Anybody who talks about California hedonism has never spent a Christmas in Sacramento
(“Ladybird” - Greta Gerwig, 2017)
Statuaria, i lunghi capelli corvini a nasconderle il viso, il candore latteo dell’incarnato e gli occhi diafani drammaticamente bistrati con pesanti strati di eyeliner. La grazia ottocentesca d’una eroina di Emily Brontë sposata al fascino tenebroso di una sacerdotessa dell’era gotica. Così, alle soglie del Duemila, si presenta al mondo Chelsea Joy Wolfe, da Sacramento, ovvero quell’angolo di California dove spesso il conformismo e il perbenismo religioso soffocano quello spirito edonista da cartolina con cui viene sempre forzatamente identificata la terra promessa della West Coast. Vedere per credere il sopracitato film autobiografico “Ladybird”, in cui la regista Greta Gerwig cala il suo alter ego Saoirse Ronan in quel contesto di alienante provincialismo, proprio per scardinarne i vincoli, con esiti decisamente problematici.
Chissà se ne ha risentito anche Chelsea Joy. Di certo, restano i suoi risultati artistici, ottenuti in poco più di un decennio. Non vi è dubbio, infatti, che nel panorama “neo-dark” contemporaneo, ma non solo, la musicista californiana, con il suo particolare approccio “drone-metal-art-folk”, sia stata capace di imporsi ed emergere grazie al proprio talento, sia colpendo al cuore la critica musicale, sia ammaliando un pubblico molto eterogeneo con le sue evocative performance dal vivo. Merito di una voce magnetica - dotata di un’energia esoterica e di fulminee escursioni di registro – e di un eclettismo capace di destreggiarsi in un sottobosco di fermenti sonori ed estetici, che recuperano e reinterpretano oggi con “spleen post-apocalittico” elementi di cultura gotica, atmosfere black metal e folk apocalittico alla Swans.
La dark lady di Sacramento sembra aver trovato la sua via verso un successo e una popolarità spesso nemmeno cercati ma ampiamente meritati. Una evoluzione costante che sembra aver ormai rimosso anche le ultime riserve sul suo status di musa e icona per una nuova generazione di nerovestiti.
Casio-based gothy R&B
Chelsea Wolfe nasce per l’appunto a Sacramento nel 1983. Figlia d’arte (suo padre era un cantante country), sin dall’età di 9 anni comincia a comporre canzoni con uno stile che lei stessa ha descritto come “Casio-based gothy R&B”.
Il suo primo vero album, “Mistake In Parting”, realizzato nel 2006, non la soddisfa affatto: “Era vergognosamente brutto”, ammetterà senza mezzi termini. Il disco non viene pubblicato e Chelsea si prende una pausa per impegnarsi a scrivere altra musica.
Dopo un lavoro interlocutorio e acerbo come Soundtrack VHS/Gold per Jeune Été Records (in cd limitato a sole 30 copie, poi parzialmente redistribuito su Bandcamp con un nuovo mixaggio più oscuro e denso di riverberi, con il titolo di Soundtrack VHS II), arriva il vero e proprio debutto sulla lunga distanza con The Grime And The Glow (2010). Realizzato per Pendu Sound Recordings, il disco offre un impasto di oscuro droning doom, fantasmi gotici e blues lo-fi. Già il titolo di un brano come “Cousins Of The Antichrist” – praticamente il dream-folk di Marissa Nadler scaraventato dentro un girone infernale - fa capire fin dall’inizio dove si voglia andare a parare. Del resto, dello stesso anno è una riuscita cover di “Black Spell Of Destruction” del musicista black metal Burzum, che mostra su quale immaginario e su quali binari – non certo mainstream – si muova la Wolfe.
Il debito con la stagione della darkwave è evidente in episodi come la tesa “Advice & Vices” (vicina al post-punk della prima Siouxsie), la claustrofobica “Moses” e la cupa “Fang”, con i suoi rimbombi cadenzati a ridestare gli spettri dei Cure di “Pornography”.
E se “Benjamin” e “Widow” aderiscono ancora al modello dalla litania folkeggiante e catacombale, “Deep Talk” è una scheggia impazzita di noise-rock distorto, che svela il lato più spigoloso di Chelsea Joy.
Il folk dell'Apocalisse
Ma è con Ἀποκάλυψις del 2010, diffuso anche come Apokalypsis, che gli ingredienti della Wolfe cominciano ad amalgamarsi al meglio, emergendo progressivamente dall’asfittica dimensione underground in cui fino ad allora erano rimasti confinati. È in particolare “Moses” – riadattato dal disco precedente e presentato in una nuova forma – a fare da traino e ad aprire le acque verso l’avvenire. Un’ispirata visione da folk dell’apocalisse che si nutre di quanto fatto da Swans e Jarboe, cantante di cui la Wolfe è una sorta di erede spirituale. Un brano divenuto celebre come “Pale On Pale” è lì a dimostrarlo. Proprio in questa canzone convivono suggestioni e clangori post-depressive metal uniti ad atmosfere gloomy che sfoceranno nel black-ambient infestato da fantasmi di annegati di “To The Forest, Towards The Sea”. Il sibilo luciferino di “Primal/Carnal”, invece, altro non è che l’anima (dannata) di Diamanda Galas che si appalesa sullo sfondo (ed è evocata anche dall’inquietante copertina).
Leggenda vuole che Chelsea componesse questi lavori con la vecchia chitarra classica appartenuta a sua madre, cui sembra mancasse una chiave dell’accordatura. Per questo la chitarra fu accordata in toni più bassi, una caratteristica propria di questi album iniziali che ben si sposava con il timbro di voce particolare della Wolfe. I paragoni con il cantato di PJ Harvey (vedi ad esempio le tonalità grezze di “Mer”) e con i contemporanei (di allora) fermenti elettronici witch (la pulsante “The Wasteland”) sono un po’ impropri e superficiali, se visti in una prospettiva più ampia, legata non solo alla musica indie e alle fortune di un certo genere di musica elettronica, la cui popolarità è durata forse lo spazio di una stagione.
Una manciata di brani che nella loro oscura sostanza sventavano con semplicità i tanti raffronti agli sconquassi goth di molte sue colleghe. Con esse però, sempre più dedite a mondarsi dagli eccessi claustrofobici in funzione di nervature più accessibili e popolari (prima tra tutte Nika Roza Danilova alias Zola Jesus), l'autrice californiana non condivide nemmeno un briciolo dell'approccio e degli esiti, e soprattutto, non pare essere intenzionata a dare una svolta così serafica alle sue croci esistenziali, ben sintetizzate dalla distorta invettiva di “Demons”, a metà tra Siouxsie e Sonic Youth.
Nel 2011 Chelsea Wolfe parte per un tour americano ed europeo che ottiene subito una grande risposta, in termini di critica e di pubblico. Si ascolti a questo proposito il suo Live At Roadburn dell’anno successivo per rendersi conto dell’evocativo impatto in sede live. Durante le esibizioni l’artista californiana utilizza un velo nero per schermare il volto, a suo dire per l’ansia e il pudore di calcare il palcoscenico. Anche i lunghi capelli neri, spesso, coprono il viso come un’ideale maschera. Di certo anche tutto ciò ha contribuito ad alimentare un immaginario misterioso che, unito alla magrezza e al pallore della cantante, ne ha fatta rapidamente un’icona neo-dark degli anni Dieci, alla pari con Karin Dreijer Andersson nei panni di Fever Ray. Sono due grandi artiste, delle “anti-dive” molto diverse per stile e contenuti, ma che, a loro modo, costruiscono un immaginario ipnagogico e fantasmagorico, a tratti citazionista, che va oltre il lato musicale. Forse arriva da qui l’uso felice che è stato fatto dei loro brani, anche a livello di colonne sonore (“Vikings”, “Game Of Thrones” ecc.), senza per questo scomodare necessariamente il solito David Lynch. Anche un video come “Mer”, a cura del regista Zev Deans, tra citazioni de “Il settimo sigillo”, classici film horror cult e simbologie runiche, contribuisce definitivamente ad alimentare la fama e l’immaginario della cantante americana, aiutandola a vincere la sua timidezza e la sua ritrosia.
Fantasmi acustici
A questo punto la Wolfe firma per Sargent House Records e realizza nel 2012 Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs, un buon album che forse non raggiunge le vette di Apokalypsis, ma che si rivela comunque ispirato e a fuoco, grazie a una buona scrittura, da cantautrice di razza, che vira verso un folk decadente e melanconico infestato dai fantasmi. Si riascoltino brani come “Boyfriend” e “Virginia Woolf Underwater” (quest’ultimo risalente ai tempi di Soundtrack VHS) per comprendere come questo non sia un album facile e d’impatto immediato, ma da riascoltare più volte.
Il peregrinare nell'anima della musicista non si fa più accidentato e avventuroso, anzi lascia filtrare qualche flebile raggio di luce, quanto basta per rendere le forme più distinte e gli angoli un filo meno ruvidi del previsto. In virtù di ciò, le ombre e le sfumature percepibili diventano elementi imprescindibili nella realizzazione dei nove brani (perlopiù rapidi frammenti per una durata complessiva di venticinque minuti scarsi) e la foggia cucita per loro appare come l'unica possibile.
“A Collection Of Acoustic Songs”, ci rammenta la seconda parte del lungo titolo, e già con una premessa simile ci si indirizza con maggiore sicurezza (o cautela, a seconda dei casi) verso una dimensione d'ascolto precisa. Dismessa gran parte dei robusti richiami post-punk e gotici che innervavano le tetre favole dell'album precedente, a emergere è una forma più scarna e folk di quella stessa musica, bordata di chitarra acustica (per l'appunto) e poco altro, su cui ordire l'elogio delle proprie radici.
Reminiscenti dei primissimi tentativi di scrittura delle canzoni, a nove anni nel casolare di papà nel North Carolina, le stanze ignote della Wolfe sanno di nebbia e caligine, si mostrano nel loro fascino arcano, ma sanno farsi nere come pece, come nel brano-capolavoro “Appalachia”, appassionato ricordo delle terre e dei boschi dell'infanzia, sorretto dall'intrigante giro di chitarra e dal battito delle percussioni. Altrove la purezza dell'arpeggiare, dal temperamento nadleriano, consente all'elasticità d'espressione dell'artista di manifestare i suoi molteplici aspetti, donando all'asciuttezza dei brani mille possibili accezioni (il bacio oscuro di “Spinning Centers”, “Flatlands”). Ed è nel fluttuare della voce di Chelsea, a tratti anima dannata (come nell'aereo, ma interlocutorio, intermezzo a nome “I Died With You”), a tratti musa ipnotica, che traluce il segreto sotteso all'operazione. Ben più che la penna, non sempre impareggiabile, sono le interpretazioni, di un carisma che sfugge alla smania da classificazione, a irretire nel loro tremulo dialogo con l'ascoltatore.
Anche quando la piega contemplativa sfuma nell'indolenza psichedelica di “Hyper Oz”, contigua alla sacralità di Tara Burke, oppure ritrae manieri infestati nell'assordante scricchiolare di pianoforte in “Sunstorm”, la straordinaria padronanza lirica consente alla Wolfe di nascondere un'ispirazione talvolta calante e, in conclusione, di rapire nella seducente stretta del suo abbraccio. Provate a chiudere gli occhi: l'incantesimo scagliatovi addosso non tarderà a sortire il suo effetto.
La bellezza nel dolore
Il 2013 è un anno particolarmente felice per la Wolfe: esce infatti Pain Is Beauty, album di fronte al quale anche le ultime resistenze da parte della critica più diffidente devono capitolare definitivamente. Un ottimo lavoro, che fonde suggestioni alla Cranes con delicate ambientazioni notturne, a tratti uggiose e melanconiche, con un post-metal-folk che si apre a svariate dimensioni sonore, che vanno dall’elettronica al post-metal, passando per la musica folk. Decisamente curato nei dettagli e ben prodotto, il disco è dedicato in massima parte a quelle forme d’amore sofferenti e idealizzate.
Nei suoi tre precedenti album, la cantautrice di Sacramento era visibilmente affascinata dal dolore e dall’angoscia: le tribolazioni noise di Apokalypsis e l’ipnosi claustrofobica di Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs dettavano le coordinate dell’apologia del dolore, abbracciando una generazione dark da anni in attesa di nuovi messia sonori. Pain Is Beauty tradisce già nel titolo la volontà di donare canoni non solo estetici ma anche fisici alla poetica introspettiva e mesmerica dell’artista americana: come novella Siouxsie, mette insieme post-rock e gothic senza perdere di vista le origini folk e le nuance psichedeliche necessarie a tenere insieme il tutto.
Più viscerale, ma sempre ricco di poesia e malinconia, l’album offre una scrittura più variegata, nonostante la Wolfe non sia ancora del tutto maturata come autrice, ma la tensione emotiva e la costruzione sonora è sempre ricca di articolata energia. È palese la volontà di uscire dal ghetto underground senza abbandonare i contenuti lirici e musicali che hanno sedotto un nugolo cospicuo di fan in tutto il mondo, come è evidente che l’artista è finalmente pronta ad affrontare nuove chimere.
La bella notizia è che Chelsea Wolfe ha reso densa e sanguigna la sua poesia maudit: il ghiaccio si è sciolto diventando sangue (“We Hit A Wall”), le tentazioni elettroniche hanno ora i colori di un noir fantasy che mette insieme This Mortal Coil e Vangelis (“Sick”), e la malinconia si è adagiata su armonie eteree e senza tempo (“They’ll Clap When You’re Gone”). Il crescendo emotivo per piano, voce e drum machine di “The Waves Have Come” è una delizia che rende lucido il senso del titolo dell’album, ma è il dream-folk di “Reins” il manifesto più intenso e trascinante dell’album, con voci e orchestrazioni che si sovrappongono in un gioco di specchi sonori degno dei Cocteau Twins.
Alcuni episodi come “Kings” e “Ancestors, The Ancients” pagano un tributo eccessivo ai Banshees e “Destruction Makes The World Burn Brighter” evoca i Sonic Youth senza il loro smalto: sono peccati veniali che ogni album di Chelsea Wolfe non sembra riuscire a evitare. In converso, il singolo “The Warden” stuzzica con il suo Moroder-style, mentre “House Of Metal” scivola verso un romanticismo meno cupo, che svela nuovi possibili sviluppi per l’artista americana.
Con Pain Is Beauty, insomma, Chelsea Wolfe è finalmente pronta a lasciarsi indietro il suo status di musicista cult, senza tradire tutte le premesse culturali e stilistiche del suo percorso artistico: un passo decisivo verso la maturità.
Il 2013 segna anche l’uscita dello split 7” Chelsea Wolfe & King Dude – Sing Songs Together... in cui la cantante californiana collabora con King Dude, musicista neofolk americano, condividendo una comune sensibilità estetica, tra Death In June, goth-rock e ruvido immaginario western, nonché una sincera passione per i riverberi. Del resto, la Wolfe e King Dude sono due anime “nere” affini, che dovevano sicuramente incontrarsi e collaborare.
L’esperimento riesce e viene ripetuto l’anno successivo con Sing More Songs Together, uscito stavolta per Not Just Religious Music.
Il tour di Pain Is Beauty porta la Wolfe a collaborare con la band post-metal di Chicago Russian Circles, con cui avvia un interessante e proficuo sodalizio, che sfocerà anche nella collaborazione del chitarrista Mike Sullivan al nuovo disco.
Sotto una Luna di metallo
Il 7 agosto 2015 esce il nuovo album per Sergent House, Abyss, dedicato agli abissi del tempo, uno sguardo a ritroso che vuole scandagliare i fondali della psiche: la fragilità umana, l’intimità, l’ansia, il desiderio, ma anche gettare uno sguardo melanconico e oscuro sul subconscio, con un’attenzione particolare per i momenti ipnagogici dell’esistenza e i lati bui del nostro presente (si ascolti "Iron Moon", canzone ispirata al suicidio di Xu Lizhi, operaio della Foxconn).
Ispirato dalla lettura di “Ricordi, sogni, riflessioni” di Carl Gustav Jung e prodotto da John Congleton, Abyss è l’ennesima tappa dell’evoluzione del drone-metal-art-folk apocalittico della Wolfe e rende ancora più evidente i legami con il cantato di Jarboe.
È il coronamento di un percorso. Le suggestioni goth-rock alla Siouxsie e le evanescenze stile This Mortal Coil erano il tracciato cardiologico sul quale innestare modiche quantità di noise e folk chill-out. Una resurrezione energica e dolorosa che in Abyss trova il suo punto fermo. La spaziosa struttura sonora, nella quale malinconia, poesia, paura, sofferenza e sacrificio lottavano in cerca di una parziale vittoria, si è ora resa malleabile e ruvida, coinvolgendo le pagine più entusiasmanti del post-rock, introducendo anche l’hardcore e l’industrial degli Swans, ed è proprio in questa inattesa virata verso il rumore la chiave di volta del nuovo album di Wolfe.
Anche la scrittura è più sicura e matura, le leggere defaillance del pur ottimo predecessore sono accantonate, in favore di canzoni più complesse e articolate, dove il climax non è più nell’ipnosi da sottofondo, ma è asservita a una forza mesmerica che si approssima al terrore, inchiodando l’ascoltatore alle sue paure più recondite.
È un album fisico, urgente, ma oltremodo intimo e oscuro. Un incubo che si materializza diventando sogno, come quando l’avvolgente lirismo di “Maw” viene disturbato da leggeri schiaffi alla sua gentile melodia di base, o quando la furia acustica di “Crazy Love” viene modulata da note di violino che suonano come un arpeggio alieno.
Abyss è anche il primo album in cui il termine stand-out classic si adatta a ben tre o quattro composizioni. L’apertura di “Carrion Flowers” è una delle più entusiasmanti dell’anno, tra feedback di chitarra, pulsioni doom, scampoli di industrial e claustrofobie ritmiche che inneggiano alla discesa dell’animo nelle oscurità degli abissi. Presagi di una sanguinosa e crudele disfatta che “Color Of Blood” rende ancor più struggente prima del definitivo sfascio, con sonorità noise e landscape che duellano senza tregua.
Wolfe sacrifica il suo lato tardo-romantico, la sua voce è più aspra e insicura, sembra aver quasi paura di lasciarsi andare alla malinconia nella suadente e sognante “Simple Death”, mentre in “After The Fall” sfibra la melodia graffiandola e sussurrandola, aumentando la forza poetica del brano, smerigliandolo a diamante di rara bellezza.
Cascate di doom-metal si incrociano con cantilenanti trasgressioni vocali (“Iron Moon”), riff plumbei mettono in musica le grida disperate di anime dannate in cerca di redenzione (“Dragged Out”), scampoli dream-pop del passato riaffiorano (“Grey Days”), e la forza antropologica del folk si tinge di blues e soul, riportando la voce al centro della nemesi emotiva (“Survive”), prima che l’abisso cali il sipario con destrutturazioni neoclassiche che hanno il fascino sinistro di un film horror.
Il fascino di Abyss è non solo avvolgente ma anche tagliente e incandescente: non avrete bisogno di tempo per coglierne la forza, vi trascinerà nel suo vortice con i ferali rintocchi (a morto) delle sue campane e i suoi disturbanti tappeti electro, fino a prosciugarvi i sogni e l’anima. Benvenuti all'inferno.
Sonni tormentati
Nel 2017 esce il degno successore: Hiss Spun, pubblicato su Sargent House, si avvale della collaborazione di vari ospiti, tra cui Troy Van Leeuwen, chitarrista dei Queens Of The Stone Age, e Aaron Turner degli Old Man Gloom. Come ha dichiarato l'artista di Sacramento: "Ho voluto scrivere una sorta di musica escapista, canzoni che fossero incentrate sull'essere in sintonia col proprio corpo e sentirsi liberi". Qui la Wolfe mette in scena un'impronta sonora ed estetica ben riconoscibile e diretta. Se nell’album precedente aveva realizzato un viaggio tra paralisi notturne e allucinazioni ipnagogiche, ora è il momento della veglia, di un destarsi consapevole delle proprie possibilità.
Musicalmente, il nuovo lavoro prosegue sulla scia del precedente, in un funereo impasto tra doom e drone metal ma con una sensibilità gotica da apocalyptic-folk post-Swans. Un po' meno tensivo e incisivo di Abyss, Hiss Spun continua la sua parabola dark, tra raffinatezze stilistiche e aperture verso una nuova alba che scivola via, dietro pesanti tende nere. A contagiarli entrambi, gli spettri dell’infanzia, delle angosce legate alla paralisi del sonno, disturbo di cui Chelsea soffriva da bambina.
"16 Psyche" mostra ispirate derive sludge, mentre si narra di demoni interiori, mai del tutto domati ("Let me wrap you up in these thighs/ It gets me out of my head again"). Emerge con forza, tra momenti claustrofobici e sospiri angoscianti, la voglia di reagire alle avversità del presente e ai propri fantasmi personali: qui l'esibizione del dolore diventa una catarsi e potenzialmente una via di fuga.
Il fatto di essere registrato da Kurt Ballou (anche chitarrista dei Converge) a Salem, in Massachusetts, probabilmente ha contribuito a spostare l'asse del lavoro verso un versante ancor più post-metal: si ascolti, ad esempio, oltre al brano d'apertura "Spun" con i riff taglienti di Troy Van Leeuwen, l'ottima "Vex", che si avvale della voce growl del frontman dei Sumac (ex-Isis) Aaron Turner. "The Culling", dopo l'intro post-industrial di "Strain", è un affascinante brano atmosferico che monta progressivamente su distorsioni alla "Iron Moon". Come "16 Psyche", anche questa canzone ci racconta di relazioni finite molto male ("I am depleted by love") e demoni nascosti nei recessi più torbidi dell’inconscio.
L'artista americana si dimostra sempre abile nel giostrare sull'alternanza tra introspettivi momenti gloomy ed esplosioni rumoriste, come avviene in "Twin Fawn", o nell'indugiare in episodi densi di visioni apocalittiche, ad esempio in "Offering" dove ci narra: "A thousand lives lived in circles, a planet burning at the seams/ Skeletal sand as a lesson, that became an offering".
Quando la Wolfe imbraccia la chitarra acustica in "Two Spirit" ci troviamo circondati dai fantasmi gotici di Pain Is Beauty, navigando a vista tra folk e atmosfere darkwave. Qui può tornare alla mente, ma solo per un attimo, anche il sodalizio di vecchia data con l'anima nera di King Dude. Degna di nota è la chiusura con la sorprendente "Scrape", brano degno di una PJ Harvey convertita al gothic-rock.
Hiss Spun è l'ennesima conferma che l'oscurità ha la sua regina e se quest'ultimo album non raggiunge (per poco) le vette di disperazione presenti in Abyss, sicuramente riuscirà a spezzarvi il cuore in mille pezzi.
La strada madre
Due anni dopo è la volta di Birth Of Violence (2019), la nascita della violenza. Ed eccola là Chelsea Joy, spietata sacerdotessa di nero vestita, brandire e levare un pugnale. Pronta a sferrare il colpo fatale di un sacrificio. Ricostruendo, avvolta tra le nubi dello spettrale artwork, il truculento rito fondante di numerosi culti umani. Segno dell'eterna e profonda interconnessione tra umanità e violenza.
Praticamente il tema perfetto per le spire doom metal di Abyss e Hiss Spun, che avvolgono fino a strangolare. E invece no, sempre spiazzante, mai accomodante, l'artista di Sacramento questa volta punta tutto su arrangiamenti acustici, per un on the road dark-folk elegiaco e scheletrico, con fosche folate di archi a disegnarne le ombre più lunghe. Concessioni all'elettricità vengono fatte solo nel polveroso singolo "Deranged For Rock & Roll" e nella struggente e meravigliosa "The Mother Road", canzoni comunque prive di riff, con le chitarre a produrre piuttosto riverberi e sfumature apocalittiche.
"American Darkness" è un brano addirittura dolce, con l'andamento dettato da uno strumming timido, immerso nella polvere, e dolcissimi tocchi di tastiere a rendere il tutto ulteriormente languido. Forte di un arrangiamento ancora più evanescente, la title track vede la voce di Chelsea librarsi priva di zavorre in ammalianti gorgheggi sireneschi. Praticamente un numero ethereal, non l'unico peraltro; fa parte del novero anche la magnifica "Be All Things", litania imbevuta nell'esoterismo dei Dead Can Dance (seppur priva della loro carica ipnotica) che culmina in una fugace ascensione tra nuvole e luci paradisiache. La più minacciosa "Erde" parte dai soliti arpeggi strascicati di chitarra acustica, ma devia presto verso pericolosi ritmi rituali da strega della terra; mentre il richiamo affabulatore di "When Anger Turns To Honey" è più innocuo solo in apparenza.
Riuscitissime sono anche le ambientazioni gotiche della doppietta "Little Grave" e "Preface To A Dream Play", entrambe brumose, infestate da venti sinistri e agghiaccianti droni d'oltretomba.
Più vicino ai suoi primi lavori che agli ultimi dischi, alle composizioni più minimali di Emma Ruth Rundle e Marissa Nadler che all'impeto di Swans e Anna Von Hausswolff, Birth Of Violence ci permette di assaporare sfumature della voce di Chelsea Wolfe finora rimaste nascoste sotto smottamenti di chitarra e altri terrori sonici. Si tratta di un disco anche rischioso, e non ci sembra impossibile che finisca con l'alienare qualche fan meno propenso a ritmi distesi e orchestrazioni quasi interamente acustiche.
Chelsea Wolfe non ammalia sempre come vorrebbe ("Dirt Universe", la stessa "When Anger Turns To Honey"), ma nel complesso mette a segno un altro colpo, che ha il merito aggiuntivo del coraggio di rompere con il recente passato.
La metamorfosi sonora di Birth Of Violence anticipa il complesso processo di redenzione dalla dipendenza dall'alcool, una strada che intercetta anche nuove sfide artistiche. La prima è un album in collaborazione con Jess Gowrie sotto il nome di Mrs Piss, "Self-Surgery"riprende le atmosfere di Hiss Spun con un'insolita approssimazione lo-fi. Ben diversa l'avvventura metalcore condivisa con la band dei Converge, "Bloodmoon: I" è un disco che assiste al sacrificio di alcune peculiarità dei protagonisti, il risultato è sconvolgente, ricco di ardore e di una spiritualità noir che non lascia indifferenti. Pur non all'altezza delle attese, la colonna sonora di "X"condivisa con Tyler Bates tiene alta l'attesa per il nuovo album di Chelsea Wolfe che vede finalmente la luce nel febbraio del 2024.
Non è semplice collocare She Reaches Out To She Reaches Out To She (2024) nel già imperfetto mosaico della cantautrice di Sacramento. La prevedibilità non è mai stata di casa nel mondo dell'artista americana, la natura post-industrial non è cambiata, ha solo assunto nuove connotazioni. Oscurità e terrore sono ancora il linguaggio prediletto da Chelsea Wolfe, ma per quanto il graffio finale quasi metal provi a raccontare una storia già nota, “Whispers In The Echo Chamber” apre le danze, creando un ponte tra passato e presente, con rinnovata propensione a un horror-drama infettato da ritmiche trip-hop alla Portishead. E’ come se l’artista californiana avesse scoperto nuove forme espressive del terrore, alla nebbia e al fumo sono subentrati polvere (“The Liminal“) e paesaggi lastricati di taglienti lame di ghiaccio (“Eyes Like Nightshade”).
Da abile ed esperta narratrice, Chelsea Wolfe entra con autorevolezza nel mondo dei Massive Attack con sinuose e sensuali sonorità trip-hop (“Salt”), nutrendo di nostalgia e drammaturgia canzoni dall’inatteso slancio romantico (“Tunnel Lights”), e abbracciando l’oscurità con sonorità elettroniche che squarciano la nebbia (la splendida “Everything Turns Blue”). Tra nuove sfumature di noir e ammalianti stranezze, come il passo greve di “Unseen World” e il lacerante elettro-rock-noise scandito da possenti ritmi di "House Of Self-Undoing”, Chelsea Wolfe continua a raccontare storie di terrore e paura, racconti non più frutto dell’immaginazione ma di una realtà tangibile (“Place In The Sun”).
She Reaches Out To She Reaches Out To She è un corpo sonoro tonante che offre un graffiante e carnale colpo di coda in grado di lacerare la mente e il corpo e trova nelle note finali di “Dusk” la propria apoteosi.
Cavalcando la “tigre dell’hype” ma rimanendo sempre distaccata e algidamente lontana dal glamour che spesso infetta il music business, Chelsea Wolfe ha accumulato un nutrito seguito, conquistato sul campo anche grazie a uno spleen post-apocalittico che si è fatto ormai segno del nostro tempo, almeno per chi non si piega alla dittatura digitale dell’attuale e del contemporaneo. La capacità di trasformare forme di disagio esistenziale in un sonoro “vessillo nero” ovviamente segna la differenza, ma da sola non basta: il percorso musicale della Wolfe è l’emblema di un’ascesa meritata, pregna d’impegno e dedizione alla causa.
Contributi di Vassilios Karagiannis ("Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs") e Michele Corrado ("Birth Of Violence")
CHELSEA WOLFE | ||
The Grime And The Glow (Pendu Sound, 2010) | 6,5 | |
Apokalypsis(Pendu Sound, 2011) | 6,5 | |
Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs(Sargent House, 2012) | 6,5 | |
Pain Is Beauty(Sargent House, 2013) | 6,5 | |
Abyss (Sargent House, 2015) | 8 | |
Hiss Spun(Sargent House, 2017) | 7,5 | |
Birth Of Violence (Sargent House, 2019) | 7 | |
She Reaches Out To She Reaches Out To She(Loma Vista) | 7,5 | |
CHELSEA WOLFE & TYLER BATES | ||
X (A 24, 2022) | 6 | |
CHELSEA WOLFE & KING DUDE | ||
Sing Songs Together...(Sargent House, 2013) | ||
Sing More Songs Together(Not Just Religious Music, 2014) | ||
MRS PISS | ||
Self Surgery(Sargent House, 2020) | 6,5 | |
Chelsea Wolfe live on KEXP | |
Halfsleeper | |
Mer | |
The Waves Have Come | |
Kings (videoclip da Pain Is Beauty, 2013) | |
Feral Love | |
Carrion Flowers | |
Iron Moon | |
Spun | |
16 Psyche | |
The Culling | |
Deranged For Rock & Roll | |
Be All Things | |
Highway | |
The Mother Road |
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