Queen

Queen - Rapsodia in rock

Uno dei fenomeni commerciali più imponenti dell'intera storia del rock, ma anche un facile bersaglio per la critica. Amati e odiati, incensati e vituperati, i Queen hanno coniato un originale ibrido tra le asprezze hard-rock e il pomposo gusto glam, con la straordinaria voce di Freddie Mercury in primo piano. Poi, la deriva verso un bolso pop-rock, fino alla morte del loro leader. Una tragedia che però non ha fermato i superstiti

di Mauro Vecchio

Il concetto che anima i Queen è quello di essere regali e maestosi. Il glamour è parte di noi e vogliamo essere dandy
Freddie Mercury

Siamo abbastanza esagerati, ma in modo niente affatto pericoloso. Non credo che abbiamo mai fatto un grave torto a qualcuno
Brian May

Non penso affatto a quello che succederà quando sarò morto o se mi ricorderanno…proprio non ci penso affatto…riguarda loro. Quando sarò morto a chi importerà? A me no di certo…
Freddie Mercury 

Noi tutti lo rimpiangeremo molto. Insieme ai Queen ha dato un grande contributo alla musica pop
David Bowie


Intro
Il tempo dietro le quinte

Può essere divertente, a volte, osservare il tempo che cambia.
Agli inizi degli anni 70 sono davvero molte le persone che sembrano provare un gusto particolare nel farsi gioco di un gruppo chiamato Queen.
Alcuni, certo, avvistano un sicuro, genuino talento, ma la massa vota a favore di un concetto davvero semplice: i Queen sono pieni di promesse, ma non riusciranno a mantenerle.
Due album, tuttavia, continuano a scalare le classifiche e un terzo (Sheer Heart Attack) si annuncia agguerrito fin dal suo titolo.
Freddie Mercury, stravagante e talentuoso cantante, ha sempre creduto nelle reali possibilità di successo del suo gruppo. I risultati di Queen II sembrano, in fondo, dargli ragione, ma non si tratta soltanto di vendite e classifiche.
Nel 1974 un punto di svolta gira su se stesso e un nuovo singolo con ben due lati A si presenta sul palcoscenico del rock.
“Killer Queen” abbandona lo stilema heavy-metal che ha accompagnato il primo percorso dei quattro, stravolgendolo in nome di un miscuglio irriverente di Beach Boys, novelli Beatles e music-hall da primo dopoguerra. Divertente e raffinato quanto irritante e presuntuoso. La formula magica è, così, trovata. La band, quindi, può permettersi di sorridere, strafottente a tutti gli sforzi verbali dei tanti detrattori.Ed è proprio da un “sorriso” – ironia della vita – che la storia dei Queen ha inizio.

Un sorriso, prima di tutto…

Scartando i regali per il suo settimo compleanno, Brian Harold May (Hampton, 19/07/1947) non riesce a credere ai suoi occhi: una chitarra spagnola a sei corde, la sua prima chitarra.
Passano otto anni, ma la voglia di sognare del ragazzo rimane intatta. Il quindicenne Brian vuole proseguire gli studi per diventare astronomo e, così, si iscrive alla Hampton Grammar School. Tra un manuale e l’altro, tuttavia, c’è tempo per ascoltare i Crickets e gli Everly Brothers perché, in fondo, la sua passione per la musica non si è mai indebolita.
Brian è un adolescente molto dotato e, non avendo i soldi per comprarsi una chitarra elettrica, decide di costruirsene una su misura. Diciotto mesi dopo, quasi tutti i musicisti della scuola osservano meravigliati una chitarra scintillante di nome Red Special che, se suonata con una moneta da sei pence, produce un suono unico nel suo genere.
Elettrizzato, il diciassettenne Brian May sente che è arrivato il momento di mettere su una band e, insieme al cantante/armonicista Tim Staffell, fonda i 1984. Il gruppo propone il suo r&b in giro per piccoli locali, ma la buona tecnica di Brian provoca stupore. Nel maggio 1967, all’Imperial College, i 1984 aprono il concerto di Jimi Hendrix e, a dicembre, partecipano all’evento “Christmas On Earth”, insieme a Traffic, Pink Floyd e T-Rex.
Sono semplici soddisfazioni, perché il gruppo si scioglie, all’alba del nuovo anno, per divergenze artistiche tra i giovani componenti.
Brian May decide, così, di ributtarsi nell’astronomia visto che, nel frattempo, è stato accettato dall’Imperial College di Londra.
Tim Staffell, tuttavia, non ci sta e convince il chitarrista a riprovarci. Nella bacheca del college si può leggere quest’annuncio: “Cercasi batterista stile Ginger Baker/Mitch Mitchell”.

Quando Roger Meddows Taylor (King’s Lynn, 26/07/1949) si trasferisce in Cornovaglia con tutta la sua famiglia, inizia, per la prima volta, ad appassionarsi alla musica.
Ragazzino di appena otto anni, Roger strimpella un rudimentale ukulele, suonando con alcuni amici tipici brani skiffle e maturando un angelico timbro vocale che lo porta, successivamente, a vincere una borsa di studio come corista presso la Cathedral School di Truro.
Nel 1965 Taylor – che, nel frattempo, si è appassionato alle percussioni – diventa il batterista/cantante dei Reaction che, a metà strada tra Dylan e Cream, sono l’attrazione fissa in vari locali della zona. Nell’estate del 1967, tuttavia, Roger viene ammesso alla London Hospital Medical School e decide di lasciare la vecchia band al suo destino, fortemente intenzionato a crearne un’altra.
“Cercasi batterista stile Ginger Baker…”.
Quando Brian May e Tim Staffell si presentano all’appuntamento a Shepherd’s Bush e suonano qualche pezzo accompagnati dai bonghi di Taylor, si convincono subito che lo slanciato biondino è l’uomo che stanno cercando.

La prima apparizione pubblica dei neonati Smile è già di quelle importanti: il 26 ottobre 1968 la “progressive-rock band” di May, Taylor e Staffell apre il concerto dei Pink Floyd, ancora una volta all’Imperial College.
Il gruppo si prende molto sul serio e, nel maggio 1969, firma un contratto con la Mercury Records che prevede la pubblicazione di un singolo.
“Earth/Step On Me” viene pubblicato ad agosto solo negli Stati Uniti, ma non ottiene il successo sperato da tutti, scoraggiando la casa discografica, che non investirà più sul futuro del gruppo. I sogni di gloria degli Smile vanno, così, in fumo e Tim Staffell, stanco e depresso, decide di abbandonare i due compagni. L’unico conforto che resta a Brian e Roger è un nuovo amico, studente d’arte, che apprezza moltissimo la loro musica, incitandoli continuamente con idee spettacolari e stravaganti.

A soli otto anni Farookh Bulsara (Zanzibar, 5/09/1946) deve abbandonare la tranquillità dell’isola di Zanzibar per ritrovarsi, sulla scia degli spostamenti di suo padre, a settanta chilometri da Bombay, dove inizia a frequentare i corsi del collegio inglese St.Peter.
Il piccolo ha un precoce talento artistico e si appassiona particolarmente alle arti figurative e alla musica, cantando in un gruppo attivo solo in ambito scolastico. Terminate le lezioni, Farookh decide di abbandonare il collegio per tornare a vivere con i genitori a Zanzibar, ma, dopo la rivoluzione africana nell’isola, i Bulsara sono costretti nuovamente a trasferirsi, questa volta in Gran Bretagna.
Nel settembre 1966, il ventenne Freddie (così chiamato dagli amici) viene ammesso all’Ealing College of Art e stringe amicizia con Tim Staffell che lo fa entrare nel giro degli Smile. Incuriosito, il ragazzo acquista una chitarra elettrica di seconda mano e inizia a comporre canzoni personali che, dall’estate 1969, propone al suo nuovo gruppo, gli Ibex.
Mentre la band mescola i Beatles con gli Yes, Freddie studia ogni giorno pose sempre più teatrali e trasgressive, fermamente convinto di voler diventare una stella del rock and roll. Gli Ibex, tuttavia, non fanno altro che suonare su e giù per la Gran Bretagna in piccoli club e pub e, alla fine, decidono di trasferirsi a Liverpool. Freddie non è d’accordo, ma tenta ugualmente la vita lungo le sponde del Mersey. Disilluso, fa ritorno a Londra a settembre. Quello che gli rimane, ora, è la bancarella d’abbigliamento aperta al Kensington Market insieme a Roger Taylor e la sua bravura come disegnatore. Nulla, visto che l’unica cosa che Freddie vuole è emergere come uomo da palcoscenico.

All’inizio del 1970, Freddie Bulsara, Brian May e Roger Taylor decidono di unire i loro talenti e mettere in piedi una band nuova di zecca.
E’ il 27 giugno: completati dal bassista Mike Grose, i Queen salgono, per la prima volta insieme, sul piccolo palco del municipio di Truro per un concerto di beneficenza per la croce rossa.
Freddie, sicuro del suo radioso futuro, si presenta al pubblico non più come Bulsara, ma come Mercury, messaggero degli dei.
I Queen, in concerto nella sala conferenze dell’Imperial College, hanno uno stile visivo particolare, con sgargianti abiti di seta in bianco e nero, bracciali, anelli e collari.
La band, tuttavia, deve fare i conti con l’abbandono di Grose e, successivamente, di Barry Mitchell che, nonostante l’esibizione al tempio rock del Marquee Club, non crede in un decollo artistico e commerciale. Scoraggiati, i tre si mettono alla ricerca di un bassista per stabilire una seria, definitiva line-up.

John Richard Deacon (Leicester, 19/08/1951) cresce, timido e tranquillo, con una grande passione per i piccoli lavoretti di elettronica.
Ammiratore dei Beatles, decide di imparare a suonare la chitarra e, a quattordici anni, fonda il suo primo gruppo, gli Opposition, proponendo un mix di pop e soul Motown. La band gira l’Inghilterra, ma si scioglie quando John, alla fine del 1969, si iscrive al Chelsea College di Londra, abbandonando la musica in favore dei più “redditizi” studi.
Una sera, all’inizio del 1971, Deacon si trova in discoteca con amici quando incontra Taylor e May che gli propongono un’audizione per il posto fisso di bassista. L’incontro avviene qualche giorno dopo in una sala conferenze dell’Imperial College.
E’ la fine di febbraio: John Deacon è, ufficialmente, il quarto e ultimo membro dei Queen.

La regina bianca e nera in marcia…

Nella primavera del 1971, i Queen, risolto il problema-bassista, iniziano a fare sul serio, dedicandosi anima e corpo a intense sedute di prova.
La band ha fame di palcoscenico e, così, Roger Taylor organizza un breve tour nella sua Cornovaglia, nel tentativo di stimolare ulteriormente l’agognato salto di qualità. Gli attesi ingaggi, tuttavia, non arrivano e i quattro cominciano a disperare: la celebrità è, per il momento, una creatura sfuggente.
A settembre un vecchio amico di May, Terry Yeadon, offre ai Queen la possibilità di registrare gratuitamente nei nuovi studi De Lane Lea che, in fase di costruzione, hanno bisogno di musicisti che provino le apparecchiature installate.
La band non se lo fa ripetere e ne approfitta per registrare alcuni brani originali, attirando l’attenzione del produttore John Anthony e di Roy Thomas Baker, collaboratore della Trident Audio Productions, agenzia di management di Norman e Barry Sheffield.
John e Roy sono entusiasti dei nastri e convincono la Trident a mettere sotto contratto i Queen, con la supervisione del manager americano Jack Nelson.
I ragazzi, ora, sono circondati da persone competenti che hanno fiducia in loro. Nonostante il gruppo sia privo di casa discografica, la Trident, nell’estate 1972, decide di spedirlo nei suoi studi di registrazione per iniziare a lavorare al primo album.
Nel gennaio 1973 il lavoro è finito, ma ancora nessuna etichetta si è fatta avanti per stamparlo e distribuirlo. La scommessa non sembra dare i frutti sperati.
A convincersi, alla fine, è la Emi che, a marzo, firma il primo contratto d’incisione dei Queen per il mercato britannico ed europeo.
May e soci non possono far altro che sorridere e, senza perdere tempo, scelgono, come primo singolo, “Keep Yourself Alive”, che viene pubblicato a luglio, ottenendo recensioni favorevoli, ma scarsissimi passaggi radiofonici.

QueenProdotto da John Anthony e Roy Thomas Baker, Queen (Emi, 1973) è un aspro album d’esordio, fotografia nebulosa della lenta scalata del gruppo verso il successo. I Queen tentano di creare un sound vigoroso, dinamico, duro e, soprattutto, mettono in chiaro che questo è frutto della sola abilità strumentale: “Niente sintetizzatori”, recita il retro di copertina.
Il singolo “Keep Yourself Alive” e la sarabanda di “Liar” sono, così, canzoni-manifesto che si arrampicano su un hard-rock melodico, intriso di effetti chitarristici e progressioni corali da operetta. E’ il gusto glam, memore della lezione aliena di David Bowie e del mondo incantato di Marc Bolan, che colora il tono musicale del disco come nell’architettura di voci che si librano sopra “May Fairy King”.
Queen è un disco a tratti barocco, ridondante come un predicatore televisivo. Il grezzo cristallo hard dei Deep Purple viene, così, eccessivamente affinato: “Great King Rat” scarica una quantità industriale di effetti per esprimere pochi, elementari concetti. Brian May gigioneggia con la chitarra flamenco della ballad “The Night Comes Down”, ma i risultati più coerenti li porta a casa quando abbassa i toni, semplificandosi la vita. La tirata deriva sabbathiana di “Modern Times Rock And Roll” e il riff pachidermico di “Son And Daughter”, per quanto prive d’originalità, sono almeno positive scariche d’adrenalina sonora.
Meglio, invece, quando Mercury prende per mano i suoi compari e mette in piedi il marziale recital per coro di “Jesus”. Il sound dei Queen si fa interessante proprio nel momento in cui abbandona i triti stilemi della musica “tosta” per una più ariosa apertura. Le idee, certo, sono ancora un po’ confuse, ma la ballata agrodolce “Doin’ Alright” e la breve fuga strumentale “Seven Seas of Rhye” dimostrano che la band ha intriganti potenzialità compositive.

Con un album alle spalle, i Queen si lasciano andare a prevedibili entusiasmi e, in agosto, tornano negli studi Trident per iniziare a dare forma a nuove idee musicali.
La fama della band cresce lentamente, germogliando negli Stati Uniti a settembre quando la Elektra Records pubblica Queen, che entra nelle classifiche di Billboard fino a raggiungere l’insperato ottantatreesimo posto.
L’euforia, si sa, va cavalcata prontamente: il 12 novembre, sul palco della Leeds Town Hall, May e soci danno il via, come gruppo-spalla fisso, al lungo tour britannico dei Mott The Hoople. Il popolo di Ian Hunter applaude, sera dopo sera, una band sempre più sicura di se stessa che, alla fine, riesce a portare a casa un crescente numero di nuovi fan.
Il successo di pubblico è, quindi, notevole, ma non basta a frenare l’ostilità della stampa di settore, che continua a ignorare la musica dei Queen, bollandola come “banale rock da supermercato”.

Nel gennaio 1974 i Queen, “migliori sconosciuti della Gran Bretagna” secondo Sounds, organizzano una breve trasferta in Australia.
La band suona per due sere consecutive al Festival di Sunbury, ma Mercury ha problemi d’udito e May non riesce a suonare bene la chitarra per un forte dolore al braccio. Il pubblico australiano non è affatto tenero e sfoga sui quattro una sorta di rabbia anti-inglese che provoca il fallimento della piccola impresa, con il gruppo costretto a tornare in patria con la coda tra le gambe.
Una grande rivincita, tuttavia, è appena dietro l’angolo: il 21 febbraio, a Top Of The Pops, i Queen propongono dal vivo un brano ancora inedito, “Seven Seas Of Rhye”.
Un secondo singolo - arricchimento del breve strumentale presente su Queen - viene, così, pubblicato e, questa volta, arriva il tanto atteso botto.
Il brano viene trasmesso in continuazione dalle stazioni radiofoniche, balzando al quarantacinquesimo posto nelle classifiche inglesi di marzo.
L’Nme scrive: “Il singolo mostra la grande potenza e brillantezza del gruppo, la sua abilità compositiva e tutte le altre qualità così particolari”.
L’entusiasmo generale è alle stelle: dopo una lunga attesa, anche il nuovo album è pronto per la pubblicazione.

Diviso in “lato bianco” e “lato nero”, Queen II (Emi, 1974) sviluppa ulteriormente le idee ambiziose dei Queen che rafforzano un’identità sia visiva che musicale.
L’entrata pomposa della marcia regale per chitarra di “Procession” tradisce, in maniera evidente, la predisposizione di May al compiacimento strumentale, abile e ridondante allo stesso tempo. La musica del quartetto balla proprio sul filo di questo delicato equilibrio, espresso qui da una sorta di manicheismo cromatico, dove i due volti della regina sono incarnati da due differenti approcci sonori.
Da un lato, infatti, c’è una forte luce bianca che irradia la tenera ballad ipnotica “White Queen (As It Began)” e lo stornello elettro-acustico di “Someday One Day”. E’, fondamentalmente, il lavoro chitarristico di Brian May che tesse, effetto dopo effetto, un sound più consapevole: la progressione hard-melodica di “Father To Son” è, questa volta, più grintosa e meno confusa. Dall’altro lato, invece, la personalità eccentrica e tragica di Mercury getta come un’ombra sulle architetture musicali del gruppo. “The March Of The Black Queen” è la processione corale che meglio fonde i vari tasselli del mosaico, tra scorribande hard e un pop inquietante al gusto glam, che conferisce al disco un tono magniloquente e barocco. “The Fairy Fellers Masterstroke” è un melodramma sperimental-progressivo con tanto di clavicembalo, caotico e affascinante allo stesso tempo, soprattutto quando sfocia nel più sobrio e dolce minuto per piano di “Nevermore”.
I Queen stanno creando, in sostanza, un marchio di fabbrica riconoscibile, ma ancora riescono a perdersi nel turbinio delle idee, come nel rock and roll singhiozzante di “The Loser In The End” o nel tambureggiare pop di “Funny How Love Is”. Eppure la voce belluina di Mercury trascina il fragore epico di “Ogre Battle” e si incastra alla perfezione con il riff tagliente e il piano della hit “Seven Seas Of Rhye”.
Schizofrenico e umbratile, Queen II è il passo in avanti di una band che sta trovando se stessa.

Mentre i Queen vengono trionfalmente accolti al Palace Lido dell’isola di Man, il secondo album scala velocemente le classifiche inglesi, piazzandosi sorprendentemente al settimo posto. L’eco della band inizia, così, a fare il giro del mondo: a marzo la Elektra pubblica Queen in Giappone, dove suscita un tale entusiasmo da apparire in classifica nel giro di pochi giorni.
Il tour nazionale si chiude con un prestigioso tutto esaurito al Rainbow Theatre di Londra, mandando in visibilio una platea che chiede ben due bis.
Mercury  e soci sanno che non possono fermarsi proprio ora e, senza tregua, si preparano all’imminente tour americano come spalla dei Mott The Hoople.
L’esordio è, in aprile, al Regis College di Denver, ma una grave forma di epatite colpisce Brian May e costringe la band ad annullare le rimanenti date.
Il chitarrista deve restare a riposo per un bel po’, ma ne approfitta per lavorare con calma ad alcuni nuovi pezzi destinati al prossimo album, le cui registrazioni inizieranno a luglio ai Rockfield Studios nel Galles e, successivamente, ai soliti Trident di Londra.
A settembre Queen II supera le centomila copie vendute, divenendo disco d’argento. Nonostante il forzato stop live, la band gode di una considerazione sempre crescente, smentendo nettamente le fosche previsioni della stampa musicale.
Con due facciate A, il terzo singolo “Killer Queen/Flick Of The Wrist” ottiene un successo enorme, trasformandosi nel primo, vero hit dei Queen.
Le recensioni sono entusiastiche e spingono il gruppo ad affrettare i preparativi per un nuovo tour inglese, registrando, per l’occasione, una versione elettrica dell’inno nazionale, da usare come enfatica conclusione di tutti i concerti.
Dopo quest’ultimo ritocco alla loro identità regale, i quattro sono, ormai, pronti a conquistare la vetta dell’olimpo del rock, partendo dalla pubblicazione, a novembre, del terzo album ufficiale.

In Sheer Heart Attack (Emi, 1974) la fusione dei generi cari ai Queen si fa più concisa, strizzando l’occhio a una maggiore orecchiabilità.Lo stile musicale della band è, ora, più definito e coraggioso e l’iniziale formula ibrida sembra trovare un’identità più sentita e personale.
Emblematico, così, il singolo “Killer Queen”, che tradisce, tra cori da vaudeville e una chitarra al limite del pacchiano, la direzione sonora che può dare al gruppo la gloria commerciale. E’ una gustosa scommessa artistica che passa per l’ascensione progressiva delle stridule voci angeliche di “In The Lap Of The Gods” o per il melodrammatico finale di “In The Lap Of The Gods… Revisited”, che sale, pirotecnico, tra cori da stadio e chitarre solenni.E’ vero, tuttavia, che i Queen non sanno rinunciare alle loro accelerazioni furenti, trascinati dal riffone heavy-metal di “Stone Cold Crazy” e dal boogie ad alta velocità di “Now I’m Here”. Brian May, in effetti, continua con la sua trasformazione in “guitar hero”, guidando la melodia hard del mini tour de force per echoplex di “Brighton Rock”.
Il “lato bianco della regina” vira verso la ballad marziale di “Tenement Funster”, giocando con riverberi elettro-acustici à-laTommy” che rimbalzano nella sinfonica “She Makes Me”. Anche in Sheer Heart Attack, quindi, si può notare una sorta di approccio manicheo, con il lato oscuro di Mercury a scaraventare l’ascoltatore in una tenera dimensione da incubo. L’eccesso teatrale ama entrare in scena in pompa magna, come nella progressione di “Flick Of The Wrist”, che balla sull’equilibrio tra morbidezze pop e inquietudini rock.
E’ la sensibile anima di un mostro rifiutato da tutti che, come in un romanzo ottocentesco, parla con la voce salmodiante della tenerezza per piano di “Lily Of The Valley” e piange, in solitudine, la lacrima gospel di “Dear Friends”. Come nella vita, il dramma può trasformarsi in gioia improvvisa e, allora, “Misfire” porta la sua allegria zingaresca da spiaggia a cui si accoda il deja-vu anni 30 di  “Bring Back That Leroy Brown”.
Il senso di tutto questo, certo, appare nuovamente ridondante e, a tratti, fuori luogo, ma l’album è ben fatto e dimostra chiaramente che i Queen hanno intenzione di rimanere a lungo sulle scene del loro teatro musicale.

Pubblicato Sheer Heart Attack, i Queen intraprendono un clamoroso tour europeo, registrando un’ininterrotta serie di tutto esaurito.
La loro platea è in visibilio e le vendite dei dischi continuano a lievitare: a fine dicembre su Music Week appare un articolo intitolato “I Queen conquistano l’Europa”.
I quattro, in realtà, si sono definitivamente affermati anche negli Stati Uniti dove sia il singolo “Killer Queen” sia il terzo album hanno raggiunto la top ten delle classifiche.
E’ il 31 gennaio 1975 quando inizia una nuova trasferta americana per la band, questa volta unica e sola attrazione. L’avventura oltreoceano, tuttavia, viene ancora una volta rovinata, perché Mercury ha problemi di gola che lo costringono ad annullare molte delle date in programma.
I Queen ripiegano, così, in terra nipponica dove vengono accolti, in aprile, come autentiche rockstar al Budokan di Tokyo, all’insegna di un’isteria collettiva che non si sente dai tempi dei Beatles. Le urla delle ragazzine giapponesi che coprono completamente la musica sul palco sono il segnale definitivo: la marcia della regina bianca e nera ha vinto la battaglia per il regno.

Di giorno alle corse, di notte all’opera

L’assegnazione a Mercury del prestigioso premio Ivor Novello spinge i Queen a rimettersi al lavoro per la preparazione del quarto album.
Brian May continua gli esperimenti sonori con la sua Red Special, dando forma, nell’estate del 1975, a canzoni nuove di zecca.
Nel frattempo, la band abbandona la Trident dopo alcuni dissapori finanziari, rendendosi libera di trattare senza intermediari con Emi ed Elektra, con la supervisione di John Reid. Il nuovo manager resta di sasso quando il gruppo gli presenta, in ottobre, il brano che intende utilizzare come nuovo singolo, quasi sei minuti di musica simil-operistica dal titolo di “Bohemian Rhapsody”.
Reid spiega che non è possibile pubblicare a 45 giri una canzone tanto lunga, ma i quattro sono inamovibili e rifiutano la proposta di tagliarla.
Taylor è amico del dj Kenny Everett e, a titolo personale, gli passa una copia promozionale del vinile chiedendogli espressamente di non passarlo per radio. Everett, ovviamente, cede alla tentazione di proporlo ai suoi ascoltatori e fa letteralmente saltare in aria le sue linee telefoniche.
Il 31 ottobre 1975 viene pubblicato “Bohemian Rhapsody” e il mondo musicale inglese subisce un fortissimo scossone.
Un inizio in stile ballata malinconica sfocia in un tripudio di sovrincisioni operistiche per poi concludersi su tonanti cadenze di rock duro: per alcuni straordinario, per altri assolutamente disgustoso. La stampa si divide, ma, in generale, è concorde nell’affermare che il pezzo è troppo lungo e che non diventerà mai un hit. Non di questo avviso le stazioni radio inglesi, che passano continuamente il brano dall’inizio alla fine.Intuite, quindi, le grandissime potenzialità del nuovo singolo, i Queen contattano il regista Bruce Gowers con l’intento di associare alla canzone un filmato promozionale da trasmettere in televisione. La costosa idea viene prontamente realizzata e, il 20 novembre, Top Of The Pops ospita la prima del filmato di “Bo Rap” che, secondo alcuni, è il big bang di tutti i futuri video musicali. Effetto: nel giro di due settimane il singolo vende più di 150mila copie, regalando alla band il primo numero uno nelle classifiche inglesi e anticipando trionfalmente l’uscita del nuovo disco.

QueenFrutto di una produzione maniacale, A Night At The Opera (Emi, 1975) oltrepassa senza remore l’ambiziosa linea sonora di Sheer Heart Attack e si afferma come la creatura più riuscita dei Queen.
Il sapore agrodolce di “Killer Queen” viene, così, spalmato su un intero disco, che percorre la via meticcia figlia di padre rock e madre opera lirica.
Dodici brani slegati si rincorrono per dare forma a qualcosa di unico nel suo genere, una messa in scena che ricalchi, al limite dell’oltraggioso, l’antico teatro musicale dell’operetta. Laddove “Tommy” insegue una magistrale ariosità sinfonica e Brian Wilson dirige la sua orchestra mentale, A Night At The Opera sembra accettare l’impossibilità del paragone e dedicarsi principalmente all’ironia, alla parodia. Solo in questo modo l’album diventa il capolavoro dei quattro, che riescono a far funzionare arrangiamenti gonfi e saturi di segni musicalmente persino contraddittori. Vizi e virtù si concentrano nel definitivo pastiche della band che mette insieme quattro teste per quattro ispirazioni.
E la formula ibrida funziona con un generale ammorbidimento dei toni, in nome di quello che può ora essere chiamato davvero “Queen style”. L’acido tuono hard di “Death On Two Legs”, infatti, serve soltanto per dare il via allo spettacolo, nel modo più fragoroso e imponente. Mercury è sempre più regina del castello e la sua voce dolce e amara ha bisogno di architetture sonore sempre più complesse. Parte del merito va all’astuto Roy Baker che gioca continuamente tra effetti e cori, accompagnati dalla chitarra cromatica e clownesca di May nel vaudeville “Lazing On A Sunday Afternoon”. La fama dei Marx si trasforma, qui, in una serie di sketch tra la farsa e la tragedia, con l’approccio quasi infantile della filastrocca jazzata per ukulele di “Good Company” ribaltato nella marcia epica della mini-suite “The Prophet’s Song”, che fa volteggiare ritmi hard e cori gregoriani quasi fosse una “My God” ancora più teatrale.
L’orecchiabilità di “Sheer Heart Attack” subisce una nuova metamorfosi nelle scenette pop di “I’m In Love With My Car” e “You’re My Best Friend”, dove piano e chitarra cullano voce e cori nella maniera migliore. La strada dell’hard, glam and roll di “Sweet Lady” cede, quindi, progressivamente il passo alla tenerezza lirica strappalacrime di “Love Of My Life” o al corale acquerello acustico di “39”.
A Night At The Opera è tutta la gustosa parodia irritante di “Seaside Rendezvous” che crea una nuova, discutibile forma d’arte incoronata dal tripudio “Bohemian Rhapsody”, tonante collage zappiano per frammenti di musica antica e moderna.
Lo spettacolo finisce e “dio salvi la regina”. Come disse Jimi Hendrix.

A Night At The Opera realizza il melodrammatico sogno musicale dei Queen che vivono, così, un periodo di grandissima euforia. L'album procede spedito in una marcia inarrestabile, diventando disco di platino e rimanendo per ben cinquantasei settimane nelle classifiche degli Stati Uniti. Fra il 29 novembre e il 2 dicembre, quattro serate di tutto esaurito all’Hammersmith Odeon di Londra portano i quattro definitivamente in cima al mondo.

All’inizio del 1976 i Queen partono per un nuovo tour americano e, questa volta, tutto fila liscio, a partire dall’accoglienza trionfale nel Connecticut fino a cinque pienoni al Santa Monica Civic Auditorium di Los Angeles. La pomposità teatrale del nuovo disco viene esaltata sui palchi di Giappone e Australia, rimarcata dalla pubblicazione, a giugno, del sesto singolo “You’re My Best Friend”.
La band decide, quindi, di cavalcare il clamoroso successo, preparandosi a nuove, lunghe ore di lavoro in studio per realizzare il disco successivo.
May e soci, tuttavia, sentono il bisogno di ringraziare tutti i loro calorosi fan e, il 18 settembre, mettono in piedi un monumentale spettacolo gratuito a Hyde Park a cui assistono oltre duecentomila persone.

A metà ottobre il nuovo album è pronto e, come primo singolo, viene scelta la ballata “Somebody To Love” che, ancora una volta, viene trasmessa a ripetizione dal dj Kenny Everett. Il risultato non è dissimile da quello di “Bohemian Rhapsody”: le linee telefoniche impazziscono e il pezzo raggiunge la vetta della classifica nonostante sia ancora inedito su vinile. “Somebody To Love” esce nei negozi il 12 novembre - accompagnata da un nuovo video promozionale di Bruce Gowers – e prepara la festa natalizia della band con un altro album divoratore di classifiche.

A Day At The Races (Emi, 1976), minuziosamente prodotto e arrangiato, si accomoda sul morbido divano sonoro del suo prestigioso predecessore.
La quasi identica copertina e il titolo “rubato” ai Marx sono i primi segni visivi di una specularità gemellare, solennemente trascinata da un pomposo intro da tempio giapponese. La regina ha bisogno di un nuovo palco e, conseguentemente, di una nuova storia da raccontare con il solito, agrodolce canovaccio.
Il verbo riffoso dell’hard-metal di “Tie Your Mother Down” si presenta, così, per stupire e galvanizzare un pubblico sicuramente affezionato. Mercury è, ormai, uno showman travolgente e la sua voce sembra perfettamente consapevole di poter far ridere o piangere, accompagnata dal piano liturgico di “You Take My Breath Away”. Lo stile-Queen passa nuovamente per il sentiero del dramma lirico, della canzonetta rivisitata, ma la sensazione che si ha è che la band stia leggermente speculando sul recentissimo passato.L’ironia sensazionale di A Night At The Opera non riesce a ritrovarsi in questo disco che insegue un quadro unitario trovando, invece, un semplice insieme di canzoni. Come confermano la cartolina ricordo del pop californiano di “Long Away” e i soliti cori compiaciuti del martellare pop-boogie di “You And I”. L’effetto parodistico scema e la verve da music-hall demenziale sopravvive soltanto nel carosello vaudeville di “Good Old Fashioned Lover Boy”.
Non si parla di brani blandi o raffazzonati, ma del fatto che, mentre A Night At The Opera celava con astuzia la sua bieca vanità, A Day At The Races supera il limite dell’oltraggio al pudore, come nella giravolta nostalgica per piano e chitarra barocca di “The Millionaire Waltz”. La formula heavy simil-epica di “White Man” sa molto di già sentito e, allora, ai Queen non resta che sfoderare l’arma segreta della ballata luccicante. “Somebody To Love” è, effettivamente, un capolavoro, scalata melodica di una perfetta architettura gospel con la voce di Mercury che sale letteralmente nel cielo della musica pop-rock. Qui l’album trova tutto il suo perché, portato a termine dalla efficace sarabanda corale di “Teo Torriatte”.L’intro solenne torna, circolare e la regina esce nuovamente di scena. Lo spettacolo è stato gradevole, ma preoccupano (?) gli stilemi in cui i Queen si stanno impantanando.

Campioni del rock

Il 1977 è l’anno di fuoco del punk che, riscrivendo completamente il vecchio concetto di pop sound, rivoluziona la scena musicale inglese. Centinaia di giovani incazzati cominciano a seguire band come i Sex Pistols, imitandone l’immagine fatta di catene, giubbotti strappati, capelli dritti in testa e scarponcini Doc Marten’s.
Suoni sempre più aspri e disperati vengono sparati a cento all’ora, seppellendo sotto una coltre di vomito il morituro rock marca seventies, incarnato da vere e proprie cariatidi come i Led Zeppelin, gli Who e, quindi, i Queen.
Londra sta bruciando e, quando la Emi decide di pubblicare un Ep con “Death On Two Legs” e altri tre brani già sentiti, la rivista musicale Sounds scrive: “Vien proprio voglia di mettersi una di quelle magliette con la scritta Art Rock Sucks. Al rogo, al rogo!”.
Il cielo sopra i quattro, insomma, non è dei più sereni, ma una quantità ormai spropositata di appassionati sembra non curarsene affatto.
I Queen hanno dalla loro parte l’amore incondizionato del pubblico che, proprio nel 1977, colpisce definitivamente al cuore gli Stati Uniti.
Un nuovo, lungo tour nordamericano parte a gennaio dal Milwaukee Auditorium e trionfa davanti ad un Madison Square Garden pieno in ogni ordine di posti.
Gli spettacoli della band sono sempre più lunghi e coreografici, con il ghiaccio secco e i giochi di luce a dominare la parte operistica sovrincisa di “Bohemian Rhapsody”. E’ il tripudio dell’art-rock tra le stesse fiamme del punk.
I tutto esaurito si susseguono senza soluzione di continuità, trasferendosi, a maggio, in Europa. I Queen concludono in pompa magna con due concerti di fila all’Earls Court di Londra, dove una enorme corona luminosa viene sollevata dal palco sulle note iniziali di “Procession”.

La regina sta vivendo la sua età dell’oro così, nei mesi successivi, si chiude nuovamente in studio per lavorare alacremente al nuovo album.
Il 7 ottobre viene pubblicato il nuovo singolo “We Are The Champions”, insieme alla robusta “We Will Rock You”. I due inni si completano a vicenda – entrambi di grandissima potenzialità radiofonica – e convincono la Elektra a pubblicare il singolo negli Stati Uniti con due lati A.
In barba alle disgustate recensioni della stampa, il singolo si piazza al secondo posto sia nelle classifiche inglesi che in quelle americane di Billboard, diventando il 45 giri di maggior successo nella storia dell’Elektra Records, con oltre due milioni di copie vendute e 27 settimane di presenza in classifica.
I quattro sembrano, ormai, divertirsi a frantumare ogni record, gonfiando l’ego collettivo a partire proprio dalla pubblicazione del nuovo album.

Se A Day At The Races buttava l’orecchio sul riuscito compito del suo compagno di banco, News Of The World (Emi, 1977) specula sull’immagine stessa della band.
I Queen, dopo il sold-out del Madison Square Garden, hanno conquistato il loro trono tra le nuvole dell’Olimpo del rock and roll e, strettamente protetti dalla pubblica acclamazione, gustano una piacevole sensazione di potenza. Ignorando tutte le recensioni al vetriolo, i quattro procedono con una auto-celebrazione di dubbio gusto che, tuttavia, cava dal cilindro i due brani che li consegneranno alla storia.
L’inno nazionale della tribù di “We Will Rock You” si fonde con “We Are The Champions”, ballata agrodolce che si sfoga con un ritornello epico su una melodica chitarra hard. Volendo, insomma, si può tranquillamente esagerare e i Queen esagerano, alzando la corona al cielo in segno di sfida.
Peccato che, nel 1977, molti tendano lo sguardo da tutt’altra parte e che stiamo parlando di una cariatide da museo delle cere.
E qui, feriti nel regale orgoglio, May e soci esagerano doppiamente: il rock and roll sparato di "Sheer Heart Attack" dovrebbe essere una sorta di risposta al nuovo pubblico dei punk, ma, in realtà, sembra soltanto una versione lusso dei Sex Pistols. La sconfitta è dietro l’angolo e, allora, meglio ripiegare sul più classico stile-Queen. La vena pomposa e melodrammatica ritorna, così, sulle note classicheggianti della sonata per piano “All Dead All Dead” e, soprattutto, nell’ariosità pop della voce di Mercury in “Spread Your Wings”.
L’album, tuttavia, non pare del tutto convinto. L’andamento danzereccio dello pseudo-funky di “Fight From The Inside” indica quasi una nuova direzione che speriamo non sia quella di “Get Down Make Love”, irritante balbettio infarcito di effetti elettronici privi di senso.
La verità, forse, è che questi nuovi “campioni del rock” faticano a trovare idee veramente originali, aggrappandosi alla melodia calypso-flamenco di “Who Needs You” e al solito riff hard-pop di “It’s Late”.
Freddie Mercury, baffuta Liza Minnelli, chiude la triste dolcezza di “My Melancholy Blues”, ma questo jazz da rat pack starebbe meglio sul palco di un teatro che in questo egocentrico album.

A novembre - evento decisamente fuori dall’ordinario - i Queen ripartono alla volta degli Stati Uniti per un secondo tour dell’annata. E’, infatti, proprio in terra nordamericana che News Of The World naviga a gonfie vele verso il disco di platino. Il primo show è a Portland, aperto dall’inno aggressivo “We Will Rock You”, con Roger Taylor a esordire come voce solista per “I’m In Love With My Car” e Mercury a cantare, insieme al pubblico, la dolce ballata “Love Of My Life”.
La band, insomma, continua a cucirsi addosso una maestosa identità, spettacolo dopo spettacolo.

Il 1978 si apre tranquillo per i quattro che, su consiglio del management, decidono di prendersi un primo anno di vacanza finanziaria al di fuori del territorio legale britannico.
Il 9 aprile parte, da Stoccolma, un nuovo tour europeo che si conclude trionfalmente in patria con un referendum tra i lettori del “Daily Mail”, che elegge i Queen “miglior gruppo rock”.
Galvanizzati, come al solito, dagli entusiasmi popolari, May e soci si trasferiscono in Svizzera e Francia per occuparsi dell’ormai immancabile album dell’anno.
In quei giorni Nizza viene attraversata dal Tour de France e il passaggio dei ciclisti dona a Mercury l’idea per “Bicycle Race”, che viene pubblicato, insieme al secondo lato A “Fat Bottomed Girls”, ad ottobre.
La stampa è prevedibilmente aspra, ma, altrettanto prevedibilmente, il singolo si guadagna un solido undicesimo posto nelle classifiche inglesi.
I Queen sembrano una macchina inarrestabile, volando per l’ennesima volta negli Stati Uniti per iniziare l’ennesimo tour al Dallas Convention Centre.

Con Jazz (Emi, 1978) la band torna al lavoro insieme a Roy Thomas Baker, produttore del successo magniloquente della “notte all’opera”.
Il gusto ironico e parodistico di quell’album, tuttavia, trova ora soltanto un timido sfogo tra i campanelli impazziti dello sketch demenziale di “Bycicle Race”.
Incoronatisi “campioni”, i Queen continuano a marciare su uno stile ormai consolidato, quasi sfociando nella non altrettanto esaltante parodia di se stessi.
Una chitarra al limite dell’hard-blues guida “Fat Bottomed Girls” che, infarcita dai soliti cori a cappella, riesce solo nell’intento di stamparsi nella mente dell’ascoltatore.
Inizia, cioè, a mancare l’effetto-sorpresa e i quattro sembrano più presi dalla smania di pubblicare forzatamente un disco all’anno che da un oculato raziocinio nel selezionare i loro brani. Qualcosa funziona come al solito e qualcosa inizia a non andare.
C’è la classica ballata per piano che piange in “Jealousy” e il vizioso vaudeville da music-hall di “Dreamers Ball”. C’è l’irresistibile pop supersonico di “Don’t Stop Me Now”. Fin qui c’è il gruppo, l’estetica musicale dei Queen.
Ad un tratto, invece, entra in scena l’egocentrica regina, che conta ogni giorno quanti nuovi ragazzini del rock si sono piegati al suo volere. Mercury, novello muezzin, richiama i fedeli a raccolta in “Mustapha”, su una chitarra orientale di dubbio gusto che spande la sua eco in un orrendo pop ballabile. Non si sa ancora bene se questa sarà la futura strada dei Queen perché Jazz pare anche divertirsi a rimettere le dita nella presa della corrente.
La vecchia verve elettrica si riaffaccia nelle serpentine hard-pop-rock and roll di “Let Me Entertain You” e “Dead On Time”, ma i tuoni e fulmini finali non trovano corrispondenza né nel mieloso romanticismo acustico di “Leaving Home Ain’t Easy” né nello scipito funky sintetico di “Fun It”.
La marcia della regina, insomma, inizia leggermente a zoppicare.

Jazz non viene accolto con molto fervore dalla critica di settore, che non risparmia critiche spietate. L’Nme arriva a scrivere: “Dimentichiamo al più presto questi Gilbert & Sullivan di terz’ordine. Un disco perfetto da regalare per Natale a qualche parente sordo”.
Il pubblico, invece, riserva all’album la consueta accoglienza entusiastica, lanciandolo subito al numero due della classifica, da cui uscirà dopo ben ventisette settimane di presenza ininterrotta. Ancora una volta è l’immensa popolarità acquisita a fare la parte del leone e a salvare i Queen da gocciolanti insulti generali.

Il 12 gennaio 1979 May e soci ritornano “on the road”, per affrontare il più importante tour europeo della loro storia con ventisette concerti a partire da Amburgo.
La scalata commerciale del nuovo singolo “Don’t Stop Me Now” spande l’eco della tournée e convince la casa discografica a investire in nuove apparecchiature con l’intento di pubblicare un album dal vivo.
E’, per i quattro, un nuovo momento magico, suggellato dall’offerta ipotetica del produttore italiano Dino De Laurentiis di comporre le musiche per un imminente film basato sull’eroe dei fumetti Flash Gordon.
I Queen, tuttavia, rimangono concentrati sui loro pomposi spettacoli che sbarcano al Budokan di Tokyo ad aprile, dove una folla isterica si dimena sulle note nipponiche di “Teo Torriatte”. E’ un delirio generale che mostra al mondo che, ormai, i concerti della band sono autentici eventi con milioni di fan in coda per accaparrarsi anche un solo biglietto.

Queen - Freddie MercuryPrimo disco doppio dal vivo della band, Live Killers (Emi, 1979) non è soltanto l’impetuosa audio-guida del tambureggiante tour europeo del 1979, ma anche il testamento ultimo di tutta la sua produzione negli anni 70. Le ventidue tracce sono scelte con cura e riescono nell’intento (non certo arduo) di mostrare in chiave supersonica tutta la maestosa regalità del gruppo sul palco.
Freddie Mercury, showman tra i più brillanti e travolgenti in circolazione, è la voce e il cuore dell’impero pop dei Queen e i suoi sudditi sembrano più fedeli che mai quando “Love Of My Life” viene intonata all’unisono, dolce dichiarazione d’amore collettiva. E’ il lato deforme e kitsch del mostro “dell’opera” che schiocca le dita su “Killer Queen” prima di impazzire nella trionfale demenza di “Bohemian Rhapsody” e celarsi dietro il sipario eccessivo di “God Save The Queen”.
E poi c’è la vecchia corrente elettrica, le scariche adrenaliniche guidate dal folletto clownesco Brian May, che lancia la sua chitarra rossa nella versione atomica di “We Will Rock You” e nelle derive torrenziali di “Brighton Rock” e “Tie Your Mother Down”.
Tra il fervore hard-rock di “Keep Yourself Alive” e l’animo pop di “Don’t Stop Me Now”, Live Killers è un utile ripasso degli hit, sommità dell’irresistibile dubbio gusto dei Queen. Nuovi giochi e grandi classici Live Killers ottiene - sorprendentemente - qualche plauso dalla critica, piazzandosi - meno sorprendentemente - al terzo posto delle classifiche inglesi.

I Queen trascorrono quasi tutta l’estate del 1979 negli studi di Monaco di Baviera a registrare materiale per il nuovo album. Questa volta non ci sono canzoni pronte, ma soltanto vaghe idee strumentali che vengono cullate dal nuovo produttore Rheinhardt Mack. Il lavoro da svolgere è abbastanza imponente perché la band deve occuparsi anche della colonna sonora di "Flash Gordon".
Proprio per scaricare il nervosismo, i Queen partecipano, il 17 luglio, al mega-concerto di Saarbrucken (con Ten Years After e Rory Gallagher), dove vengono accolti da una platea-record di trentamila persone. Lo spettacolo, ovviamente, riscuote un successo travolgente e spinge ulteriormente le vendite europee del nuovo singolo autunnale “Crazy Little Thing Called Love”, antipasto in salsa pop del nuovo disco della band.
La marcia dei quattro, insomma, continua ad avanzare inarrestabile ed è proprio questa che li spinge a fare una sorta di passo indietro come per onorare il passato indimenticabile. Nelle parole di Brian May: “Avevamo suonato in luoghi enormi e la cosa ci era piaciuta. Pensavamo fosse giusto che venisse a vederci quanta più gente possibile, però sentivamo che il contatto con il pubblico si stava perdendo. Il nostro spettacolo si reggeva su questo: noi ci sentivamo vicini a loro e loro si sentivano vicini a noi. Ma in ambienti troppo grandi la gente era lontanissima, per cui incaricammo Gerry Stickells di trovare dei locali più piccoli e simpatici. Non volevamo dei teatrini, volevamo qualcosa di diverso. Iniziammo con i posti di media grandezza e poi passammo a quelli davvero strambi. Lo battezzammo 'il tour pazzo' e ce lo godemmo dall’inizio alla fine”.
Il “Crazy Tour” apre i battenti alla Simmons Hall di Dublino (dove viene presentato al pubblico l’imminente nuovo singolo di Brian “Save Me”) e prosegue, a dicembre, trasformandosi nel “Crazy Tour Of London”, in locali come il Lyceum Ballroom e lo storico Rainbow Theatre. La sua conclusione pirotecnica viene affidata a varie serate natalizie all’Hammersmith Odeon dove, insieme a Who, Wings e Clash, si celebra il benefico intento di aiutare la popolazione della Cambogia.

All’alba del 1980, nonostante l’Nme parli di “musica frivola per un gruppo frivolo”, il cupo singolo “Save Me” si prepara a spopolare nelle classifiche britanniche, seguito a ruota dagli “altri tre minuti di banalità presuntuose e iperprodotte” di “Play The Game”.
Nel frattempo il gruppo sembra troppo impegnato per dar retta alle copiose critiche: c’è un nuovo tour americano da preparare e, soprattutto, un nuovo disco che è già numero uno. 
Con The Game (Emi, 1980) termina ufficialmente la vecchia era del “niente sintetizzatori”.
I Queen, aiutati dal nuovo produttore Mack, cercano di dare nuova linfa al loro sound, strizzando l’occhio all’effetto studiato a tavolino in sala di registrazione. Il fumo di questo nuovo gioco, tuttavia, evapora troppo facilmente, lasciando il disco isolato nella sua nudità ibrida: la regina non sa più come legittimare il suo scettro nel reame del rock and roll.
Da una parte, infatti, c’è un brano come “Save Me” che, tra lirismo corale e toni melodrammatici, sembra rincorrere disperatamente l’aquilone di un tempo che sta volando via. Dall’altra, i quattro provano a vestirsi da discotecari provetti, con i bassi pulsanti, magnetici di “Another One Bites The Dust” e il funky scipito di “Dragon Attack”. Il barman serve, insomma, un cocktail ignavo con i vari ingredienti che si annullano a vicenda.
Emblematica “Play The Game”, che suona come una classica ballata pop del gruppo, ma che viene poi infarcita di effetti elettronici completamente privi di senso. Non si capisce bene se i Queen siano consapevoli di tutto ciò perché lo stornello melodico di “Crazy Little Thing Called Love” porta l’irritante-irresistibile marchio di fabbrica, mentre la robotica “Rock It (Prime Jive)” rimane soltanto irritante, immersa fino al collo in manipolazioni di produzione.
Il vecchio, onesto pop-rock diventa roba per liceali stolti nel riff di “Need Your Loving Tonight” e il barrelhouse di “Don’t Try Suicide” non basta a rinverdire gli antichi fasti da operetta demenziale. La chitarra clownesca di May, questa volta, non riesce a fare la differenza e il suo manierismo barocco non strappa certamente il sorriso in “Sail Away Sweet Sister”.
The Game rimane, allora, un disco senza particolare sapore, volto nascosto di un gruppo che, all’alba di un nuovo decennio, cerca di inventarsi una maniera per viverlo ancora da protagonista. 

Il nuovo suono ottenuto con The Game stupisce molti fan di vecchia data, che vedono i loro idoli immersi in una vasca di musica elettronica, ma permette al gruppo di acquisire ulteriori ammiratori che lanciano il disco al numero uno delle chart britanniche.
Il nuovo singolo americano, “Another One Bites The Dust”, viene pubblicato ad agosto, ottenendo uno straordinario successo commerciale, con ben cinque settimane di presenza al numero uno delle classifiche statunitensi. Il basso pulsante del brano conquista il disco di platino, ricevendo un premio di Billboard come miglior singolo crossover e diventando, alla fine, il 45 giri più venduto nella storia del quartetto.
Il trionfo di “Another One Bites The Dust” spalanca le porte al nuovo tour a stelle e strisce dei Queen che parte al Pne Coliseum di Vancouver e termina con quattro, maestose serate al Madison Square Garden, con un tabellino impressionante di quarantasei date per quarantasei tutto esaurito. Ad ottobre May e soci tornano in patria per gli ultimi ritocchi al materiale destinato alla colonna sonora del film “Flash Gordon” e per preparare, a Zurigo, un successivo tour europeo insieme agli inglesi Straight Fight.

Il 24 novembre esce l’unico singolo estratto dall’imminente nuovo album, “Flash”, che, tuttavia, non va al di là del decimo posto in classifica. La pseudo-epica cavalcata sonora di Flash Gordon (Emi, 1980) riesce con successo nel difficilissimo intento di superare certi arrangiamenti privi di senso di The Game. Il tremendo avvenirismo spaziale del film di Mike Hodges mette i Queen nell’altrettanto tremenda condizione di volteggiare liberi attraverso melodie fin troppo enfatiche e pompose. E i Queen sono già di loro enfatici e pomposi. La passabile originalità dell’inserimento, nel disco, di frammenti di dialogo tratti dal film naufraga, affogata da una tempesta ionica di sintetizzatori, mai sentiti così artificiali.
Questa volta non basta il successo di “Flash’s Theme” o la solita vena aspra e dura di “The Hero”, perché Flash Gordon è come una torta farcita oltre ogni limite del buon gusto culinario. Melodie ipnotiche, strati orchestrali, cori pacchiani e pathos chitarristico si affollano senza ordine, spingendosi a vicenda, frastornati da un caos elettronico che, forse, è troppo pure per i fan più devoti e pazienti.
Paradossalmente Record Mirror scrive: “Era dai tempi di Charlton Heston e della corsa con le bighe di 'Ben Hur' che non sentivo qualcosa di simile. Un album di dimensioni realmente epiche che si guadagna cinque altrettanto epiche stellette di merito”. E Sounds: “Come colonna sonora, 'Flash Gordon' è realmente straordinario”. Eppure, dopo quasi quaranta minuti di suoni, viene voglia di citare quello che pensa Frank Zappa dei critici musicali. 

A dicembre il gruppo ritorna a Bruxelles per le ultime date del tour europeo che segna l’ennesimo trionfo natalizio: alla fine del 1980 i Queen hanno venduto in tutto il mondo 45 milioni di album e 25 milioni di singoli. Galvanizzati sempre più dal successo, i quattro meditano sulla possibilità di esibirsi in paesi nuovi come il Sudamerica, nel preciso intento di conquistare definitivamente tutti gli angoli del globo.
Dopo numerose difficoltà d’organizzazione, la band prende posto, a fine febbraio, sul gigantesco palco del Velez Sarsfield Stadium davanti a una platea di oltre cinquantamila fan in delirio. Sono certamente i numeri a fare la differenza: la sera successiva lo show viene trasmesso in tv, seguito da oltre trenta milioni di spettatori in Argentina e Brasile. L’apoteosi arriva, tuttavia, sul palco del Morumbi Stadium di San Paolo dove, il 20 marzo, i Queen vengono accolti dagli applausi scroscianti di centotrentunomila spettatori, record assoluto di paganti per un concerto rock.

La Emi è in visibilio e, il mese successivo, acquista due pagine di Music Week per congratularsi con la sua gallina preferita per la magnifica riuscita della trasferta sudamericana. Titolo: “Il Sudamerica morde la polvere”. Nel frattempo, May e soci si ritrovano negli studi di registrazione di Montreux per iniziare i lavori per un nuovo Lp.
Nel corso delle sedute di prova, Roger e Freddie entrano in confidenza con un altro ospite illustre dei Mountain Studios, David Bowie. Insieme al Duca Bianco cresce un’imprevista jam session che partorisce l’embrione di un altro grande hit dei Queen, “Under Pressure”.
La prima parte del lavoro finisce qui perché, a metà settembre, la band vola in direzione New Orleans, sede delle prove per il secondo tour sudamericano. Il nuovo giro - che parte dal Poliedro de Caracas il 25 settembre - incontra maggiori problemi di organizzazione e, durante la data messicana nell’enorme stadio Cuahtermoc di Pueblo, Città del Messico, di sicurezza, e termina anzitempo per decisione dei Queen stessi.

Poco male per il quartetto perché, alla fine del 1981, viene pubblicata la loro prima raccolta, intitolata semplicemente Greatest Hits (Emi, 1981), accompagnata dalla sorella per immagini "Greatest Flix", che include tutti i video realizzati dalla band.
L’album raccoglie diciassette brani per diciassette singoli spacca-classifiche, partendo dal primigenio hard-rock di “Keep Yourself Alive” e arrivando alla pseudo-svolta dance di “Another One Bites The Dust”. Ascoltati tutti insieme, i brani-manifesto del Queen-style si susseguono impetuosi, perfettamente consapevoli del loro mostruoso pop-appeal. La stessa idea di confezionare diverse versioni nazionali con diverse scelte di singoli testimonia come ormai la band abbia raggiunto in tutto e per tutto la fama planetaria. Ovviamente il responso delle chart è più che benevolo: a novembre il disco entra in classifica direttamente al secondo posto e, con trecentomila copie vendute, ottiene subito il disco di platino. 

E’ una dura vita

A dicembre i Queen si trasferiscono negli studi Musicland di Monaco di Baviera, pronti a registrare il nuovo Lp. Come antipasto viene servito il singolo “Body Language” che, stranamente, attira una parte della stampa britannica. Sounds: “Un buon pezzo di disco bianca scorrevole, brillante e ben sostenuto dall’elettronica. Roba forte”. I fedeli del gruppo, tuttavia, non la pensano allo stesso modo e il brano non va oltre il venticinquesimo posto delle classifiche, penalizzato dalla scelta della neonata Mtv di non mandare in onda il relativo video perché troppo esplicito per il pubblico delle famiglie.
Nel frattempo i quattro volano a Goteborg dove, l’8 aprile, prende avvio un nuovo tour europeo che vede la sorprendente aggiunta di un quinto membro alle tastiere.
I Queen si accorgono che l’elettronica è, ormai, parte integrante della loro musica e assoldano l’ex Mott The Hoople, Morgan Fisher che, proprio dal concerto di Goteborg, inizia la sua avventura live con il gruppo.

Queen - Brian MayCon il tour europeo in pieno svolgimento, il 21 maggio fa la sua apparizione il dodicesimo album della regina. Hot Space (Emi, 1982) prosegue imperterrito la via del dancefloor indicata in parte da The Game, segnando un netto distacco dal tipico sound hard della band.
L’intento di Mercury e soci è di esplorare la nuova strada sonora sino alle estreme conseguenze, ma gli “spazi caldi” così aperti sembrano più flebili fiammiferi che roventi canzoni rock. La chitarra clownesca di Brian May viene sacrificata in maniera quasi totale, perduta nei meandri di “Dancer”, unico tentativo di miscelare il vecchio hard-rock con il nuovo funky ballabile. Tutto il resto è un continuo pulsare, tra gli arrangiamenti fiatistici di “Staying Power” e l’ipnosi bianca di “Body Language”.
I quattro cercano di bagnarsi nel fiume sensuale della musica nera, ma l’r&b di “Back Chat” e il soul in falsetto di “Cool Cat” fanno venire solo voglia di interromperle e andarsi a comprare un disco di Aretha Franklin. L’uso-abuso di sintetizzatori che ha già reso terribile Flash Gordon ritrova la sua cara, precisa inutilità come nel martellare di “Action This Day”.
I Queen sono allo sbando, senza idee e a dimostrarlo è la seconda parte del disco che, più che un insieme di canzoni, sembra un’accozzaglia di suoni messi insieme a caso. Il riff pop di “Put Out The Fire” è privo di mordente, così come melenso è il valzer per piano di “Life Is Real”. Incomprensibile l’andamento cajun di “Calling All Girls” e assolutamente tremenda la ballata elettro-acustica “Las Palabras De Amor”.
Poi, alla fine, un fiore spunta dal letame: le voci aliene di Freddie e David Bowie tornano per un istante sul pianeta terra e firmano il pulsare nevrastenico di “Under Pressure”, unico e solo motivo per cui questo disco inascoltabile verrà ricordato nella storia del rock. 
Per molti fedelissimi il trapasso di Hot Space è troppo radicale: l’album riscuote un successo discreto, arrivando al quarto posto nelle graduatorie inglesi, ma aliena al gruppo le simpatie di coloro che preferiscono il vecchio rock alla novità disco. Paradossalmente l’album accresce la stima della stampa nei confronti del mai troppo amato quartetto.NME: “Produzione deliziosa dall’inizio alla fine”. Sounds: “I Queen non hanno mai realizzato album davvero strabilianti, ma occorre ammettere che 'Hot Space' mostra più misura e più fantasia di porcherie come 'Jazz'". Sarà anche misurato e fantasioso, ma il nuovo album viene praticamente ignorato dalle stazioni rock americane e scompare quasi subito dalle classifiche di Billboard, facendo tracollare la fama a stelle e strisce dei Queen.

La parte nazionale del nuovo tour inizia il 29 maggio allo stadio Elland Road di Leeds, proseguendo nell’enorme Milton Keynes Bowl, dove la Tyne Tees Television riprende l’evento per un futuro video dal vivo. L’ennesimo giro nordamericano, invece, parte a luglio al Forum di Montreal prima di chiudersi con il solito delirio collettivo al Madison Square Garden di New York.

Al successo degli spettacoli, tuttavia, non corrisponde quello del recente album: il ventiduesimo singolo, “Back Chat”, arriva solo alla quarantesima posizione per poi scomparire senza lasciar traccia. Alla fine del 1982 i quattro Queen optano di comune accordo per un periodo temporaneo di separazione. I rapporti all’interno del gruppo, infatti, vanno deteriorandosi e gli screzi si fanno sempre più frequenti. Dopo ben dodici anni ininterrotti di dischi e concerti la decisione è unanime: per l’intero 1983 non ci saranno pubblicazioni né tournée. Nessuno dei diretti interessati lo considera, in realtà, un divorzio - per quanto la stampa inizi a usare proprio questo termine - ma semplicemente una lunga pausa di riflessione.
Mentre May e soci si dedicano ad attività solistiche, l’aura della corona torna alla luce al Festival di Cannes dove viene presentato, a maggio, il film “We Will Rock”. Il documentario dal vivo riceve un’accoglienza alterna: alcuni lo apprezzano per quel che è, ovvero un ritratto realistico dei Queen sul palco, molti altri lo criticano per lo scadente livello tecnico e soprattutto per l’incapacità di restituire l’atmosfera surriscaldata dei concerti del gruppo.

Critiche a parte, nell’agosto del 1983 il gruppo sente il bisogno di tornare unito, ritrovandosi a Los Angeles dove, negli studi Record Plant, inizieranno le registrazioni per una nuova raccolta di materiale originale. I quattro si mettono all’opera con rinnovato vigore e creativa passione e, verso la fine dell’anno, scelgono un pezzo di Roger Taylor come nuovo singolo divora-classifiche. “Radio Ga Ga”, accompagnato da un costosissimo e avveniristico video di David Mallet ispirato al vecchio film “Metropolis”, esce nel gennaio 1984 e sale subito al quarto posto delle chart.

La stampa inglese non si scompone davanti al nuovo brano, ma è pronta a cambiare idea appena un mese dopo quando viene pubblicato l’album che segna il (prevedibilissimo) ritorno dei Queen. Consapevoli (?) del tremendo nonsense di Hot Space, i Queen di The Works (Emi, 1984) tentano di invertire la rotta, tornando a standard sonori più familiari e navigati. La luce stroboscopica del sintetizzatore continua a bagnare la tappezzeria sonora della band, ma la voglia di scatenarsi in discoteca lascia il passo a una più comoda vestaglia pop.
La meccanica robotica di “Radio Ga Ga” viene, infatti, arricchita dall’ormai solito lirismo corale del ritornello ossessivo, mentre la chitarra di May torna a giocare con i suoi effetti preferiti nel synth-pop claudicante di “I Want To Break Free”.
L’album, in realtà, sembra un mero pretesto per riconquistare la fiducia dei fan traditi, puntando direttamente l’antico andamento da marcia hard-rock, con la fracassona “Tear It Up” o il gusto dello scherzo come nel barrelhouse vintage di “Man On The Prowl”.
Il mezzo imperativo pare, insomma, rimettere le dita nella presa della corrente: il primo comandamento è la stuzzicante sarabanda hard-pop di “Hammer To Fall”. Il sapore, tuttavia, è quello di una gomma masticata che ha perso il suo colorito rosa. L’intro operistica di “It’s A Hard Life” sfocia nel melodramma per ballata, e la voce di Freddie cerca di salvare la baracca nella tenerezza acustica di “Is This The World We Created”.
Vecchi Queen per nuovi problemi: i quattro sembrano un gruppo allo sbando, incapaci di reinventarsi al di là di uno stile pop da cantare sotto la doccia. Sicuramente, meglio questo che tentativi inutili come gli ultimi due album, ma “Machines Back To Humans” e “Keep Passing The Open Windows” delirano sovraccaricati arrangiamenti pseudo-intellettuali che, in questo momento, la band non può proprio permettersi.

Magia Pop 

Nel maggio 1984 i Queen annunciano le date del loro ormai prossimo nuovo tour che, per la prima volta, toccherà anche il Sudafrica.
The Works è riuscito nel preciso intento di riscattare l’immagine della band agli occhi dei tanti fan traditi: i biglietti per i concerti inglesi vanno esauriti a tempo di primato, con i botteghini ad annunciare incassi sensazionali già poche ore dopo l’apertura.
Sulla scia del successo dell’imponente singolo “Hammer To Fall”, i concerti europei (con tanto di scenografia sul palco stile “Metropolis”) registrano un vero e proprio trionfo, suggellato da un accordo di dodici date consecutive al Sun City Superbowl di Bophuthatswana, Sudafrica.

Dopo l’estenuante giro, i quattro si ritrovano nei Sarm Studios di Londra per registrare un unico brano che verrà pubblicato come singolo natalizio. Il pacchiano “Thank God It’s Christmas” esce il 26 novembre e, non riuscendo a salire in classifica, viene presto dimenticato dal gruppo stesso e dai suoi ammiratori. All’inizio del 1985 Gerry Stickells, tour manager della band, cura l’organizzazione di un enorme festival che si terrà a Rio De Janeiro. Il “Rock In Rio” si concretizza a gennaio nel corso di otto giornate (con, tra gli altri, Ac/Dc, Iron Maiden e Yes) e, grazie ai loro due tour trionfali in Sudamerica, ai Queen viene assegnato il ruolo di attrazione principale. May e soci aprono e chiudono il grande evento rock, entrando in trattative con la Globo Tv per acquistare i diritti sulla loro pomposa esibizione allo scopo di farne un video di successo.
La Regina ama sempre più mostrarsi e farsi adorare dal vivo e, così, decide di ripartire ad aprile per suonare, per la prima volta, in Nuova Zelanda. Lo show d’esordio è al Mount Smart Stadium di Auckland, proseguendo poi in Australia a Melbourne e Sydney. Il giro del mondo è, ormai, completo. 

Il 29 aprile la Cbs pubblica, dopo una lavorazione estenuante al limite del maniacale, il primo disco solista di Freddie Mercury, Mr. Bad Guy (Cbs, 1985). L’album lascia molto dubbiosa la stampa inglese, che lo critica aspramente per la sua (effettiva) scipita miscela di canzoni d’amore e ballate funky. Meglio, sicuramente, quando il cantante torna con i suoi compari in vista di una serie di concerti giapponesi e quando la Picture Music pubblica Live In Rio, testimonianza visiva del periodo d’oro dei quattro. Periodo d’oro che sembra non avere fine: il 13 luglio, allo stadio Wembley di Londra, va in scena il gigantesco evento benefico di Bob Geldof "Live Aid" e i Queen salgono sul palco per offrire i soliti grandi classici tra cui “We Are The Champions”, “Crazy Little Thing Called Love” e la più recente “Radio Ga Ga”.

L’apparizione al Live Aid fa tornare alla band un gran desiderio di incidere nuovo materiale. A settembre i Queen vengono avvicinati dal regista di video Russel Mulcahy che chiede loro di comporre e registrare parte della colonna sonora del suo primo lungometraggio, “Highlander”. I quattro entrano immediatamente in studio e, in breve tempo, completano un brano che vorrebbero subito incidere come singolo, anche se ha poco a che fare con i temi del film. Ispirata dal celebre discorso di Martin Luther King, “One Vision” viene pubblicata a novembre, criticata dalla stampa come semplice e furba conseguenza del Live Aid. La preparazione del materiale per “Highlander”, tuttavia, prosegue senza sosta all’inizio del 1986 dato che il gruppo si è accollato l’onere di comporre l’intera colonna sonora pubblicandola su album.

A marzo il nuovo singolo “A Kind Of Magic” ottiene consensi migliori del precedente, conquistando la terza posizione delle classifiche britanniche e collezionando l’impressionante numero di trentacinque primi posti in tutto il mondo. La band, in realtà, elabora ulteriormente il materiale per il film, trasformandolo in una nuova raccolta di vere e proprie canzoni. A Kind Of Magic (Emi, 1986) prosegue sulla rotta commerciale di The Works, virando con decisione verso isole sonore sempre più aride e banali.
Reduci da spettacoli trionfali in ogni angolo del globo, i Queen speculano sull’immagine consolidata della corona, incapaci di rinnovare uno stilema ormai vecchio e privo di mordente. Il riff epico in chiave pop di “One Vision” e l’orecchiabile verve teatrale di “A Kind Of Magic” sono, quindi, come dei lasciapassare per un vero e proprio pre-pensionamento artistico.
Gli ingredienti per questa nuova pozione sono i soliti arrangiamenti pomposi e melodrammatici che non riescono, di fatto, a creare la magia annunciata. Il romanticismo orchestrale di “Who Wants To Live Forever” piange melenso su se stesso, coccolato dal finto pathos di “Princes Of The Universe” e dalla ballata per sax di “One Year Of Love”. Tutto questo piacerà anche ai fan del quartetto, ma tradisce in maniera evidente una creatività blanda e confusa.
L’album riprova la formula dell’inno corale con “Friends Will Be Friends” e si diverte anche a osare la rivisitazione spectoriana dei vecchi gruppi femminili con “Pain Is So Close To Pleasure”. Eppure la chitarra di May non va al di là del frastuono delirante di “Gimme The Prize”, mentre il sintetizzatore vomita il tremendo magma di “Don’t Lose Your Head”.
Se questa è la magia dei Queen, allora sarebbe meglio ragionare con la testa e decidersi a fare dischi più intelligenti. Il nuovo album schizza subito al primo posto delle classifiche britanniche, accolto, tuttavia, dai soliti pareri contrastanti. Record Mirror: “Unica vera emozione che riesco a provare è un intenso desiderio che Brian May si tagli i capelli”.

A giugno i Queen volano a Stoccolma dove ha inizio il cosiddetto “Magic Tour”. Il nuovo giro europeo appare più sfarzoso che mai, con il palco più grande da loro mai usato e un impianto luci computerizzato per illuminare a dovere una corona tempestata di gioielli mostrata da Freddie ai sudditi in perfetto (e pacchiano) stile regale.
La tournée è l’ennesimo trionfo live dei quattro che, l’11 e 12 luglio, suonano a Londra in uno stadio di Wembley al completo, in tutti i suoi settantamila spettatori circa.
Il “Queen Tornado” (come lo chiama Freddie) non si ferma e, ad agosto, devasta la residenza inglese di Knebworth dove la “Night Of Summer Magic” richiama oltre duecentomila persone. Alla fine del 1986 il gruppo decide di concedersi una seconda pausa di riflessione in modo da pianificare con più calma le mosse future. Lo stress di continue trasferte logora la mente di John Deacon che arriva sull’orlo di un collasso nervoso. L’idea più sensata, allora, è quella di fermarsi per quasi tutto il 1987.
Il mondo, tuttavia, sembra non averne abbastanza: il 25 ottobre l’emittente britannica Channel 4 manda in onda il “Real Magic Show” di Wembley e gli spettatori sono oltre tre milioni e mezzo.

La Emi approfitta dell’anno sabbatico dei quattro per selezionare e rimontare diversi momenti dell’ultimo tourLive Magic (Emi, 1987) è l’audio-guida ufficiale del trionfale “Magic Tour”, ma l’effetto palcoscenico sembra sparire del tutto tra i solchi dell’album. Se Live Killers è la degna conclusione di un periodo di originale creatività e di stile, Live Magic è un disco preparato per meri fini commerciali. La vecchia e sfarzosa regina, ormai, è diventata soltanto un juke-box vivente che vomita hit a raffica per esaltare sudditi maniaci. A dominare, quindi, è la voglia di cantare insieme a Freddie, battendo le mani e urlando all’unisono. I pezzi vengono tagliati per ricreare l’effetto di un intero show su un album singolo, ma quando “I Want To Break Free” sembra un delirio e “Bohemian Rhapsody” viene orrendamente mutilata, non si può parlare affatto di un bel disco.
Quello che rimane, quindi, è la carrellata di classici e la solita pompa magna che, ormai, è diventata soltanto un citare se stessi con troppa baldanza. 

L’inizio del 1987 è all’insegna della tranquillità e i quattro possono dedicarsi ad attività separate. Mercury torna in studio e incide la cover del celebre classico dei Platters “The Great Pretender” che, accompagnato da uno stravagante video di David Mallet, esce come singolo a febbraio.
Il 15 aprile i Queen ricevono il premio Ivor Novello per il loro “fondamentale contributo alla musica inglese”.
Il cantante non si ferma mai: a settembre, in Spagna, viene pubblicato “Barcelona”, singolo contenente il suo duetto con la cantante lirica Montserrat Caballè. In Gran Bretagna, tuttavia, il disco provoca uno choc per molti. Per la prima volta un cantante rock s’introduce di prepotenza nel mondo della lirica e Freddie viene, a seconda dei casi, accolto come genio o liquidato come una vera e propria sciagura del rock.

L’anno di separazione, comunque, dà i suoi frutti. I quattro hanno dato libero sfogo alla propria creatività e ora sono nuovamente in grado di ragionare con serenità sul futuro del gruppo. La decisione più immediata è di ricominciare a lavorare in studio e, per l’occasione, viene introdotta una nuova regola di composizione: ogni brano futuro sarà accompagnato dalla dicitura “parole e musica dei Queen”.

Anticipato dal singolo “I Want It All”, il nuovo album della band è pronto per il maggio 1989 e, grazie solo alle prevendite, si assicura il disco di platino dopo una settimana dall’uscita. The Miracle (Parlophone, 1989), tuttavia, è l’ennesima testimonianza di un gruppo allo sbando che non riesce in alcun modo a rinascere da un punto di vista creativo. “I Want It All”, ad esempio, cerca di recuperare l’inno epico ormai perduto, ma viene tradito inevitabilmente dallo scipito tribale pop di “Party” o dall’innocuo riff in salsa hard-pop di “Khashoggis Ship”.
Tutto l’album appare come un collage di suoni privo di un filo logico accomunante, tra una ballata soul (“My Baby Does Me”) e una orribile trama calypso (“Rain Must Fall”). Persino il vecchio, strambo vaudeville teatrale non esiste più, trasformato nello spirito da musical disneyano di “The Miracle”. Al suo posto, invece, torna la voglia di dancefloor che già ha reso tremendo Hot Space. La robotica funky di “Invisible Man” - che sembra una libera interpretazione della colonna sonora del film “Ghostbusters” - e “Breakthru” regala all’album quel tocco in più verso la completa mancanza di qualsiasi direzione.
The Miracle, insomma, è la degna conclusione di un decennio blando e privo di grandi idee.
La regina avrà anche milioni di sudditi pronti ad adorarla sul palcoscenico, ma le sue gesta soniche sono finite da un pezzo. 

Chi vuole vivere per sempre? 

Alla fine di novembre i Queen dichiarano alla stampa di essere nuovamente pronti a rientrare in studio per registrare quello che sarà uno dei loro migliori album. La band pare galvanizzata dal grande successo di The Miracle, che ha improvvisamente risollevato le sue quotazioni negli Stati Uniti dopo diversi anni di calo generale.
Il 4 dicembre appare, su etichetta Strange Fruit/Band Of Joy, un disco intitolato Queen At The Beeb, comprendente le prime otto canzoni registrate dal quartetto nel 1973 per le famose session radiofoniche della Bbc. I fan più incalliti esultano: per loro si tratta di un grande album che consente di riascoltare i rari Queen prima maniera senza far ricorso a bootleg di qualità scadente.
Mera curiosità: il 31 dicembre va in onda il programma televisivo “Goodbye To The Eighties” nel corso del quale viene annunciato che Greatest Hits è il quarto album più venduto della storia del rock dopo “Brothers In Arms” dei Dire Straits e “Bad” e “Thriller” di Michael Jackson. Il ventesimo anniversario della nascita dei Queen, nel 1990, viene celebrato con una festa monumentale. La ricorrenza, tuttavia, mostra un Freddie Mercury decisamente provato e insolitamente buio. Il cantante dichiara a tutti di stare benissimo, tacitando così tutti coloro che parlavano di Aids, ma aggiunge stranamente di non volersi impegnare in tournée dal vivo.

All’inizio dell’anno i quattro si riuniscono, invece, per discutere la scottante questione della loro popolarità negli Stati Uniti, con la decisione finale di cambiare casa discografica.
Le offerte non mancano, ma la proposta più interessante arriva dalla neonata Hollywood Records, che si pone come obiettivo principale quello di restituire al gruppo la fama perduta, riportandoli in vetta alle classifiche.
I lavori per il nuovo album si concludono verso Natale e viene deciso che il brano “Innuendo” sarà il primo singolo tratto dall’Lp. La Hollywood ribatte, tuttavia, che un pezzo di oltre sei minuti non sarà mai trasmesso dalle radio americane e al suo posto richiede “Headlong”. A differenza di quanto successo con “Bohemian Rhapsody”, la band non ha nulla da obiettare. Erano decisamente altri anni.
Le scelte, comunque, si rivelano azzeccate: il singolo “Innuendo” viene pubblicato nel gennaio 1991 e, nel giro di una settimana, vende oltre centomila copie entrando in classifica direttamente al numero uno; negli Stati Uniti “Headlong” è subito richiestissimo in tutte le principali stazioni radio. 

Queen - Freddie MercuryPiù che un album, Innuendo (Parlophone, 1991) è un presagio di morte, pervaso da un alone pop angosciato ed esistenziale. La voce di Freddie Mercury sente arrivare l’ultimo respiro e decide, così, di esaltarsi per l’ultima volta, raccogliendo a sé gli altri tre per lo spettacolo finale. Il tema conduttore di questo testamento sonoro è la fantasia a briglie sciolte di “Innuendo”, piccolo ricordo aggiornato della vecchia, cara rapsodia.
Mercury guida, in sostanza, i Queen verso un ritorno alle origini definitivo, che chiuda idealmente il cerchio artistico della band. La pompa magna sonica deflagra nella title track e si ripresenta, melodrammatica, nel valzer da teatro dell’opera di “I’m Going Slightly Mad”.
L’album, per certi versi, cerca di gettarsi alle spalle la blanda mediocrità degli anni 80 e ritrovare, di fatto, la vecchia unghiata elettrica. “Headlong” e “The Hitman” sono i rimasugli metal-hard-pop della premiata soffitta Brian May. Freddie sembra proprio il pagliaccio della copertina mentre fa girare tra le mani tutti gli elementi magici di uno stile nel bene e nel male inconfondibile. Ecco il super-pop corale di “I Can’t Live With You” ed ecco anche la tenerezza percussiva della ballata “These Are The Days Of Our Lives”. Eppure non si riesce a dimenticare che i Queen sono una band completamente alla frutta, provata da anni di tentativi mal riusciti e banali hit commerciali. La melassa si impadronisce della melodia di “Don’t Try So Hard” e cola ovunque dalla chitarra di “Bijou”. La progressione sintetizzata di “Ride The Wild Wind” ritrova la recente mancanza di originalità così come la filastrocca per gridolini ed effusioni di “Delilah”.
Meglio, allora, quando il cantante riprende in mano la situazione, dando voce alla sua consapevole fine nell’epitaffio tragico di “The Show Must Go On”.
Sembra, dunque, che i Queen abbiano intenzione di rimanere su questa terra ancora per un po’, ma il pezzo (e parte di questo album) sanno soltanto di celebrazione ultima di una favola musicale. Innuendo riscuote uno straordinario successo in tutto il mondo, arrivando al numero uno in gran parte del continente e nei Top 30 statunitensi.

Ai primi di maggio i Queen volano in Svizzera per rimettersi subito al lavoro su un pugno di pezzi destinati a un immediato album successivo.
Brian May inizia un tour radiofonico nordamericano con il preciso intento di promuovere la nuova musica della sua band: l’accoglienza che riceve dimostra che la regina ha ancora molti sudditi a stelle e strisce. Il lavoro di restauro commerciale della Hollywood Records, in pratica, sta dando i suoi frutti.
La stessa casa discografica affida ai registi Rossacher e Dolezal il compito di realizzare un documentario dedicato alla carriera del gruppo. “Days Of Our Lives” viene presentato da Axl Rose (fan di vecchia data) e trasmesso da quasi tutte le stazioni televisive degli Stati Uniti.

A ottobre la Emi pubblica l’album Greatest Hits II (Emi, 1991), nuovamente accompagnato dal fratello gemello “Greatest Flix II”. Le nuove diciassette canzoni ripercorrono la strada musicale dei quattro durante gli anni 80, tra derive ballabili e pop-rock da classifica.
Prevedibilmente, la raccolta spopola tra i fan che, nel giro di una settimana, mandano il disco direttamente al numero uno. 

Nel corso degli ultimi mesi del 1991 la stampa non dà tregua a Freddie Mercury e giornalisti di mezzo mondo iniziano a seguirlo quasi ovunque. Sempre più diffuse si fanno le voci a proposito di una sua grave malattia, confermate anche dall’aspetto sofferente ed emaciato del cantante nelle rare occasioni in cui appare in pubblico.
Il 23 novembre Freddie annuncia alle orde di cronisti di essere risultato positivo al test dell’Hiv e di avere contratto, quindi, il virus dell’Aids. Il giorno seguente la battaglia del frontman si conclude a causa di un’improvvisa broncopolmonite provocata dal virus stesso.

Quando la notizia si diffonde, tributi e messaggi di cordoglio cominciano ad arrivare da tutto il mondo, gettando gli altri tre membri in un cupo stato di sconforto. Nelle sue ultime volontà, Mercury dichiara di voler contribuire al sostegno del Terence Higgins Trust, forse la più importante fra le associazioni impegnate nella lotta contro l’Aids. May sceglie, come degno epitaffio, di pubblicare un singolo con due lati A, contenente “Bohemian Rhapsody” e “These Are The Days Of Our Lives”, i cui proventi verranno donati all’associazione. Stampato a tempo di record nel giro di una settimana, il 45 giri vende oltre centomila copie in soli sette giorni, salendo subito al numero uno delle classifiche inglesi.

La morte del cantante alimenta, di fatto, una nuova ondata commerciale di Queen-mania: Greatest Hits II è il terzo album più venduto del 1991. Tra la fine dell’anno e gli inizi del 1992, i restanti Queen decidono di scomparire dalle scene per riflettere su quanto accaduto e pensare a un ipotetico futuro.
Viene, tuttavia, dato l’annuncio che, ad aprile, si terrà un grande concerto dedicato alla memoria di Freddie nello stadio di Wembley. I biglietti per l’evento spariscono nel giro di sei ore con una lista di partecipanti da vera enciclopedia del rock. David Bowie, Elton John, Robert Plant, Metallica e tanti altri si riuniscono, così, per l’estremo saluto al cantante per un mega-concerto in perfetto stile pomposo e regale. Oltre un miliardo di persone seguirà lo show in televisione. 

Lo spettacolo deve continuare 

Asciugate tutte le lacrime, i Queen decidono di tirare avanti e, in estate, valutano la possibilità di ripubblicare il materiale solista di Freddie insieme ad alcuni pezzi rimissati. La Emi, nel frattempo, cavalca con decisione il suo cadavere eccellente e pubblica l’edizione integrale del concerto di Wembley del 1986 su doppio Lp. Live At Wembley (Parlophone, 1992) è la celebrazione degli eccessi del “Magic Tour” che chiude, col solito trionfo casalingo, l’attività live dei Queen.
La ruvida teatralità di Live Killers è, ormai, un pallido ricordo, ma lo spettacolo di Londra almeno non viene barbaramente mutilato come in Live Magic.
La band juke-box esalta la sua dimensione più spettacolare e, in ventotto tracce, trascina il suo stadio-impero. In due dischi, così, si concentrano i classici pregi e difetti, tra la vibrante chitarra di “Brighton Rock” e “Now I’m Here” e il pop-rock da veloce consumo di “Break Free” e “A Kind Of Magic”.
May e soci, almeno, sembrano divertirsi, tornando all’alba del rock and roll con le versioni freak di “Tutti Frutti”, “Hello Mary Lou” e “Gimme Some Loving”.
In fin dei conti, tuttavia, l’album è solo un pretesto per far riecheggiare ancora una volta una voce in particolare. Non ce ne sarebbe bisogno, ma va bene così. Dopo la morte di Mercury, la band prende la decisione finale di tornare in studio per realizzare quello che sarà l’ultimo album a nome Queen.

Nel 1993 May, Taylor e Deacon iniziano a lavorare con alcune parti vocali che Freddie ha già registrato, mettendole insieme a nuove idee sonore. Made In Heaven (Parlophone, 1995) è un disco macabro nel senso meno affascinante del termine. Tre musicisti e la voce di un fantasma per una raccolta di canzoni che non rende certamente il mondo del rock un posto migliore.
La logica del business, abbinata a una mancanza totale di umiltà, scalfisce, così, la leggenda di un cantante che non ha alcun bisogno di essere rimarcata. I Queen si giocano, in sostanza, la carta del cuore e scommettono sull’emozione come nel lirismo pianistico di “It’s A Beautiful Day” e nell’enfasi gospel di “Let Me Live” e “Heaven For Everyone”. Stando all’incedere funereo di “Made In Heaven” si potrebbe anche pensare che questo sia un disco effettivamente celebrativo, estremo saluto a una voce unica nel suo genere.
L’album, tuttavia, vira velocemente verso lidi visti e rivisti e scompare tra la tenerezza artificiale di “Mother Love” e il pop commerciale privo di mordente di “My Life Has Been Saved” e “I Was Born To Love You”. A questo punto la ragione commerciale sembra prevalere sul cuore musicale: “Too Much Love Will Kill You” è la solita ballata melodrammatica e, peggio ancora, torna la scipita verve danzereccia in “You Don’t Fool Me”.
Alla fine, Made In Heaven è un disco raffazzonato, idea scomposta che si perde tra le sue ultime trame strumentali e che non rende giustizia allo spirito lontano che vuole raggiungere. L’uscita di Made In Heaven chiude definitivamente l’ultimo capitolo della storia della regina, ma Brian May e Roger Taylor non ne vogliono sapere di appendere gli strumenti al chiodo e continuano imperterriti a suonare dal vivo in vari eventi benefici per la lotta al virus che ha strappato loro l’amico più caro.
L’assennato John Deacon, tuttavia, non si fa trascinare dall’eterna nostalgia e, nel 1997, decide di abbandonare il gruppo dopo aver registrato “No-One But You (Only The Good Die Young)”, primo e ultimo brano originale creato dai Queen senza Mercury. La ballata a tempo di valzer stona nella raccolta aggressiva Queen Rocks (Parlophone, 1997) e si perde nel marasma del terzo episodio della saga Greatest Hits III (Parlophone, 1999), che si fa notare per una versione rap di “Another One Bites The Dust” con Wyclef Jean e per le voci di Bowie e George Michael in “Under Pressure” e “Somebody To Love”.

Tutto ciò che fanno i Queen (?) è, ormai, pura celebrazione di un tempo che fu. 

Queen Più 

Tra la fine degli anni 90 e gli inizi del nuovo millennio, Brian May e Roger Taylor continuano a esibirsi a nome Queen in occasione di varie cerimonie di premiazione e concerti benefici.
Nel 2003 il duo decide di tornare in studio di registrazione per lavorare su alcuni brani originali destinati alla campagna contro l’Aids “46664” di Nelson Mandela.
A lavorare con la band ci sono Dave Stewart degli Eurythmics e la cantante pop Anastacia. Il 2004 è l’anno in cui i due Queen superstiti decidono in via definitiva di riaprire il libro storico della band per iniziare a scrivere un nuovo, misterioso capitolo.

A galvanizzare May e Taylor sembra essere il successo di un nuovo doppio album dal vivo, Queen On Fire - Live At The Bowl (Parlophone, 2004), registrato al National Bowl di Milton Keynes nel giugno del 1982.
Hot Space è un disco tremendo, ma il documento del tour che lo segue è, alla fine, convincente. La pomposa sfilata di classici è consueta (affascinante la versione al piano di “Somebody To Love”), ma, stranamente, anche brani insulsi come “Back Chat” sembrano migliori di quello che in realtà sono.
Nemmeno questo album, tuttavia, riesce a eguagliare la verve di Live Killers, ma almeno sa proporsi con forza e determinazione. La sorpresa arriva alla fine dell’anno quando May e Taylor annunciano che i Queen torneranno sul palco insieme al cantante Paul Rodgers (ex Free e Bad Company). Sul proprio sito web, il chitarrista sottolinea che il progetto non intende sostituire Freddie, definendolo semplicemente Queen + Paul Rodgers.
John Deacon non accetta la chiamata dei suoi vecchi compagni, sostituito dal bassista dei Blue Oyster Cult, Danny Miranda, già produttore del trionfale musical “We Will Rock You” insieme al comico Ben Elton. A completare la nuova formazione ci sono Spike Edney alle tastiere e il chitarrista Jamie Moses.
La prima apparizione ufficiale dei Queen + Paul Rodgers arriva nel marzo 2005 quando, in Sudafrica, va di scena la campagna benefica di Nelson Mandela contro l’Aids. Il vero e proprio tour alza il sipario alla Brixton Academy di Londra e prosegue in Europa, tra biglietti venduti a velocità stellari, nella primavera-estate fino alla imprevedibile mancata partecipazione al Live 8 di Bob Geldof.

La tappa alla Hallam FM Arena di Sheffield viene registrata per l’uscita di un primo doppio disco dal vivo a nome Queen + Paul Rodgers. Return Of The Champions (Parlophone, 2005) ha delle pretese sconclusionate di trionfalismo, ma non riesce a strappare né lacrime né sorrisi.
La robusta voce blues di Paul Rodgers rovina brani epici come “Bohemian Rhapsody” e non riesce ad adattarsi alle melodie più complesse di “Killer Queen”. Brian May cerca inutilmente di portare avanti la baracca con il suono pacchiano e aggressivo della sua chitarra, ma Taylor è visibilmente in difficoltà e il tutto risulta più o meno simile a un ottimo gruppo-cover di dilettanti. Si canta e si balla, ma chiamare questo album “ritorno dei campioni” sembra una buffonata paradossale, oltre che un insulto alla memoria di un cantante che non potrà mai essere emulato. 

In autunno la band vola in Giappone (“Super Live In Japan” esce in Dvd l’anno successivo) e negli Stati Uniti, dove viene preparato un lungo tour per l’inverno 2006, con 23 date da Miami al sold-out di Vancouver.
Tra agosto e novembre diverse voci interne al gruppo annunciano più o meno ufficialmente che un album di materiale originale vedrà la luce in un tempo imprecisato e che parte di esso sarà costituito dai brani già registrati per la campagna 46664.
Il singolo “Say It’s Not True”, scritto da Taylor, viene pubblicato il 1 dicembre 2007, giorno della battaglia mondiale contro l’Aids. La nuova ballata è pasticciata e, in fondo, dimostra chiaramente che i Queen non sono mai riusciti a superare la perdita dell’unico uomo in grado di portare la corona e alzare lo scettro al cielo.

Il nuovo tour Queen + Paul Rodgers Rock The Cosmos 2008, atteso in autunno, toccherà 14 paesi in sette settimane tra Europa e Asia per un totale di 28 date, prima di portare la band di nuovo in Sudamerica.
Il prossimo album, la cui uscita è prevista per il 1° settembre, segna l’esordio in studio con i Queen per Paul Rodgers, il quale ha attivamente partecipato con May e Taylor alla stesura dei brani. Ancora da decidere il titolo dell’album, anticipato dal singolo “Say It’s Not True”. 

Outro
Bambini chiusi nella stanza dei giochi

“E’ stato un viaggio incredibile, credimi, passato in un lampo, mentre noi pensavamo sempre che il meglio dovesse ancora venire. Siamo stati viziati, ma abbiamo anche realizzato molti dei nostri sogni, divertendoci come pazzi perché avevamo il controllo assoluto del nostro mezzo. Eravamo come bambini chiusi nella stanza dei giochi e, a volte, mi piacerebbe ricordare meglio ciò che è successo”.

Queen

Discografia

Queen (Elektra, 1973)

6

Queen II (Elektra, 1974)

6,5

Sheer Heart Attack (Elektra, 1974)

7

A Night At The Opera (Elektra, 1975)

8

A Day At The Races (Hollywood, 1976)

6,5

News Of The World (Hollywood, 1977)

6

Jazz (Hollywood, 1978)

6

Live Killers (Hollywood, 1979)

7

The Game (Elektra, 1980)

5,5

Flash Gordon OST (Hollywood, 1980)

4

Greatest Hits (Elektra, 1981)

Hot Space (Elektra, 1982)

3

The Works (Elektra, 1984)

5

Live In Rio (live, Picture Music 1985)
A Kind Of Magic (Elektra, 1986)

4,5

Live Magic (Hollywood, 1987)

5

The Miracle (Hollywood, 1989)

3

Queen At The Beeb (Parlophone, 1989)
Innuendo (Hollywood, 1991)

6

Greatest Hits II (Parlophone, 1991)

Classic Queen (Parlophone, 1992)
Live At Wembley (Parlophone, 1992)

6,5

At The BBC (Hollywood, 1995)

Made In Heaven (Hollywood, 1995)

3

Queen Rocks (Hollywood, 1997)

Greatest Hits III (Hollywood, 1998)

Queen On Fire - Live At The Bowl (Parlophone, 2004)

6

Queen Rock Montreal (Parlophone, 2007)

6

QUEEN AND PAUL ROGERS
Return Of The Champions (Parlophone, 2005)

4

FREDDIE MERCURY
Mr. Bad Guy (1985)
Barcelona (1988)
The Great Pretender (1992)
The Freddie Mercury Album (1992)
Lover Of Life, Singer Of Songs - The Very Best Of Freddie Mercury Solo (2006)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Queen su OndaRock

Queen sul web

Sito ufficiale
Testi
Foto