fare i cambiamenti rapidi di Bowie; dobbiamo sempre tenere conto di quattro opinioni diverse".

Così, dopo aver raccolto il meglio dei primi dieci anni d'attività in The Best Of 1980-1990 & The B-Sides e per venire incontro all'anima più "tradizionalista" della band, all'alba del nuovo millennio gli U2 tentano un (parziale) ritorno al passato con All That You Can't Leave Behind (2000) ovvero "tutto quello che non puoi lasciare indietro". Nelle undici tracce, la band irlandese tenta di recuperare la semplicità delle origini, dispersa negli ultimi anni tra show futuristi e incursioni in discoteca. Ma in realtà il furore degli esordi è un lontano ricordo, e si ha l'impressione che la deriva pop di Bono e compagni sia ormai irreversibile.
Non manca comunque qualche eccezione, come il singolo "Beautiful Day", che racconta della banalità di come un uomo possa perdere tutto, ma essere ugualmente felice. Un pezzo che regala qualche momento d'emozione, anche se, musicalmente, ruba la melodia a "The Sun Always Shines On Tv", un vecchio successo degli a-ha.
Efficaci anche “Stuck In A Moment”, dove il rock va a braccetto con inflessioni soul di marca Motown, la tiratissima "Elevation", con chitarra distorta e una potente sezione ritmica batteria-basso ad assecondare i vocalizzi di Bono, e l'intesa “Walk On”, che suona un po' come il brano manifesto dell'album, con versi che chiariscono che cosa davvero non si può lasciare indietro: “L’amore/ non è una cosa facile/ l’unico bagaglio che ti puoi portare/non una cosa facile/ è tutto ciò che non ti puoi lasciare alle spalle”.
Diversi altri brani però girano a vuoto ("Wild Honey", "Peace On Earth", "When I Look At The World"), restituendo un'immagine sbiadita dei quattro rocker irlandesi che infiammarono il mondo.
Bono, reduce dalla fresca esperienza di attore e musicista nel film di Wim Wenders "The Million Dollar Hotel", definisce il disco "un ritorno alle nostre ballate vecchio stampo", visto che "il pop dice alla gente che tutto va bene, mentre la nostra musica dice il contrario". Concetti simili a quelli già espressi molte altre volte dal leader degli U2, che però ultimamente sembra aver smarrito il senso della coerenza. Dopo All That You Can't Leave Behind, l'impressione che gli U2 si siano trasformati in un gruppo di musica pop-rock senza troppe pretese non si è attenuata, ma semmai rafforzata.

Il lavoro del gruppo di Dublino nell'ultimo decennio è stato raccolto in The Best Of 1990-2000, album che, in versione limitata, contiene un secondo cd dal titolo The Best Of B-Sides, un bonus Dvd con un esclusivo "History Mix" che copre la carriera degli U2 negli anni '90, un trailer del Dvd antologico "The Best Of 1990-2002", una versione inedita live di "Please" e il "backstage" del video del nuovo singolo "Electrical Storm". La versione standard, comprendente un solo cd, raccoglie invece solo i classici (per lo piu' singoli) del decennio 90, oltre ai due brani inediti: il suddetto "Electrical Storm" e "The Hands That Built America", realizzato per la colonna sonora del film di Martin Scorsese "The Gangs of New York".

Nel 2004 gli U2 recuperano il vecchio produttore Steve Lillywhite per registrare How To Dismantle An Atomic Bomb. Il trascurabile ed energico singolo "Vertigo" non farebbe presagire niente di che, un power-pop che potrebbe appartenere a una delle tante band giovani che spuntano a ogni stagione come funghi. Però è la seconda traccia, "Miracle Drug", che farà fare un salto sulla sedia a qualche vecchio fan, sin dal primo tintinnio della chitarra di The Edge, fino all'esplosione della sezione ritmica nell'epico ritornello, dove la voce di Bono recupera il timbro passionale che lo rese, giustamente, uno dei più amati frontman di sempre, e il basso di Clayton disegna le sue linee elementari ma così efficaci. La voce di Bono tradisce lo sforzo nel cercare di ripetere le prestazioni di un tempo, ed è esemplificativa dell'approccio degli U2 tutti, dalla sezione ritmica, alla chitarra di The Edge, teso a recuperare il pathos dell'inizio carriera; un effetto nostalgia che traspare anche dall'atmosfera, spesso malinconica e riflessiva, delle musiche e dei testi.
L'operazione riesce però solo in parte. Sono inspiegabili, infatti, delle scelte fatte proprio in fase di produzione, che rovinano molti brani. Tastiere, pianoforti e chitarre acustiche utilizzate quasi sempre in maniera insignificante, annacquano brani già di per sé non originalissimi come "Sometimes You Can Make It On Your Own Quick", "One Step Closer" e "Original Of The Species". Per fortuna, c'è la chitarra di The Edge, ricca di spunti e inconfondibile, con il suo eco che somiglia proprio all'immagine sfumata dei ricordi che riesuma, e ci sono alcuni pezzi belli, come "City Of Blinding Lights", dove si fa impetuoso come ai vecchi tempi l'incedere del basso di Clayton, la classica ballata "A Man And A Woman", la conclusiva "Yahweh" che sembra uscita da The Joshua Tree.

Un altro falso movimento, insomma, questo degli U2. Eppure, quella ritmica semplice ed epica, quella chitarra tintinnante, la voce passionale, riescono ancora a far apparire il fantasma di quei ragazzi che suonavano "Gloria" sul molo del porto di Dublino, giovani, entusiasti, con i cuori in fiamme. Ma se è solo un'eco quello che riescono a trasmettere nel 2004 gli U2, allora sarebbe auspicabile che si trattasse di un vero commiato, in fondo sarebbe ben più dignitoso di tanti altri a cui si è assistito nella storia del rock.

Quel che era lecito chiedere a No Line On The Horizon (2009) era quantomeno che si smettesse di tirar fuori il paravento di un - impossibile - ritorno agli antichi fasti, si prendesse coscienza dei propri mezzi attuali e si iniettasse una gran dose di lavoro. Fortunatamente, la coppia Eno/Lanois porta un suono sì lambiccato ma capace di colorire i brani. Quello che viene fuori è un disco di mezzi toni, di sfumature, di ampio respiro e grigio come la sua copertina.
Le tastiere liquide che aprono "Magnificent" fanno da anteprima a un bel tuffo nel passato, frutto della chitarra di The Edge che ritrova epiche ormai antiche su cui Bono si fa raffinato interprete. Altrove il trait d'union col passato si fa più labile: come in "Moment Of Surrender", un lungo gospel ricco di pathos, o come l'evocativa distesa "Fez-Being Born", in cui la melodia prende la linea del racconto per immagini.
Il brano meglio rappresentativo del nuovo corso, si chiama "Unknown Caller", splendido momento corale, in cui chitarra e sezione ritmica si limitano a incorniciare il lavoro di voci fino a quando viene lasciato spazio a un intensissimo solo di The Edge di rara profondità.
A questo punto sarà evidente che la sfacciataggine del singolo "Get On Your Boots" non è che un aspetto minore. Piazzato a centro album, quest'ammiccante funkettino è, con le compari "I'll Go Crazy..." e "Stand Up Comedy", solo un momento di libertà, di rock'n'roll in senso stretto - non a caso sono gli unici tre pezzi non firmati anche dai produttori - che, per quanto sarà inviso a parecchi fan, spezza senza per questo creare grossi cali di qualità. Perché, alla fin fine, il valore di "No Line On The Horizon" trova la sua conferma proprio nei numeri base, come la solida e potente "Breathe" o come il crescendo della title track. Brani che mantengono la giusta rotta nell'attesa dei momenti più aulici, tra cui non può non citarsi la deliziosa "Cedars Of Lebanon", suadente ballata sottovoce che chiude il disco con il miglior testo del lotto (testi che, ad onor del vero, globalmente non brillano).
No Line On The Horizon segna il ritorno degli U2 alla musica, senza che per questo si debba parlare di grande stile. Lo stile è piuttosto finalmente consapevole, finalmente maturo, finalmente faticato, i pezzi sono scritti e arrangiati con classe e applicazione se non passione, in maniera tale da superare i limiti d'età.

In “U2byU2”, la dettagliatissima autobiografia degli U2 uscita qualche anno fa, la band (Adam Clayton in testa) cita molto spesso la “teatralità” come caratteristica fondamentale della propria musica. Ma, come si sa, gli U2 hanno dimenticato da tempo il significato di questa parola, perché è proprio la mancanza di teatralità che caratterizza la carriera in studio degli U2 degli anni Duemila (anche se sembrano piuttosto bravini nel tirarla fuori per inventarsi idee di marketing targate Apple discutibili quanto efficaci).

Songs Of Innocence (2014) prosegue in questo trend negativo, in questa quasi totale mancanza di capacità di trasformare la musica in suggestioni visive. Manca quella vitale multisensorialità che caratterizzò tutta la loro produzione fino al 1997. Teatralità, appunto.
La produzione di Danger Mouse è potente e a tratti addirittura coraggiosa. The Edge limita la sua famosa schitarrata futuristica a pochi episodi e si lascia andare addirittura a sporcizie alla Jack White/Back Keys, che rimangono però marginali nel timore di andare troppo oltre. Il basso di Adam e la batteria di Larry sono talmente compressi da sovrapporsi in un tutt’uno che può infastidire ma che è qualcosa a cui gli U2 non ci avevano mai abituati. Bono è sicuramente il più coinvolto nel lavoro (come sempre più spesso accade), ma è ormai incastrato nel timbro alto e acuto che lo contraddistingue negli ultimi tempi e preferisce affidarsi a questo pilota automatico anziché cercare nuove soluzioni che una voce espressiva come la sua potrebbe offrirgli con le crepe dell’età.
Ma le canzoni? Le canzoni per la stragrande maggioranza non ci sono. “The Miracle (Of Joey Ramone)”, “California (There Is No End To Love)”, “Song For Someone, Iris (Hold Me Close)”, “Volcano” sono una sconcertante unica grande canzone, in cui gli ultimi Coldplay incontrano gli ultimi Killers che incontrano gli ultimi Editors e tutti insieme decidono di fare un disco di B-side. Non bastano le citazioni dei Beach Boys e la blanda ispirazione à-la Arcade Fire su “California” (spazzata via da un coro che perfino Chris Martin avrebbe giudicato troppo fastidioso), non basta il resistente giro di basso di “Iris”, subito mangiato da un’epopea di suoni vorticosi che la rendono forse una delle più brutte canzoni mai scritte dal gruppo, non basta la faccia tosta del tributo ai Ramones nell’iniziale “The Miracle”.
Va meglio quando la band osa un po’ di più, come nella vagamente sperimentale “Raised By Wolves”, nell’aggressiva “Cedarwood Road”, con un The Edge alle prese con una chitarra quasi surf, o in “This Is Where You Can Reach Me Now”, divertente tributo al sound dei Clash e dedicata a Joe Strummer, che non avrebbe sfigurato su “War”. Ma anche in questi episodi il gruppo si sta cercando senza riuscire a trovarsi, come un cane che insegue la propria coda.
In mezzo a tanto cattivo gusto l’unico episodio degno di nota messo nella prima parte del disco è “Every Breaking Waves” (non a caso il pezzo più vecchio: abbozzata nelle sessioni di No Line On The Horizon, fu suonata in una versione scarna nel 360 tour): ruffiana quanto basta, è una voluminosa autocitazione che però possiede abbastanza carattere per decollare.
Tutto qui? Gli U2 si infrangono contro se stessi così implacabilmente? A dire la verità no, perché qualcosa che funziona senza se e senza ma c’è. La conclusiva “The Troubles” (con ospite una Lykke Li che ricorda molto Sinéad O’Connor) profuma di irishness e di soul e abbonda di violini campionati in un incedere trip-hop struggente, che si apre meravigliosamente nel ritornello sottolineato dalla chitarra scarna e rilassata di The Edge. E soprattutto c’è “Sleep Like A Baby Tonight”. Ecco, questa canzone è davvero qualcosa che va oltre. Come se gli U2 avessero trovato in fondo ai cassetti un po’ di quella polvere magica dell’ispirazione in cui erano immersi a metà degli anni Novanta. Bono si toglie gli occhiali da sole e ritrova tutto quel carisma che aveva lasciato sul palco dello Zoo TV tour, sfoggia un autoironico falsetto, mentre una chitarra distortissima spaventosamente bella scorre piano come un rettile, tra un Larry seccamente morbido e un Adam sugli scudi.

La consapevolezza che gli U2, pur sapendo di poter scrivere grandi e suggestive canzoni, inseguano per scelta il pop da classifica (in un patetico tentativo di non sembrare dei cinquantacinquenni) permea tutta la loro produzione recente. Di “innocente” questo Songs Of Innocence non ha proprio nulla. E a proposito di questo, il titolo dell’album cita la raccolta di William Blake “Songs Of Innocence and Experience”. E anzi, un secondo album, intitolato appunto “Songs Of Experience”, è già stato annunciato dal gruppo per i prossimi mesi. Se la loro idea di esperienza è a fuoco quanto quella di innocenza, il duetto con Avincii è dietro l’angolo.

Songs Of Experience rappresenta l'apice al contrario della loro avventura, l'apoteosi di uno stile da loro stessi, se non inventato, istituzionalizzato negli ultimi tre lustri: la canzone pop-rock caratterizzata da un uso intensivo di cori e da una base ritmica dritta e piatta che invita a danze mediocri, interpretata da una voce che, persi da tempo gli antichi fulgori, si è trasformata in qualcosa di asettico, plasticamente adatto a ogni occasione, proprio come il nuovo canzoniere, ormai anonimo e privo di sussulti. Un lavoro lungo, dichiaratamente sofferto, che poi però si rivela come l'ennesimo tentativo di primeggiare, di ergersi a guida di una generazione di ascoltatori sempre più annoiati e alla ricerca di un semplice sottofondo. E diventa anche palese, quando non plateale, il botta e risposta con i colleghi Coldplay, allo stesso tempo emuli e fotocopiati da Bono e soci in un tragitto ormai lungo tre lustri. Non si salva nulla, men che meno i testi, prediche di una banalità avvilente, dove le parole vengono addomesticate e rese potabili per chiunque non ecceda in curiosità. Ma la storia continua in gloria, con l'appoggio affettuoso dei tifosi e di una critica che, a parte qualche caso isolato, applaude in maniera sconcertante.

A seguito della pubblicazione, da parte di Bono Vox, del libro "Surrender: 40 canzoni, una storia", nel tardo inverno del 2023 gli U2 decidono di distribuire una corposa compilation intitolata Songs Of Surrender, una sequenza di quaranta brani storici posti in stretta connessione con il tomo editato dal frontman qualche mese prima.
I nuovi arrangiamenti curati in prima persona da The Edge, con la collaborazione di Bob Ezrin, posseggono caratteristiche che forniscono, nella maggior parte dei casi, nuove chiavi di lettura a pezzi consegnati ai posteri con attributi differenti.
Lo stesso chitarrista ha dichiarato che il progetto è partito con il chiaro obiettivo di analizzare il risultato finale ottenuto sulle canzoni trattate a seguito dell’eliminazione di ogni elemento considerato strutturalmente prescindibile.

Alcuni episodi sono apparsi, già in sede di prima indagine, meglio predisposti all’obiettivo e non hanno avuto necessità di importanti stravolgimenti stilistici: hits come “One”, “With Or Without You”, “All I Want Is You”, “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”, “Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of” e “Peace On Earth”, conservano, anche in questo frangente, quella presa empatica e magnetica già sprigionata nei raffinati mix originali, anche se il risultato finale appare alquanto trascurabile.
Sono situazioni come “Pride”, cantata e suonata quasi come se ci si trovasse attorno a un falò, “Vertigo”, “Electrical Storm”, la dolente “Sunday Bloody Sunday”, le folkeggianti “I Will Follow” e “Desire”, persino “The Fly”, con il suo emblematico messaggio scagliato verso imperituri e boriosi saputelli, volano ad accaparrarsi stilla d’inedita percezione.
Un discorso a parte merita “Walk On”, per l’occasione accompagnata dal sottotitolo “Ukraine”, già presentata dagli U2 in questa nuova versione e con testo appositamente modificato (non l’unico brano della track list ad aver ricevuto questo tipo di variazione) per sostenere la campagna “Stand Up For Ukraine” di Global Citizen, una raccolta fondi per il popolo martoriato dalla guerra, che lo scorso anno aveva coinvolto numerosi artisti di fama.



Contributi di Silvia Tabellini ("Boy", "October"), Sigfrido Menghini ("Under A Blood Red Sky"), Edoardo Frasso ("Achtung Baby", "Songs Of Innocence"), Marco Santoro ("Zooropa"), Paolo Sforza ("How To Dismantle An Atomic Bomb"), Ciro Frattini ("No Line On The Horizon", Cristiano Orlando ("Songs Of Surrender")

U2

Discografia

Boy (Island, 1980)

7,5

October (Island, 1981)

7,5

War (Island, 1983)

8

Under A Blood Red Sky (live, Island, 1983)

8

The Unforgettable Fire (Island, 1984)

8

Wide Awake In America Ep (live, Island, 1985)

6

The Joshua Tree (Island, 1987)

8

Rattle & Hum (live, Island, 1988)

6

Achtung Baby (Island, 1991)

8

Zooropa (Island, 1993)

7

Pop (Island, 1997)

6

The Best Of 1980-1990 & The B-Sides (doppio cd, Island, 1998)

All That You Can't Leave Behind (Island, 2000)

5

The Best Of 1990-2000 & The B-Sides (doppio cd, Island, 2002)

How To Dismantle An Atomic Bomb (Island, 2004)

5,5

U218 Singles (antologia, Island, 2006)

No Line On The Horizon (Mercury, 2009)

7

Artificial Horizon (remix, U2 Dot Com, 2010)

6

Songs Of Innocence (Island, 2014)

4

Songs Of Experience (Island, 2017)

3

Songs Of Surrender (raccolta riarrangiata, Island, 2023)

5,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

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U2 sul web

Sito ufficiale
U2Place - il sito italiano
  
 VIDEO
  
Sunday Bloody Sunday (video, da War, 1983)
I Will Follow(live, da Under A Blood Red Sky, 1983)
Pride (In The Name Of Love) (video, da The Unforgettable Fire, 1984)
Where The Streets Have No Name (video, da The Joshua Tree, 1987)
With Or Without You (video, da The Joshua Tree, 1987)
Desire (video, da Rattle & Hum, 1988)
One (video, da Achtung Baby, 1991)
Mysterious Ways (video, da Achtung Baby, 1991)
Sweetest Thing (video, da The Best Of 1980-1990, 1998)
Beautiful Day (video, da All That You Can't Leave Behind, 2000)
Vertigo (video, da How To Dismantle An Atomic Bomb, 2004)
Window In The Skies (video, da U218 Singles, 2006)
Magnificent(video, da No Line On The Horizon, 2009)
Ultra Violet (Light My Way)(live, da 360° At The Rose Bowl, 2010)