Arcade Fire

Arcade Fire

Il fuoco sacro dell'anthem-rock

Dal folgorante esordio "Funeral" al quinto capitolo "Everything Now" ripercorrriamo l'ascesa del collettivo canadese, capace di unire stili diversi - dall'anthem-rock alla pop-dance - rielaborandoli e facendoli interagire in maniera personale ed efficace

di Stefano Bartolotta, Davide Ariasso, Ciro Frattini, Alberto Asquini

Ormai non ha quasi più senso ribadire che è impossibile, oggigiorno, avere uno stile completamente originale senza prendere a vario titolo riferimenti del passato. È comunque sempre d'uopo farlo quando tra i pregi di una band si decide di annoverare la personalità, che, visto quanto detto sopra, è data non tanto dall'utilizzo di idee proprie, quanto piuttosto dalla capacità di rielaborare e far interagire elementi già proposti da altri per creare uno stile proprio. Per quanto riguarda il rock alternativo considerato nel suo complesso, i canadesi Arcade Fire sono riusciti in questo intento meglio di tutti gli altri, per due motivi: intanto, fin dalla loro comparsa sulle scene, è apparso subito chiaro che le influenze del David Bowie di "Ziggy Stardust", dei primi U2, del dark e della new wave non erano solo componenti di un puzzle, ma venivano utilizzati in modo da creare qualcosa di nuovo; in secondo luogo, è indubbio che dal momento stesso in cui la band ha iniziato a riscuotere successi, non c'è stata nessun altra proposta stilistica più imitata della loro. Con tante giovani band alla ricerca della loro formula magica: tensione epica, angoscia cupa ed energia adrenalinica, con arrangiamenti elaborati di stampo rock ma con un tocco orchestrale, melodie che non siano né troppo pop né eccessivamente sfuggenti e un cantato impostato in modo formalmente impeccabile ma portatore di una grande emotività.
Vista la poliedricità del loro suono, è facile immaginare come la band sia in realtà un collettivo con alcuni membri permanenti e altri ospiti chiamati ad arricchire con il proprio contributo un ventaglio di soluzioni sempre ricchissimo. Il nucleo base viene fondato dalle due voci, quella maschile di Win Butler e quella femminile di Régine Chassagne, a Montreal nel 2003. I due diventeranno in seguito marito e moglie, ma intanto, insieme ad altri musicisti, tra cui il fratello di Butler, si autoproducono nello stesso anno di fondazione un Ep omonimo, che verrà poi rimasterizzato e pubblicato nel 2005, e una delle canzoni, "No Cars Go", verrà nuovamente registrata per essere inclusa in Neon Bible, secondo album uscito nel 2007.

Gli Ep prodromici agli album importanti di solito vengono ascoltati a posteriori, ed è facile sentirne parlare come un contenitore degli elementi che nel frattempo hanno fatto la fortuna della band in questione, ma non ancora espressi al massimo del loro potenziale. Queste sette canzoni non sfuggono alla regola: il cantato è già carico di emotività e vede un ruolo prevalente da parte della voce maschile, con quella femminile che però interviene sempre nel momento giusto per giustapporre la sua dolcezza al timbro robusto del partner, creando non già una contrapposizione bensì armonie peculiari e determinanti creando una chimica d'insieme unica; le melodie sono già basate sull'equilibrio sopracitato; i riff di chitarra svariano tra morbidezza e spigolosità; i tempi della sezione ritmica sfuggono alla banalità senza comunque risultare mai eccessivamente arditi; gli interventi di tastiera e archi ingrossano il suono con gusto, senza che l'irrobustimento appaia mai fine a se stesso, e quando invece a corroborare il tutto arrivano leggeri e guizzanti giri di piano, il dinamismo sonoro aumenta, ma si rimane sempre all'interno dei binari giusti.
Lo sviluppo dei brani può essere o particolarmente lineare ("Old Flame", "The Woodland National Anthem"), o basato su una vera e propria polistrutturazione (la citata "No Cars Go", "My Heart Is An Apple"), o situarsi in una via di mezzo ("I'm Sleeping In A Submarine") e ogni canzone ha comunque una propria identità sonora e compositiva risultando allo stesso tempo coerente con tutte le altre.
Il potenziale, però, non è ancora espresso al massimo, perché il suono e il cantato sono ancora un po' acerbi: mancano, infatti, quella plasticità e quella capacità di modulazione che permetteranno agli Arcade Fire di aumentare l'altezza delle vette emotive raggiunte. Però il gruppo con questa manciata di brani mostra di essere già a buon punto, e per chi li ha ascoltati nel 2003, non dovrebbe essersi stupito troppo per quel che è successo già a partire dall'anno seguente.

Nel 2004 arriva il primo lavoro sulla lunga distanza, l'ormai universalmente noto Funeral. Tra i musicisti coinvolti c'è Owen Pallett, che attualmente non lavora più con gli Arcade Fire e che ha acquisito una notorietà ormai propria, dapprima con il suo monile Final Fantasy e poi con il successivo album pubblicato a suo nome.
Il disco è un esempio lampante di come nel rock, e non solo, le cose siano nell'aria e ci sia soltanto chi arriva prima ad afferrarle. E qui si parla soprattutto di un'attitudine, quella dell'anthem pop, che può usare come materia prima le più svariate suggestioni sonore. Idee e arrangiamenti sorprendenti emergono da un magma quasi spectoriano, e anche se la mira resta spesso ferma su un effetto emotivo un po' plateale, emergono una dedizione e un'approfondimento molto soulful e classici.
Quindici musicisti: voci, basso, chitarre, piano e batteria dominanti, ma archi, fisarmoniche, xilofoni e synth ben presenti a costellare le melodie e ad accatastarsi nell'horror vacui di queste dieci, stipate, stanze sonore. Con un titolo come Funeral la ricerca d'intensità innodica sembra quasi programmatica. Alcuni membri delle famiglie del gruppo sono morti proprio durante la registrazione dei brani, fra la fine del 2003 e l'inizio del 2004: il disco è dedicato a loro, con testi e musiche che toccano proprio le corde di un'affettività evocativa e desolata, dove il vuoto dell'assenza o della perdita viene riempito dalla condivisione corale della malinconia. Una scelta poetica che fa pensare a "The Village", il film di M. Night Shyamalan, dove un'illusione deliberatamente creata preserva la comunità dal male (ma in realtà la consola soltanto).
Qualche esempio: "Une année sans lumiere" è una ballata sorniona, che prima suona come se i Tindersticks o i Cousteau fossero interpretati dai Jesus & Mary Chain post-"Psychocandy", con un arpeggio d'elettrica iterato, mentre la voce di Win Butler richiama, sebbene con timbro meno epico e più sfibrato, quella di Ian McCulloch (Echo & The Bunnymen); nella coda s'impenna, sale l'elettricità e diventa proprio U2, con The Edge che si lascia grattugiare per finire in gloria.
"Neighborhood #2 (Laika)" è accompagnata da un mesto giro di fisa, mentre voce, chitarra, basso e batteria suonano PIL e i violini striduli incalzano nel ritornello come un Nyman cresciuto a no wave, invece che a minimalismo contemporaneo; poi si stemperano, a tratti, in un coro e una melodia da tradizione folklorica al chiaro di fuochi notturni. "Neighborhood #1" introduce il disco, emergendo natalizia da un caldo brodino di suoni che prepara allo scenario di quartieri innevati, persone amate, affetti e dolore che pervade tutta l'opera. Bellissima, come se "Last Christmas" (sì, proprio quella!) fosse stata scritta dai New Order e passata ai Tindersticks. Ancor più che canzoni, sono ibridi inni melodici per scaldare cuori in inverno. Quelli desiderosi di scoprire nuove mutazioni del romanticismo indie, per titillare l'immutabilità apparente della malinconia.

Funeral riceve una delle accoglienze più trionfali dello scorso decennio in ambito alternative, sia da parte della critica che degli appassionati. Anche se, in realtà, l'anno dell'esplosione del collettivo canadese è il 2005, quando il disco viene pubblicato anche in Europa e la band sbarca per le prime date dal vivo, Italia inclusa (a fine maggio, a Milano).
Il successo sa esercitare una grossa influenza sugli artisti. Hai più responsabilità e più opportunità. È possibile che tu vada ottusamente avanti per la tua strada, ma è più probabile che si ricerchino soluzioni nuove, magari guardandosi intorno. Fatto sta che gli Arcade Fire, al contrario di molti colleghi contemporanei, si prendono una bella pausa prima di sfornare un altro disco, facendosi forti dell'onda lunga ottenuta.
Sviluppano un nuovo suono, tirano giù i pezzi, lavorando sull'orchestrazione; infine si recano "da qualche parte sull'oceano per registrare le voci" - come dichiara Butler, spiegando: "Molte delle canzoni del nuovo disco mi fanno venire in mente l'essere sul bagnasciuga, vicino all'acqua, di notte".

Tre anni, rischiando ampiamente eventuali paure di un calo d'ispirazione. Tanto c'è voluto per mettere al mondo Neon Bible, titolo e copertina tanto funzionali alla visione e alle liriche quanto brutti.
La band è riuscita a catturare una buona fetta di pubblico grazie alla sua natura bifronte, ossia l'essere al tempo stesso indie (attitudine loser, struttura stravagante dei pezzi, arrangiamenti non propriamente convenzionali) e mainstream (l'epos che sprigionano tutti i loro brani, evidente soprattutto in episodi come "Crown of Love"), pur penzolando ampiamente sul primo versante.
Bene, Neon Bible sposta un filo più in là la linea di demarcazione, pur senza superarla. Nel farlo opera i seguenti cambiamenti: a) un suono più corposo, fisico, irruento, globale e rock anziché danzerecciamente introverso b) riferimenti meno elitari e più di massa c) liriche più concrete e meno immaginifiche. Tutto ciò restando sempre Arcade Fire, anche se, ovviamente, non più quelli di Funeral.
Il primo singolo estratto, nonché apripista del disco (scelta azzeccata in entrambi i casi), la bella "Black Mirror", riassume in sé un po' tutte le caratteristiche principali del nuovo corso. Rumore dell'oceano ad accompagnare tutto il brano, chitarra acida e garage, orchestrazione a pomparne il tono, squarci di melodia epica a sorprenderne il reiterarsi. Vengono poi alla luce altre due novità. In primo luogo le voci: Butler canta molto meglio, mentre Chassagne limita il suo intervento, basato per lo più su improvvisi controcori d'arrangiamento, dal taglio molto eighties (sempre che siano opera sua) e flebili accompagnamenti. Una scelta indovinata, dato che lo smozzicato di lui è più adatto, per brani del genere, dell'onirico di lei. In secondo luogo il lavoro sugli archi, molto più professionale e preciso (e qui la mano è sicuramente della Chassagne).
Ma a dare la certezza che si tratti, anche stavolta, di un lavoro di qualità ampiamente superiore alla norma, sono i pezzi che seguono di qui a breve. La scavezzacollo "Keep The Car Running": cariche di archi, batteria e battiti di mani, insistenti note di piano, melodia ariosa e basso principe. "Intervention": un lungo bordone d'organo, chitarre acustiche e campanelli, religione e guerra, paura e amore, melodia spessa, recitazione e canto. "Ocean of Noise": waitsiano tremolio di basso a supportare una ballata dolente, rintocchi ed archi a scuotere ed accompagnare la più bella melodia sinora scritta dal gruppo. Un abbraccio sincero e profondo, con finale a sorpresa in tripudio di fiati.
Sono tre dei quattro capolavori del disco, e mostrano come la band cerchi, e riesca, a trovare un sentiero proprio, finendo in una sorta di new wave moderna: una seconda new wave più che quel revival di derivazione strokesiana.
Dove Funeral era più unico, ma di ispirazione precisa, questo capitolo due è più convenzionale ma dal respiro più ampio; e il parlare di wave andrebbe riferito più al metodo - un riciclaggio a tutto tondo - che alla sostanza. Si potrebbe addirittura provare a tracciare un filone, che andrebbe dai Fiery Furnaces ai Tv On The Radio (altro motivo dello scherzoso omaggio a Bowie, critico migliore di chi lo critica). Speculazioni semi-dottrinali, queste, che trovano la loro ragion d'essere nella maggiore varietà messa in campo, a volte in modo palese, come testimonia "(Antichrist Television Blues)": una lunga cavalcata di chitarra mozzafiato, letteralmente rubata dall'archivio di Bruce Springsteen. Laddove, dal versante opposto, è la sola "The Well And The Lighthouse" a concedersi pienamente al remake, con la sua chitarra Interpol, giochi di voce e orchestra retrò.
Poi c'è il ripescaggio di di "No Cars Go". Bella canzone allora, quarto capolavoro qui: specchio di come siano cambiati/maturati i suoi compositori ed esecutori. Rullate di batteria e folate di fisarmonica, chitarrismo wave, fiati, "hey" a raffica, crescendo di synth: tutti elementi già presenti e ora abbondantemente rianimati (più possenza e profondità; depurazione dal piglio amatoriale).
Insomma, con Neon Bible gli Arcade Fire sono diventati più maturi e consapevoli, riuscendo a tirar fuori un secondo disco che, nel valore dei singoli elementi, se la gioca con l'ingombrante predecessore. Magari perde la partita al limite: ma soltanto perché Funeral aveva un surplus d'insieme, alchimia assai difficile da ripetere, anche per un disco coeso e solido come questo.
Il disco ottiene nuovamente grande successo ovunque, e di conseguenza le location del tour a supporto sono molto ampie: in Italia, per esempio, la data si svolge in un'affollatissima Piazza Castello a Ferrara.

Gli Arcade Fire sono ormai una dimostrazione di come, da fenomeno nel microcosmo indie, si possa arrivare a calcare grandi palchi e a raggiungere un pubblico ben più vasto. Spesso il vero termometro, oltre alle vendite (comunque decisamente importanti per i canadesi), è l'attesa, l'hype che si crea attorno a un singolo da pubblicare, piuttosto che a un tour o, come in questo caso, ad un album in dirittura d'arrivo. E per il terzo disco The Suburbs questa attesa arriva a livelli spasmodici, probabilmente anche perché la band lascia passare ancora un periodo di tre anni tra l'album precedente e questo. Testimonianza ne sia il fibrillare compulsivo di blog e siti alla notizia del leak dell'album.
Accade però che magari il regalo da scartare non è così luccicante come la confezione, e l'attesa nel riceverlo, dovrebbero richiedere. Mettiamolo subito in chiaro: non è un brutto disco, ma infrange la potenza d'urto delle sue hit (e sono diverse) sugli scogli di un'eccessiva durata e di un certo spaesamento generale. Se infatti sia nel debutto che nell'opera seconda il mood era compatto, The Suburbs sbriglia le tracce da un progetto d'insieme, presentandole come episodi singoli e slegati gli uni dagli altri. La forza del frontman Butler risiede tuttavia nella capacità di scrivere belle canzoni, tese e oblique, pronte a mutar forma, a ergersi a muro, a svincolarsi. E qui le belle canzoni di certo non mancano. L'avvio è folgorante, l'uno-due iniziale ("The Suburbs" e "Ready To Start") lancia in orbita le aspettative, tracciando le linee-guida del suono Arcade Fire: chitarre tagliate, voce pulitissima, crescendo corali per giornate soleggiate.
Il prescindibile incedere, un po' scontato, di "Modern Man", accompagna "Rococo", barocca finanche nel titolo. La quinta traccia, pur non entusiasmando, propone un azzeccato moto ondulatorio che riaccende alla memoria gli splendori corali di Funeral. Stessi crismi con risultati pressoché uguali per la successiva "Empty Room", avvolta da chitarre dagli echi shoegaze. L'accoppiata "Half Light I"-"Half Light II (No Celebration)" riporta il combo canadese ai livelli che gli competono: il primo episodio, nel quale una commovente sinfonia d'archi si innalza limpidissima e malinconica nel suo incedere straziante, si accende e si spegne calorosamente. "Half Light II (No Celebration)" ne è perfetta simmetria elettrica. "Suburban War" e "Month Of May" non propongono nulla di nuovo, riciclata la prima, insipido rockettino (funzionale allo stacco rispetto alla magniloquenza fin qui udita, ma nulla più) il secondo, la nenia "Waster Hours" e le chitarre anestetizzate di "Deep Blue" non riescono a catturare davvero, cosa che invece riesce a "We Used To Wait", pezzo corale dall'incedere arioso, sulla scia di "No Cars Go". Ultimo acuto è la sorprendente meteora synth-jappo "Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)", non distante dal revival Eighties tanto in voga.

The Suburbs
è forse l'album più studiato dagli Arcade Fire. C'è misura in tutto, meno pacchianeria e una focalizzazione verso il formato marcatamente pop. La formula funziona a dovere in certi frangenti, tuttavia finendo alla lunga con l'annoiare. Alti e bassi si rincorrono, il minutaggio eccessivo e cadute piuttosto evidenti fanno il resto. C'è però ancora una volta da sottolineare la mirabile capacità della band di scrivere canzoni pop come pochi altri sanno fare.
A conti fatti sarà forse questo album a lanciarli definitivamente nell'Olimpo, con tanto di triplete in bacheca composto da disco di platino, Grammy e Brit Awards (più una pletora di altri premi minori), certo è che l'immediatezza, la vivacità e l'innocenza del debutto, ad oggi, rimangono ineguagliate.

Ma con grande sfrontatezza gli Arcade Fire sorprendono tutti e cambiano drasticamente rotta nel successivo Reflektor (2013). In questi casi, per non farsi fregare dal timore di sbagliare, la regola numero uno è esorcizzare - si saranno detti i due - perché altrimenti non si spiega l'idea di collocare 10 minuti di droni registrati al contrario in una traccia nascosta inserita prima dell'inizio dell'album vero e proprio. Già, perché gli Arcade Fire mettono in mostra suoni e ritmi che, fino ad oggi, avevano forse lasciato intravvedere, ma di sicuro mai sviscerato. Ce lo avevano anticipato dapprima con la scelta di affiancare l'ambito cultore delle piste da ballo alternative James Murphy al re mida di Suburbs Markus Dravs, ma soprattutto con il brioso quanto complesso singolo omonimo che ha precorso l'album: ritmo è la nuova parola d'ordine, e da lì si muove tutto il resto.
Pare che tutto cominci da un viaggio che Win e Régine hanno fatto a Haiti, patria d'origine di lei, e dalle sue colorate composizioni di strada fatte di maracas, campane e fiati usati alla maniera dell'afro-music. Ma non sono le uniche suggestioni, intanto perché il disco è stato registrato non a caso in Giamaica, e poi perché Win non rinuncia a portarsi appresso le sue passioni oblique, che questa volta prendono le forme del fustigatore di costumi Søren Kierkegaard de "L'età presente", e del regista cinematografico francese Marcel Camus, con la sua trasposizione in chiave moderna, ambientata a Rio alla vigilia del Carnevale, del mito di Orfeo ne "L'Orfeo negro". Viaggi, musiche, film d'autore, scritti di filosofia, esotismi assortiti… ma ecco la soluzione: quanto paventato non può che indirizzarci verso quelle "operazioni centrifuga" che, in passato, nobilitarono le intuizioni di personaggi come David Bowie, Brian Eno e David Byrne.
Le regole di ingaggio sono assai chiare: strumenti a profusione, sezioni ritmiche a tratti articolate, un uso importante dell'elettronica ad alterare in modo decisivo gli equilibri propri della rock band, ma soprattutto un lavoro maniacale di banco, con la sala d'incisione usata come strumento a sé stante, come da manuale immaginario dei tre artisti di cui sopra. Di ambiziosa c'è anche la durata dei brani, che sforano in alcuni casi i cinque minuti, e in molti addirittura i sei, come a volersi prendere tutto il tempo necessario per sviluppare i temi, in una costruzione che ricorda – qui addirittura distribuita su due cd – le gesta con cui il David Bowie di "Station To Station" riuscì a mandare al tappeto persino una vecchia volpe come Lester Bangs.
E, in coda al supersingolo di quest'autunno, su una base afro-disco condita da sax e duetti vocali che inizia innocente e si ispessisce minacciosa cammin facendo, ecco materializzarsi proprio la voce del vecchio Duca Bianco con l'afflato drammatico che solo lui possiede. Poi arriva "We Exist", e qui lo chef consiglia di levare ai Boney M di "Daddy Cool" tutta la loro gioiosa kitscheria, rallentare ma non troppo i bpm al suo giro di basso e quindi di servire freddo. Il momento dub è immortalato da "Flashbulb Eyes", che è giamaicana certo, ma sterilizzata dal folclorismo e vitaminizzata da stratificazioni elettroniche che travisano le chitarre e rendono l'atmosfera, manco a dirlo, sottilmente inquietante. Qualche spiraglio lo apre la schizofrenica "Here Comes The Night Time", in cui si affrontano due cambi di tempo, col primo tiratissimo, che fa il verso al tradizionale rara haitiano e l'altro, rallentato, che ammicca ai Cure di "Close To Me". Ma il mood si fa di nuovo teso nel rock sintetico di "Normal Person", tanto quanto il boogie seguente "You Already Know". Il primo cd si chiude con "Joan Of Arc", ovvero come ti confeziono in venti secondi un riff killer da punkster arrabbiato e poi ci ricamo sopra una pop song anthemica.
Nel secondo cd, la sceneggiatura cambia in modo sorprendente e appare ancora più nitida la nuova veste del combo canadese. Le atmosfere si fanno più meditate e dense di elettronica, dapprima con  una versione intimista di "Here Comes The Night", poi con la saga dedicata ai moderni Euridice e Orfeo (la tenue ballata "Awful Sound" e la sua tesa risposta "It's Never Over"), e quindi con l'ortodosso synth-pop di "Porno". Segni di versatilità che si propagano cambiando stile, ma senza perdere un briciolo di smalto, in "Afterlife", che rimanda dritti – con altrettanta ispirazione - alle situazioni di "Funeral",  in un crescendo neworderiano di quelli che si attaccano addosso. La chiusura è per la trasognata sinfonia sintetica "Supersymmetry", in cui il gusto melodico si sposa con la sontuosità dei suoi arrangiamenti. Chiusura mica tanto, perché è ancora il turno del drone beffardo con cui ci è stato dato il benvenuto.

Gli Arcade Fire sono tornati a fare sul serio e non lo mandano a dire, con settanta minuti di musica di grande livello, un fiammifero acceso fra le dita e il sorriso beffardo di chi, in cuor suo, sa di aver fatto centro.

Il cosmo dei lavori solisti si è poi rivelato sorprendentemente dotto. Anzitutto vi sono gli album solisti dell'arrangiatore Owen Pallett, affogati in un mirabile spleen sinfonico. Vi sono poi le improvvisazioni minimaliste del sassofonista Colin Stetson e la Bell Orchestre di Sarah Neufeld, incline alla Penguin Cafe, e pure un disco in collaborazione dei due, Never Were The Way She Was (2015).
Ultimo ma non ultimo, e forse anche più colto, Richard Reed Parry, già nella stessa Bell Orchestre, ha sperimentato con la Kitchener-Waterloo Symphony assieme a Nico Muhly, e persino inciso un album per la Deutsche Grammofon con il Kronos Quartet (Music For Heart And Breath, 2014).

Il multistrumentista William Butler, fratello minore del frontman Win, ha invece debuttato con Policy (Merge, 2015), né più né meno una facile scorsa della new wave vecchia e nuova ("Take My Side", "Son Of God"), senza peso anche per via dell'esigua durata. 

Il 28 luglio 2017 esce il quinto album Everything Now. L'eccesso di contenuti disponibili sul web, che causa le riduzione nella propensione all'approfondimento, la spasmodica ricerca di dare un senso compiuto alla propria quotidianità, l'urgenza di avere tutto e subito, con conseguente azzeramento del gusto per l'attesa e per la sorpresa: queste sono alcune delle tematiche affrontate. Quel gusto per la sorpresa che loro stessi hanno drasticamente annientato, mettendo in circolazione in anteprima quattro nuovi brani, scaglionandone la diffusione  nelle settimane che hanno preceduto la pubblicazione ufficiale del disco. Molto meno prolisso di Reflektor, dal quale si distingue anche per un maggior assortimento di suoni e influenze coi quali il tradizionale sound degli Arcade Fire si contamina, Everything Now conferma il rifiuto della band di riscrivere all'infinito un Funeral o un The Suburbs, e l'attitudine a guardare oltre, a riscrivere ogni volta un disco diverso, caratterizzandolo in maniera forte, con un tema centrale, sia dal punto di vista sonoro che testuale, accollandosi senza timori – ma forse loro se lo possono anche un pochino permettere - il rischio di non piacere a molti fan della prima ora.
Everything Now è senz'altro il lavoro con maggior groove finora realizzato dagli Arcade Fire, i quali non rinnegano quella deriva pop-dance che oggi appare più a fuoco non solo rispetto all'altalenante predecessore, ma anche rispetto ai risultati ottenuti da tanti gruppi coevi (penso ai Tame Impala in primis) che hanno deciso di immergersi nei beat electro. Il progetto dei canadesi resta una spanna più in alto, soprattutto in virtù di numerose belle canzoni che lasciano intatta l'ormai proverbiale loro predisposizione per la grandeur, sì, perché al di là di tutto, tracce come "Good God Damn" o "Put Your Money On Me" sono gran belle canzoni, perfettamente coniugate con la nuova estetica del gruppo, posizionate con senso di sfida verso fine tracklist, quando la stragrande maggioranza dei dischi odierni tende qualitativamente a calare in maniera drammatica.
Il passo dub delle due "Everything Now" poste ai margini dell'album, in un gioco di incastri senza fine destinato a chiudersi e ricominciare all'infinito, delimitano il mood generale, ma l'approccio da dancefloor è confermato anche in "Signs Of Life" e nella disco in falsetto di Régine in "Electric Blue". La schiera di producer assoldati aiuta la band a cercare nuove direzioni musicali, nascono così le parentesi dub/rocksteady di "Peter Pan" e "Chemistry" (non dimentichiamoci che Régine ha origini caraibiche ed ha sempre influenzato in qualche modo la scrittura di Butler, e che al remix di "Flashbulb Eyes" collaborarono Dennis Bovell e Linton Kwesi Johnson), i sogni in coloratissimo hardcore-punk di "Infinite Content" (nella seconda parte, quella con l'underscore, la canzone viene trasformata abilmente in una country-folk ballad à-la Wilco!!!), la straniante "We Don't Deserve Love" che sancisce di fatto la chiusura del lavoro con la partecipazione alla slide guitar di Daniel Lanois.
Ma tutto quel che sembra gioiosamente pop lo è solo in apparenza: i testi, oltre che trattare dell'amore ai tempi del consumismo sfrenato, passano al setaccio paure e propensione al suicidio, tema quest'ultimo trattato in maniera forte in due tracce, "Creative Comfort" e "Good God Damn", nelle quali ritorna la medesima scena della vasca da bagno e di un disco che suona, il sottofondo di una tragedia che si consuma fra le mura domestiche. Torna quindi lo stratagemma di trattare temi duri e impegnati rivestendoli di una patina (apparentemente) frivola e sbarazzina. Resta intatto l'approccio massimalista: tutti gli spazi possibili vengono saturati da suoni e strumenti, con quella tendenza a costruire barocchismi epici da stadium rock, da sempre loro prerogativa.
Poi, sì, potremmo anche ritrovarci tutti d'accordo nel ritenere Everything Now un lavoro tutt'altro che indispensabile, qualcuno gli assegnerà persino la palma di più debole della loro discografia. Ma pur commettendo qualche errore, e pur non riuscendo a confermarsi sui livelli memorabili degli esordi, gli Arcade Fire con Everything Now concretizzano lo sforzo di slanciarsi oltre lo steccato di un indie rock oramai svuotato di qualsiasi significato. Mimetismo, contaminazione e qualità della scrittura li portano a ridefinirne i dettami, distanziandosene un attimo prima della sua completa dissoluzione.

È un Win Butler commosso fino alle lacrime, affogato da un mix di gioia e dolore, quello che abbiamo visto interrompere l'esecuzione di "Unconditional I (Lookout Kid)" (il secondo, dolcissimo singolo estratto da questo We) al Coachella di quest'anno. Sarà stato il ritorno su un grande palco dopo tanto tempo, sarà stata la prima di un brano scritto e cantato rivolgendosi al figliolo, sarà stato tutto quello che abbiamo passato.
La prima cosa a colpire di un disco programmaticamente toccante come We (2022) non è infatti se gli Arcade Fire abbiano appreso o meno la lezione (sembra tale l'ingiusto astio dimostrato da critica e pubblico verso il pur buono Everything Now di ormai 5 anni fa) e siano tornati al tanto rimpianto sound dei primi tre leggendari dischi, bensì quanto sia legato a questi emotivamente tumultuosi anni pandemici. Anni che avrebbero potuto unirci e invece ci hanno divisi, disintegrando il nostro ideale di comunità anche a fronte di un evento drammatico globale.
Anni che gli Arcade Fire prendono di petto e sviscerano con un concept-album diviso in due sezioni, una intitolata "I" (io) e dedicata a singolarità e solitudine e una intitolata per l'appunto "We" (noi), che ci parla invece di barriere da abbattere, unione, comunione, comunità. A celebrare insieme a Regine il cerimoniale più intenso di quest'ultima, un avvolgente corale sintetico intitolato "Unconditional II (Race And Religion)", è stato chiamato il vate Peter Gabriel.
Ma come suona questo inno alla fratellanza 2.0? Gli Arcade Fire hanno davvero fatto retromarcia rispetto alla svolta sintetica di Reflektor e a quella pop di Everything Now come lasciavano intuire gli antipasti "The Lightning" e "Unconditional I (Lookout Kid)"? Sì e no. Il tanto rimpianto indie-rock epico e corale di Funeral fa certamente capolino nei brani in questione, altrove meno, talvolta niente affatto.
Le due "Age Of Anxiety" sono due elettropop decisamente movimentati che pescano a mani basse dall'elettronica di "The Suburbs" e dal catalogo dei New Order; sul finale di "The Lightning II" incontriamo persino una scintillante coda americana; mentre invece le due sobrie ballate del comparto "End Of The Empire" sorprendono per l'intensità, la sobria eleganza degli arrangiamenti e l'inedito piglio Lennon-iano.
Insomma, dentro a questo We c’è un po' di tutto, gli Arcade Fire in ciascuna delle forme che conoscevamo e persino in qualche nuova trasfigurazione. Quello che è sempre intatto è che è il vero leit-motiv della loro produzione sono lo spirito costruttivo, l'afflato corale, la travolgente sincerità e la grandiosità innodica delle melodie. Chi si "accontenterà" di questo invece di sperare in un improbabile ritorno alle origini, troverà in We l'ennesimo, ottimo disco dei canadesi.

Contributi di Marco Bercella ("Reflektor"), Claudio Lancia ("Everything Now") e Michele Corrado ("We")