Soft Cell - Marc Almond

Soft Cell - Marc Almond

New romantic latex

La cyber-fiaba della creatura che, dalla confusa identità sessuale, nutrita di glam, new wave, elettronica, cresce a misura di icona della trasgressione Eighties, partorendo, sotto fluorescenti neon, l'artificio del synth-pop

di Mimma Schirosi, Claudio Fabretti

SOFT CELL: LA DANZA ESTATICA

La raccolta differenziata, sul finire dei 70, assembla rifiuti di plastica, poliestere e lattice con kraftwerkiane sperimentazioni e suicidiani tocchi di tastiera, generando grotteschi mutanti.
Il minimalismo della prima elettronica e la tensione maschia di certe spasmi new wave vengono liberate da ogni camicia di forza stilistica e dalla cerebralità di sorta, bruciando le spartane vesti per scegliere la via dell'ambiguità, dell'estremo, del make-up.
Sembra che lo scandalo glam di dieci anni prima sia stato dimenticato, ma, in Inghilterra, il 1980 sta per colare pruriginosi rivoli omosex, reduci da scuole d'arte in cui arte significa metamorfosi, alterazione del sé, provocazione costante a un sistema perbenista e ipocritamente flemmatico.
Le varie espressioni trovano ragion d'esser proprio nella volontà di sfuggire a ridicole parvenze e millantate felicità; e se il punk urla e sputa, il dark-wave incede tenebroso e dolente, il synth-pop, invece, danza leggero e artificiale, senza troppe, almeno apparenti, pretese.
La strategia è: "Getta le armi e solletica il sistema sino a provocargli un esaurimento nervoso".

Marc Almond e Dave Ball, appena usciti dall'Art College, colgono e attualizzano, diventando The Soft Cell, fluorescente particella sonora del fitto alveare del tempo.
L'estetica è abusata senza scrupoli, perfettamente allineata agli archetipi dell'immaginario gay dei disco-club: Almond è un'iperbole di egocentrismo e narcisismo, vanitoso sino all'eccesso, più capriccioso di una donna, provocatore per natura; nell'ensemble di stranezze, però, emerge una voce cristallina, teatrale e ricca di acuti, motivo per il quale il gioco vale sicuramente la candela.
Nel 1980 il duo auto-produce l'Ep Mutant Moments, contenente sinistri ammonimenti alla Alan Vega ("Potential"), futuristiche visioni al laser ("Metro Mrx"), zombie festanti nei sotterranei di una qualche desolata e fumettistica metropoli ("Frustration"). L'istinto autocelebrativo spinge Almond a distribuire porta a porta la sua prova, ma il Caso ne allevia le fatiche prima del tempo: l'etichetta americana Sire, ravvisando germinali spunti di originalità, malgrado alcune ingenuità e giustapposizioni di fondo, decide di pubblicarne il singolo "Memorabilia", con il quale la band riesce ad attirare l'attenzione del circuito underground di New York.

La frequentazione delle disco newyorkesi non è che un ulteriore passo verso l'acquisizione di un'identità che, per quanto equivoca e trasgressiva, diviene il marchio di fabbrica dei Soft Cell, quello con cui, in territorio americano, incidono, per la stessa etichetta, il primo album, Non Stop Erotic Cabaret, carico di lascive ambizioni sin dal titolo. Sulla copertina del disco campeggia una foto al neon della coppia, con Almond nel ruolo di primadonna volitiva e nottambula, protetta da occhiali da sole scuri e imbronciata, le fa da sfondo/sostegno il gigante buono Dave Ball.
Immediatamente i padiglioni auricolari sono colpiti dalla raffica sintetica e sincopata di "Tainted Love", cover/omaggio a Ed Cobb, interpretata, nel 1964, da Gloria Jones, seguita a ruota da un'entrata in scena con tanto di boa di struzzo, ironico gioco da starlette di lap-dance in "Seedy Films".
Definire trasgressivo ciò che succede di lì a poco è un eufemismo: "Sex Dwarf" è la chiara dichiarazione di un gusto perverso e dissacrante, il ritmo si fa iperaccelerato, la lirica sfacciata e ansimante, con un Almond occupato in un attimo di sodomizzazione e un Ball a spiare voyeur; questa parvenza trova coerente riscontro nel video del singolo, festino a luci rosse di nani bardati in tutine sado-maso che, sogghignanti, minacciano piacevoli frustate.
La corsa sulla più accelerata e fantasmagorica delle giostre, alla maniera degli Orchestral Manoeuvres In The Dark, inizia in "Chips On My Shoulder", da cui si esce con giramenti di testa e arti in automatico movimento. Le majorettes possono divertirsi a far maliziosamente svolazzare i gonnellini intorno ad Almond su "Secret Life", seguita dalla chiusura pregna di vapor fucsia della romantica "Say Hello, Wave Goodbye".

La Sire, lieta di registrare numerosi feedback dal disco d'esordio, come per fomentare sino all'esplosione un pubblico in attesa di nuovi shock, pubblica nel 1982 una raccolta di remix più qualche inedito. Non Stop Ecstatic Dancing è chiaramente un'operazione commerciale studiata a tavolino, finalizzata a dare ai Sot Cell il tempo di rigenerarsi e realizzare un nuovo album, senza, però, perdere l'occasione di cavalcare l'onda appena trovata.
Malgrado la ripetitività, emergono rivisitazioni interessanti: una "Sex Dwarf" la cui orgia sadomaso si arricchisce di nuovi ospiti e nuovi gemiti, insieme a una "Tainted Love" più metallica e filo-industrial nello sfumare medley sull'inedito "Where Did Our Love Go?", ansioso batticuore di Almond. L'extended di "Memorabilia" procura ai disco-club un acido e schizofrenico riempipista, sorta di oracolo dei tanti tunz tunz di lì a venire, assieme all'inedito strumentale "A Man Could Get Lost", episodio ossessivo e gonfio di effetti.
Tra gli altri inediti, risulta apprezzabile il groove spaziale ed elegante di "So", vicina a certe sperimentazioni degli Ultravox, e gli acuti ammorbiditi dalle tastiere/videogioco nella versione originale di "What", il cui extended pecca, invece, di qualche ridondanza.

Trascorso l'anno sabbatico, Almond torna a mettersi in vetrina, più posato e dolcificato, rispetto all'irruzione del debutto, con The Art of Falling Apart.
Il disco suona rallentato e ammorbidito con inserti di zucchero filato, alla stregua di un innamoramento che, stavolta, parte dalla testa, piuttosto che dall'estemporanea brama del corpo. La forma di seduzione preferita resta l'ammiccamento, con cui l'artista invita l'ascoltatore a seguirlo sul suo divano maculato, tra languidi sbatter di ciglia ("Numbers"); la crisi sentimentale genera inquietudini alla Depeche Mode in "Heat", solipsistica passeggiata sotto la pioggia fine e insidiosa di una notte insonne e rosa da conflitti interiori. L'irresistibile tendere al gingillo erotico, simulacro di personale devozione, si intitola "Baby Doll", sorta di anticamera/petting immediatamente precedente un lasciarsi andare alla "Sex Dwarf".
La title track è un gioco alla Human League, versione "voce smaniosa vs tastiera smorfiosa", seguita da un inaspettato, godibilissimo omaggio a Jimi Hendrix ("Hendrix Medley"), surreale evirazione del chitarrista nell'artificiosità del synth-pop.
Dopo il romanticismo grondante polveri lunari di "Barriers", chiude con disimpegno "It's a Mug's Game".

L'ascesa rapidissima produce aspettative che, nei più, avrebbero generato frustranti ansie, ma l'approccio avido di esperienza, nei bassifondi di una New York viziosa e inficiata dai primi tristi, casi di Aids, può soddisfare ogni bulimia di sesso, droga, gioco del sé, sì da sovra-alimentare l'ispirazione.
E' il 1984, il concilio dedito al rituale disco aspetta nuove odi da celebrare danzando roboticamente al ritmo di synth e tastiere, ma Almond, ormai sicuro di poter osare, rivolta il suo inconscio pregno di adolescenziali passioni e giovanili atti adulatori, per proporre un album che scopre una latente attitudine rock.
This Last Night In Sodom è un disco virile nell'impianto sonoro; le tastiere sono ridotte all'essenziale, gli effetti sono tratti direttamente dai rumori metropolitani, quotidiani e alienanti come abituali intrusioni all'ego di Almond, che ci sguazza indispettito sino a sopraffarle ("Slave to This"). Con batteria alla "Rebel Rebel" entra, oltraggiosa, "The Best Way to Kill", per denunciare la cottarella che aveva ingozzato tanta, liceale fantasia della seconda metà dei 70.
Almond rivendica rispetto per il locale transex "Esqualita", enfatizzandone il logo con sofisticherie vocali alla Bryan Ferry, mentre, da un punto di vista prettamente strumentale, in "Surrender To A Stranger" si cambia registro, preferendo richiamarsi a certe danze dallo scatto Depeche Mode.
In dirittura d'arrivo, si compiono tentativi di ammorbidimento. Nello stesso anno in cui esce "The Queen is Dead", Almond, giocando alla fragilità adorabile di Morrissey, gorgheggia, come un'anima triste e romantica, in "Soul Inside": il risultato è un palpitare esagitato e tenero.

Dopo This Last Night In Sodom, il cerchio Soft Cell sembra prematuramente chiudersi; Almond, che già dal 1983 aveva iniziato a percorrere sentieri paralleli nei Marc and the Mambas, e Ball, che proseguirà nei Grid, si separano, lasciandosi dietro un'aura di ambiguità che, a dispetto di ogni tentativo di oblio e mal riuscita emulazione, verrà reindorata nel 1998 con la pubblicazione della raccolta The Singles.

In realtà, il cerchio non si è ancora chiuso: Almond, quasi invulnerabile alle conseguenze della depravazione 80's, pur impegnato nei progetti solisti e in varie collaborazioni al fianco, tra gli altri, della superba Nico, trova il tempo di onorare il culto del sé e il rapporto con Ball. La stima reciproca e l'amicizia inalterata, riescono a tener in vita l'antica alchimia, dalla quale, magicamente, nel 2002 viene fuori Cruelty Without Beauty.
La signora Almond, oltre al personale, neo-platinato look, rifà il make-up alla produzione, rendendola fiera e sicura di sé, accanto alle acerbe giovincelle electro del nuovo millennio, alle quali non ha molto da invidiare, in fatto di potenziale adrenalinico, ammiccamento erotico, spirito danzereccio.
L'album brilla da subito con il singolo "Monoculture": la tastiera balliana è vigorosa e la voce di Almond fresca e motivata, accanto a un controcanto alla Cybotron dei primordi house, donde una danza immediata e robotica, nel rispetto della tradizione synth.
Con organo chiesastico si apre "The Night", immediatamente innestata da un vortice di tastiera ed effetti cyber a racchiudere un cantato che gioca a scivolare sulle amate curve di languore, prima di lasciare il posto a nerboruti giri di basso ad allestire l'ingresso nelle tenebre della electro-pop di duraniana memoria ("Desperate").
Ben infilata nel delirio di una disco-gay, ridondante esasperati estetismi e oltraggiose coreografie, pre-chiude "Sensation Nation", seguita dal piccolo dramma dark, raccontato strusciandosi maliziosamente sulle umide pareti dei club privée ("Caligula Sindrome").
Il pubblico non si scompone più di tanto, tramortito dalla velocità della tromba d'aria electro-clash, ma i fan di sempre, tornano a sorridere, emozionati e palpitanti di fronte alla reunion.
La forza che è con lui fa sì che all'oggi Almond, tra un pettegolezzo saziante l'allure da star e l'omaggio del neo-principino Tiga, si goda l'agognata ubiquità con cui, sincronicamente, sorride pretenzioso da una spilletta e gioca alla primadonna nelle dance-floor.
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MARC ALMOND: BORN TO CRY
di Claudio Fabretti

Prima ancora di chiudere l'esperienza Soft Cell, Almond aveva già mostrato di voler varcare quelle coordinate sonore con il suo progetto parallelo Marc And The Mambas, in compagnia di Matt Johnson (The The) e Annie Hogan.

Due dischi, entrambi targati 1983. Il primo, Untitled, è una raccolta di torch-song imbevute di pessimismo esistenziale à-la Scott Walker e spinte oltre ogni ritegno dall'istrionismo di Almond. Si susseguono ballate atmosferiche ("Big Louise"), deliqui soul ("Angels") e cover tra le più disparate ("Caroline Says" di Lou Reed, "Terrapin" di Syd Barrett, "If You Go Away" di Jacques Brel). In questa babele di stili, troneggia il crooning lascivo di Almond, chansonnier dei bassifondi e cerimoniere di occulti rituali a luci rosse.

Il secondo album dei Mambas, il doppio Torment And Toreros, è ancora più sfrontatamente ambizioso e, soprattutto, ispirato. Nella grandeur dell'orchestra e degli archi, Almond s'inventa un incesto tra anima latina e cabaret tedesco anni 30: un affresco a tinte ipersature, dove la mattanza dei tori nelle arene diviene metafora di tutte le tragedie del Novecento. Ecco così un avvio tutto scaldato dal sole di Spagna: la chitarra flamenco di Johnson e il piano classicheggiante sui tappeti sintetici dell'"Intro", l'incalzante pantomima di "Boss Cat", il melò surreale della Brel-iana "The Bulls, scandita dagli "olè" dei cori, la declamazione a passo di flamenco di "Animal In You", il balletto sulle corde del violino di "First Time". Almond si conferma vocalist di razza e, ancor di più, entertainer: Un arcano incantatore che ti porta per mano nei cunicoli della depressione più inconfessabile. Quella di ballate funeree come "(Your Love Is A) Lesion", con un crooning alla "Rock'n'Roll Suicide", "Black Heart", quasi una versione spagnoleggiante dei Cure, e "In My Room", dove l'intro beethoveniana prelude a un altro psicodramma ("In my room/ way at the end of the hall/ I sit and stare at the wall/ Thinking how lonesome I've grown/... In my room/ Where every night is the same/ I play a dangerous game/ I keep pretending she's late/ And I sit/ And I wait..."). Altrove, si intravedono le prime caligini industrial che Almond coltiverà in seguito con l'amico Foetus, qui già presente nell'incubo di "A Million Manias"; un mood ricorrente anche in quella "Untouchable One" che è pura sinfonia rumorista per anime dell'oltretomba. Apice della follia creativa di Almond, il medley di quasi dodici minuti tiene insieme "Narcisus", "Gloomy Sunday" (come poteva mancare...) e il ripescaggio della "Vision" di Peter Hammill, tra spasmi d'archi, stacchi jazz, riff scurissimi e rintocchi d'organo. "Torment" è invece un'apoteosi new romantic consumata su un letto d'archi e tastiere. Chiude il sipario la ritmica invasata di "Beat Out That Rythmn On A Drum", rivisitazione in chiave moderna di temi di Bizet e Hammerstein. Completamente avulso dal gusto del periodo (e forse di ogni tempo!), l'album andrà incontro a un cocente flop commerciale, seguìto da quella riabilitazione postuma già toccata in sorte ai grandi incompresi del rock. Quando in qualche modo riemergerà dal buco nero degli 80, infatti, lo strano caso Marc And The Mambas diverrà oggetto del culto di una sempre più nutrita schiera di adepti.

La carriera solista vera e propria di Almond inizia però nel 1984, poco prima dell'ultimo atto della saga Soft Cell, con l'uscita di Vermin In Ermine. Aiutato in cabina di regia da Mike Hedges, già al fianco di Cure e Siouxsie and the Banshees, e supportato da una nuova band, i Willing Sinners, Almond aggiorna il romanticismo degli chansonnier al tempo del pop sintetico e dell'edonismo (post)glam. La copertina lo raffigura novello satanasso, mollemente adagiato su un cestino dei rifiuti, con indosso una giacca di paillettes stile Liza Minnelli, davanti alla gigantografia di un cuore trafitto da una spada. Questo gusto caricaturale del kitsch, che non risparmia velleità para-esoteriche (Almond è membro della Chiesa di Satana), sentimentalismo e sarcasmo nichilista, è un po' la summa della sua (confusa, ma sempre autoironica) filosofia.
La delicata "Tenderness Is A Weakness", la percussiva "Split Lip", ma soprattutto la psicoterapia bluesy di "Ugly Head" e il lussureggiante singolo "The Boy Who Came Back" tengono in quota un disco in cui la teatralità accorata sopperisce a tratti alla mancanza di fluidità in sede di scrittura.
Il vero successo dell'anno, però, è la cover di "I Feel Love", inno disco di Donna Summer rivisitato in chiave ironicamente ambigua al fianco di Jimmy Somerville (Bronski Beat), che con Boy George rappresenta l'icona omosex del momento.

Il successivo album Stories Of Johnny (1985) viene prodotto da Mike Hedges e registrato, come Vermin In Ermine, agli Haartman Digital Studios in Baviera. E’ un lavoro più sicuro e sofisticato, anche se indulge in mielose ballate da night-club intrise di umori europop a tinte kitsch. Un paio di canzoni, tra cui “Always” e la title track (scritta dopo aver visto un documentario sui ragazzi dei quartieri-dormitorio che si facevano di eroina, ennesimo saggio del canto sconsolato di Almond) erano state scritte per "Vermin" ma vennero ritenute inadatte a quel peana dei bassifondi.
“Lover Letter” riesuma fluorescenze elettroniche à-la Soft Cell e ha una certa incisività. “I Who Never” è una canzone sul perdere l’amore per poi andare a cercarlo di nuovo per la strada, “My Candle Burns” è basata su una poesia di Edna St. Vincent Millay. "The House Is Haunted" è un impertinente remake del brano di Mel Torme.

Per Almond sono anni di crisi, esaurimenti, tossicofilia. Un calvario testimoniato anche da Ep come A Woman's Story: Some Songs To Take To The Tomb, Volume One (il secondo volume non uscì mai), che comprende una serie di cover che vanno da Cher ai Procol Harum, passando per Scott Walker, Eartha Kitt e Peter Hammill (già omaggiato in Torment And Toreros), e Violent Silence (che trae ispirazione da George Bataille), entrambi del 1986, e che toccherà il fondo in Mother Fist And Her Five Daughters (1987). L’album racchiude dodici salmodie della dissoluzione sul filo di rasoio tra rassegnazione e speranza. Dolore e malanimo sotto la maschera grottesca del late night singer.
I Willing Sinners cesellano la magia della cornice - i chiaroscuri delle tastiere di Hogan, l'epicità del cello e dell'accordion di McCarrick, il basso pulsante di McGee - mentre Almond abbraccia definitivamente il cabaret, con indolenza decadente degna del Bowie di "Ziggy Stardust" e del Reed di "Transformer". Lo swing arabeggiante della title track celebra un'ode alla masturbazione ispirata a Truman Capote, frasi di basso e rintocchi di piano scandiscono il bel requiem amoroso di "There Is A Bed", ma è "Mr. Sad" il cuore sanguinante del disco: un melodioso solo vocale è dapprima cadenzato dalla sola chitarra elettrica, quindi sopraffatto da una prepotente apertura orchestrale con i fiati in pompa magna, infine fischiettato con piglio sornione. Sono liturgie soul grondanti pathos e sentimento, così come gli altri due potenziali hit, "Melancholy Rose" e "Ruby Red".
L'intero disco è uno sfibrante esercizio di masochismo psichico. Ma la copertina, al solito, sdrammatizza, regalandoci un Almond-marinaretto davvero improbabile.

In piena crisi esistenziale, l'ex Soft Cell sprofonda con Foetus nei baratri angosciosi di Slut (uscito a nome Flesh Volcano): un crogiolo ribollente di clangori industrial, rumorismi e vapori elettronici. E' solo un Ep, perso nei rivoli di una vasta discografia: qualcun altro avrebbe potuto costruirci una carriera.

Dimezzati (da sestetto a trio) i Willing Sinners (e ribattezzati in "La Magia"), Almond ritrova la sua vena più sensuale e romantica con The Stars We Are (1988). La produzione di Bob Kraushaar dona maggior luminosità. Languidi arrangiamenti d'archi (a cura di Ann Dudley degli Art of Noise) incorniciano un crooning che ora si fa più prossimo a quello degli chansonnier degli anni 50 (da Charles Aznavour in giù), mentre la scrittura predilige un taglio decisamente pop, che non rinuncia alle consuete aperture orchestrali e a ridondanze dal retrogusto glam.
Le canzoni più note dell’album sono l'hit "Tears Run Rings" - che riporta Almond nelle chart statunitensi sei anni dopo il boom di "Tainted Love" - a dispetto del testo politico celato dietro i soffici arrangiamenti d'archi, i beat sinuosi da dancefloor e il ritornello da ko immediato, e soprattutto una cover di Gene Pitney, "Something Gotten Hold On My Heart", che l'espressività vocale di Almond e gli arrangiamenti melodrammatici trasformano in una torch-song strappacuore (le successive edizioni dell'album includeranno la versione cantata in coppia con lo stesso Pitney, arrivata peraltro al primo posto delle classifiche del Regno Unito nel 1989).
La passionalità di "These My Dreams Are Yours" e "Sensualist", il chorus assassino di "Bitter Sweet" e la lucentezza jazzy di "The Very Last Pearl" sono gli altri cardini di un disco che si dibatte tra il sublime e lo stucchevole, e che passa alla storia soprattutto per la chicca posta alla traccia numero 5, "Your Kisses Burn": un duetto stile "Lee & Nancy" insieme a Nico, all'ultima prova discografica prima della sua tragica morte.

Jacques è invece un album-tributo al maestro Brel, iniziato nel 1986 ma pubblicato solo tre anni dopo: dodici le canzoni scelte, che in bocca ad Almond ritrovano nuova linfa. Durante la registrazione di Mother Fist, Almond contattò lo scrittore Paul Buck con l'idea di fagli tradurre alcune canzoni del cantautore fiammingo che non erano mai state incise da altri cantanti; il ritardo della pubblicazione fu dovuto a complicati aspetti editoriali da risolvere: il permesso per usare le traduzioni, le approvazioni da ottenere e gli accordi da definire.
Tra tutte le interpretazioni, particolarmente riuscita è quella di "La ville s'endormait" (che qui diviene "The Town Fell Asleep") mentre sfiora l'involontaria parodia quella di "J'arrive" ("I'm Coming"); lascia l'amaro in bocca anche la nuova versione di "If You Go Away", canzone già affrontata in Untitled dei Mambas diversi anni prima.
Non tutto fila liscio, e lo stesso Almond lo ammette: "L'album sembra un'opera non troppo riuscita e vagamente frustrante: avrebbe potuto essere meglio se avessi decostruito le canzoni e le avessi registrate in modo più rilassato anziché trattarle come oggetti preziosi e delicati".
Tuttavia gli eredi di Brel elogiarono pubblicamente il disco; le recensioni furono buone in Francia (anche sul giornale Libération) ma meno generose in Inghilterra.

Con Enchanted (1990), inizia la parabola discendente di questo menestrello romantico fuori tempo massimo, costretto a fare i conti con l'abbandono della preziosa tastierista (e co-autrice) Annie Hogan e con la fine dell'esperienza Willing Sinners/La Magia.
Billy McGee resta come principale tastierista e arrangiatore, ma il produttore Bob Kraushar avrebbe poi creato tutto al computer (una decisione che rese faticosa la registrazione dell'intero Lp). Il lavoro riflette il tipo di musica che Marc Almond ascoltava in quel periodo: è in parte spagnolo, in parte arabo, a tratti persino turco. Ci sono influenze bhangra in "Death's Diary", mediorientali in "Orpheus In Red Velvet", aromi celtici in "The Sea Still Sings" e dramma latino in "A Lover Spurned" (primo singolo estratto, costato 40.000 sterline di sola registrazione).
Si salvano il tango a due voci di "Madame De La Luna", i languori euro-disco di "Waifs And Strays" e la sceneggiata da groppo in gola di "The Desperate Hours", mentre in numeri synth-pop come "Toreador In the Rain" e "Orpheus in Red Velvet" sembra essersi ormai spenta la fiamma che incendiava le notti del "cabaret erotico".
Il vero pezzo forte del disco è, in definitiva, la copertina, altra prodezza kitsch che immortala un Almond efebo marino, circondato dai pesci e dalla flora acquatica.

Tenement Symphony (1991) è il primo e unico album inciso per la Wea. L'idea, fin dal titolo (preso in prestito da una canzone inclusa in un vecchio film dei fratelli Marx) venne al boss dell'etichetta Rob Dickens, che aveva programmato tutto - persino la copertina. La produzione di Trevon Horn finisce col seppellire la voce di Almond nel mix, ma quando riesce a liberarsi dalle pastoie di questa synth-disco da videogame il Nostro sfodera due numeri d'alta scuola: le scintillanti cover di "Jacky" (Brel), con un video del francese Philippe Gaultier – con tanto di riferimenti a "Quarto Potere" di Orson Welles - e "The Days of Pearly Spencer" (David MacWilliams - meglio nota al pubblico italiano come "Il volto della vita" nella versione di Caterina Caselli).
Le bollicine elettropop di "Champagne" rievocano per un attimo i fasti della "danza estatica", ma a deludere sono proprio i frutti della reunion con l'altra metà dei Soft Cell, Dave Ball (ora passato ai Grid): le ballabili "My Hand Over My Heart" e "Meet Me in My Dream", più l'ode omo-erotica di "I've Never Seen Your Face".

Se la produzione di Almond attraversa una fase zoppicante, le sue performance dal vivo restano memorabili. Registrato al Royal Albert Hall di Londra, nel settembre 1992, 12 Years Of Tears ne è una prodigiosa testimonianza. Un vero e proprio recital, supportato da un corpo di ballo, una band e un'intera orchestra, per 14 canzoni magistralmente interpretate. Il tour de force definitivo è la cover di "What Makes a Man" di Charles Aznavour, che, riletta nell'ottica di un travestito, si trasforma in uno struggente inno alla diversità. Brividi e lacrime. Ci vuole un cuore di marmo per resistere a queste canzoni.

Absinthe (1993) è un omaggio agli chansonnier francesi, iniziato contemporaneamente a Jacques.
Purtroppo alcune traduzioni sono verbose e complicate, e alcune performance un po' sopra le righe: "The Slave" fu scovata per Almond da Pierre et Gilles, e c’è persino un tocco di perversione in "Secret Child" di Juliette Greco (con Marc che canta della sua gravidanza…); "Incestuous Love" fu scritta da Barbara per suo figlio, e "My Little Lover" è una poesia di Arthur Rimbaud riprogettata da Billy McGee in una complessa miscela di parole e musica. Convince l’interpretazione di "Yesterday, When I Was Young" di Charles Aznavour. Solo una canzone non venne infine inclusa, "One Thousand And Three", poesia di Paul Verlaine messa in musica – tratta dalla raccolta di versi erotici "Hommes et femmes".
Questa volta la critica francese rimane perplessa, e il disco passa praticamente inosservato.

Nel frattempo, la doppia raccolta A Virgin’s Tale (1992) raccoglie i suoi Ep e le rarità incise tra il 1985 e il 1987 (parecchio è il materiale originariamente escluso da Mother Fist, che secondo le intenzioni di Marc Almond sarebbe dovuto essere un doppio album), mentre Treasure Box (1995) è un altro doppio cd che racchiude lati B, rarità, mix alternativi, versioni demo ed extended che risalgono al periodo tra il 1988 (The Stars We Are) e il 1990 (Enchanted). Sarebbe dovuto essere un triplo cofanetto, contenente anche nuovi remix mai pubblicati prima, ma fu negato il permesso di utilizzarli.

La gestazione del successivo album Fantastic Star (uscito infine nel 1996 per la Mercury, il suo titolo originale era "Urban Velvet") è particolarmente problematica, visto che nel frattempo Marc decide (spinto da Stevo e dalla casa discografica) di andare in una clinica per disintossicarsi.
Il disco è un gran miscuglio di canzoni e sonorità diverse, realizzate con una varietà di produttori che vanno da Martyn Ware, già negli Human League e negli Heaven 17, a Mike Thorne passando per Mike Hedges, e tra gli ospiti troviamo John Cale al piano (in "Love To Die For" e "Come In, Sweet Assassin") e David Johansen dei New York Dolls (la sua armonica è in bella evidenza nel techno-blues di "Adored And Explored", che uscì come singolo corredato da un azzeccato video, vagamente ispirato a quello di "Coming Up" di Paul McCartney e gli Wings, in cui Marc recita con grande ironia diversi ruoli e diventa Alice Cooper, Marc Bolan, David Bowie, Elvis Presley, Liberace, uno skinhead, un rocchettaro heavy e un indiano).

Open All Night
(1998) tenta di rivitalizzare un sound ormai un po' bolso, facendo leva su arrangiamenti elettronici e pulsazioni da dancefloor. Sul secondo, spicca un duetto con l'amica di sempre Siouxsie Sioux (l'esotica "Threat Of Love") e la collaborazione con Kelli Dayton degli Sneaker Pimps ("Almost Diamonds"), quasi a rivendicare la primogenitura su tutti i crooner del trip-hop. I due singoli estratti sono "Tragedy (Take A Look And See)" e "My Love", che viene anche remixata dal fido Dave Ball.

Almond, che intanto si diletta anche dietro il mixer in divertenti dj-set electroclash, non ha mai smarrito il gusto per gli estetismi disperati e per un immaginario gay da darkroom.
Stranger Things (2001) è un'altra alcova luccicante di paillettes e neon fosforescenti. Arpe e archi, barocchismi e languori si alternano in una sporca dozzina di ballate. L'approccio "cinematico" del nuovo produttore, l'islandese Johann Johanson, si riflette in piéce fataliste come "End In Tears", "Under Your Wing", "Glorious" e "Born To Cry".

In seguito alla reunion dei Soft Cell, nel 2003 arriva un nuovo lavoro. Heart On Snow passa in rassegna la musica leggera russa del Novecento ed è un lavoro inciso nell’ex-Unione Sovietica insieme ad artisti locali. Oltre a nuove traduzioni in inglese, c'è posto anche per una canzone inedita, "Gone But Not Forgotten", scelta come singolo di lancio. Come già accaduto con i due progetti "francesi", anche stavolta le critiche sono sostanzialmente buone a scapito di vendite non esaltanti: Almond stavolta non demorde e presenta le canzoni di Heart On Snow (insieme a un'interessante scelta di altre cover che vanno dal blues a "Strangers In The Night" di Frank Sinatra) in un bellissimo concerto tenuto all'Almeida Theatre di Londra.

Nel corso del decennio sono tante le collaborazioni di Marc con altri artisti: l'ex Soft Cell è oggi il guru di una nuova generazione di neoromantici che va da Patrick Wolf a Antony Hegarty lo cita espressamente come principale ispirazione della sua carriera e lo invita a cantare ai suoi show.
Due sono le canzoni incise con i Mekon che finiscono nell’album "Relax with Mekon": "Out Of My Soul" e una cover di Burt Bacharach, "Please Stay", successivamente remixata dai Royksopp; tra le altre cover vanno citate almeno "Total Eclipse" di Klaus Nomi, interpretata insieme ai tedeschi Rosenstolz e a Nina Hagen, "The Way You Walk" dei Papas Fritas, cantata insieme all'artista francese So, una scatenata rilettura techno di "Baby's On Fire" di Brian Eno con i T-Total, "Self Control" di Raf riproposta con i Replicant (e con un nuovo titolo, "Face Control") e infine un tributo anche a Serge Gainsbourg, "I'm The Boy". Gli interessi di Marc vanno in direzioni talvolta opposte, e si passa con una certa nonchalance dalle composizioni acustiche di "Gabriel And The Lunatic Lover" (basate su poesie omoerotiche della seconda metà dell'Ottocento) con Michael Cashmore all'electroclash di "Smoke And Mirrors" (opera degli Starcluster, che attinge a piene mani dall'italo-disco e dall’hi-NRG).

In mezzo, però, c'è stato il drammatico incidente motociclistico del 2004: Almond ha rischiato la pelle e ha temuto di perdere la voce in seguito a uno shock cerebrale. Sul palco si scusa: "Forse non sarò all'altezza". E le lacrime, stavolta, sono di gioia, nel vederlo riprendere in mano il microfono con la classe del consumato entertainer.

Stardom Road (2007) è un album di cover (ad eccezione di "Redeem Me" che porta la sua firma), in cui il nostro passa in rassegna con piglio da crooner e arrangiamenti orchestrali retrò alcune delle sue innumerevoli infatuazioni: da Dusty Springfield di "I Close My Eyes And Count To Ten", a Charles Aznavour di "I Have Lived". A timbrare l'operazione non fa difetto il gusto, né l'indiscusso talento vocale, e purtroppo nemmeno alcuni passaggi sopra le righe (la sinatriana "Strangers In The Night" ce la si poteva francamente risparmiare), né l'immancabile flirt con Antony Hegarty, che ha ormai fatto del duetto una sua ragione di vita. Disco senza particolare infamia, anzi incline ad ascolti disimpegnati, e con la lode dovuta a un gradito ritorno.

L'azzardo del 2009, Orpheus In Exile: The Songs Of Vadim Kozin, è invece un disco dedicato a Vadim Alekseyevich Kozin, "la prima vera icona gay della musica russa". Un artista nato a San Pietroburgo nel 1903, perseguitato da Stalin e deceduto quindici anni fa, del quale Almond è venuto a conoscenza durante un lungo tour in Russia all'inizio degli anni Novanta. E' lui l'Orfeo in esilio evocato nel titolo. E proprio dagli anni dell'esilio in Siberia provengono molte delle 13 canzoni scelte da Almond: si tratta spesso di composizioni malinconiche, piccoli ritratti di vita quotidiana, musicalmente in linea con le più tipiche romanze gitane. La differenza sta, il più delle volte, nei testi: l'amore che non osa pronunciare il proprio nome è rappresentato da uno dei momenti più felici della collezione, "Friendship" - scritto per un altro uomo. "I Love So Much To Look Into Your Eyes" è una dichiarazione altrettanto appassionata, mentre brani come "Day And Night" e "Brave Boy" cantano le virtù dei giovani soldati in guerra. L'amarezza e la frustrazione per la sua condizione si celano dietro lo sberleffo diretto a Mosca nel brano d'apertura, "Boulevards Of Magadan", il più toccante in assoluto.
Mentre in Heart On Snow riletture più rispettose delle partiture originali si intrecciavano spesso con il gusto moderno del cantante di Southport, qui Almond è accompagnato dalla sola orchestra "Rossia" diretta da Anatole Sobolev. L'intero lavoro è stato registrato a Mosca, in tre diversi studi ed è stato prodotto da Alexei Fedorov. Spesso si può notare come Marc voglia far propri i temi proposti da Kozin, e non è difficile trovare dei punti in comune tra l'opera dell'autore russo e alcuni lavori del passato dell'ex-cantante dei Soft Cell. La perdita della giovinezza e dell'innocenza era un tema affrontato in "Youth", nel 1981, e torna in questo lavoro grazie a "When Youth Becomes A Memory"; la mendicante di "Beggar", una diva dimenticata anche da coloro che si definivano suoi amici, ricorda non poco altri ritratti che abbiamo incontrato nel corso della carriera almondiana. Non tutto funziona alla perfezione. Stona, per esempio, la presenza della batteria in "Forgotten Tango" e nell'ode omoerotica "Brave Boy" e più di una canzone soffre a causa di scelte dovute principalmente alla ristrettezza del budget a disposizione. Ma, in attesa che esca il prossimo album di canzoni inedite, il suo primo in nove anni, si può ritrovare in questo prezioso disco una voce in forma smagliante e una voglia di stupire che non si è mai affievolita.

Il grande successo ottenuto con le cover ha però, negli anni, reso Marc Almond un autore sempre meno sicuro di sè. "Non so leggere né scrivere la musica, soffro di dislessia e ho problemi di apprendimento che per anni hanno reso difficile la composizione di nuovi brani", ha rivelato in una recente intervista, "pertanto ho paura delle mie canzoni. Ecco perché sento di potermi celare tra le canzoni altrui per poter dire ciò che voglio dire". Nonostante ciò non manca una manciata di gioielli neppure in Varieté, destinato ad essere l'ultimo episodio della carriera cantautorale dell'artista, che d'ora in poi si occuperà di altri progetti, cover e nuove collaborazioni - tra cui "Feasting With Panthers" con Michael Cashmore, in fase di ultimazione.
"Varieté" è uno dei suoi dischi più autobiografici, e l'impresa ardita è quella di amalgamare i tanti ingredienti che hanno contraddistinto la sua opera in trent'anni di onorato servizio, con un occhio di riguardo ai suoi dischi più colti e sofisticati. Riafforano spesso echi di "Torment And Toreros" e di "Mother Fist", anche se stavolta mancano l'audacia e la freschezza, talvolta naif, di quei lavori. Il singolo di lancio è "Nijinsky Heart", ma spiccano anche altre canzoni, come "The Exhibitionist" (dedicata ad un bizzarro personaggio tipicamente almondiano: un "favoloso mostro", "qualcosa come una signora barbuta in un elegante vestito di Dior"), "Trials Of Eyeliner" e "Sandboy". La proposta è generosa, con ben quindici nuovi brani (più un'introduzione) ma non convincono certi riempitivi (la smithsiana "Unloveable" e la chiusura affidata alla disarticolata "Sin Song"). Per la prima volta il disco sa di mestiere e di repertorio - e non aiuta l'uso di temi e vocaboli ricorrenti (problema che ha viziato anche canzoni di alcuni suoi epigoni, Brett Anderson in testa).

Almond ha anche pubblicato la sua prima autobiografia, "Tainted Life": cronache di vita dissipata nel cuore dei più trasgressivi club londinesi, parigini e newyorkesi, in compagnia di Andy Warhol, Nick Cave, Serge Gainsbourg, Madonna, Siouxsie e della variopinta tribù dello Studio 54.
"Eravamo molto 'ora' e molto nostalgici allo stesso tempo", racconta Marc. Potrebbe essere la sintesi di una generazione intera.

Un libro di poesie di Eric Stenbock regalato da David Tibet dei Current 93 e la conseguente consapevolezza di aver bisogno della visione sonora di Michael Cashmore conducono Almond, da sempre affascinato dalla forza suggestiva e malinconica della poesia al progetto Feasting With Panthers. L'album ripropone due brani già pubblicati nel 2008 in un mini-cd e un elegante insieme di poesie di Jean Genet, Rimbaud, Jean Cocteau e Paul Verlaine, il tutto adornato da folk orchestrale arricchito dai brividi elettronici di Michael Cashmore.
Non è semplice comprendere chi dei due protagonisti abbia tratto maggiore giovamento dalla collaborazione, ma sicuramente la grandeur malinconica della musica di Cashmore si distende sulle corde vocali di Almond con intenso spessore emotivo. Tra gli arrangiamenti arditi e originali di "Hotel De France And Poetry" e le tenebrose atmosfere squarciate da rabbia e furore di "Boy Caesar", i due musicisti si dilettano a coinvolgere un patrimonio sonoro più ricco dell'apparente calma stilistica. Feasting With Panthers è un album di malinconiche e delicate canzoni sorrette da organi, violini e sibili elettronici, un riuscito e raffinato incontro tra due mondi poetici che, traendo ispirazione dal dolore e dalla solitudine, trovano la giusta chiave di lettura di un patrimonio letterario oramai imprescindibile.

Inarrestabile, istrionico, poliedrico, Almond per un breve periodo accantona l'attività discografica e rivolge le sue attenzioni a molteplici forme d'arte, tra poesia e letteratura trova spazio anche il teatro, prima con un testo scritto appositamente per lui da Mark Ravenhill e Conor Mitchell ("Ten Plagues"), che affronta il delicato tema della paura legata a epidemie come l'Aids, poi nell'adattamento di "Poppea" in chiave rock-opera, dove Marc interpreta il ruolo del filosofo Seneca.
La musica però non resta in sottofondo, con due progetti live che lo vedono primo attore nella performance con i Marc And The Mambas nella prima esecuzione live dello storico album Torment And Toreros (con Antony Hegarty ospite d'eccezione), e poi cantante nella riproposizione live dei Jethro Tull di "Thick As A Brick" alla Royal Albert Hall.

Nel 2014 ben tre uscite discografiche mettono in fila i diversi aspetti del musicista inglese. Il primo è Ten Plagues che trasferisce su disco la complessa opera teatrale, le musiche di Mark Ravenhill sono un terreno arduo e complesso per un cantante pop, ma per l'ex Soft Cell piano e voce non rappresentano una novità, già nel magico e sconosciuto Ep "Violent Silence" l'artista aveva messo a dura prova le sue doti d'interprete con una performance che molti considerano una delle sue vette espressive.
Anche il secondo disco The Tyburn Tree: Dark London rappresenta un tour de force lirico non indifferente, con Marc che duetta con la soprano Sarah Leonard su musiche di John Harle, sottolineando abilmente il tono noir ricco di humour dell'immaginario viaggio nei misteri più oscuri e macabri della vecchia Londra.
Al terzo album The Dancing Marquis spetta il compito di spezzare il tono catartico delle altre due uscite discografiche, con un ritorno al pop, una scelta graziata dalla produzione di Tony Visconti, che libera in parte Marc dalla patina elettro-pop (eccezion fatta per la briosa "Worship Me Now") iniettando una dose di chitarre e sonorità glam che permettono al nostro di riconciliarsi con il formato-canzone ("Burn Bright").

Ma è con The Velvet Trail che l'autore riprende confidenza con il suo stile trasgressivo e melodrammatico, aggiungendo al suo canzoniere nuove piccole fantasie liriche ricche di malinconia, romanticismo e lustrini ("Scar"; "Zipped Black Leather Jacket", "Minotaur", "Life In My Own Way"). Nel frattempo vede la luce anche un altro interessante progetto, "Against Nature", scritto da Jeremy Reed e Othon, che offre a Marc la possibilità di rinnovare il suo lato più decadente e oscuro, ma le sorprese sono all'ordine del giorno e mentre l'artista dà alle stampe un ricco box antologico, Trials Of Eyeliner, ecco spuntare un'altra collaborazione, questa volta con il duo synth-pop Starcluster, che tra citazioni di Pet Shop Boys, Giorgio Moroder e ovviamente Soft Cell crea un piacevole effetto deja-vu.

Il 2017 vede di nuovo il nome di Almond nelle classifiche di vendita con l'antologia Hits And Pieces - The Best of Marc Almond and Soft Cell, che anticipa un nuovo contratto con una major, la Bmg.
Nel settembre dello stesso anno torna con un album di cover, pescando nel canzoniere pop degli anni Settanta e Ottanta. Shadows And Reflections non è però un album nostalgico, Marc Almond si scopre novello Scott Walker, era Walker Brothers, affrontando un repertorio dove Burt Bacharach e Yardbirds scorrono su un unico binario emotivo, che è più simile a quello di un concept-album. Protagonista di questo racconto è un uomo che guarda il mondo dai vetri del suo lussuoso appartamento ricco di oggetti e ricordi, mentre la musica in sottofondo prova a riempire il suo leggero senso di vuoto e di solitudine. Il suono concepito da Marc e John Harle è affine a quello delle colonne sonore anni 60 del cinema italiano, con ampie orchestrazioni e armonie ricche e sontuose, una scelta stilistica che rischia di deludere molti fan dell'istrionico musicista inglese. Anche se privo d'innovazioni e colpi di scena (Marc ha dichiarato che la perfezione degli originali non necessitasse eccessive digressioni), Shadows And Reflections conferma le doti d'interprete di Almond, che affronta con tono da perfetto crooner "Blue On Blue" di Bacharach e "How Can I Be Sure" dei Young Rascals, iniettando un po' di magia quasi teatrale nelle più trascinanti "I Know You Love Me Not" di Julie Driscoll e in "The Shadow Of Your Smile" di Johnny Mandel.
A volte però le emozioni restano in superficie ("Something Bad On My Mind" di Timi Yuro) o sommerse dagli arrangiamenti ingombranti (la title track degli Action), ma tra pregevoli intuizioni ("I'm Lost Without You" di Billy Fury) e tesori poco noti del baroque-pop ("From the Underworld" degli Herd) l'artista mette in riga una graziosa colonna sonora retrò, dove anche l'ottimo strumentale di Harle ("Overture") e l'inedita "Embers" preservano quell'atmosfera melodrammatica e tardo romantica che è alla base di questo atipico progetto di cover.

Dopo aver mandato definitivamente in pensione i Soft Cell con l'ultimo glorioso concerto (farewell show però fa più figo) alla O2 Arena di Londra, Almond torna in pista col suo ventiquattresimo album solista. E lo fa sulla falsariga di quanto pubblicato negli ultimi tempi, ovvero un ritorno a suoni e atmosfere decisamente pop, frutto della collaborazione col pianista e compositore Chris Braide. Quest'ultimo, produttore di Lana Del Rey, Britney Spears e Kylie Minogue tra le altre, e quindi soggetto ideale per provare ad allargare la sfera di fruibilità di un prodotto, scrive con lui già in The Velvet Trail del 2015 e lo affianca anche in un inedito molto radiofonico che fa da apripista alla raccolta Hits And Pieces due anni più tardi.

E siccome i risultati di vendita sono soddisfacenti e la critica benevola, perché ai media British piace l'idea di un Almond in pace con il mondo e capace di intrattenere il pubblico di prima mattina nei salotti della Bbc davanti a una buona tazza di tè, dopo il disco di cover, si arriva a questo Chaos And A Dancing Star (2020). Il tutto con la benedizione esplicita della Bmg, che gongola per il ritorno della popstar nelle zone nobili della Uk chart (dopo oltre vent'anni, infatti, Marc firma nuovamente con una major per due album).
Ispirato da una massima contenuta nell'opera di Nietzsche "Così parlò Zarathustra" ("Solo chi ha il caos dentro può generare una stella danzante"), il disco è infarcito di ballad/torch song, etereo in tanti momenti e perfettamente descrittivo dello stato d'animo attuale dell'autore. Narrano le cronache che avrebbe dovuto avere un'impronta in stile prog-rock prima che gli aspetti pop melodici prendessero il sopravvento. E così l'unica traccia di questa iniziale impostazione finisce con l'essere il primo singolo "Lord Of Misrule", che l'ex-Soft Cell ha scritto avendo decisamente in testa l'amico Ian Anderson dei Jethro Tull. La strana coppia funziona alla grande. Sarà pure kitsch, ridondante, tronfia e pacchiana come solo certe cose dei Queen, ma la melodia che ne viene fuori, arricchita da un assolo di chitarra elettrica e il flauto a ricamare un po' ovunque con un lungo outro a sfumare, è una delle vette del disco.
Non mancano vere e proprie torch song, per esempio la riuscita "Black Sunrise" che apre le danze, interpretata da Almond nella sua miglior veste di crooner consumato, melodrammatico e teatrale come solo lui sa essere. Pochi gli episodi uptempo e sempre in modalità easy pop, per esempio il secondo singolo "Slow Burn Love", gioioso e spensierato inno eighties che ci riporta persino a certe cose più leggere degli Style Council. "Giallo", altra ballata assassina in stile gotico, ci rivela invece una passione che ancora non conoscevamo, quella per il cinema thriller/horror italiano degli anni 70. A parte il titolo già sufficientemente evocativo, l'outro finale è chiaramente un omaggio a "Suspiria" e quindi ai Goblin autori della colonna sonora.
Non ci sono riempitivi ("Cherry Tree" potrebbe essere di Kate Bush) e si chiude in gloria con "The Crow's Eyes Have Turned Blue", lunga suite impreziosita da delicati arpeggi di piano e suoni orchestrali, con un finale inedito cadenzato da drum machine e dal gracchiare di un corvo. Una sincera e niente affatto scontata dichiarazione d'amore per la natura e gli animali che arriva da un artista da sempre amante della vita frenetica e caotica delle metropoli e dallo stile di vita non proprio salutista.

Old and wise
e non più ribelle, per sua stessa ammissione, godiamoci questo Almond ancora capace di regalarci emozioni.

Contributi di Marco Bercella ("Stardom Road"), Alessandro Liccardo ("Stranger Things", "Orpheus In Exile: The Songs Of Vadim Kozin" e "Varieté"), Gianfranco Marmoro ("Feasting With Panthers", "Shadows And Reflections","The Tyburn Tree: Dark London", "The Dancing Marquis","The Velvet Trail"), Mauro Caproni ("Chaos And A Dancing Star")

Soft Cell - Marc Almond

Discografia

SOFT CELL

Mutant Moments (Ep, Some Bizzare, 1980)

6,5

Non Stop Erotic Cabaret (Some Bizzare/Vertigo/Phonogram, 1981)

8

Non Stop Ecstatic Dancing (Some Bizzare/Phonogram, 1982)

6,5

The Art of Falling Apart (Some Bizzare/Phonogram, 1983)

7

This Last Night In Sodom (Some Bizzare/Phonogram, 1984)

7

Memorabilia: The Singles (anthology, Mercury/Phonogram, 1991)

6

Cruelty Without Beauty (Cooking Vinyl/Sony Music, 2002)

7

MARC AND THE MAMBAS

Untitled (Some Bizzare/Phonogram, 1983)

6

Torment And Toreros (Some Bizzare/Phonogram, 1983)

8,5

MARC ALMOND

Vermin In Ermine (Some Bizzare/Phonogram, 1984)

5

Tenderness Is A Weakness (Ep, Some Bizzare, 1984)

Stories Of Johnny (Some Bizzare/Virgin, 1985)

5

The House Is Haunted (Ep, Some Bizzare/Virgin, 1986)

Violent Silence (Ep, Virgin, 1986)

Some Songs To Take To The Tomb - Vol. 1 (Ep, Some Bizzare/Virgin, 1986)

Mother Fist... And Her Five Daughters (Some Bizzare/Virgin, 1987)

7

Melancholy Rose (Ep, Some Bizzare/Virgin, 1987)

Singles 1984-1987 (anthology, Some Bizzare/Virgin, 1987)

Flesh Volcano/ Slut (Ep, with Foetus, Some Bizzare, 1987)

7

The Stars We Are (Some Bizzare/Capitol, 1988)

6,5

Jacques (Some Bizzare/Rough Trade, 1989)

Enchanted (Some Bizzare/Capitol, 1990)

5,5

Tenement Symphony (Some Bizzare/Sire/Wea, 1991)

5,5

A Virgin's Tale Vol. I & II (Some Bizzare/Virgin, 1992)

12 Years Of Tears (live, Some Bizzare/Sire/Wea, 1993)

7,5

Absinthe: The French Album (Some Bizzare, 1994)

6

Treasure Box (anthology, Some Bizzare/Emi, 1995)

Fantastic Star (Mercury, 1996)

4,5

Marc Almond & La Magia: Live in Concert (Thirsty Ear, 1998)

Open All Night (Blue Star/Instinct, 1999)

7

Stranger Things (XIII Bis, 2001)

7,5

Heart On Snow (XII Bis, 2003)

7

Stardom Road (Sanctuary, 2007)

6

Orpheus In Exile: The Songs Of Vadim Kozin (Cherry Red Records, 2009)

6,5

Varieté (Strike Force, 2010)

6

The Dancing Marquis (Strike Force, 2014)

6

The Velvet Trail (Strike Force, 2015)

7

Trials Of Eyeliner (box set, Universal Music, 2016)

8

Hits And Pieces: The Best Of Marc Almond And Soft Cell (Universal, 2017)

7,5
Shadows And Reflections (BMG, 2017)

6,5

Chaos And A Dancing Star (Bmg, 2020)

7

MARC ALMOND & MICHAEL CASHMORE
Feasting With Panthers (Cherry Red, 2011)7
Pietra miliare
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