Fermarsi a guardare il cielo ricoprirsi di oscurità, in quella breve parentesi di tempo che separa il giorno dalla notte. Dilatare quella breve parentesi, dilatarne la durata e le emozioni, riempirne i silenzi. Ambientare lì, nell'imbrunire, un intero mondo poetico e musicale. Un mondo perfettamente autonomo e completo, quello di David Tibet e dei suoi Current 93, che chiede solo di essere ascoltato e interiorizzato e di prendere vita nelle nostre menti, libere da pensieri - soprattutto di natura "critica" - e dietro i nostri occhi ben chiusi.
Sei anni ricchi di raccolte (fin troppe), concerti e collaborazioni sono passati tra questo e il precedente "Sleep Has His House". Ma Tibet abbandona gli arrangiamenti eterei e sperimentali di quel disco, e superando anche i lieder pianistici del magnifico "Soft Black Stars", torna alla più classica e spoglia struttura folk di suoi album classici come "Thunder Perfect Mind": e senza aggiungere novità alcuna a quello stile e al suo repertorio, si limita (si fa per dire) ad aggiungere un altro mirabile episodio alla saga senza pari della sua Corrente.
Le carezze acustiche di Michael Cashmore e Ben Chasney (Six Organs Of Admittance), i ricami del violoncello di John Contreras: non occorre altro alla voce recitante del reverendo David Michael per dar vita a una nuova raccolta di sermoni agitati e popolati da visioni apocalittiche e archetipi religiosi, chiamando inoltre a raccolta intorno a sé una folta schiera di vecchi e nuovi amici (tra i tanti citiamo Baby Dee, Cosey, Marc Almond, Antony e l'anziana folksinger Shirley Collins). E tocca proprio a un Marc Almond redivivo e in stato di grazia intonare il magico anthem di apertura, "Idumea". Ovvero il leit-motiv scelto da Tibet come ossatura del suo album, inno religioso del '700 che ognuno degli ospiti reinterpreterà a seconda del suo peculiare talento. Leit-motiv tra le narrazioni di un Tibet più che mai predicatore sulle rovine del mondo, la cui fluviale ispirazione non conosce pause; e le sue narrazioni prendono tutte le forme a lui care, e che ben conosciamo: le forme di base sono quelle fragili, intense, notturne di "Sunset" e "Then Kill Caesar", e su quelle basi Tibet imbastisce di volta in volta processioni sepolcrali, gravate da un dolore antico come il mondo ("The Autistic Imperium", "Black Ships Were Sinking" e la straordinaria "Babylon Destroyer"), incubi sfigurati dai trattamenti e dai disturbi del sempre presente Steven Stapleton ("Black Ships In The Harbor" e l'invasata title track, con la sua violenta pulsazione elettrica), e piccole, umili gemme, traboccanti di lacrime e di bellezza: "Bind Your Tortoise Mouth" - probabilmente il picco emozionale del disco - "Why Caesar Is Burning" e "The Beautiful Dancing Dust", un minuto scarso di estasi affidata alla voce e al piano di Antony.
Nessuna originalità tra i solchi di "Black Ships" e per fortuna, dato che c'è molto di più e di ben più importante: c'è la pura e cristallina bellezza di canzoni senza tempo, innanzitutto, e poi esecuzioni impeccabili, una disarmante abilità nell'orchestrare il crescendo della tensione melodica e narrativa: c'è il piacere di abbandonarsi a un ascolto che per 76 minuti annulla il tempo, estrania dal mondo, e ti porta lì con Tibet e compagni sul ciglio dell'assoluto, in quell'attimo che precede il calare della notte, quell'attimo dilatato all'infinito, mentre musica e parole prendono vita come in un film, o in una rappresentazione sacra. Che poi è ciò a cui più assomiglia questa nuova, profonda esperienza regalataci da uno dei pochi veri artisti di culto ancora in circolazione.
24/04/2012