Wilco

Wilco

Out of the roots

Sono partiti dalle sorgenti del "roots-rock", dal country e dal folk, per approdare a una formula di rock "universale", assemblato attraverso il songwriting eclettico del leader Jeff Tweedy. Le loro storie raccontano una provincia americana inquieta e oscura. Storia degli Wilco, dalle origini negli Uncle Tupelo a oggi

di Cristian Degano, Claudio Lancia + AA.VV.

Gli Wilco rivestono un ruolo fondamentale nel panorama musicale contemporaneo: diretti discendenti del grande canzoniere folk, rappresentano l'anima inquieta e nel contempo salace dell'America di oggi, il lato oscuro continuamente celato dietro gli ipocriti sorrisi dei politici della White House. La chitarra pellegrina di Woody Guthrie riecheggia nella loro musica, tanto che, con un po' di azzardo, possono definirsi fautori dell'ultima grande rivoluzione del genere: ciò che Bob Dylan era stato negli anni Sessanta e Will Oldham (aka Bonnie Prince Billy) nei Novanta, gli Wilco lo sono stati per la prima decade del ventunesimo secolo.
Il folk nasce come denuncia dei mali sociali in un'America (quella degli anni Trenta) che conosceva forti disparità sociali e crescente povertà, ma che a ogni modo poteva ancora sperare in un cambiamento politico in grado di sovvertire quella misera situazione; i Sessanta (con Dylan in testa) rappresentano uno slittamento di quella speranza da un piano concreto, materialistico, a uno ideale, utopico, poetico e visionario. La disillusione generata da quel fallimento avrebbe dovuto attendere oltre vent'anni per essere sostituita da un qualcosa di veramente nuovo e originale, nella fattispecie l'intimismo nichilista e oscuro del tanto geniale quanto discontinuo Will Oldham, ed è da qui che gli Wilco (e in particolar modo il loro leader Jeff Tweedy) partono per cercare di recuperare uno sguardo d'insieme su un mondo che si fatica a comprendere ma a cui si guarda scrutando la propria interiorità.

I due poli di questa lacerante dicotomia (l'interiorità della coscienza tormentata e l'esteriorità della materia politica) sono da sempre ben presenti nel tessuto sonoro degli Wilco, le cui canzoni oscillano perennemente tra momenti narcotici e polverosi e subitanee quanto accese elettrificazioni, spesso sconfinanti nel puro rumorismo dal sapore cosmico (esemplari in tal senso "Misunderstood" da Being There del 1996 e "Less Than You Think" da A Ghost is Born, 2004). Ovviamente c'è molto altro in una serie di partiture che rivelano un eclettismo paragonabile a quello del genio di Minneapolis, Prince; incredibile è infatti la facilità e la classe con cui Tweedy (autore della maggior parte delle canzoni del gruppo) riesce a miscelare un'innata propensione pop per le melodie, un'elettiva affinità con il country deviato e outsider (non certo quello accademico di Nashville, bensì quello figlio di Johnny Cash e Gram Parsons) e una postura più classicamente rock (soprattutto dei primi anni 50 e della frontiera desertica ben espressa dai Giant Sand). Il tutto condito con richiami allo spirito del blues e, soprattutto nei lavori di mezzo, screziate infiltrazioni elettroniche che rivestono gli ambienti di una cupa coltre ombrosa.
Ma andiamo con ordine. La storia inizia nel 1990, prima quindi che il mondo prendesse confidenza con il terremoto grunge, a Belleville, Illinois, dove il trio composto da Jeff Tweedy, Jay Farrar e Mike Heidorn pubblica il primo Lp "No Depression", sotto il nome di Uncle Tupelo. I semi del futuro sono già tutti contenuti in questo lavoro: Hank Williams e Leadbelly fusi con l'hardcore degli Hüsker Dü per ritrarre la vita sonnolenta ma sbandata della piccola provincia americana. Appena tre anni dopo, quattro album e una collaborazione con Peter Buck degli Rem in veste di produttore alle spalle, il gruppo si scioglie. La causa è la rottura del rapporto tra Tweedy e Farrar, che scelgono strade diverse: il secondo si riunisce al batterista Max Heidorn ,che aveva lasciato i compagni dopo la pubblicazione dell'album acustico March 16-20, 1992, dando vita ai Son Volt; Jeff Tweedy invece prosegue con Max Johnston (polistrumentista al violino, banjo, lap steel), John Stirrat (basso) e Ken Coomer (batteria) e forma gli Wilco.


La nuova band pubblica il suo primo lavoro (con l'aggiunta del chitarrista Jay Bennet) nel 1995, e l'album, A.M., segna un ritorno al più classico country-rock (alt.country è stato definito) senza alcun tentativo sovversivo, con un Tweedy che lascia a ogni modo intravedere la propria bravura in pezzi riuscitissimi come "I Must Be High" e "Box Full Of Letters".
Un disco che non si può certo definire eccelso, ma che segna un punto di partenza importante: la convenzionalità country qui contenuta verrà negli anni successivi continuamente scardinata. Come vedremo, la carriera del gruppo si può per certi versi considerare come un vero e proprio manifesto programmatico, in cui la regola viene affermata e poi lentamente rovesciata al fine di far aderire allo spirito la lettera (che senza di esso, si sa, uccide), ovvero la forma espressiva all'animo del leader.

Il vero punto di svolta è rappresentato da Being There, imponente doppio composto da ben diciannove pezzi, pubblicato nel 1996 per la Reprise Records (la stessa etichetta sin dai tempi degli Uncle Tupelo di "Anodyne", 1993). Il lavoro, che esprime al meglio le ambizioni e l'incredibile eclettismo di Jeff Tweedy, si apre all'insegna della psichedelia rumoristica con "Misunderstood", dove il soffice e polveroso tappeto pianistico viene innervato da corpose elettrificazioni distorte, in cui si inserisce, dolorosa e tagliente, la voce urlante e rassegnata del cantante; proseguendo incontriamo l'r&b di "Monday", che cede il passo al country classico di "Forget The Flowers", al bluegrass di "Red-Eyed And Blue", al love-pop di "Say You Miss Me".
Il secondo disco intraprende sentieri melodici forse più ovattati, in cui ci accostiamo al pop beatlesiano di "Someone Else' Song e, attraverso la mazurca sbilenca di "Why You Wanna Live", cadiamo nel soffice abbraccio di "Dreamer In My Dreams", vero e proprio collage musicale che tocca persino le atmosfere live di un ideale locale jazz-country. Il lungo itinerario attraverso cui si snoda Being There rappresenta un riassunto genealogico delle origini musicali di Tweedy, ma anche una prima presentazione programmatica di quanto avrebbe fatto in futuro, collocandosi a metà strada tra l'alt.country di cui è eccelso rappresentante e il roots-pop imbastardito di elettronica e sofferenza cui gli Wilco avrebbero dato origine negli anni successivi.


Il terzo album, Summerteeth (Warner), vede la luce nel 1999, ed è ancora una volta spiazzante per qualsiasi fan: se in precedenza i riferimenti, pur se contaminati, erano stati mostri sacri della musica americana (i già citati Cash, Parsons e Guthrie), ora l'attitudine dominante è quella di un inglesissimo pop con forti allusioni a Beatles e Kinks, sporcati qua e là da reminiscenze (spesso anche forti, va detto) roots. Tweedy dà qui sfogo alla propria ricerca della melodia, imbastendo un suono estremamente avvolgente e tondo, in cui gli archi e le modulazioni vocali sembrano provenire direttamente, oltre che dall'Inghilterra, anche dalla California di Brian Wilson. Notevole, poi, il fatto che le delicate partiture sonore celino testi di devastante crudezza, trattando temi come l'abuso, la violenza e l'alienazione della routine quotidiana.
Summerteeth resta uno degli album meglio focalizzato degli Wilco, mosso da un intento che ne garantisce unità e coerenza; nonostante ciò, e sebbene la scrittura dei pezzi sia di gran livello, i ben diciassette brani che ne compongono la struttura risultano spesso prevedibili e a tratti ripetitivi. Va detto che almeno tre di questi pezzi sono da annali del pop: "She's A Jar" avvolge nelle spire di una melodia senza tempo, la bellissima "How To Fight Loneliness" (il titolo la dice lunga sul contenuto) è impregnata di disillusione e tristezza springsteeniane, mentre "Via Chicago", che diverrà un classico nelle esibizioni live del gruppo, ammalia con i suoi slittamenti sonori.


Il loro terzo lavoro si situa in mezzo a due pubblicazioni parallele del gruppo, che in collaborazione con il leader del folk inglese Billy Bragg pubblica Mermaid Avenue I & II (rispettivamente nel 1998 e 2000). I due album presentano una manciata di brani che riprendono testi mai musicati da Woody Guthrie (ecco l'omaggio a uno dei propri maestri), inseriti in musiche da loro stessi create, e il risultato, seppur non esente da difetti, è ottimo. Il progetto può considerarsi più opera di Billy Bragg che degli stessi Wilco (come ben testimonia il video pubblicato nel 2001 dal titolo "Man In The Sand") ma, nonostante ciò, la potenza interpretativa di Tweedy emerge in pezzi riuscitissimi come "Hesitating Beauty" dal primo volume e "Remember The Mountain Bed" dal secondo, che colpisce dritto al cuore con un verso dolente e pieno di pathos: "My greeds, desires, my cravings, hopes, my dreams inside me fight: my loneliness healed, my emptiness filled, I walk above all pain".
I tempi, però, cominciano a farsi duri.
Il chitarrista Jay Bennet, a causa di dissapori avuti con il resto della band, lascia gli Wilco durante le registrazioni del loro nuovo album (siamo agli inizi del 2001) e, ciò non bastasse, la Warner/Reprise, non approvando il nuovo materiale, scarica il gruppo di fronte al loro rifiuto di rendere la nuova proposta musicale più commerciale. Gli Wilco, non perdendosi d'animo, acquistano dall'etichetta i nastri originali per la modica cifra di 50,000 dollari, dimostrando come la propria indipendenza artistica venga prima di tutto il resto. Intanto comincia a crearsi un alone di leggenda intorno a questo nuovo disco dalle vicissitudini così tormentate (la cosa certo contribuisce ad aumentare l'adorazione dei fan), che circola per un certo periodo su internet (in via, diciamo, informale, ma con l'approvazione della band), prima di trovare rifugio presso la Nonesuch, attuale etichetta degli Wilco e, paradossalmente, anch'essa facente parte del gruppo Warner.


Finalmente, all'inizio del 2002 viene pubblicato Yankee Hotel Foxtrot (dal nome di un pezzo del Conet Project), album che rappresenta un'ulteriore rottura con il passato, o meglio la rielaborazione in una forma totalmente nuova e originale. Ed è quasi un capolavoro. La prima traccia, "I Am Trying To Break Your Heart", è una straordinaria presentazione di quanto avverrà nei solchi successivi: pop sghembo e claudicante, memore di Giant Sand, ma anche dei Byrds più spaziali, elettronica stesa come un velo sottile, sintesi di dolore e spensieratezza, il tutto condito di una sogghignante ironia che ammanta l'intero lavoro, anche nei momenti più cupi. "Jesus, etc." riannoda il filo con le ballad scritte sinora da Tweedy, aggiungendovi molto altro (archi albionici e stuolo di batteria beachboysiano), "Ashes Of American Flag", forse il culmine del lavoro, vaga insana tra le ceneri dell'infranto sogno americano ("I know I would die if I could come back new"), "I'm The Man Who Loves You" è il più bell'esempio di blues-pop degli ultimi anni e "Reservations" ritorna a rannicchiarsi tra le ombre polverose della provincia americana.
La complessità delle partiture sonore di Yankee Hotel Foxtrot è strabiliante e rivela la raggiunta maturità artistica degli Wilco lungo il percorso schiuso da Being There e Summerteeth. Jim O' Rourke (membro dei Gastr del Sol e fautore di una notevole attività solista) si inserisce nella band alla chitarra acustica e dietro il mixer, aiutando con la propria personalità nella riuscita del tutto. Le aspettative nie confronti del gruppo, a questo punto, sono tante, così come il timore che l'album rappresenti il picco creativo dietro a cui si cela l'inesorabile caduta. Ma un altro cambio di direzione, con il fedele Jim O' Rourke ormai membro aggiunto dell'ensemble, è dietro l'angolo, e sarà intriso di sofferenza e disagio mentale.


Nel frattempo, nel corso del 2003, Tweedy pubblica due album al di fuori della sigla Wilco: gli omonimi dei Loose Fur (con i fidi Jim O' Rourke e Glenn Kotche) e dei Minus 5, collettivo pop esistente dal 1993 e guidato da Scott McCaughey.

Bisognerà attendere la primavera del 2004 per avere fra le mani il capolavoro assoluto della band, A Ghost Is Born e il fantasma a cui il titolo stesso allude sembra essere proprio quello del leader. Poco tempo prima della pubblicazione ufficiale del disco, infatti, viene diffusa la notizia del crollo psichico di Jeff Tweedy, che viene ricoverato in un centro di disintossicazione a causa di una sviluppata dipendenza da alcol e farmaci contro il dolore; le emicranie e le crisi di panico che nutriva in sé da numerosi anni lo hanno reso schiavo di meschini palliativi che rischiano di distruggerlo. Al di là delle ovvie preoccupazioni di carattere personale, sempre più dubbie sono le speranze riguardo al nuovo album in uscita, concepito e registrato proprio durante il periodo più buio dell'esistenza degli Wilco. Eppure la sorpresa è grande quando, inserito il disco nel lettore, ci imbattiamo in quell'incredibile mutante sonoro che è "At Least That's What You Said": la polvere lasciata nell'impianto dall'ultima traccia di Yankee Hotel Foxtrot è ancora tutta lì, nel piano soffice eppur inquietante così come nella voce di Tweedy, mai così sofferta, mai così immersa in un'atmosfera così narcotica e profonda, priva di quella strisciante ironia che attraversava tutto il precedente lavoro. L'esplosione chitarristica che divide in due il brano, trascinando l'ascoltatore in una lunga, accesissima coda strumentale, riproduce in nuce la tormentata anima del leader, il quale, lungi dal farsi soffocare dalle proprie angosce, ha saputo liberarle generando una musica potente e sincera, indirizzando il caos regnante dentro di sé verso la compiuta forma artistica. "Spiders (Kidsmoke)" è una riuscitissima incursione nel kraut-rock, come sempre declinato in chiave pop, e "Hummingbird" è Brian Wilson che suona le proprie angosce con John Lennon e Ray Davies.

Ma il climax dell'album (ce ne fosse bisogno) è forse rappresentato dal binomio "I'm A Wheel-Theologians": rock 'n roll fumante la prima, lirismo epico la seconda, in cui un Tweedy più vero che mai intona la propria insoddisfazione nei confronti dei credi precostituiti, incapaci di aderire al proprio ineffabile animo; la chitarra piange letteralmente con il protagonista. La cosmica e, lo ammettiamo, quasi inascoltabile coda di "Less Than You Think" lascia spazio al suggello artistico del lavoro: "The Late Greats", un pezzo che esprime l'inesprimibilità della perfezione, rimando a quell'altro mai presente se non come assenza che Jeff Tweedy ha sempre ricercato, anche a costo del proprio equilibrio.

Oramai con alle spalle una serie impressionante di ottimi lavori, manciate di pezzi indimenticabili e una continua sperimentazione sonora, gli Wilco si concedono nel 2005 un doppio live per festeggiare il decennale di attività, ventitré pezzi per un totale di due ore estratte da concerti tenuti a Chicago. Il titolo (Kicking Television) richiama l'omonima outtake delle session di A Ghost Is Born, originariamente pubblicata in un mini-cd allegato alla riedizione dello stesso per il mercato europeo.

Nella primavera del 2007 è la volta di Sky Blue Sky, un'opera dalle atmosfere più rilassate, dotata di più spiccata omogeneità compositiva. Ritrovato un migliore equilibrio esistenziale e una maggiore serenità, Jeff Tweedy dà vita a undici nuove canzoni che si posizionano distanti dai clamori dell'hype. Testi agrodolci, sognanti e poetici si lasciano trasportare da musiche ora pacificate e scarne (l'omonima "Sky Blue Sky" e "Please Be Patient With Me"), ora elettrificate cavalcate prog-blues ("Shake It Off") o southern ("Walken"), ora riscritture younghiane ("You Are My Face") o dylaniane ("What Light"). Il tutto ovviamente condito con la sublime genialità pop di Tweedy, da sempre elemento aggiuntivo del sound eclettico del gruppo (a cui la definizione di alt.country è sempre andata stretta, oltre a essere ripudiata, come ogni tentativo definitorio, dallo stesso leader).
La band si ritrova nella stessa formazione del tour che, seguito a A Ghost Is Born, aveva dato vita al live Kicking Television, e l'affiatamento tra i suoi componenti è palpabile, così come la capacità di ognuno di contribuire alla riuscita del disco (citiamo ad esempio Nels Cline, dotato chitarrista dalle tendenze avanguardistiche, e Glenn Kotche, il cui versatile drumming riesce e transitare dalla pacatezza alla potenza senza soluzione di continuità).

Con l'eponimo Wilco (The Album), pubblicato nel 2009, Tweedy e soci preferiscono fermarsi a raccogliere i frutti, piuttosto che cercare di gettare ancora una volta nuovi semi. Intitolare un disco con il proprio nome, del resto, è sempre una dichiarazione di intenti: in questo caso è il simbolo più evidente di una band che vuole dimostrare di avere acquistato piena confidenza e fiducia in sé stessa. Wilco (The Album) suona così come il lavoro più conservativo della band americana dai tempi di Being There: lasciatisi ormai alle spalle la vertiginosa successione di due capolavori del calibro di Yankee Hotel Foxtrot e A Ghost Is Born, gli Wilco decidono di volgere lo sguardo indietro, riassumendo le tappe della loro avventura in un compendio dall'aria più rassicurante.
Hanno voglia di divertirsi, gli Wilco, di prendere le cose con più leggerezza. L'incedere di "Wilco (The Song)" attinge liberamente alla licantropia londinese di Warren Zevon, corredandola di campane alla Summerteeth e di un gioco di distorsioni, mentre brani come "You Never Know" e "Sonny Feeling" rinverdiscono il canone di Being There, destreggiandosi con un sentore di ottimismo obamiano tra il rotolare del pianoforte, la solarità delle armonie vocali e l'ammiccare sbarazzino dei riff. George Harrison e Tom Petty sorridono compiaciuti sullo sfondo.
Per ritrovare fino in fondo lo spessore della band, però, bisogna rivolgersi a "Bull Black Nova", che prende in prestito le pulsazioni kraute di "Spiders (Kidsmoke)" e le coniuga con una reiterazione ossessiva di note di piano, dando corpo alla fantasia omicida con cui si apriva la classica "Via Chicago" e trasportandola in un'atmosfera tesa e densa di inquietudine, dove la chitarra incide come una lama affilata e fremente: Tweedy si cala nei panni di un assassino in fuga dal proprio delitto, un personaggio uscito da qualche pagina dell'America di Cormac McCarthy, perseguitato da una colpa impossibile da dimenticare e macchiato in maniera indelebile dal sangue che ha sparso.


Nonostante la controversa accoglienza di Wilco (The Album), nel 2011 gli Wilco inaugurano una nuova etichetta discografica, battezzata dBpm, con il loro disco più solido dai tempi di A Ghost Is Born, intitolato The Whole Love. Il prologo, affidato ad "Art Of Almost", ha l'intento più o meno dichiarato di confondere le idee: un flettersi di pulsazioni più radioheadiane che mai, che si dispiegano su vapori di mellotron fino a deragliare nella più classica sfuriata elettrica di Nels Cline. Spiazzante, sì, ma fino a un certo punto, visto che quantomeno dai tempi di "Spiders (Kidsmoke)" è ormai una consuetudine per gli Wilco inserire nei loro album un brano dallo spirito più audace. Tocca allora al primo singolo, "I Might", dettare il clima del disco, con una sarabanda di chitarre e tastiere in cui fa capolino addirittura un sample di "T.V. Eye" degli Stooges. Quel senso di leggerezza che faceva levitare i brani di Yankee Hotel Foxtrot incontra il gusto della melodia di Summerteeth, ed ecco sbocciare il power-pop a colori sgargianti di "Born Alone" e "Dawned On Me". L'aria si fa più solare e persino i chitarrismi firmati Nels Cline mostrano di saper trovare un nuovo equilibrio. Ma The Whole Love è un disco dall'anima duplice, pensato in origine come un doppio album o addirittura come una coppia di album gemelli. Così, "Rising Red Lung" si srotola su un picking delicato, mentre il sipario di archi di "Black Moon" acquista il senso drammatico di certe pagine del Beck di "Sea Change".
A fare da collante è un ecumenismo pop capace di conciliare il senso estatico di "Sunloathe" (Brian Wilson sognato con gli occhi di Jason Lytle) e la svagatezza ragtime di "Capitol City". Certo, The Whole Love non sfugge ai momenti risaputi, come nella ruvidezza chiassosa di "Standing O". Ma il punto nevralgico del disco è alla fine, nei dodici minuti ipnotici di "One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend)". La vocazione cantautorale di Tweedy non si era mai intrecciata così intimamente con l'intraprendenza dei suoi compagni d'avventura come in questo lungo commiato. Un dipanarsi di sussurri in cui ogni strofa rivela una nuova tessitura: ora accarezzata dal pianoforte, ora venata di arpeggi, ora punteggiata di glockenspiel, con un tono crepuscolare che evoca le ombre degli Yo La Tengo di "And Then Nothing Turned Itself Inside-Out".

Nel 2014 Jeff Tweedy si presenta da solo con un doppio album, Sukierae: venti brani estrapolati da una lunghissima trafila di ben 90 tra demo e provini assortiti. Chitarre, qualche tastiera, cori e poco altro. Un’autentica saga familiare, giacché oltre al buon Jeff è coinvolto nel progetto anche suo figlio Spencer, batterista solido quanto legnoso e prevedibile. Poco male, comunque, se in sella resta un fuoriclasse come Tweedy, senza dubbio uno dei più ispirati, prolifici e talentuosi autori/compositori della sua generazione. Se è vero che padre (e figlio) si impegnano a profusione nel dar fondo al proprio baule musicale (estraendo, a seconda dei casi, schegge affilate di glam-rock, ipnotiche litanie psichedeliche, ballate folk arpeggiate in punta di plettro, filastrocche pop in terzinato), è anche vero che in molti, troppi casi si fatica a separare il grano dal loglio e quindi le poche buone sortite dai tanti divertissement svogliati qui presenti.
Troppi episodi girano a vuoto, la sensazione del già visto e sentito (prima, di più e meglio) rischia di prendere il sopravvento. Poche cose incidono davvero: “Wait For Love”, che avrebbe ben figurato in un disco dei Wilco; “Low Key”, midtempo acustico con elettrica effettata; “Pigeons”, ipnotica e trasognata; la nenia in ¾ di “Desert Bell” e “Honey Combed”, arpeggi sussurrati da città fantasma e autostop, profumati di Raymond Carver ed Edward Hopper; l’elegia in stile Woody Guthrie di “Fake Fur Coat”.
Stavolta Jeff Tweedy ha voluto fregarsene di tutto e tutti, di regole e convenzioni, producendo un bozzetto di quotidianità casalinga lasciando gli ascoltatori a sbirciare dallo spioncino della sala prove in cantina. Gli episodi migliori di Sukierae confermano la sua classe, il suo talento.

Ma torniamo ai Wilco: la mattina di venerdì 17 luglio 2015 viene ripresa da tutte le testate specializzate la notizia che la band ha appena diffuso a sorpresa un intero nuovo disco, che per alcuni giorni sarà reso scaricabile in maniera completamente gratuita dal sito ufficiale del gruppo. Nessuno pare fosse al corrente di registrazioni in corso, quindi tutto è stato gestito nella massima segretezza, consentendo così un effetto dirompente. Facile per i Wilco fare una cosa del genere? Mica così vero: una band che al nono album (escludendo live, Ep e collaborazioni varie) ha ancora tutta questa voglia di sorprendere, e di divertire divertendosi (perché è esattamente ciò che si respira fra questi solchi), mantenendosi freschi, curiosi e puri, beh, non si incontra tutti i giorni. Star Wars non è uno scherzo, né tanto meno un cadeuax riempito con anonime rimanenze di magazzino, bensì un disco tanto breve da non far in tempo ad annoiare (undici tracce, senza alcun riempitivo, per complessivi 33 minuti di ottima musica), chitarristicamente intenso (nel caso di “Random Name Generator” - a proposito, complimenti per il titolo - anche moderatamente aggressivo), distante dalle vicissitudini malinconiche dell’esordio solista di Jeff Tweedy, un lavoro che per alcuni versi somiglia ad altre cose già fatte dai Wilco in passato, ma al contempo riesce a suonare diverso da tutte le precedenti esperienze del sestetto americano.
Tante chitarre, melodie a profusione, i tecnicismi mai fini a sé stessi ma accessori al formato canzone, la giusta dose di “stranezze” (più o meno su ogni traccia succede qualcosa di non esattamente prevedibile) e, udite udite, un capolavoro assoluto, “You Satellite”, il brano in grado di raccogliere l’eredità di “Bull Black Nova” e “Art Of Almost” (le altre pietre miliari più recenti), in grado di spostare di nuovo l’asticella verso l’alto, per mezzo di una tensione che avanza attraverso accumuli progressivi, insinuandosi sottopelle come un virus letale. Star Wars (ma in copertina c’è un gatto – della serie conciliamo l’apparentemente inconciliabile - che sul sito ufficiale sbatte pure gli occhi sornione) nella discografia dei Wilco sarà ricordato come il lavoro più beatlesiano di tutti: ad esempio “More…” risulta tanto prodigiosamente lennoniana (che la voce di Tweedy somigliasse così tanto a quella dell’immortale John non ci avevamo mai fatto così caso…), quanto la conclusiva “Magnetized” pare figlia delle miracolose session dei tardi Beatles. Ma è già un prodigio della natura la brevissima iniziale “EKG”, dove appare confermata la costante evoluzione della band che ha saputo meglio di qualunque altra sdoganare l’alt-country agli occhi del mondo, e che qui decide di contaminarsi con oltre quarant’anni di musica, condensando tutto ciò che è accaduto nel rock da Frank Zappa ai Sonic Youth in poco più di un minuto. I Wilco sanno suonare in molti modi diversi, non lo scopriamo oggi, e stavolta decidono di spaziare dal gioioso pop di “Taste The Ceiling” alle iper melodiche dolcezze di  “Where Do I Begin” (vera meraviglia per le orecchie), dall’alternative rock’n’roll dell’effettata “Pickled Ginger”, alle sorprendenti tracce gemelle “Cold Slope” / “King Of You” (praticamente una canzone divisa in due parti), poi all’improvviso si ricordano delle proprie radici, e con “The Joke Explained” firmano quella che oggi può essere considerata la migliore attualizzazione alt-country possibile. Attraverso la strategia scelta per il lancio di Star Wars, i Wilco dichiarano in maniera definitiva che le cose si fanno per la sola voglia di farle, senza bisogno di annunci e senza pomposi proclami. I fan ringraziano felici per il  bellissimo regalo recapitato in queste caldissime giornate di luglio direttamente nel computer di casa.

Soltanto un anno più tardi, il 9 settembre 2016, arriva nei negozi Schmilco, nel quale (pur provenendo dalle stesse session di Star Wars) gli scenari proposti sono fondamentalmente acustici, mettendo al bando qualsiasi vena sperimentale, eccezion fatta per i rumorismi ideati da Nels Cline in “Common Sense” (che qui è il brano "da ricordare", l’unico slancio davvero “avant” nelle dodici tracce in sequenza) o nelle obliquità di “Quarters”, sublimata dal drumming sopraffino di Glenn Kotche (oltre al capo mastro, i due veri fuoriclasse del dream team restano loro). Se amate i Wilco, anche questa volta c'è da stropicciarsi gli occhi al cospetto delle sublimi raffinatezze acustiche di “Normal American Kids”, delle vellutate morbidezze di “If I Ever Was A Child”, delle progressioni giocate di fino in “Cry All Day”, degli sfregamenti elettrici nella beatlesiana “Locator”. Ma a ben vedere, faremmo non poca fatica ad immaginare una qualsiasi di queste canzoni all’interno di un ipotetico greatest hits di sempre della formazione di Chicago: non ce la farebbero né l’andatura irresistibile di “Nope” e “Someone To Lose”, né i ritmi cadenzati di “Happiness”, né la ricercata dolcezza di “Shrug And Destroy” e “Just Say Goddbye”, che chiude il disco con un sottile velo di malinconia. Oppure forse è semplicemente troppo presto per tirare conclusioni affrettate su canzoni che hanno il vitale bisogno di decantare: magari riusciranno col tempo ad avere la forza di affiancarsi ai grandi classici.
In effetti Tweedy e compagnia si confermano songwriter eleganti e illuminati, non lo scopriamo certo oggi: sanno come scrivere una bella canzone, mantenendo quella cura artigianale, quell’attenzione ad ogni minimo particolare, che ha contribuito a renderli una band di successo mondiale. Manca però la scintilla, lo slancio, il sussulto determinante, quello che è sempre arrivato non solo nelle pietre miliari del gruppo ma anche in lavori più recenti, basti ricordare la “Bull Black Nova” compresa in “Wilco – The Album” (2009) o la “Art Of Almost” che nobilitava “The Whole Love” (2011). Schmilco è però saturo (e ce ne accorgiamo in maniera esponenziale moltiplicando gli ascolti) di quei germi che riusciranno ad infettarvi, pronti a insinuarsi sottopelle: prestategli attenzione in cuffia, riservategli tutto il tempo che richiede (e che merita) e vedrete che lo apprezzerete tanto quanto le storiche pietre miliari della band. Giù il cappello davanti a una formazione che continua a dimostrare un’innata propensione al cambiamento, che continua a muoversi pur assomigliando sempre e soltanto a sé stessa, mantenendo un’elevatissima qualità in tutte le produzioni immesse sul mercato. Protagonisti di una traiettoria fra le più intense, eccitanti e qualitativamente rilevanti di tutta la storia musicale contemporanea, i Wilco proseguono con “Schmilco”, il decimo lavoro in studio in carriera (senza considerare quelli condivisi con Billy Bragg), il processo - iniziato da Tweedy ai tempi degli Uncle Tupelo – di upgrade del concetto moderno di “Americana”, dopo aver già ampiamente contribuito a sdoganarla nel nuovo millennio ad uso e consumo di un pubblico sempre più vasto e adorante.

Il 2017, fra un tour e l'altro, è l'anno di Together At Last, disco solista acustico di Jeff Tweedy, attraverso il quale rivisita alcuni momenti fondamentali della propria carriera, presentato come il primo di una serie di album che dovranno andare in questa direzione. Una sorta di back to the roots per soli voce, chitarra acustica e armonica, tanto per ricordarci quanta radice folk ci sia nel songwriting di questo straordinario musicista: non solo quello sviluppato con la band madre, ma anche attingendo un paio di ripescaggi dai progetti Loose Fur (“Laminated Cat”) e Golden Smog (“Lost Love”), tralasciando invece del tutto – per motivi legali? – la seminale esperienza vissuta con gli Uncle Tupelo. Le canzoni sono memorabili, alcune fra le più belle e significative del canzoniere americano del nuovo millennio, da “Ashes Of American Flags” a “Sky Blue Sky”, da “Via Chicago” a “I’m Trying To Break Your Heart” passando attraverso quelle “Muzzle Of Bees” e “Hummingbird”, che contribuirono a rendere “A Ghost Is Born” un irraggiungibile capolavoro.
La missione principale di Tweedy, ovverosia contaminare il country rendendolo tanto “alt” come mai nessuno era riuscito a fare prima, a posteriori può dirsi perfettamente riuscita, e proprio per questo motivo Together At Last (che di tutte quelle contaminazioni non ha assolutamente più nulla) potrebbe risultare un affare per pochi integerrimi fan e maniaci completisti. Con tanto di quel cantautorato modernista, più o meno hipster, che si trova in giro (un nome a caso: Bon Iver), questa parentesi in solitaria appare un pochino troppo “classic”: le versioni full band continueranno a essere preferibili e consigliate, anche se con ogni probabilità tutte queste song nacquero esattamente così, con Jeff intento a strimpellare un motivo sulla chitarra acustica. E in tal senso Together At Last rappresenta il desiderio di riappropriarsi di una scrittura che non può che essere sua e soltanto sua. Queste undici tracce vanno comunque strette forte al cuore, sotto qualsiasi forma, perché la canzoni più grandi sono quelle che funzionano benissimo anche spogliate di tutto, anche ridotte all’osso, esattamente come queste qua.

In parallelo i Wilco continuano a diffondere la propria musica: a metà agosto 2017 pubblicano sul profilo Bandcamp l'inedito "All Lives, You Say?". I proventi del brano (il cui titolo fa riferimento al controverso motto "All Lives Matter", nato in risposta alle istanze del movimento antirazzista Black Lives Matter) saranno devoluti al Southern Poverty Law Center, un ente statunitense impegnato nella lotta ai "gruppi d'odio" e nel sostegno legale alle vittime di tute le discriminazioni. Pur non essendo stata palesata, è piuttosto evidente la correlazione con la recente manifestazione dei suprematisti bianchi a Charlottesville, Virginia. Jeff Tweedy ha voluto dedicare il brano a suo padre, Robert L., scomparso il 4 agosto e da sempre impegnato in cause riguardanti i diritti civili.

Ma a fine novembre 2018, in contemporanea con l'autobiografia “Let’s Go (So We Can Get Back)", arriva un nuovo lavoro di Jeff Tweedy solista, WARM, che vede la partecipazione di Glenn Kotche e di Spencer Tweedy, il figlio di Jeff. Unendo la tradizione alt-country degli esordi alla matura consapevolezza di uno status quo inoppugnabile, la parabola artistica di Tweedy compie con WARM un ulteriore passo avanti nella ridefinizione di una scrittura asciutta ed essenziale, solida e spogliata da qualsiasi artifizio di sorta. Un approccio del tutto privo di quelle fughe trasversali che avevano animato alcune memorabili composizioni targate Wilco, ma dove ogni movimento è colorato con classe e impareggiabile stile, veicolato da una spinta emozionale sincera e profondamente reale. Emblematica, in tal senso, l’opener “Bombs Above”, costruita su raffinate dinamiche e contrappunti, con la pedal steel a fare la parte del leone. Gli altri snodi fondamentali sono rintracciabili nelle armonie circolari che contraddistinguono la toccante “Don't Forget”, un altro imporante tassello nel disegno lirico generale, e nella poesia sussurata al cuore straziato dalla devastante chitarra acustica in “How Hard It Is For A Desert To Die”. Da “Some Birds” e “I Know What It's Like”, i due convincenti singoli apripista, destinati a diventare classici minori del catalogo, emerge la difficoltà nello svincolare il giudizio dall’ingombrante fardello rappresentato dal passato artistico di Tweedy. In particolare “Some Birds” porta con sé eco consistenti di “Schmilco”.
In questa nuova raccolta di confessioni intime e dolorose non si scorgono però momenti davvero epocali, e in qualche circostanza si ha la sensazione (la medesima presente in “Star Wars”) di trovarsi di fronte a sketch che avrebbero meritato sviluppi più approfonditi. Si dimostrano così poco riusciti il ridondante mantra obliquo di “How Will I Find You?”, la scanzonata “Let's Go Rain” e il crescendo incompiuto di “The Red Brick“Nonostante ciò, WARM si impone come la testimonianza autentica di un grande autore senza timori di mostrarsi insicuro, spaventato, dubbioso. Se in passato (specie in “A Ghost Is Born”) aveva già lasciato filtrare le difficoltà derivanti da complicate questioni personali, opponendovi un’appassionata ricerca di speranza e fiducia, mai come questa volta Jeff si mette a nudo, con schiettezza e amara lucidità (“I know it’s a lie when you say it’s okay”, rivela malinconicamente in “I Know What It's Like”). Tweedy ci parla come se stessimo trascorrendo una serata assieme, contemplando uno stormo di uccelli (magari quelli di "Sky Blue Sky") in fuga verso un posto migliore, mentre ci confessiamo tutte le paure dell’essere vivi. Ed è nel titolo, in quel WARM urlato in maiuscolo, già di per sè una dichiarazione d'intenti, che si annida tutto il senso di un album semplice e reale, senza filtri, un disco per tenerci al sicuro e continuare a sentirci veri.

Dalle stesse session di "WARM" arrivano altre 10 canzoni, pubblicate nel successivo WARMER, immesso sul mercato il 13 aprile 2019 in occasione del Record Store Day.

Il 2019 vede anche il ritorno dei Wilco, con Ode To Joy, che prosegue il lavoro di sottrazione sonora e ritrova una chiarezza di intenti mai così manifesta dai tempi di "Sky Blue Sky". A un songwriting sempre più asciutto fa eco la necessità di resistere al racconto Trumpiano della realtà attraverso la bellezza quotidiana delle piccole cose, escludendo definitivamente il lessico sonoro che ha reso la band un act imperdibile dal vivo.
Anticipato da due singoli ("Love Is Everywhere (Beware)" e "Everyone Hides"), che restituiscono a livello di testo già una certa completezza di messaggio, Ode To Joy rivela la disarmante semplicità con la quale i sei musicisti di Chicago colorano malinconiche ballad nelle quali la narrazione e la voce di Tweedy si fanno a tratti dolenti e a tratti confidenziali ("Bright Leaves"), sempre in bilico tra disillusione e capacità di reagire ("We Were Lucky"), tra profondità di significato e leggerezza nell'esprimerlo ("Quiet Amplifier"). Un disco che ri-consegna un ritratto dei Wilco coerentemente maturo e coraggioso.

Poi la pausa imposta dalla pandemia impone il rinvio di un intero tour, Jeff Tweedy si ritrova costretto fra le mura domestiche e nel corso di aprile del 2020 per ingannare la desolazione del lockdown mette a punto nuove canzoni assieme ai due figli, oramai trasformati nella sua personale backing band. Spencer, il primogenito, suona la batteria e – più saltuariamente - l’organo, Sammy si occupa per il momento delle armonizzazioni vocali, mentre Jeff è all’opera su tutto il resto: chitarre, basso e, naturalmente, voce. Il risultato va a comporre il quarto lavoro in solitaria di Tweedy, Love Is The King, che presenta in primis una forte radice country, evidentissima in brani come “A Robin Or A Wren”. Ma, come nella migliore tradizione Wilco, Jeff ama increspare le proprie composizioni, arricchirle di contaminazioni, “sporcarle” di piacevoli imprevisti, come avviene - ad esempio – per mezzo delle dissonanze che elevano la closing section della title track.
Nonostante la malinconia e la palpabile sensazione di impotenza, tipici del momento, Tweedy fa però di tutto per evitare che Love Is The King si trasformi in un lavoro mesto e umbratile. Del resto, se Jeff è un campione nella scrittura di dolenti ballate acustiche (“Troubled”), se sa bene come colorarle di una sottile patina di elettricità (“Bad Day Lately”), come interpretare dell’ottimo root folk (“Even I Can See”) e come ricorrere a dolcezze spazzolate (“Save It For Me”), conosce anche alla perfezione tutti i trucchi per costruire una perfetta “alt-pop song” come “Gwendolyn”. Attinge quindi alla tavolozza dei colori più vividi per alleviare la tristezza e far viaggiare l’ascoltatore, anche in un periodo nel quale gli spostamenti risultano inibiti. Tweedy fa sognare, e persino visualizzare, le sconfinate route americane attraverso i gradevolissimi up tempo “Opaline”, “Natural Disaster” e “Guess Again”. E la vita, d’improvviso, torna a sorriderci, e a riempirsi d’un mondo d’amore.

Dopo aver circumnavigato la materia alt-country, attraversandola, sezionandola e ricomponendola come mai nessuno prima, seguendo schemi inediti e caratterizzanti, i Wilco optano per una sorta di "ritorno alle origini". Pubblicato a maggio del 2022, Cruel Country rappresenta il miglior frutto possibile del percorso compiuto dalla band, il risultato di un’idea via via arricchita attraverso le esperienze di una vita e la consapevolezza dell’età adulta. Un disco solido, come i Wilco non ne producevano da anni, con una manciata di belle canzoni, alcune delle quali (in particolare “I Am My Mother” e “A Lifetime To Find”) contribuiscono a fissare in maniera determinante il mood generale, giustificando un titolo che gioca sul doppio senso generato dal termine “country”, interpretabile sia come stile musicale che come “nazione”, dualismo accompagnato da testi spesso amari su questioni esistenziali e politiche. Se da una rapida osservazione dall’alto può apparire come un lavoro sostanzialmente alt-country, zumando verso i più piccoli particolari, ingrandendo i pixel del mix sonoro, è possibile scorgere una moltitudine di preziose divagazioni sul tema, che rendono il risultato finale stilisticamente omogeneo ma ricchissimo di dinamiche e interferenze, nel quale la lunghezza (parliamo di ben ventuno tracce) non diviene mai un punto debole. Ad eccellere sono in particolare i due episodi dalla struttura meno convenzionale. “Bird Without A Tale / Base Of My Skull”, con la sua coinvolgente progressione strumentale, e “Many Worlds”, in pratica due canzoni in una: la prima parte fortemente malinconica, col piano a tenere le redini, la seconda più ritmata, impreziosita da un assolo che conferma il non comune estro di Nels Cline.
Cruel Country, a un ascolto attento e ripetuto, si rivela denso di contaminazioni e ricco di atmosfere. Non si tratta di un mero “back to the roots”: il sestetto spazia con naturalezza dal minimalismo spoglio di “Ambulance”, “The Universe” e “The Plains”, rette quasi esclusivamente su chitarra acustica e voce, all’ideazione di brani più “pieni” che si ricollegano alla grande tradizione Wilco di suonare un pop dal tratto beatlesiano (“Tonight’s The Day”, “Hearts Hard To Find”, “Tired Of Taking It Out On You”). Scorrono sontuose ballate sadcore (su tutte spicca “The Empty Condor”) ma anche eleganti frangenti spazzolati (“Please Be Wrong”) che ricordano quanto sublime e trasversale sia il drumming di Glenn Kotche, uno dei batteristi più talentuosi della sua generazione. Il Covid ha lasciato in eredità il desiderio di tornare a suonare tutti assieme, dentro uno studio, cosa che i Wilco non facevano da un po’, e in questi solchi si percepisce quel senso di prossimità, l’urgenza di sorreggersi a vicenda, per creare un suono “semplice” ma completo, questa volta privo sia della propulsione elettrica dei loro momenti più rock oriented, sia del tratto sperimentale che permise al gruppo di spiccare il definitivo salto di qualità. Cruel Country possiede un sound confortevole ma mai banale, tradizionale ma uguale a nessun altro, dove i paragoni possibili e le influenze intercettabili sono soltanto verso altre forme di Wilco succedutesi negli anni, tutte diverse ma con un forte denominatore comune: l’illuminato songwriting di Jeff Tweedy.
Il leader di una delle più grandi band statunitensi degli ultimi decenni si dimostra finalmente pronto ad abbracciare quel termine “crudele” – country – che tanto ha abilmente evitato per gran parte della propria carriera, fra i motivi per i quali decise a un certo punto di mettere fine all’indispensabile esperienza Uncle Tupelo, per dirigersi verso qualcosa d’alt(ro). Nelle interviste ha sempre definito i Wilco – specie da “A Ghost Is Born” in poi - come una “rock band”, punto e basta. Oggi non ci starà certo ripensando, ma sente il dovere di esprimere quantomeno gratitudine verso il grande canzoniere folk americano, che adora, e di cui non può fare a meno di sentirsi parte, continuando a interpretarlo in maniera sssolutamente personale e innovativa.

A solo un anno di distanza, esce a sorpresa Cousin (2023).
Tra magmatiche onde distorte, accarezzate da delicate chitarre, si annida un ticchettio che scandisce il ciclo di vita e morte sotto un cielo sconsolato. Attorno a quel medesimo ticchettio si congiungono gli strumenti dei Wilco e la voce di Jeff Tweedy per creare una di quelle magiche epifanie musicali di cui è disseminato il vasto catalogo della band statunitense. Nella desolazione “non c’è niente da osservare”, certo, ma solo finché le note non conducono altrove, verso un lieve scintillio, un dissonante sfrigolio o un basso battito di grancassa che si accorda a quello del cuore. Ecco allora che la magia s’è compiuta e infiniti scorci di esistenze possono scorrere come fotogrammi davanti a noi. Dolci, impreviste sorprese, come il brano che apre il tredicesimo disco in studio della band statunitense. Infatti, anche se riproduce quella forma di crescendo con climax graffiato da inserti rumoristici che Tweedy aveva inaugurato con “Misunderstood” e riproposto fino al perfezionamento definitivo nelle performance dal vivo, “Infinite Surprise” è a tutti gli effetti qualcosa di inaspettato.
A essere completamente differente rispetto a Cruel Country non è solo il macro-genere di riferimento – (alt-)country lì, indie-(folk)-rock qui – ma anche il processo di registrazione. Dopo anni i Wilco tornano ad affidarsi alla produzione di una persona esterna (non succedeva dai tempi di A Ghost Is Born) e, pur non intervenendo direttamente nella fase di scrittura, Cate Le Bon impone al gruppo un deciso cambio di rotta. Abbandonato lo stile di incisione a “presa diretta” che aveva segnato la spontaneità e l’immediatezza del disco del 2022, ogni strumento è stato registrato separatamente seguendo, di volta in volta, le visioni dalla produttrice, avvalorate, ovviamente, dal sostegno di Tweedy. Una fitta stratificazione, a cui si aggiunge l’attenzione ai dettagli tipica della band, plasma così un ambiente sonoro denso, agrodolce e ricco di coloriture crepuscolari.
Da Cruel Country è però in parte mutuata la valenza politica del repertorio, particolarmente evidente nell’apatica disconnessione di “Ten Dead”. “No more than ten dead”, è quanto la radio annuncia dopo l’ennesimo mass shooting; ma il numero di morti non destabilizza più un’assurda assuefazione che viene avvolta dal vorticare sinistro della strumentazione della band. Anche il tema delle dinamiche relazionali, ampiamente scandagliato da Jeff nel corso degli anni, è riattualizzato al contesto sociale sempre più esasperatamente polarizzato negli States. E non è un caso che il disco sia stato intitolato Cousin, come a esprimere l’anelito a un abbraccio di compassione e all’ascolto simpatico, al posto di quella stolida opposizione incapace di condurre a un dialogo funzionale che si ritrova proprio nella title track.
Le relazioni umane, anche nel corrispettivo sentimentale, sono quindi ancora una volta il tema principe della raccolta. Le love song, però, trattano di assenze, lontananze, instabilità e insicurezze. L’amore può essere ambiguo come nel folk in minore di “Levee”, in cui peraltro sembrano baluginare anche i fantasmi della dipendenza da oppiacei analgesici di cui Tweedy è stato succube quasi vent’anni fa, o un ricordo notturno suscitato dal misterioso protrarsi di un arpeggiato acustico (“A Bowl And A Pudding”). Diverso è invece il discorso per il brano conclusivo. Sì, perché “Meant To Be” non è solo una delle più belle canzoni d’amore dei recenti Wilco, ma anche una gioiosa celebrazione che esplicita l’invito alla vicinanza sottointeso nel resto della raccolta.
La scrittura di Tweedy vuole dunque muovere la coscienza di chi ascolta a uno slancio di empatia verso il circostante e a ripensare le modalità di interazione con esso. L’intento non è però da ritenersi vitale solo negli Stati Uniti, ma anche in ogni luogo dove violenza e/o indifferenza segnano la vita (e la morte) di esseri umani. Perché, in realtà, non si parla solo di mass shooting o di atti terroristici, ma anche di sistematiche rappresaglie da parte di regimi autoritari o, in maniera più vicina e tristemente familiare a noi, di quel grande cimitero blu che è diventato il Mediterraneo. “It’s good to be alive, it’a good to know we die”, canta Jeff Tweedy in “Inifinite Surprise” e di questa solo apparentemente banale forma di truismo sarà necessario ricordarsi nel futuro prossimo.
Per questo, anche se non possiede l’impatto emozionale delle migliori raccolte dei Wilco, un disco così attento alle atmosfere e ai risvolti chiaroscurali dell’esistere come Cousin è da tenere stretto stretto al cuore.

 

Contributi di Gabriele Benzing ("Wilco - The Album", "The Whole Love"), Ariel Bertoldo ("Sukierae"), Paolo Ciro ("Ode To Joy"), Daniel Moor ("Cousin")

Wilco

Discografia

WILCO
A.M. (Reprise, 1995)

5

Being There (Reprise, 1996)

7

Summerteeth (Warner, 1999)

6,5

Yankee Hotel Foxtrot (Nonesuch, 2002)

8,5

A Ghost Is Born (Nonesuch, 2004)

9

Kicking Television (Nonesuch, 2005)

8

Sky Blue Sky (Nonesuch, 2007)

7,5

Wilco (The Album) (Nonesuch, 2009)

7

The Whole Love (dBpm, 2011)

7

Star Wars (dBpm-Anti, 2015)

7

Schmilco (dBpm, 2016)6,5
Ode To Joy(dBpm, 2019)7,5
Cruel Country (dBpm, 2022)8
Cousin (dBpm, 2023)7,5
JEFF TWEEDY
Sukierae (dBbpm Records/ Anti, 2014)

6,5

Together At Last (dBpm Records, 2017)6
WARM (dBpm, 2018)6,5
WARMER (dBpm, 2019)6
Love Is The King (dBpm, 2020)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Box Full Of Letters
(live, da A.M., 1995)

Misunderstood
(live, da Being There, 1996)

I'm Always In Love
(live, da Summerteeth, 1999)

Via Chicago
(live, da Summerteeth, 1999)

Jesus, Etc.
(da Yankee Hotel Foxtrot, 2002)

War On War
(live, da Yankee Hotel Foxtrot, 2002)

Handshake Drugs
(live, da A Ghost Is Born, 2004)

Wishful Thinking
(da A Ghost Is Born, 2004)

Sky Blue Sky
(live, da Sky Blue Sky, 2007)

Bull Black Nova
(live, da Wilco (The Album), 2009)

Born Alone
(da The Whole Love, 2011)
 

Summer Noon (Tweedy)
(da Sukiarae, 2014)

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