Per sconfiggere la prevedibilità e la consuetudine bisogna unire le forze, quando poi tale simbiosi avviene in un flusso d’ispirazione, il risultato rischia di sconvolgere le attese. Considerati pionieri del mathcore, i Converge, dopo il trionfo creativo di “Jane Doe”, anno domini 2001, hanno tenuto alto il vessillo del metalcore, lasciandosi alle spalle le pur innumerevoli critiche di inaridimento, spesso frutto di superflue valutazioni, che da una parte trascuravano la costante qualità delle successive opere, solo cinque nell’arco di quasi vent’anni e quindi sempre ponderate e mai fuori fuoco, e dall’altra non coglievano i segni di un’evoluzione che è alla base di questa svolta verso sonorità più oscure, quiete, quasi melodiche, ma sempre grevi, dense.
Per “Bloodmoon: I” la band incrocia la musa del goth-folk-doom Chelsea Wolfe, nonché il fido compagno di penna della Wolfe, Ben Chisolm, e il membro dei Cave In Stephen Brodsky. Il risultato è l’album più inquieto e difficoltoso dei Converge.
Tenebre e dolcezza erano già parte del precedente “The Dusk In Us”, disco che dall’oscurità estraeva tonalità di grigio e venature apocalittiche, elementi predominanti capaci di alterare perfino l’impeto della voce di Jacob Bannon, il cui urlo diventa quasi un tono da diabolico crooner nell’iniziale festa sinergica di “Blood Moon”, autentico manifesto della coralità del progetto, dove convergono elementi sperimentali, anomalie strutturali e tonalità esangui.
E' naturale che parte della furia dei Converge trovi moderazione nell’interazione con gli altri musicisti, ma bastano i riff di “Viscera Of Men” per allontanare qualsiasi ipotesi di inaridimento della formula. “Bloodmoon: I” è solo l’album dei Converge che ha bisogno di più ascolti per essere catturato nella sua essenza più profonda, rappresentata dal dolente e funesto incipit acustico dell’appassionata “Coil”, una di quelle melodie destinate a resistere all’usura del tempo.
E’ un crossover perfettamente riuscito, quello tra il mondo metalcore dei Converge, le ingegnose architetture di Stephen Brodsky e le spettrali armonie di Chelsea Wolfe: ne beneficiano l’irruenza dei primi (la convulsa “Lord Of Liars” e l’incalzante “Tongues Playing Dead”), l’imprevedibilità della scrittura di Brodsky (“Daimon”, “Failure Forever”) e l’ascetica spiritualità noir della Wolfe (“Failure Forever”, “Crimson Stone”).
Facile immaginare che l’avventurosa innovazione di “Bloodmoon: I” possa creare qualche perplessità o dubbio tra i fan di entrambi i protagonisti: cliché e consuetudini non mancano, ma in un periodo ricco di piacevoli conferme e solenni rinnovi di stile, è oltremodo stimolante che vi siano artisti capaci di sacrificare la loro "identità" in nome della sperimentazione e dell’ardore artistico.
01/12/2021