Questa recensione arriva tardi, forse troppo tardi. Dalla primavera scorsa, le prospettive dei Soul Glo di Philadelphia si sono riconfigurate almeno due volte: la prima, con l’uscita di “Diaspora Problems”, full-length pubblicato dalla leggendaria Epitaph; la seconda, con l’allontanamento dalla band del chitarrista Ruben Polo per una fosca vicenda di abusi. Da allora, e in un attimo, un futuro che pareva quantomeno promettente per una band attiva dal 2014 si è fatto incerto e problematico, e raccontare ora questo disco ha quasi il sapore di uno sguardo in retrospettiva. Ma questa recensione è anche doverosa: “Diaspora Problems” è uno degli album di ambito rock più terremotanti dell’anno, una rivisitazione in ottica black di stilemi hardcore che lo rende paragonabile al notevole “The Price Of Life” dei londinesi Bob Vylan, con cui condivide, se non esattamente la forma, almeno la rabbia e la fame di radicalizzazione e scontro sociale. Solo, dall’altra parte dell’Atlantico.
Titolo preso di peso da un post di un promoter che lo aveva scelto per descrivere la musica di Pierce Jordan (gola), GG Guerra (corde, quattro o sei) e TJ Stevenson (pelli, e unico bianco), “Diaspora Problems” raccoglie dodici tracce di un crossover che, semplificando brutalmente, si pone al crocicchio tra furente hardcore e squarci di hip-hop industriale. E se il minutaggio non ha molto a che fare con il punk più radicale - nessun pezzo sotto i due minuti, e un paio si spingono fino al limitare dei cinque - è pur vero che ognuna di queste schegge sembra raccoglierne mille altre, in repentine mutazioni di tempo, genere, umore. Cambiamenti perfettamente tarati su testi fluviali, urlati dalla voce impossibile di Jordan, uno scream che fa venire in mente Jacob Bannon e Dennis Lyxzén: in un fuoco di fila di invettive del tutto incomprensibili a un ascolto distratto, il frontman punta una pistola alla tempia dell’apatia dell’America di ieri e di oggi. Al centro, l’esperienza nera, personale e poi declinata in senso storico e collettivo: ma non aspettatevi il lamento blues, da “Diaspora Problems”; piuttosto, preparatevi a un predicare anarcoide, che è anche la sua cifra espressiva più originale.
Apre “Gold Chain Punk”, ed è un attacco eccitato ed eccitante come non ne sentivo in un disco rock dai tempi di “Big Sea” dei Crash Of Rhinos, l’annuncio - consapevole, oltre che invasato - che qualcosa sta per accadere, che una tempesta sta per abbattersi senza fare prigionieri. Uno strumming casuale, due accordi, un paio di colpi di cassa e via: “Can I live?” sono le prime parole che ascoltiamo prima che Jordan espettori sul muro di fronte a sé tutto il peso di una sofferenza psichica ereditata dalla Storia (“Half the time I see my best self as a nigga who know what he deserve/ Then I wake up on the next day unable to relate to the meaning of the word”) e la canzone collassi in un precipizio di accordi discendenti e affoghi infine in un gorgo di urla e distorsioni.
Tutta la prima facciata del vinile segue lo stesso annichilente canovaccio: dal groove metallico di “Coming Correct Is Cheaper” alla logorrea auto-analitica di “Thumbsucker”, dal dito medio alla democrazia rappresentativa alzato da “Fucked Up If True” al singolo “Jump!!”, le esecuzioni sono formidabili, acrobatiche, imprevedibili; i testi, una volta decodificati, un terrificante affresco di paranoie indotte da una vita intera passata in ambienti ostili (“Everyday we run from ourselves and from time/ So much so that our planning looks like we’ve lost our minds”). A far da spartiacque, “Driponomics”, esplosivo feat con Mother Maryrose per un hip-hop in feedback che mette in scena una delle derive del tardo capitalismo - il fiorente mercato del luxury, nemmeno più tanto sotterraneo, che per qualcuno è giusto un modo per tirare a campare - accompagnandosi a un videoclip che mostra un altro volto di una band che su disco suona del tutto immune all’ironia.
Cambio lato, e si riparte. “(Five Years And) My Family” è una terapia familiare resa pubblica, tutta mostruosi accessi di panico e spettri - non proprio del tutto superati - di tentazioni suicide che divampano in un nuovo massacro hardcore. “GODBLESSYALLREALGOOD”, in mani meno talentuose, potrebbe farsi semplice sfogo di rabbia adolescenziale fuori tempo massimo: qui, invece, l’ascoltatore è spinto a calci dentro la testa del vocalist, un inferno iperrealistico; poi il brano diventa tutt’altro e vira verso un hip-hop rumorista e rivoluzionario come i primi Dälek (“Everyone around you is showing you their true intentions/ And you'll have just yourself to blame if you don't learn to listen”).
E se pezzi come “The Thangs I Carry” o “We Wants Revenge” - non proprio tenera, diciamo, con i liberali americani e le proteste pacifiche - mostrano che si può tirar fuori qualcosa di buono perfino dall’abisso post-grunge/nu-metal, il meglio sta proprio alla fine, nel passo sorprendente di “Spiritual Level Of Gang Shit”. Ecco l’anima, il soul, qualcosa che Jordan colloca dalle parti - almeno in spirito - di Sly & The Family Stone e Rage Against The Machine, un battito in levare forse rilassato e sicuramente dopato, un dub per il dopo-catastrofe violentato da inserti hardcore. Al microfono si alternano McKinley Dixon, Lojii e lo stesso Jordan, prima del colpo di teatro definitivo, un finale rock’n’roll da fumetto con tanto di fiati - tromba, trombone e sassofono, a testimoniare il production value di questa uscita per una label importante - e un fade-out che nessuno, credo, si aspetterebbe mai in un album simile. Una sorpresa, dicevo, ma non un oggetto alieno: quello che Jordan chiama “spiritual funk” non è altro che il folk di quest’America altra, provata da esperienze emotive estreme.
“Trauma”, oggi, è una parola chiave abusata, che definisce un target di mercato. Un pretesto narrativo esibito come prova di sensibilità da qualsiasi prodotto letterario o audiovisivo: è il vostro nuovo podcast preferito su Audible, la serie che campeggia in home su Netflix, la backstory di qualunque personaggio che si voglia rendere smerciabile via BookTok. Le conseguenze socioculturali di questo approccio sono nefaste: il mercato si sviluppa come una pornografia del dolore riciclata all’infinito in content digeribile per tutti; il consumatore in cerca di un brivido elettrico è in grado di empatizzare solo con le storie più drammatiche e deve potersi appropriare della sofferenza rappresentata, altrimenti non vorrà comprarla.
Ogni tanto, però, in questo meccanismo disumanizzante e perfettamente oliato, capita che si insinui un ingranaggio impazzito: nel caso specifico, un album che dal punto di vista musicale prova a ridefinire i confini di un genere intero - alla maniera dei Bad Brains o dei Refused, per citare predecessori illustri - e, liricamente, mostra come del trauma si possa fare un’esperienza di crescita individuale, una forma di espressione artistica personale, viscerale e per questo non replicabile. Capitano sempre meno, entrambe le cose, ed è per questo che opere come “Diaspora Problems” e band come i Soul Glo bisogna tenersele strette.
16/08/2022