Death In June

Death In June

Le ballate nere di un onorevole sconfitto

Attivi da oltre 25 anni, i Death In June sono ormai espressione di un unico artista, quel Douglas P. che è stato capace di creare insieme a pochi amici un nuovo sottogenere del gothic, il folk apocalittico o neo-folk, permeandolo di infinite suggestioni e ambiguità

di Giuseppe Pias

Premessa

Una monografia dedicata ai Death In June è compito alquanto difficile. Vi sono infatti svariati fattori che rendono ardua una pur semplice analisi sistematica del lavoro compiuto da Douglas Pearce, il principale attore che da anni è la personificazione del gruppo, aiutato da amici e colleghi. Per prima cosa, la produzione discografica è quasi sterminata: agli album che presentano materiale originale e costituiscono le tappe principali del percorso musicale dei Death In June, si aggiungono una pletora di riedizioni, album live, compilation, split-album, rivisitazioni di proprie o altrui canzoni con altri gruppi, il tutto ovviamente restando nell'ambito ufficiale.
Per fortuna, il sito ufficiale del gruppo ha riordinato ogni uscita dagli esordi a oggi con ammirevole chiarezza e fruibilità, consentendo anche al neofita di orientarsi tra le svariate produzioni canzone per canzone.
Un'altra questione riguarda il background etico, stilistico e culturale nel quale la Morte In Giugno opera. L'importanza e l'alone di leggenda dei Death In June sono proprie di pochissimi altri gruppi, anche in virtù della nube ambigua con la quale Douglas Pearce ha ammantato ogni singolo fiato; una delle più abusate frasi usate dagli artisti per difendere il proprio lavoro è il rifiuto di qualsivoglia spiegazione, e Douglas non fa eccezione, con una pervicacia riscontrata in innumerevoli interviste. Questo è maggiormente giustificabile proprio nel lavoro di questo gruppo: i pericolosi territori sfiorati in molte canzoni, la temibile estetica paramilitare quando non nazista tout court (si pensi al simbolo della band, il totenkopf che adornava le divise delle Ss), una misantropia e un pessimismo "storico" nell'accezione leopardiana, l'individualismo inteso come assunzione totale di responsabilità di scelta, sono tutti fattori presenti in modo massiccio e facilmente equivocabili a una fugace impressione.
In realtà, la produzione dei Death In June è una miniera di simbolismi e riferimenti culturali, inestricabilmente intrecciati con le visioni personali e il vissuto del suo autore, che giocoforza ha tutta l'intenzione di mantenere per quello che può il riserbo sui suoi processi compositivi, essendo questi un incessante mescolanza delle più svariate influenze. Solo recentemente si può trovare qualche dettaglio dei testi e di come questi nascono, grazie alla diffusione via web delle fonti più disparate, non ultima la testimonianza diretta del protagonista.
Per tutti questi motivi, quella che segue è solo una introduzione al mondo del gruppo, con l'analisi limitata agli album principali, e con una serie di interpretazioni che sono frutto di ricerche incrociate e dichiarazioni spesso contraddittorie dei protagonisti, interpretazioni che offrono necessariamente solo una tra le possibili vie di accesso alla musica di questo gruppo. Sarà poi ognuno, a seconda dei suoi interessi, della sua visione delle cose, in sintesi della sua sensibilità, a trovare il suo sentiero nei meandri, foschi ma con squarci di purissima bellezza, della produzione targata Death In June.

Preludio alla Morte in Giugno

Quella dei Death in June è la storia di un gruppo, ed è allo stesso tempo la storia di un movimento sorto nel sottobosco musicale inglese dei primi anni Ottanta. È anche e soprattutto la storia di un uomo che ha fatto delle sue ossessioni personali un percorso fiero e controverso, seminando intuizioni e dando seguito a stuoli di imitatori ed entusiastici seguaci. Un vero e proprio culto che è cresciuto con gli anni, il cui tracciato musicale si è rivelato una miniera di gemme di bellezza profonda e terribile.
Il nucleo originario dei Death in June si forma alla fine degli anni Settanta: due giovanotti sedotti dalla rivoluzione punk si uniscono in un complesso che dopo varie traversie si assesta sotto il nome di Crisis. Si chiamano Douglas Pearce, classe 1956, e Tony Wakeford. I Crisis non hanno vita lunga: con questo nome escono un paio di singoli ed Ep, e un mini-Lp nel 1980. Quel che si propone è un punk-rock alquanto elementare, con pezzi che sono spesso puri sfoghi sonori e testi che rivelano una matrice politica ben definita: i due, coadiuvati da altri musicisti, provengono infatti da ambienti vicini alla sinistra radicale.

Il gruppo ben presto implode e si scioglie; poco tempo dopo i due musicisti si ritrovano di nuovo per un altro progetto che seguirà ben altri percorsi, e che prende il nome di Death In June. A loro si è aggiunto nel frattempo Patrick Leagas, che assumerà il nome di Patrick O'Kill. Sulla genesi del nome del gruppo sono state fatte le ipotesi più disparate: sembra ormai certo che il nome sia derivato da una frase di Patrick pronunciata durante le prove musicali e mal interpretata da Douglas Pearce. Sia come sia, alla fine il moniker si è rivelato perfetto per presentare la nuova proposta musicale. Successivamente sono saltati fuori ulteriori significati: dalle "ragioni personali ben celate" di Douglas Pearce a quella che sembra essere la spiegazione che più di tutte inquadra il progetto. Il riferimento è la tristemente celebre Notte dei Lunghi Coltelli, avvenuta il 29-30 giugno 1934, quando l'intero vertice delle Sa, le iniziali truppe d'assalto del partito nazionalsocialista, vennero tragicamente epurate in un sol colpo per far posto alle ben più temibili Ss. Il fatto che ci fossero omosessuali all'interno delle Sa, un fatto ritenuto empio da Hitler e dal suo entourage, fa capire l'importanza di questo avvenimento per Douglas Pearce, gay dichiarato, e dà la misura delle profonde contraddizioni e ambiguità che costituiscono un fattore fondamentale del gruppo.

I primi anni (1981-1985)

death in juneIl primo singolo dei Death In June esce nel 1981, e ha per titolo "Heaven Street". La copertina (importante come per tutte le altre uscite: l'aspetto grafico è particolarmente curato nella produzione del gruppo), è emblematica e inquietante: mostra l'immagine di una postazione antiaerea semidistrutta, incorniciata di bianco e con solo il nome del gruppo. "Heaven Street" è una vera e propria presentazione del mondo Death In June: il nome è il riferimento al percorso degli internati nei campi di concentramento verso le camere a gas. La fascinazione morbosa dei membri della band per gli avvenimenti della II Guerra mondiale, e in particolare per il ruolo del nazionalsocialismo, è il punto focale, la cifra stilistica più evidente; una scelta forte e discutibile, che causerà l'ostracismo da parte della stampa ufficiale e contemporaneamente getterà le basi per un sottogenere della musica gothic, legato sia all'interesse verso l'estetica militare e la decadenza culturale dell'Europa, sia al recupero delle tradizioni musicali e non del nord Europa, che sarà conosciuto come folk apocalittico o neo-folk.
Musicalmente, la title track è un cadenzato dark-punk con una forte prevalenza della batteria, mentre il testo è appunto una cinica e al tempo stesso dolente descrizione delle anime perdute in quel tragitto verso la morte.

I Death In June preparano altri pezzi, e nel 1983 esce il loro primo lavoro sulla lunga distanza. In realtà, The Guilty Have No Pride è un mini album, giacché non raggiunge la mezz'ora di durata; i sette pezzi ivi inclusi sono ancora acerbi, ma già si delineano alcuni tratti distintivi interessanti. La musica è lugubre, debitrice del post-punk più angosciato alla Joy Division, con in più un ritmo che vira sul marziale grazie anche ai timbri profondi della batteria, e il trio è essenziale nella messa in scena: oltre a chitarra basso e batteria, affiorano ogni tanto alcune note distorte di tastiera o la tromba, come in "State Laughter". È sicuramente un album interessante, ma piuttosto lontano dalle sonorità future; alcuni pezzi però sono dei classici, come "All Alone In Her Nirvana", lacerante con le sue urla passate al sintetizzatore, oppure la plumbea "The Guilty Have No Pride", pezzo che coniuga la frase del titolo mormorata in sottofondo con un pesante giro di chitarra e alcune suggestive note di tastiera. Di "Heaven Street" si è già detto: qui è in una versione differente, più lenta e con la chitarra in maggiore evidenza.
All'inizio del 2006 il disco è stato ristampato con una serie di aggiunte che ne fanno un must: oltre all'inserimento di quattro pezzi, tre del primo singolo e uno dal 7" "State Laughter", c'è un Dvd che mostra uno dei primi, rarissimi concerti del gruppo in formazione originale. Otto i pezzi in scaletta, riprese amatoriali, ma emoziona vedere la leggenda al suo inizio, in un documento che è anche uno spaccato del clima musicale sotterraneo del tempo. Tutte le uscite discografiche della band escono per la loro etichetta personale Ner, New European Recordings, che in seguito ospiterà anche lavori di gruppi affini.

Poco dopo l'uscita di The Guilty… Tony Wakeford lascia il gruppo. Due sono le versioni del perché: nella prima il corpulento bassista è stato estromesso per la sua iscrizione al National Party, compagine politica d'estrema destra, infrangendo quindi la regola del gruppo che vietava qualunque connotazione politica dichiarata dei suoi membri. Considerando i pericolosi territori che la musica, gli atteggiamenti e i testi del gruppo toccano, è un atteggiamento comprensibile; Tony Wakeford spiegherà che invece è stata sua la scelta di allontanarsi, affinché potesse meglio approfondire i suoi studi di rune ed esoterismo. Lo stesso Wakeford in seguito darà origine a un suo progetto personale, i Sol Invictus, di fondamentale importanza per il nascente movimento neo-folk.
Il momento è cruciale per il gruppo: infatti nello stesso periodo i Death In June conoscono un altro personaggio in occasione di un concerto che questi ha tenuto con il suo gruppo a Londra. Il suo nome è David Michael Bunting (Malesia 1960): già attivo in formazioni post-industrial quali gli Psychic Tv dell'ex Throbbling Gristle Genesis P-Orridge e i 23 Skidoo, si è creato un suo gruppo chiamato Current 93. David, dal canto suo, sarà ben presto conosciuto con altri soprannomi quali Current 777, Tibet 777, e soprattutto David Tibet.

David Tibet è forse il più importante personaggio tra tutti quelli menzionati: una sorta di folletto più dispettoso che maligno, profondamente immerso nello studio delle religioni e della magia. La Corrente 93 è infatti la rappresentazione di una teoria di Aleister Crowley, sorta di mago occidentale vissuto nei primi anni del Novecento, autore di una serie di libri sulla magia sessuale e persona estremamente controversa; lui stesso si auto-definiva "the wickest man in the world", l'uomo più cattivo del mondo. I primi lavori di Current 93 sono all'insegna di lunghi brani costruiti con loop e nastri mandati al contrario, con il fondamentale contributo di Steven Stapleton dei Nurse With Wound; sconvolgenti suite industrial-esoteriche che apparentemente rinnegano la religione cristiana, mostrandosi in realtà studi di una spiritualità al negativo, profondi e realmente inquietanti. La collaborazione tra David Tibet e i Death In June sarà molto lunga e influenzerà reciprocamente i rispettivi percorsi musicali e umani; la concezione apocalittica (anche nell'accezione letterale) di David Tibet, la sua spiritualità e il suo background musicale si fonderanno con la ricerca folk e la sensibilità di Douglas con risultati di altissimo livello.

Dopo l'interlocutorio album Burial, per metà composto in studio, e per metà suonato dal vivo (ma è qui una delle canzoni più amate del gruppo, la programmatica "Death Of The West"), la collaborazione tra il duo e Tibet sfocia nell'album Nada (1985). E' un lavoro estremamente importante: non solo perché iniziano le collaborazioni aperte tra l'entità Death In June e vari ospiti, ma soprattutto perché il suo relativo successo consentirà in seguito a Douglas di concentrarsi esclusivamente sulla sua musica, e a far convergere in essa tutta la sua complessa visione del mondo e delle cose.
Nada mostra alcune importanti differenze rispetto al primo lavoro: anzitutto ha un'impronta marcatamente elettronica in molti pezzi, che trasforma il cupo dark-punk in una sorta di techno-pop danzereccio per anime dannate ("The Calling"), o in indefinite ed estenuanti tirate per sola batteria elettronica e voce ("The Foretold"). Si sente poi la chitarra acustica che fa da base per molte delle composizioni, e diventa evidente in brani suggestivi e capitali come "Fields Of Rape" e "She Said Destroy", create insieme a David Tibet, qui con il nome di Tibet 777. La svolta in chiave elettronica è ascrivibile a Patrick Leagas, e rimarrà un unicum nella produzione del gruppo; già a partire dal lavoro successivo, infatti, l'evoluzione musicale sarà differente e maggiormente improntata verso le rielaborazioni folk e l'uso di suoni di matrice industrial.
Ascoltato oggi, Nada mostra qualche crepa dovuta alle datate soluzioni elettroniche, alla ritmica molto pesante e a certe ingenuità nei testi, ben diversi dalle trame profonde e complesse stilate dal suo demiurgo; è a ogni modo un album molto importante per la storia del gruppo, testimone delle sonorità del suo tempo e fra i più apprezzati dai fan della Morte In Giugno. Nello stesso anno avviene la seconda e definitiva modifica dell'assetto del gruppo, con la dipartita di Patrick Leagas: nel corso di una tournée in giro per l'Europa, la band si esibisce a Bologna; qui i musicisti, che suonano con le divise delle Ss, vengono apostrofati da una ragazza che urla loro in faccia "Spero che le vostre madri vi odino per questo". Profondamente sconvolto da quell'accusa, alla fine del tour Patrick se ne va, lasciando tutto nelle sole mani di Douglas Pearce. Troveremo in seguito Patrick Leagas-O'Kill nei Sixth Comm-Mother Destruction, due formazioni fusesi in una sola, dedite a una elettronica trance-ritualistica con chiari riferimenti al paganesimo e al dualismo maschile-femminile.

Il trittico della solitudine

L'album The World That Summer del 1986 è il primo progetto di Death In June che vede il solo Douglas Pearce a dirigere, coadiuvato da David Tibet, Rose McDowall (cantante del gruppo schizo-pop Strawberry Switchblade), e altri. È innegabile la differenza tra questo e Nada: mentre il precedente lavoro era così "anni 80", questo focalizza meglio quelle che diventeranno le tematiche e i tratti distintivi del gruppo. I pezzi presenti sono molto eterogenei: vi sono ballate dark-folk di grande potenza quali la leggiadra "Come Before Christ And Murder Love", esemplare per trama melodica e contrappunti di tromba e tastiera, o una "Break The Black Ice" pesantemente cadenzata e con la voce spiegata. Invece "Rule Again", imperiosa e trascinante (doppia voce Pearce-Tibet), e "Blood Victory" sono più duri e marziali; l'iniziale "Blood Of Winter" coniuga le linee spagnoleggianti di tromba e chitarra con la batteria secca e sentore di carriarmati in sottofondo.
Chiude l'album la lunga e apocalittica "Death Of A Man", sorta di messa del caos in onore di Yukio Mishima, introdotta da un gong, che contiene al suo interno anche la ripresa dell'inno della guardia personale del grande e controverso scrittore. Yukio Mishima è con Jean Genet il principale riferimento letterario di Douglas Pearce (anzi, Douglas P. come ama farsi chiamare ora); soprattutto il primo ha in comune con Douglas la capacità di essere al tempo stesso delicato e durissimo, con la sua prosa aggraziata che tanto stride con una immagine senza compromessi e l'impegno di essere fedele sino alla morte nei confronti dei propri valori; ancora, la valenza simbolica della maschera, che diventerà il marchio di fabbrica dei concerti del gruppo, suonati appunto con i membri mascherati in viso, e l'etica hagakure omaggiata nel pezzo cantato in giapponese "Hidden Among The Leaves". Quanto allo scandaloso Genet, basterebbe citare la magnifica ossessione per il simbolismo della rosa e il voluto tenersi ai margini per propria scelta. E, certo, tutti e tre sono omosessuali.

Douglas Pearce prosegue la sua personale discesa agli inferi con il successivo Brown Book (1987). È questo uno degli album più importanti usciti negli anni 80, e non solo nel ristretto ambito gothic. In quest'opera fluiscono infatti in un unico mood tutte le ossessioni che al tempo schiacciano Douglas P., e che si possono ampliare all'intero movimento neo-folk: la perduta grandezza dell'Europa, che comporta la riscoperta-nostalgia delle sue tradizioni musicali e non, il distacco dell'uomo dalla sua componente spirituale, il linguaggio archetipico delle rune, il carico di sofferenza legato al nazionalsocialismo e alla Seconda Guerra Mondiale... Per Douglas è quest'ultimo il vero spartiacque della storia recente: quanto accaduto ha determinato un radicale ripensamento di ciò che può essere definito uomo. Douglas abbraccia in tutti i sensi tutto ciò, senza dimenticare le voluttuose tensioni omoerotiche che spesso aleggiano nella sua arte, e annega ogni speranza in Brown Book: in una cornice estetica legata più che mai alla ballata folk, crea veri e propri cantici di dolore costruiti con sovrapposizioni di tastiere e loop di origine marzial-industriale, in cui la voce suadente e ispirata declama le sue parole grondanti lacrime. Si prenda ad esempio "Runes And Men", una canzone che apre con una fanfara, e prosegue per accumulo di sensi e di strazio con un comizio di guerra (chi parla è la voce ufficiale del III Reich), aeroplani in passaggio pronti a bombardare, la batteria e la chitarra acustica cristallina; su tutto la voce dolce e profonda di Douglas con i cori angelici di Rose McDowall. Il brano, che fonde la rievocazione della perduta Età dell'oro con i tormenti velenosi dell'amore, è un vero e proprio manifesto della poetica Death In June, oltre che una stupenda canzone.
Ma è tutto l'album che viaggia su questi livelli, a partire dall'ossessiva intro "Heilige Tod", ovvero le parole Santa Morte ripetute a mo' di filastrocca, che sfocia nell'incedere possente di "Touch Defiles". Il tono delicato della voce e la grande ricerca melodica sono il contraltare ai testi nerissimi, ai suoni talvolta stridenti e ai loop marziali, che si fondono perfettamente in un grande affresco maestoso e decadente. Dopo la mesmerica "Punishment Initiation", dove il sacerdote David Tibet officia una funzione oscura e solenne, arriva "Brown Book", il punto di arrivo dell'album e suo nadir spirituale: una lenta versione per sola voce (Ian Read dei Fire+Ice), e rumori di fondo della "Horst Wessel Lied", l'inno dei soldati Ss. È questa una esperienza impressionante, dove il concetto di ciò che si sta ascoltando surclassa la canzone stessa: una vera e propria lapide a memoria (a memento) di un periodo tra i più infernali e dolorosi della storia... Oppure è una sua apologia? Non c'è una sola risposta, in realtà: Douglas Pearce lavora con materia scottante e solo la sua valenza artistica la può elevare a opera degna di ascolto. Può valere come indizio una bella frase posta a suggello di un suo album successivo: "This is not a reminder, this is a memory".

Nel 1989 The Wall of Sacrifice chiude la prima trilogia di lavori del Douglas unico autore della sigla Death In June, e lo fa in maniera un po' sottotono. La profonda crisi personale che va attraversando nel frattempo l'uomo si riverbera come ribadito altrove in quest'opera rassegnata, che si apre e chiude con due lunghi brani a dire il vero alquanto pesanti e ripetitivi. Il primo è la title track, che utilizza un semplicissimo refrain di tastiera, e procede con le consuete sovrapposizioni di voci, loop e rumori, su tutti una sorta di filastrocca cantata da una voce infantile. Chiude invece la scaletta originaria dell'album "Death Of A Drummer", che sostanzialmente replica le stesse modalità senza migliori risultati. In mezzo, sei pezzi, tra i quali spiccano le belle ballate "Fall Apart", "Hullo Angel" e "In Sacrilege", quest'ultima con il declamato inquietante di David Tibet. A quest'album partecipa anche lo statunitense Boyd Rice, prime mover dell'industrial già dalla fine degli anni 70 con il suo progetto NoN, nonché personaggio estremamente controverso: esperto di film di serie B, seguace della chiesa di Satana di Anton LaVey (come anche in altri periodi Tibet e Pearce), maschilista-omofobico-nazista-misantropo-"Hitler meets Bambi"... Di lui dicono questo e altro. Diventerà una grande amico di Douglas P. e insieme collaborareranno più volte.

Nello stesso periodo (1988) esce un album dei Current 93, "Swastikkas For Noddy", che diventa un riferimento imprescindibile per il movimento neo-folk. Sotto la direzione di David Tibet, tutti gli artisti più importanti del genere (da Douglas P. a Tony Wakeford, Rose McDowall, Boyd Rice e così via) prestano non solo la propria collaborazione ma anche brani della loro produzione, che vanno a comporre un vero e proprio dizionario del folk apocalittico: i Death In June portano una "Hullo Angel" che diventa "Angel", scarnificata a sola voce e chitarra ma forse ancora più bella nella sua meravigliosa melanconia. "Swastikkas For Noddy" diventa così un vero e proprio disco manifesto, che non è necessariamente il più bello realizzato dai Current 93, o dai Death In June, ma è importante proprio per il suo ruolo di vetrina a tutto tondo del movimento.

Neo folk per antichi fasti

Il periodo post-Wall Of Sacrifice è forse il peggiore della storia personale di Douglas Pearce, che medita il ritiro e sembra talmente a un punto di non ritorno da spingere l'amico Tibet a dedicargli la toccante "Song For Douglas After He's Dead", apparsa poi in "Thunder Perfect Mind" dei Current 93. Messo in pausa il suo progetto principale, Douglas collabora con Boyd Rice nell'album Music, Martinis & Misantropy, uscito nel 1990.

Poi, nel 1992, esce quasi inaspettatamente un nuovo disco dei Death in June. Il titolo è lunghissimo, But, What Ends When The Symbols Shatter?, e allude alla profonda crisi attraversata. Come in un percorso iniziatico, anziché soccombere alla disperazione, Pearce la utilizza per giungere a un nuovo livello di percezione. Strutturato come una semplice raccolta di canzoni, But What Ends... si manifesta come un inno alla Bellezza, vero punto fermo della poetica della band. Ora la musica è definitivamente legata alla forma-folk, con sapidi interventi di tromba e percussioni e tastiere che diventano orchestra. Tra i brani più belli, "Little Black Angel", con il suo andamento trascinante e la voce lirica a livelli immaginifici, la superba "Daedalus Rising", dove l'afflato di David Tibet si sposa magnificamente con l'orchestrazione, oppure "Giddy Edge Of Light", un estatico volo attraverso boschi invernali e abbacinanti visioni. Ma questi sono solo alcuni esempi: in tutto l'album riverbera una grande ispirazione, una forte determinazione nella ricerca della ballad perfetta. Chitarra, trombe sporadiche, gli squarci ambientali disegnati dalle tastiere e percussioni leggere: non serve altro per mostrare il nuovo volto dell'uomo insieme ai suoi sogni infranti e ai suoi aneliti di gloria perduta.

Nel frattempo, Douglas Pearce decide, lui, il cantore dell'antica grandezza d'Europa, di trasferirsi in un altro continente, e si stabilisce in Australia. La scelta del posto sembra essere in contraddizione con lo spirito dell'uomo, ma in realtà è proprio nel Nuovissimo Mondo che Douglas può esercitare il suo bisogno di solitudine, senza per questo abbandonare i suoi moti dell'anima e i suoi tormenti.
Rose Cloud Of Holocaust (1995), il lavoro successivo meditato in Islanda, si muove sulle stesse coordinate del precedente. È un album dai toni dimessi e crepuscolari, dove si avverte maggiormente la direzione cantautorale; ormai la forma-ballata ha raggiunto livelli stratosferici nel trattamento dei suoni, cristallini e punteggiati dagli inserti di tromba e tastiera, con le melodie sempre più aeree e ricercate. Sono presenti anche qui contributi vocali di David Tibet, che sebbene non raggiungano l'eccellenza del predecessore sono degni di nota, in "Jerusalem The Black" e "Books Of Life". Tra le canzoni più belle da citare "God's Golden Sperm", che richiama "Touch Defiles" da Brown Book, le successive "Omen Filled Season" e "Symbols Of The Sun", così eteree e melodiche, come pure "Accidental Protégé", brumosa e leggiadra. Più che legato all'universo gothic, Douglas P. appare sempre più come un cantautore oscuro ma di alto lignaggio, come l'amato Scott Walker che proprio in quell'anno fa uscire la sua personale visione di songwriting con l'abissale Tilt. D'altronde, un personaggio così particolare non sarebbe tale se fosse legato a un unico immaginario; oltre ai temi e influenze che lo hanno reso celebre, Douglas P. ha col tempo elencato una serie quanto mai eterogenea di preferenze personali, che vanno dal telefilm cult "The Prisoner", all'artista pop Andy Warhol, ai colleghi musicisti Pet Shop Boys e compositori come Ennio Morricone.

Di questo periodo si segnalano anche il live in Croazia del 1993 Something Is Coming, registrato in pieno teatro di guerra, e i cui proventi sono serviti a finanziare un ospedale croato, e due bei progetti collaterali del 1996, come Kapo, insieme al cantante dei Strenght Trought, Joy Richard Leviathan, e "Heaven Sent", a nome Scorpion Wind (Boyd Rice, lo stesso Leviathan, e altri).

Kameradschaft tra nuovi e vecchi amici

Quando sembra che la proposta musicale si sia definitivamente incanalata in una sorta di aurea abitudine, ecco invece il colpo d'ala: nel 1996, in occasione di alcuni concerti tenutisi in Austria, Douglas conosce un musicista che compone e suona in due gruppi d'area apocalittico-medievale: si tratta di The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud e soprattutto Der Blutharsch, e lui si chiama Albin Julius. I due legano sin da subito, e in occasione di un viaggio in Australia dell'austriaco, nasce una collaborazione molto valida e proficua per entrambi: per Douglas, che può avvalersi del genio di Albin, straordinario assemblatore di suoni e melodie che mischiano fanfare militari, musica popolare e sinfonica dagli echi ancestrali; per l'austriaco, che lavora insieme a uno dei suoi più importanti riferimenti.
Nel 1998 esce il primo prodotto della nuova alleanza: il titolo è Take Care And Control e propone una nuova veste musicale dei Death In June. Svanita la chitarra acustica ossatura delle ballate folk, relegata alla sola "Kameradschaft", quel che si ascolta è un magma decadente e oscuro (ma qua e là si spinge fino all'eccessivo e al grottesco, con effetti probabilmente voluti), con rumori e loop che si infiltrano tra le maestose impalcature orchestrali e il timbro a volte minaccioso, a volte carezzevole di Douglas P., mai come ora maestro di cerimonie. Si passa da pastiche sinfonici ("Power Has A Fragrance", "Despair") a inarticolati e tenebrosi soliloqui ("The November Men"), sino a minacciose aperture cacofoniche, quale la finale "Wolf Wind". Il lavoro ha una omogeneità a volte eccessiva, ma complessivamente rinnova con efficacia la veste sonora del progetto, e il tutto si sposa perfettamente con i suoni cui i Death In June hanno abituato.

E David Tibet che fine ha fatto? Sparito, come se non fosse mai esistito. È successo infatti che nel 1997-1998 (ma già c'erano segni premonitori) è cominciata una disputa tra Douglas e la World Serpent, l'etichetta che da anni distribuisce i suoi lavori, rea a suo dire di negargli buona parte degli introiti derivanti dalla vendita dei suoi dischi. La questione assumerà caratteri sempre più tesi e antipatici, sino a che Douglas P., insieme ad altri musicisti che incidevano per la World Serpent (Albin Julius compreso), deciderà di rescindere ogni legame. Il risultato di tutto questo è una lunga disputa legale che durerà anni, metterà l'un contro l'altro armati quelli che sembravano amici sinceri, e costringerà Douglas a districarsi tra squallide vicende di denaro e ripicche personali. Il tutto si rispecchierà ovviamente nell'arte dell'uomo, e porterà a rotture come quella con David Tibet, rimasto fedele all'etichetta. La vendetta si compirà in due modi: il primo sarà la soddisfazione di assistere al fallimento della World Serpent nel 2002; l'altra sarà coerente con l'uomo, e lo spingerà a dedicare tempo ed energia a veri e propri assalti musicali.

Il sodalizio con Albin Julius prosegue e nel 2000 esce Operation Hummingbird, un lavoro breve (sette pezzi per neanche mezz'ora di durata), che in apparenza insiste sul tracciato del predecessore. Dunque niente chitarra acustica, del tutto; spazio alle fanfare campionate, alle sceneggiature musicate e alle atmosfere decadenti e morbose. In realtà, vi sono anche delle novità che rendono il disco forse il miglior lavoro dai tempi di But, What Ends...: l'iniziale "Gorilla Tactics" mostra un bel po' di nerissima ironia, allorquando in un clima da rastrellamento Douglas denuncia tra orologi a cucù e ansiti da hunter and hunted la censura subìta per un concerto annullato a Losanna in Svizzera, e il clima di ipocrisia di un paese le cui "Banks are filled with nazy gold, But Death In June's banned". "Flieger" campiona un giro tastieristico in stile lounge tratto da un vecchio brano di Brigitte Bardot (!) risultando essere il brano più "facile" (con tutte le virgolette del caso) mai scritto sotto questo marchio di fabbrica, che porta su e giù lungo le rotte dei piloti votati alla gloria.
Ma anche le restanti canzoni, pur maggiormente canoniche con il loro carico di spleen, sono di elevata qualità e manifestano lo stato di salute artistica della coppia: menzione speciale per "The Snows Of The Enemy (Little Black Baby)", con un insistito movimento d'archi e fondali in dissoluzione, e soprattutto per la magnifica "Hand Grenades And Olympic Flames", torbida e dolorosamente evocativa (nel senso che evoca dolore e una volta di più una grandezza antica e ormai perduta). "Winter Eagle" poi sembrerebbe l'ultimo pezzo, con il suo andamento circolare e ipnotico, ma ecco che una melodia (ancestrale, popolare e verrebbe da dire addirittura völkish, tanto per l'equivoco), che come un fiume carsico è apparsa e scomparsa lungo il corso del disco, si manifesta appieno nella finale "Let The Wind Catch A Rainbow On Fire", titolo così articolato e pregno di significati simbolici da meritarsi di apparire come incipit nel sito ufficiale del gruppo. I cori dei dannati, la voce così bassa da sembrare mero recitato, doppiata sullo sfondo dall'altra voce, l'ipnotico motivo in cui annega ogni cosa, tutto rende l'ascolto intrigante e definitivo.

Sciolto anche il legame artistico con Albin Julius, Douglas P. cambia pelle ancora una volta e fa uscire nel 2001 All Pigs Must Die. È questa la vendetta nei confronti della World Serpent: una scorta di ingiurie nei confronti dei porci traditori, che evidenzia la delusione patita e la rabbia accumulata. Tornato alle sue ballate folk per chitarra e pochi altri strumenti, tra cui la tromba e la fisarmonica, Douglas fa una sorta di passo indietro anche nella riuscita finale: il concept sui tre piccoli porcellini (alias la World Serpent) è di tutt'altro spessore rispetto agli argomenti cantati precedentemente, e se rivela ancora una volta la volontà dell'autore di mantenere arte e vita legate inestricabilmente, qualunque cosa accada, fa pensare che sarebbero state opportune altre modalità di espressione per sfogare l'acredine maturata. Il disco musicalmente è assai curioso nel suo andamento, che è quello della ballata neo-folk prima, ma che dopo sei pezzi cambia polarità e trasforma le precedenti canzoni in un efferato continuum di power electronics e voci distorte, suddiviso in ulteriori cinque brani in realtà da considerare come un tutt'uno. Il risultato è d'effetto, ma non particolarmente incisivo, a dire il vero, almeno per chi è già avvezzo a tali suoni.
All Pigs Must Die si avvale della collaborazione con Andreas Ritter del gruppo neo-folk tedesco Forseti.

Nel 2004, ennesima trasformazione con Alarm Agents, frutto della collaborazione con Boyd Rice e intestato a tutti e due. Il disco è in breve la voce virile e monocorde di Boyd Rice che declama i testi con il contributo musicale di Douglas P. insieme a John Murphy (il polistrumentista già fedele compagno di tour da qualche anno), ovvero chitarra acustica e sparute percussioni e tastiere, più qualche trattamento noise-industrial, il tutto impreziosito da campionature di film e grida di gabbiani che qua e là riecheggiano (come già accadeva in "This Is Not Paradise" dall'album del 1992).
Alarm Agents non è male, piuttosto è eccessivamente frazionato (perlomeno nell'edizione su cd) in vari pezzi che spesso si riducono a brevissimi scampoli. La voce di Rice, inoltre, alla lunga crea un effetto di assuefazione, che è un modo elegante per dire noia. L'album contempla, comunque, realtà isolate di grande bellezza, quali "Black Sun Rising", classicamente Death In June, l'immaginifica "Get Used To Saying No!", una sorta di raga con chitarra country-folk che trasporta ad altezze astrali, o anche il rifugio in familiari territori industrial di "Are You Out There?". Il disco si chiude con la breve "Body's Gift", ovvero come condensare in meno di 30 secondi una visione del mondo, una filosofia pura e durissima, che non ammette concessioni.
Alarm Agents segna la fine di comune accordo del sodalizio con Boyd Rice; Douglas ha ormai chiuso tutte le porte delle collaborazioni che hanno reso celebre il suo marchio.

Douglas P.-Death in June, che alla fine del 2005 ha dato anche l'addio (temporaneo?) alle esibizioni dal vivo, ha successivamente incanalato il suo impegno in varie direzioni: la collaborazione a film ("The Doctor", nel quale è la voce narrante), la difesa del suo album Rose Clouds Of Holocaust censurato in Germania, la costante riproposizione del suo sterminato catalogo, rimasterizzato e rimpolpato graficamente e musicalmente (con picchi kitsch quali l'edizione del ventennale di Brown Book con confezione in marmo), alcuni dvd e così via.

Nel 2008, l'ormai ultracinquantenne Douglas, che somiglia sempre più a un tranquillo professore universitario con la mania del militar look, ha dato alle stampe il nuovo lavoro, The Rule Of Thirds. Coerentemente alla sua decisione di non avvalersi di altri compagni, questo nuovo album lo vede unico musicista oltre ché autore di testi. The Rule Of Thirds fa tornare ai tempi di Rose Clouds Of Holocaust, con la chitarra che arpeggia le melodie classiche, solo a tratti inframezzata da stralci di dialoghi, estratti da film o squarci sinfonici trattati, e la voce che riprende tutti i temi cari alla sua poetica; purtroppo il risultato finale non è confortante, perché appare un passo indietro in tutto e per tutto. Douglas P. sembra essersi arroccato in una sola idea di disciplina musical-artistica e la persegue con la fierezza che gli è propria, ma lascia intendere che non abbia più voglia di interagire con i tempi, e preferisca non rischiare più. La voce è sempre quella, appassionata e profonda, ma non basta: la struttura musicale è povera e per di più riutilizzata altre volte per rendere questo lavoro differente e davvero incisivo. Resta il rispetto per l'artista, ma è più difficile ora continuare a seguirlo in questa involuzione, che sembra precludere a un tramonto non più procrastinabile.

Il passo successivo verso questo tramonto è rappresentato da Peaceful Snow, album nel quale l'accompagnamento musicale è affidato a un pianista slovacco, Miro Snejdr, conosciuto su Internet tramite il newsgroup dei Death In June. Questi ha lavorato sulle partiture e le ha tradotte in un liquido mélange pianistico di impronta squisitamente romantica, sul quale poi Douglas ha inciso la sua voce, il suo canto, i suoi sofferti proclami sulla decadenza del mondo occidentale.
La novità potrebbe sembrare stimolante, quanto meno dal punto di vista musicale, come lasciava presagire un 7" uscito nei mesi precedenti per la Extremocidente. Ma se la prima canzone è piacevole, la seconda mostra un'inquietante monotonia, nella voce e nei toni musicali. E pure la terza, e così via. Il fatto è che di canzoni ce ne sono tredici, per quasi un'ora complessiva d'ascolto, ed è davvero arduo arrivare sino alla fine. A poco servono i campionamenti su voce e respiri che dovrebbero colorire i brani, né colpisce una maggiore articolazione vocale in alcuni pezzi, né tantomeno il sottofondo musicale, che manifesta la buona volontà dell'esecutore grazie anche a un certo talento, denotando però un suono talvolta scolastico e prevedibile, che in breve finisce per tediare. Per giunta, vengono riproposti in un secondo cd compreso nella prima tiratura, "Lounge Corps", una serie di rivisitazioni, l'ennesima, di precedenti pezzi dei Death In June a opera dello stesso pianista, che non aggiungono nulla, ma proprio nulla a quanto detto/scritto ora e prima.

Nel 2013 viene pubblicato The Snow Bunker Tapes, contenente i demo acustici inviati a Miro Snejdr, affinché li trascrivesse per il suo pianoforte. Si tratta di brani estremamente minimali, la cui narrazione è affidata sostanzialmente alla profonda voce di Douglas P. e alla sua chitarra: pochissimi infatti gli elementi aggiunti in sede di registrazione (sporadici samples e alcune percussioni).
Il risultato ricorda "The Rule Of Thirds"; qui il sound del progetto è ancora più scarno, spoglio: seppur registrate in studio, le tracce hanno infatti un feeling decisamente live e riaffiora, intatta, l'abilità nel songwriting di Douglas Pierce.

Cosa aspettarsi da un disco dei Death In June nel 2018? Come suggerisce il titolo, Essence! vorrebbe ritrovare un po’ l’essenza del lavoro di Pearce, un’artista che, da quando si è trasferito in Australia, continua nel bene e male un percorso introspettivo e un confronto con i propri fantasmi interiori indossando la sua immancabile maschera sino alla fine. Rispetto ai suoi ultimi lavori, l'album è un ritorno più che discreto ma non aggiunge nulla al mito. Essence! commemora un po’ i fasti passati con brani che probabilmente non verranno ricordati come capolavori ma che non dispiaceranno a molti fan vecchi e nuovi. Molti arrangiamenti strizzano furbescamente l’occhio ai classici (un po' autocitandosi) come ad esempio avviene in “God A Pale Curse” e “The Trigger” o anche nella gradevole “The Dance Of Life / To Shoot A Valkyrie”.  I detrattori potranno, a ragione, dire che ormai Douglas Pearce recita (qui abbastanza bene) in pieno la sua parte facendo quello che il suo pubblico si aspetta da lui. A questi ultimi, in fondo, andrà bene così.

Death In June

Discografia

The Guilty Have No Pride (1983)

Burial (live, 1984)

Nada (1985)

The World That Summer (1986)

Brown Book (1987)

Lesson One: Misanthropy (compilation, 1986)

Oh How We Laughed (live, 1987)

The Wall Of Sacrifice (1989)

The Corn Years (anthology, 1989)

Boyd Rice & Friends - Music, Martinis & Misanthropy (1990)

Cathedral Of Tears (anthology, 1991)

But, What Ends When The Symbols Shatter? (1992)

Something Is Coming (Live in Zagabria, 1993)

Rose Clouds Of Holocaust (1995)

Occidental Martyr (1995)

Kapo! (1996)

Scorpion Wind - Heaven Sent (1996)

Disc-riminate (antholgy, 1997)

Take Care And Control (1998)

Heilige! (live, 1999)

Operation Hummingbird (2000)

All Pigs Must Die (2001)

Boyd Rice & Friends - Wolf Pact (2001)

Alarm Agents (2004)

Abandon Tracks (anthology, 2005)

The Rule Of Thirds (2008)
Peaceful Snow (2010)
TheSnow Bunker Tapes (2013)
Essence! (2018)
Pietra miliare
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