Yes

Yes

Armonia e motore del rock progressivo

Con le loro suite, gli Yes hanno occupato un ruolo centrale nell'evoluzione della musica rock, esplorando nuove forme espressive tanto con gli strumenti, quanto con le armonie vocali. Fra scioglimenti e reunion, l'epopea della band inglese prosegue a tutt'oggi

di Federico Romagnoli

Le origini

"Quando cominci a far musica che non è sesso, droga e rock'n'roll, né roba politicamente corretta, ma qualcosa di più spirituale, allora diventa come una crociata".

John Roy Anderson nasce il 25 ottobre del 1944, ad Accrington, nel nord dell'Inghilterra. La sua famiglia è piuttosto povera e così a quindici anni lascia la scuola per dare una mano all'economia di casa, svolgendo i lavori più umili. Il ragazzo è piuttosto ambizioso, e nonostante le difficoltà cerca di costruirsi una cultura per sfuggire al grigiore circostante. La passione per la musica trova sfogo con il rock'n'roll e i crooner americani, ma la prima band che lo incanta sono gli Everly Brothers, da cui nasce un'ossessione per le armonie vocali che sarebbe diventata proverbiale, influenzando la sua produzione futura.
A diciotto anni entra in una band locale chiamata Warriors. Vi militano suo fratello Tony, con cui mette a punto i primi intrecci vocali, il batterista Ian Wallace, poi nei King Crimson durante il biennio '71-72, e il bassista David Foster. I Warriors eseguono perlopiù cover (rock'n'roll, Motown, beat), ma pur durando diversi anni non vanno più in là del suonare in locali di provincia e incidere un paio di anonimi singoli. Nel 1967 passano un periodo in Germania, durante il quale John decide di averne abbastanza. Rientra così in Inghilterra e approda a Londra con un bagaglio e poco più.
Lì inizia a frequentare La Chasse, a pochi passi dal Marquee, e conosce il proprietario del locale, che gli offre un sostegno economico nel momento in cui si rende conto delle sue potenzialità come cantante. Sempre lì incontra Paul Korda, che lavora alla Emi e gli fa incidere un paio di 45 giri, usciti sotto il bizzarro pseudonimo di Hans Christian. Nulla si muove fino a quando, nel marzo del '68, si imbatte in uno spilungone di nome Chris Squire, bassista e cantante che ha sciolto da poco i Syn e sta cercando di mettere in piedi un nuovo progetto.

Squire è cresciuto con la musica classica e ha cantato per anni in un coro, la sua passione per il rock è recente, ma l'ha letteralmente sommerso. I Syn avevano rappresentato un'esperienza formativa piuttosto solida e fra i loro singoli si può rintracciare il grazioso r&b psichedelico "14 Hour Technicolour Dream".
Parlando i due scoprono di avere molti gusti in comune, in particolare per le band capaci di fare dell'armonia vocale un punto di forza, quindi Simon & Garfunkel, Beatles, e curiosamente anche una band americana molto famosa in patria ma praticamente ignota in Inghilterra, gli Association, le cui architetture stanno il quel momento alzando l'asticella della difficoltà per molto del pop-rock proveniente dall'altra parte dell'oceano. Discorso a parte per gli Who, di cui amano le acrobazie strumentali, fra le più avveniristiche del periodo.
Il giorno dopo l'asse Anderson-Squire è già in sala prove. Il nucleo degli Yes è una realtà, il resto ha bisogno di appena qualche mese per venire assemblato: il chitarrista Peter Banks faceva parte dei Syn insieme a Squire, che pensa bene di richiamarlo, mentre per il tastierista Tony Kaye e il batterista Bill Bruford basta un annuncio su Melody Maker.

L'alchimia

Come per molte fra le più grandi band, non solo del rock, la potenza degli Yes consiste nell'essere riusciti a far coesistere in un delicato equilibrio una serie di contrasti in apparenza inconciliabili. Le diverse formazioni culturali, i diversi gusti musicali, le diverse esperienze di vita hanno creato un puzzle che valeva più della mera somma dei singoli componenti. I loro interessi formavano una sorta di enciclopedia musicale.
Se Chris Squire aveva una solida cultura classica, Peter Banks e Bill Bruford erano appassionati di jazz e avevano in Wes Montgomery e Art Blakey i rispettivi punti di riferimento. I loro approcci erano però diversi: Banks suonava la chitarra come un musicista rock che guardava al jazz, mentre Bruford suonava in tutto e per tutto come un jazzista, preferendo la pulsazione ternaria a quella binaria. I suoi compagni gli dovevano spesso ricordare che non faceva parte di un quintetto swing. Per Bruford i batteristi rock erano buoni solo a fare fracasso, e gli altri membri rimasero sconcertati quando alla sua prima audizione si presentò dicendo che gli faceva schifo Keith Moon, batterista della loro band preferita. Quando tuttavia l'ascoltò suonare, Anderson capì che aveva bisogno proprio di uno come lui.

Di formazione classica, Tony Kaye si convertì prima al jazz, via Count Basie e Duke Ellington, e poi al rhythm & blues, appassionandosi al suono dell'organo elettrico. Fra i suoi ascolti ricorrenti al momento di entrare negli Yes, i Traffic e i Family.
Entrambe le band sono state in effetti determinanti per la nascita del rock progressivo, fra le prime a espandere i confini della semplice canzone cercando di allontanarsi dalle jam di stampo blues dell'acid rock americano. L'ispirazione più grande da questo punto di vista furono però i Nice di Keith Emerson e i Vanilla Fudge, a cui guardava in particolare Anderson.
Con i loro brani espansi zeppi di citazioni sia popolari, sia colte, ma anche con le loro cover stravolte, furono maestri nel ricontestualizzare stralci musicali altrui in una forma che suonasse spiazzante e "stonata" rispetto al gusto musicale circostante.
Quando i Nice rilessero in chiave rock "America" dalla "West Side Story" di Leonard Bernstein, per gli Yes fu una rivelazione. Era musica classica, jazz, r&b e rock tutto insieme. Mutava di continuo, aveva un volume assordante eppure era raffinata, era piena di virtuosismi ma estremamente melodica, non girava intorno a una sola scala come il blues, pur mantenendone alcuni fraseggi e la potenza. Gli sembrò che tutta la musica dovesse essere così, mancavano solo le armonie vocali.

La presa di coscienza definitiva arrivò quando Banks decise che, nei limiti del possibile, non avrebbe più suonato blues. La sbornia circostante per Hendrix e Clapton lo stancò presto, e decise che evitare le scale e le modalità del blues gli avrebbe consentito molta più libertà. La stessa convinzione maturò più o meno in contemporanea in altri chitarristi del rock progressivo britannico, come fosse una piccola comunità che tentava di ribellarsi all'egemonia culturale circostante. Divenne di fatto la prima corrente del rock libera dal blues.
L'impostazione di Banks sarebbe stata adottata ben volentieri dal chitarrista che lo sostituì dal terzo album in poi, l'ancor più eclettico Steve Howe.

jon_anderson1968-69

Gli Yes suonano il loro primo concerto il 4 agosto del '68 e meno di un anno dopo il loro album di debutto, Yes, raggiunge i negozi. È la Atlantic a distribuirlo, grazie a un contratto rimediato dal giovane manager Roy Flynn, proprietario di un locale in cui la band si è talvolta esibita. Purtroppo le grandi sfere della Atlantic non intuiscono il potenziale della band e le forniscono un budget risicato.
Il produttore è Paul Clay, descritto da Bruford come inesperto e poco adatto al lavoro di gruppo (fa notare lo scarso bilanciamento di alcuni volumi solo a lavori terminati). Dal canto loro, gli Yes non sono mai entrati prima in uno studio di registrazione importante e non hanno la più pallida idea di concetti come la separazione dei canali e il mixaggio.
Tony Kaye affitta un organo Hammond, dal suono decisamente più potente del suo Vox Continental, tuttavia nessuno sa come utilizzarlo e trasporlo su nastro. Elemosinano così la consulenza tecnica di Keith Emerson, che gli impartisce un corso accelerato sui trucchi dell'arnese.
Tutto ciò spiega abbastanza bene il suono costipato del disco, piuttosto inadatto all'ambizione dei suoi arrangiamenti e al dinamismo delle sue strutture.
Ci sono comunque alcuni momenti magici, che neanche una produzione difettosa può offuscare, fra i quali "Yesterday And Today", ballata acustica con Kaye al pianoforte e Bruford al vibrafono. La voce di Anderson plana cristallina su semplici parole d'amore, con un tono etereo e asessuato che la rende modernissima. Un brano che spiega bene la fissazione di tante band indie per la musica degli Yes.
"Survival", il primo assaggio completo di yessound, è una possente mini-suite che in appena sei minuti mette insieme una intro strumentale densa di riff, alcuni stacchetti con batteria swing, e una ballata che acquista velocità di pari passo all'accumularsi delle linee vocali. Il basso di Squire sfoggia linee distorte che pagano ancora qualche debito verso quelle di John Entwistle dei Who, ma mostrano già un gusto melodico peculiare.
Banks e Bruford rubano la scena nella cover dei Byrds, "I See You", al centro della quale inseriscono una inedita scorribanda jazz. La chitarra in un tratto imita addirittura il suono di un violino.

1970

Yes va malissimo, ma all'epoca - con il mercato musicale in piena espansione - si concedevano agli artisti anche un paio di fiaschi consecutivi nella speranza di vederli attecchire e maturare. Per il secondo album, Time And A Word, il budget è così più sostanzioso e la band può permettersi una piccola orchestra, nonché un tecnico del suono d'eccellenza quale Eddie Offord, giovane ma ritenuto il migliore della sezione britannica dell'Atlantic. Il produttore è Tony Colton, già alla regia dei Taste di Rory Gallagher. Sul retro della copertina Anderson compare per la prima volta come Jon, senza la "h".

Le sessioni furono molto dure per Banks, che non approvava né il modo di lavorare di Colton, né l'utilizzo dell'orchestra, che sostituiva parti altrimenti destinate a chitarra e organo. Il clima si avvelenò fino al punto di diventare irreparabile. Ancor prima che l'album venisse pubblicato, Banks era stato cacciato dalla band. Può sembrare un termine eccessivo, ma negli Yes è spesso accaduto che le defezioni non fossero dovute a una libera scelta, bensì all'ultimatum lanciato dal resto della band, o più semplicemente dai capisquadra Anderson e Squire.
Banks avrebbe faticato ancora molti anni per digerire il modo in cui si liberarono di lui, benché abbia sempre avuto parole di lode per i dischi successivi. Il licenziamento di Roy Flynn, colui a cui dovevano il proprio contratto discografico e su cui avrebbero scaricato la responsabilità per l'insuccesso di Time And A Word, seguì a distanza di poco tempo. Flynn ci rimase talmente male da abbandonare per sempre il mondo della musica. Non esattamente il clima più piacevole del mondo insomma, ma del resto chi fra i giganti del rock non ha avuto una storia difficile?

Benché afflitto da alti e bassi, l'album vanta nuovamente una manciata di brani brillanti. La title track è una splendida ballata barocca in crescendo, mentre "Astral Traveller" rappresenta un passo decisivo per il loro percorso: sia la chitarra sincopata, sia la linea del basso guardano infatti alla musica funk, che avrebbe in seguito occupato spazi importanti nei dischi degli Yes.
Un'altra influenza decisiva è individuabile nell'iniziale "No Opportunity Necessary, No Experience Needed", cover di Richie Havens che gli Yes arricchiscono, inframezzandole il tema strumentale che Jerome Moross compose per "Il grande paese", meraviglioso western del 1958 diretto da William Wyler.
Le colonne sonore hollywoodiane, western e musical in particolare, furono del resto uno dei punti di riferimento delle band anni Sessanta che miravano a costruire musica ambiziosa e complessa. I continui salti melodici e ritmici, nonché i cambi d'atmosfera, la capacità di passare in poche battute dal dramma all'ironia e di evocare immagini immediate e popolari, creavano nei fatti uno stampo di ciò che i gruppi fondatori del rock progressivo avevano in mente (non a caso anche gli Yes, come già i Nice, si erano approcciati al repertorio di Bernstein, quando l'anno prima avevano pubblicato come B-side una libera interpretazione di "Something's Coming", sempre da "West Side Story").
In "Then" i due nuovi elementi, quello funk e quello hollywoodiano, sembrano incrociarsi, creando una sorta di versione convulsa della musica di 5th Dimension e Temptations. Gli Yes non sarebbero più suonati neri come in questa canzone, ma la capacità di creare groove ricercati li avrebbe accompagnati a lungo.

Nuova linfa (1)

Chris Squire viene a sapere, poco dopo la fuoriuscita di Banks, che c'è un chitarrista disponibile. Non un chitarrista qualsiasi, ma il più chiacchierato dell'underground londinese. Il suo nome è Steve Howe, ha militato nei Tomorrow, i quali non sono però riusciti a sfondare nonostante due fra i migliori singoli psichedelici del 1967, "My White Bicycle" e "Revolution". Dopo il loro scioglimento ha bazzicato qua e là, senza trovare fissa dimora. È quindi naturale che accetti la proposta di una band che ha già due album alle spalle.

Lo stile di Howe è inaudito, nessuno ha mai suonato così prima di lui. La raffinatezza armonica del jazz, il passo caracollante del ragtime, il groove del funk, la durezza dell'hard-rock, le continue ricerche timbriche, il sapiente dosaggio dei volumi, la preferenza per le tonalità acute e secche, il non raro utilizzo degli armonici, il calore delle musiche tradizionali, che esplora in lungo e in largo, dal flamenco al folk britannico passando per il country, da cui mutua la passione per una tecnica come il fingerpicking e uno strumento come la steel guitar. La cosa impressionante è che raramente Howe mostra uno solo di questi elementi, riesce bensì nell'amalgamarli in un'unica pozione, variando di volta in volta le dosi.
Charlie Christian, Merle Travis, Sabicas e Robert Fripp riuniti in una persona sola darebbero plausibilmente un risultato accostabile al suo. Se discutere su quale sia stato il miglior chitarrista della storia del rock è infantile e pretestuoso, quanto a completezza stilistica - e originalità nel trattarla - non vengono davvero in mente rivali per Howe.

Con un simile innesto nella formazione, è tutto pronto per il grande salto. Che arriva puntuale quando la band assume Brian Lane, manager giovane ma ambizioso, all'epoca parte della compagnia di distribuzione cinematografica Hemdale. Lane rappresenterà la chiave del successo degli Yes, raggiungendo i vertici della Atlantic e convincendoli a finanziare e promuovere adeguatamente il nuovo album.

steve_howe1971 - prima parte

The Yes Album esce il 19 febbraio del '71, tempo un mese e si ritrova al numero 4 della classifica britannica. Poco dopo anche gli Stati Uniti si accorgono di loro, con picco al numero 40 e un milione di copie vendute pian piano.
Oltre a essere il primo disco con Howe, è il canto del cigno di Kaye, che si alterna all'Hammond fra suoni chiesastici e distorsioni screziate di r&b. Molto abile anche al pianoforte, Kaye perderà gradualmente appeal agli occhi dei suoi compagni quando si tratterà di dover introdurre i sintetizzatori e il Mellotron nel proprio repertorio, strumenti a cui non sembrava minimamente interessato. In "Yours Is No Disgrace" lo si può udire al Moog con pregevoli risultati (suo è il memorabile tema che guida la cavalcata), ma convincerlo a suonarlo fu faticoso e la prospettiva di staccarsi dall'Hammond era per lui inaccettabile.
Se lo stile di Kaye raggiunge l'agognata maturità, quello di Squire dilaga. Il bassista co-firma tutti i brani più lunghi e li domina con le sue evoluzioni, i suoi tempi dispari, le plettrate pungenti e le armonizzazioni, rese possibili da un ingegnoso accorgimento tecnico. Il suo strumento viene infatti collegato a due amplificatori. Le note basse sono inviate a quello del basso, le più alte a quello di una chitarra, in questo modo evitando compressioni eccessive, fuzz non voluti e appiattimento delle dinamiche, problemi che fino a quel momento affliggevano il basso quando se ne distorceva il suono. Del volenteroso imitatore di John Entwistle non rimaneva ormai che un tenero ricordo.
È infine l'album in cui Anderson eleva le proprie ambizioni letterarie, componendo testi in cui inizia a confrontarsi con la spiritualità e a studiare il suono delle parole, a cui darà gradualmente sempre più importanza, arrivando in futuro a creare versi il cui primo requisito sarà quello di apparire armoniosi: il testo visto come uno strumento. Questo gli varrà talvolta l'accusa di buttare le parole a caso, francamente eccessiva dato che il potere evocativo, la descrizione paesaggistica e il confronto con gli stati emotivi dell'uomo non sarebbero in realtà mai venuti meno. Comunque, The Yes Album viaggia ancora in territori facilmente comprensibili, come dimostrano le metafore contro la guerra di "Yours Is No Disgrace".
"I've Seen All Good People" è il brano che cambia il destino degli Yes, invadendo le radio indipendenti. La prima metà è una ballata acustica che unisce una moltitudine di epoche e culture: armonie vocali West Coast, atmosfera celtica, chitarra portoghese, flautino da trovatore, crescendo corale con organo da chiesa. Quando si dissolve, scatta un rock acrobatico basato sugli incastri fra basso funk e chitarra country.
Forse è questo il segreto della simpatia del pubblico americano per gli Yes: il nuovo continente costituiva una parte importante e manifesta della loro musica. Tuttavia, la rilettura di quegli elementi prettamente americani dava un risultato lontano anni luce dalle rock band americane del momento. Gli Yes erano influenzati dal country quasi quanto il southern rock, ma nessuno avrebbe potuto confonderli con gli Allman Brothers. Prendevano quegli elementi e li sottoponevano a un processo di "europeizzazione". Il loro funk era assolutamente bianco e privo di carica sessuale, il loro country era trattato col piglio dell'antropologo che osserva il fenomeno dall'esterno.
Tutti i brani in scaletta sono diventati classici. "Clap" è un solo strumentale di Howe alla chitarra acustica, che omaggia dichiaratamente "Classical Gas" di Mason Williams e i ragtime del maestro Chet Atkins. "A Venture" è una marcetta per pianoforte e chitarra jazz, con la sezione ritmica che sposta continuamente gli accenti.
"Yours Is No Disgrace" si apre con uno staccato per trame d'organo, chitarra con wah wah e tonfi echeggianti di basso. Segue una cavalcata ariosa con le voci di Anderson e Squire all'unisono e tutti gli strumenti a disegnare melodie differenti, eppure perfettamente incastrabili.
"Starship Trooper" aggiunge la dovuta atmosfera spaziale, con tanto di uso del flanger, per quanto non si faccia mancare uno spiazzante intermezzo folk. Nel finale sfoggia quello che diverrà uno dei cavalli di battaglia dei loro concerti, un ossessivo crescendo strumentale basato su una frase chitarristica di Howe.
Il brano più complesso è "Perpetual Change", che oltre a contenere la miglior performance di Kaye (l'imponente organo in apertura, i deliziosi ricami pianistici nella parte in forma di ballata), mostra una delirante parentesi poliritmica quando, da 5' 30'' a 6' 20'' circa, i due canali suonano parti del tutto differenti, benché ancora una volta sommabili come se fosse la cosa più naturale del mondo. Il testo presenta dei simpatici trucchi fonetici (il ripetersi insistente del gioco di specchi "Inside out, outside in", embrione di ciò che verrà portato all'estremo nei dischi successivi) e riflette sul flusso degli eventi di cui l'uomo è in balia.
"E allora dirai, 'anche col tempo dobbiamo controllare il giorno', quando ciò che vedrai è che nel profondo il giorno controlla te e me".

The Yes Album sembrò probabilmente un disco perfetto nel 1971. Oggi la sua unica pecca è quella di avere una produzione lievemente appannata rispetto alle opere che lo seguirono, in cui Eddie Offord poté godere di budget mastodontici e mettere in atto i suoi disegni più ambiziosi. La composizione, l'arrangiamento e l'esecuzione appaiono tuttavia magistrali oggi come allora.

Nuova linfa (2)

Più o meno in concomitanza con l'uscita dell'album, gli Yes acquistano dagli Iron Butterfly un costoso sistema di amplificatori con monitor, spie e microfoni, che permette loro di sentire per la prima volta gli strumenti in maniera distinta e consente un notevole miglioramento delle performance dal vivo.
Al termine del tour, le divergenze fra Kaye e il resto della band, Howe in particolare, portano all'allontanamento del tastierista. Gli Yes stanno però diventando famosi e si rendono conto di dover trovare un sostituto nel minor tempo possibile. Anderson e Squire hanno le idee chiare: vogliono Rick Wakeman.
Wakeman ha da poco lasciato gli Strawbs, grande ma all'epoca ancora poco conosciuta formazione prog-folk, preferendo il sicuro ritorno economico dell'attività di turnista.
Trattandosi del migliore tastierista libero da impegni, tutti lo richiedono. In pochi mesi suona l'organo in tre brani da "Madman Across The Water" di Elton John e il pianoforte in "Morning Has Broken" di Cat Stevens, "Get It On" dei T. Rex e tre brani da "Hunky Dory" di David Bowie, fra i quali "Life On Mars?" (già un paio di anni prima si era prodigato al Mellotron per il Duca, in "Space Oddity"). Oltre a essere canzoni divenute sempreverdi della cultura pop-rock, sono tutte fortemente segnate dall'elegantissimo tocco di Wakeman, modellato sui suoi studi classici.
L'intesa è immediata e, stando a quanto racconta Wakeman, il giorno stesso del loro incontro si ritrovano a suonare quello che sarebbe diventato l'inno degli Yes, "Roundabout".

Nello stesso periodo altre innovazioni irrompono se non nella musica negli Yes, almeno nell'immaginario che la circonda. La prima sono gli show di luci orditi dal tour manager Michael Tait, comprendenti laser e altre trovate, spesso su indicazione di Anderson. La seconda sono le copertine di Roger Dean. Il giovane pittore e designer ha appena realizzato l'artwork per l'omonimo album degli Osibisa, un trionfo di colori caldi, geometrie e bestiario fantascientifico. La Atlantic lo suggerisce alla band, che trova interessanti le sue opere e accetta volentieri. Probabilmente senza immaginare che le visioni di Dean avrebbero penetrato la loro musica tanto a fondo da diventarne un simbionte. Generazioni di ammiratori degli Yes hanno finito con l'ambientarne mentalmente le opere nei mondi impossibili dell'artista.

bill_bruford.1971 - seconda parte

Fragile
è un piccolo pianeta in apparenza florido, che sul retro della copertina si svela eroso e cadente.
Il disco esce il 26 novembre del '71, entra al numero 7 in Gb e scende piuttosto velocemente, ma la band non ne è troppo dispiaciuta, perché questa volta il vero obiettivo è l'altra sponda dell'Atlantico. Il trionfo viene sancito nel marzo del '72, con un picco al numero 4 della classifica di Billboard. A oggi l'album è sopra i tre milioni di copie sul solo mercato anglofono, risultato impressionante per musica tanto tortuosa.
Il motivo che rende il suono del disco così pieno e scintillante è presto spiegato dal sibilo ascendente che lo apre, sette secondi di pianoforte mandato al contrario, per ottenere i quali Offord passa diverse ore a tagliare e aggiungere nastri. Nonostante i suoi problemi con l'alcol, Offord è l'uomo giusto al posto giusto, disposto a sessioni massacranti pur di ottenere ciò che la band richiede.
La canzone è "Roundabout", la guidano un superbo gioco ritmico di chitarra acustica, fatto di arpeggi e armonici, e una articolata linea di basso. Stando a Squire, al basso è stata sovraincisa una chitarra elettrica non amplificata, allo scopo di dare più corpo al suono, tuttavia lo strumento aggiunto è praticamente impercettibile. Ben ravvisabili sono invece le iniezioni di synth che svolazzano in mezzo ai versi di Anderson, la danza percussiva di Bruford a partire da 3' 25'', il focoso assolo d'organo verso la fine. Questo proteiforme funk-rock celtico invade le radio Fm di mezzo mondo.
Fra i brani più lunghi si trovano anche "South Side Of The Sky", dalle perfette armonie vocali e con il piano post-romantico di Wakeman a impreziosire la parte centrale, e "Heart Of The Sunrise", quasi undici minuti di ballata apocalittica dilatata e drammatizzata da una partitura strumentale ora furibonda, con Howe in una fuga senza fine, ora cesellata dal Mellotron di Wakeman e dagli arabeschi della sezione ritmica. Bruford e Squire si rincorrono cambiando continuamente andamento, in un profluvio di tempi composti.
La suite riprende il sentore cosmico già accennato da "Starship Trooper" e lo porta all'estremo, adattandosi perfettamente agli interrogativi esistenziali di Anderson: "L'amore viene verso di te e poi, sogna nel cuore dell'alba. Distanza profonda, come può il sole con le sue braccia intorno a me. Distanza profonda, come può il vento con così tanta gente intorno a me. Mi sento perso nella città".
Il resto dello spazio è occupato da brani meno impegnativi, ma non meno squisiti.
"Mood For A Day" è una serenata strumentale dal sapore andaluso, eseguita da Howe alla chitarra flamenco. "The Fish" un carosello di bassi sovraincisi in cui Squire gioca con l'effettistica. "Five Per Cent For Nothing" è un frammento di Bruford talmente sincopato e anti-musicale da sembrare suonato in chissà quale assurda metrica. Si rivela in realtà un 4/4. "We Have Heaven" è una filastrocca folk con citazioni da Lewis Carroll, basata sulla voce di Anderson che somma linee su linee, sfruttando ogni volta un filtro diverso.
Sempre Anderson scrive "Long Distance Runaround", uno dei brani più pop degli Yes, così orecchiabile eppure così raffinato, con la melodia in minore, lo spigoloso riff di Howe, lo staccato di pianoforte e le strofe poliritmiche dove Bruford se ne va per i fatti suoi.

La ristampa del 2003 contiene anche una cover dilatata di "America" di Simon & Garfunkel, in origine inserita in un disco promozionale della Atlantic. Merita una citazione perché paradigmatica di uno stile e un genere. La ballata viene frantumata e poi ricomposta in uno stillicidio strumentale di digressioni, sottolineature, inserti, un po' come se la versione di Simon fosse un sunto da cui gli Yes hanno estratto un testo. Potrà non piacere, ma "America" è, nella comparazione delle due versioni, una straordinaria esemplificazione dell'approccio musicale non solo degli Yes, ma di tutto il progressive. È musica di grande impatto strutturale, in cui un caleidoscopio di voci solistiche erige cattedrali sonore di debordante creatività.

1972

Quando il generico ascoltatore rock parla di prog, l'album di riferimento è il debutto dei King Crimson. In realtà quel disco - bello e mitologico quanto si vuole - non rappresenta la pienezza espressiva neanche per la band che lo produsse, figurarsi per il genere. Chi è davvero dentro l'universo in questione sa che la stella polare è un'altra, e si intitola Close To The Edge.
Motore perfetto del rock progressivo e rarissimo caso di disco senza una nota fuori posto o un istante di troppo, nei suoi solchi sparisce il confine fra equilibrio e sofisticazione, fra impeto e dolcezza, fra architettura e misticismo. L'incanto è tale che le dissonanze degli strumenti elettrici appaiono delicate e, di contro, gli arpeggi di quelli acustici si gonfiano neanche fossero sinfonie.
La complessità è seconda solo alla forza comunicativa di questa musica, che senza neanche l'ombra di un brano radiofonico, nell'autunno del '72 si porta al numero 4 in Gb e al 3 negli Usa.

La cura per il dettaglio si è fatta spossante, più volte Offord si ritrova a crollare di stanchezza sulla console. Solo per realizzare il suono di ruscelli, uccellini e campane a vento che apre l'album, fu necessario mettere a punto un nastro di dodici metri. "Oggi basterebbe premere due tasti", farà notare molti anni dopo Wakeman al giornalista Chris Welch. A pensarci bene, è evidente che molte fra le più grandi innovazioni del rock siano nate proprio nell'atto di affrontare i limiti tecnologici del proprio tempo.
Il primo lato dell'album è occupato dal brano omonimo, di quasi diciannove minuti. L'introduzione bucolica sfocia presto in una giungla strumentale con metrica composta, guidata da una scala ascendente di Squire. Intorno fiammeggiano Howe, con pennate velocissime che disegnano linee acute e spigolose, e Wakeman, con incomprensibili squittii ottenuti alterando in qualche modo l'organo elettrico, o almeno così si presume, visto che dal vivo quel suono non è mai stato ripetuto.
Dal caos emerge quindi una canzone dalla struttura camaleontica, inframezzata da arabeschi di ogni tipo, come l'organo in codice morse a partire dal quinto minuto, il famoso staccato di basso a 6' 4'', i lampi di Mellotron e i micro-temi tastieristici che ricorrono compulsivi.
A 8' 30'' il brano si sfalda all'improvviso, come cadesse in uno specchio d'acqua. Placidi strati di sintetizzatore si attorcigliano lentamente in un'ascesa verso il paradiso che anticipa di fatto mezza discografia new age. Dopo un trionfo barocco di organo a canne, registrato nella chiesa di Saint Giles a Londra, la sezione ritmica rientra furiosa e Wakeman si avventa sull'Hammond scaricando una valanga di note. La band si riaggancia così alla forma-canzone e sfocia in un finale estatico, che vede gli strumenti spegnersi nei suoni pastorali da cui sono sorti.
Possibile metafora sonora della vita e interrogazione sull'esistenza dal piglio filosofico orientale, che ne spiega la struttura ciclica, "Close To The Edge" è la messa in scena dei disegni mentali di Anderson. Il suo testo è uno zibaldone che affronta la morte, la felicità, la condizione umana come moltitudine di anime ("Come distante da qualsiasi realtà che tu abbia mai visto e conosciuto, indovinando i problemi solo per ingannarne l'accenno, attraversando sentieri che si arrampicano a mezza via nel nulla, mentre li passiamo da parte a parte, sentiamo l'eredità di un popolo intero"), ma offre anche doverosi spunti polemici contro le religioni organizzate ("Quanti milioni di persone inganniamo ogni giorno?").
Anderson è interessato anche alla forma, che da bravo architetto musicale considera inscindibile dalla sostanza, e organizza con Squire e Howe armonie vocali intense e raffinate, che giocano per tutto il tempo con le metriche, le tonalità e i vocaboli. Celebre è la trovata di interpolare di volta in volta le parole di uno dei refrain, creando nuovi suoni e significati, ma rispettando sempre la stessa cadenza ("Down at the edge, close by a river/ Close to the edge, round by the corner/ Close to the end, down by the corner/ Down at the edge, round by the river [...] Down at the edge, round by the corner").
Il secondo lato si apre con "And You And I", composita ballata di folk barocco interrotta da qualche garbata accelerazione e da maestosi temi di Mellotron e Moog, che creano l'ennesima connessione fra spazio siderale e intimismo meditativo. Particolarmente apprezzati rimarranno gli armonici di chitarra acustica posti in apertura e i possenti colpi di piatti che scandiscono le parti più solenni.
Sorta di raccordo in chiave funk fra rinascimento e futuro da saga fantasy, "Siberian Khatru" è il momento dell'album che si avvicina maggiormente a una canzone vera e propria. Pur contenendo numerose variazioni, gira infatti intorno a un riff di chitarra e a un tema di tastiere, scorrendo più come un flusso unitario che come un patchwork. Fa sorridere che venga considerato il pezzo più semplice del disco, essendo in realtà estremamente laborioso: Wakeman che si prodiga in un assolo di spinetta e ricama con il Mellotron, Howe che a 3' 47'' piazza un'intensa divagazione controtempo, il basso di Squire che muta per tutta la durata, passando da raffiche di note distorte a passi felpati in forma di swing, o meglio di come suonerebbe lo swing in un romanzo di fantascienza vittoriana.
Il testo è uno dei più incomprensibili di Anderson, un collage di accostamenti paesaggistici e frasi sconnesse, praticamente intraducibile, ma fra i più arditi a livello sonoro, come testimonia il crescendo di termini in coppia, da 5' 27'' in avanti, fino a sfociare in uno stacco onomatopeico, quando la voce è ormai solo un timbro e la comunicazione verbale superflua. L'album termina in una fuga strumentale intorno al tema tastieristico, che si dissolve lentamente lasciando un retrogusto epico e malinconico al contempo.

L'affascinante copertina di Roger Dean è un semplice sfondo verde che si scurisce gradualmente verso l'alto fino a sfiorare il nero, senza disegni all'infuori del titolo e del logo a nuvoletta degli Yes, da lì in avanti una sorta di loro marchio ufficiale.

Nuova linfa (3)

Nonostante la performance smagliante che ha cesellato per Close To The Edge, e i copiosi proventi economici derivati dal crescente successo, Bruford sente di non aver più niente da apportare alla causa degli Yes. Con una mossa di grande coraggio, li lascia per entrare nei King Crimson, scegliendo di seguire il suo istinto artistico anziché quello imprenditoriale. Se Bruford è ammirevole nella sua coerenza, meno ammirevoli sono i talebani che ancora oggi indicano il suo abbandono come fine degli Yes. La band avrebbe invece prodotto dischi brillanti ancora per molto tempo.

L'improvviso cambiamento non impedisce al 1973 di diventare uno degli anni più fortunati della band. A maggio esce Yessongs, album dal vivo composto da tre vinili. A dispetto della mole e del prezzo, il disco raggiunge il numero 7 in Gb e il 12 negli Usa, dove supera senza difficoltà il milione di copie.
Vi trova già spazio un nuovo batterista, Alan White, amico di Offord che aveva suonato a lungo per John Lennon e bazzicava lo studio di tanto in tanto. Con il tour imminente, White si trovò a dover imparare tutte le parti nel giro di pochi giorni. Quando riuscì nell'impresa, fu chiaro che difficilmente qualcuno l'avrebbe schiodato da quello sgabello. Il suo stile è più muscolare rispetto a quello di Bruford, ma nonostante giochi meno di fioretto, si rivela perfettamente abile nell'edificare i complessi pattern di cui i compagni abbisognano.
A fine anno gli Yes vincono il sondaggio di Melody Maker, e Wakeman viene premiato come miglior tastierista. Eppure i suoi rapporti con Anderson iniziano a incrinarsi e le sessioni per il nuovo album lo vedono particolarmente scontento.

rick_wakeman1973

Concept-album ispirato da testi sacri induisti, Tales From Topographic Oceans esce il 14 dicembre in un clima di attesa spasmodica e raggiunge il tanto agognato numero 1 della classifica britannica. Negli Usa si ferma al 6, ma il risultato è ottimo considerata la struttura decisamente poco amichevole (doppio vinile e brani che vanno dai diciannove ai ventidue minuti).
In copertina, pesci che fluttuano nell'aria sotto un immenso cielo stellato, e piramide azteca sulla sfondo.
Eccettuata un'entusiastica recensione sul Times, l'opera venne annientata dalla critica, e ancora oggi se ne leggono di ogni sorta sul suo conto, dalle accuse di eccesso e ridondanza a frasi come "il disco che per contrasto stimolò la nascita del punk".
Si perdoni la parentesi, ma si tratta di un falso storico troppo eclatante per non soffermarcisi. Il punk nacque per il confluire di molteplici situazioni, situazioni che poco avevano a che vedere con la necessità di liberarsi del rock progressivo, musica che riguardava strati sociali e geografie piuttosto differenti. L'errore di immaginare la storia del rock come un impero prog che all'improvviso viene abbattuto dalle invasioni barbariche del punk è quanto di più ingenuo si possa sostenere nel nuovo millennio, eppure in molti ancora lo diffondono e ci si rifugiano, preferendo quello che è un simpatico romanzo alla realtà dei fatti.

Ad ogni modo, l'album contiene materiale di gran pregio almeno per tre delle quattro facciate.
"The Revealing Science Of God" parte con una digressione vocale in crescendo che, al culmine della tensione, si apre e si dilata in un lago strumentale di grande fascino. Il brano è notevole, suonato e gestito con perfezione chirurgica, pieno di anfratti strumentali e di liriche melodie, molto più pacato e lineare rispetto alle convulsioni delle prove precedenti.
Meno interessante è "The Remembering", unico punto debole dell'opera, che riprende il clima del primo brano ma con melodie molto più banali, con un'aria da carillon reiterata oltre il lecito, come se il gruppo non avesse più idee e avesse allungato un brano da tre minuti fino a farne una suite.
"The Ancient" è un po' la pietra dello scandalo, un coacervo apparentemente in forma libera, ma in realtà lucidissimo, con stacchi di Mellotron, ritmiche insistite e tribali, vocalizzi e passaggi di jazz astrale, divagazioni chitarristiche quasi in stile Robert Fripp e uno splendido finale con ballata acustica. È un brano oscuro, anti-naturalistico, sofisticato, un vero gioiello.
La chiusura è affidata a "Ritual", che dopo aver alternato una cavalcata strumentale furibonda e una romantica ballata, lascia spazio a uno dei momenti più futuristici degli Yes. Da 14' 20'' a 16' 55'' circa, White imbastisce un assalto di tamburi e campanacci sopra cui Wakeman srotola infernali cacofonie elettroniche. Nel 1973 l'industrial ancora non esisteva, e certamente non era nelle intenzioni degli Yes teorizzarlo, tuttavia l'effetto finale di quei momenti è incredibilmente vicino a ciò che anni più tardi sarebbe stato etichettato in quel modo.

Nuova linfa (4)

La sua carriera da solista, capace di numeri impressionanti, e i litigi con Anderson ormai insostenibili, spingono Wakeman alla sofferta decisione di lasciare la band. Proprio pochi giorni dopo il tastierista ha un infarto, dovuto probabilmente agli eccessi di alcol, e Anderson decide di mettere da parte i rancori personali chiedendogli di rientrare una volta tornato in salute. Wakeman apprezza il gesto, ma conferma la sua posizione.
Il suo apporto ha di fatto dato colore agli Yes, elevandoli dalla crudezza di Kaye - preziosa ma limitata al solo organo elettrico - a una tavolozza infinita capace di tirare dentro qualsiasi strumento a tastiera. Il rimpiazzo avrà un'ombra importante con cui confrontarsi.
Si pensa inizialmente a Vangelis, ma il terrore del musicista greco per gli aerei avrebbe reso impossibile qualsiasi tournée. L'offerta viene declinata e la band punta su Patrick Moraz, immigrato svizzero che ha appena registrato un album a nome Refugee in compagnia di ex-membri dei Nice, presto finito nel dimenticatoio.

1974

Relayer
esce il 28 novembre, issandosi al numero 4 in Gb e al 5 negli Usa. Le recensioni sono più clementi rispetto a quelle del predecessore, Melody Maker e Billboard addirittura lo esaltano. Oggi come oggi, l'opinione generale è polarizzata fra una minoranza che lo stronca imputandogli gli stessi difetti di Tales e una maggioranza che invece ne riconosce l'unicità e l'urgenza espressiva, celebrandolo fra i migliori dischi dell'epopea progressiva, quale è.
La struttura della scaletta rimanda invero a Close To The Edge, con un brano sul primo lato e due sul secondo. Il disco chiude il ciclo in cui gli Yes hanno mirato a costruire una forma di scrittura espansa, all'infuori dei canoni della popular music. Se i santoni del rock anni Sessanta ricorrevano a frammenti di musica indiana, dandone una versione all'acqua di rose e del tutto filo-occidentale, gli Yes sembrano mirare a un processo inverso: spostare il rock verso le filosofie orientali, anziché importarle e sfruttarle secondo regole a esse estranee. In sostanza, senza raga-rock a buon mercato, ma con sapienti giochi di allentamento delle maglie compositive della canzone standard: non per entrare nel regno del "tutto è permesso", ma per far emergere la dimensione "olistica" di una scrittura che guardi oltre il patchwork di vari temi pop.
"The Gates Of Delirium", ventidue minuti di durata, è la descrizione di una battaglia. Dopo un'introduzione pastorale, il brano sale di intensità. Le armonie di Anderson e Squire dominano da 2' 10'' a 7' 50'', attraversando una melodia rigogliosa e diversi mutamenti d'atmosfera. Man mano che si procede verso il cuore della battaglia la musica si incattivisce, fino a sfociare in una sezione strumentale di dieci minuti che rimane a oggi la creazione più violenta nella storia della band. Temi distorti di synth e chitarra, con note acute fino allo spasmo, si susseguono con la velocità di un fiume in piena, mentre la trama strumentale viene rimpinzata con effetti elettronici creati dalla band usando materiali di scarto, nonché da pezzi di automobile percossi e nastri di rumori carpiti dall'esterno. Le cavernose linee di basso guidano un andamento ritmico astruso, che culmina in una marcia trionfale in 11/4.
Tenendo più che mai fede al titolo, è musica frastornante e tragica, un tornado di timbri metallici e aguzzi, un pezzo prog con le sembianze di un pugnale. Intorno al sedicesimo minuto la battaglia giunge però al termine, lasciando spazio a un'invocazione di speranza in forma di ballata. La guida una splendida melodia di Howe alla pedal steel guitar, mentre l'angelica voce di Anderson si staglia sulle distese del Mellotron di Moraz, in un clima di pace profonda. Questa sezione, conosciuta con il sottotitolo di "Soon", è uscita anche come 45 giri e si è imposta nel corso dei decenni come uno dei loro cavalli di battaglia.
Il lato B è inaugurato da "Sound Chaser", una forsennata miscela di space rock e jazz fusion. I musicisti brillano, ritagliandosi ognuno il proprio spazio, fra scale supersoniche di synth funkeggianti e pianoforte elettrico, assoli di chitarra che echeggiano nel vuoto e linee di basso che accelerano e rallentano senza sosta. È musica che suona futuribile ancora oggi, anche se la parte più nota è il refrain onomatopeico voluto da Anderson, che irrompe durante le divagazioni dei compagni sentenziando: "Cha cha cha, cha cha!".
Chiude "To Be Over", nove minuti di ballata new age dove Howe riesce a piazzare in perfetta armonia sitar e chitarre country. Benché molto ricca a livello armonico, rischia quasi di apparire lineare se confrontata a ciò che l'ha preceduta.

Dopo Relayer la musica degli Yes subirà una forte normalizzazione a livello descrittivo. Se i brani rimarranno densi di cambi e trovate, questi verranno quasi sempre inseriti in canzoni piuttosto definite e mediamente molto più brevi. Tuttavia, ciò che rende davvero unico il disco è il suo suono, impensabile con la formazione di due anni prima.
Bruford non avrebbe infatti mai immaginato di suonare la batteria con la crudeltà che mostra White in questo disco, imbastendo cavalcate tempestose e picchiando sulle pelli con foga. E Wakeman non avrebbe mai saputo approcciarsi alle tastiere con il tocco jazz di Moraz, che è il vero punto focale dell'opera. Moraz è capace della visceralità dell'improvvisatore di razza, che negli anni Sessanta l'aveva portato ad aprire le esibizioni di jazzisti del calibro di John Coltrane.

1975-76

Il 1975 viene speso parte in concerto e parte registrando gli album solisti dei vari membri, alcuni dei quali di buon successo.
Il 19 ottobre esce "Yessongs", film ottenuto dagli stessi concerti dell'omonimo album di tre anni prima. È un documento visivo imperdibile, oltre che per le riprese di buona qualità, perché dà per la prima volta ai fan di tutto il mondo la possibilità di capire che macchina da guerra siano gli Yes dal vivo. Splendido il vestiario, fra tutine eccentriche e mantelli da corte di Camelot, la specialità di Wakeman. Fra chi ascolta rock alternativo va ancora oggi di moda deridere quei costumi, gente che poi passa metà del proprio tempo a commentare "Game Of Thrones", a dimostrazione di come la legge del contrappasso sia una realtà inappellabile.

Nel giugno del '76 la band suona al Jfk Stadium di Filadelfia davanti a più di centomila persone. I guadagni di quel tour sono faraonici e tutto sembra andare per il meglio.
Quando però ci si reca in Svizzera per iniziare le prove del nuovo album, qualcosa va storto. Proprio la mano che ha reso Relayer un disco tanto singolare, si ritrova poco adatta al sound degli Yes, che hanno deciso di tornare a confrontarsi con la forma-canzone. Servirebbe qualcuno dal tocco più proporzionato, più regale... insomma servirebbe Wakeman. Moraz capisce l'antifona e saluta la band, pur mantenendo un bel ricordo del periodo passato con loro, e Wakeman rientra volentieri, sia perché apprezza la marcia indietro degli Yes verso musica più semplice, sia perché la sua carriera da solista appare in fase calante dal punto di vista commerciale.

chris_squire1977

Going For The One
non è però una svolta solo in termini di contenuto musicale, bensì anche a livello di rapporti personali. È infatti il primo disco prodotto dagli Yes senza aiuti esterni (Offord era ormai perso nei propri demoni e avrebbe da quel momento in poi lavorato a poche cose di rilievo, pur piazzando un bel colpo nel 1984, alla regia del secondo album dei Pallas, il classico neo-prog "The Sentinel"). Cambiamenti anche in copertina, dove lo studio Hipgnosis sostituisce Roger Dean, con un lavoro abbastanza efficace, anche se non granché adatto alla musica degli Yes.
Nell'anno della deflagrazione punk, il quintetto tocca il vertice del successo in patria, dove il disco si impone al numero 1 e sfiora il mezzo milione di copie. Negli Usa si fa bastare un comunque dignitoso numero 8.
La title track è un country-rock con tastiere astrali, polifonie vocali e aggressivi riff di pedal steel guitar. "Parallels" è basata su un ritmo squadrato e incessante, interamente sommerso da un potente organo da chiesa. La ballata folk "Wonderous Stories", semplice ma incantevole, ottiene un buon successo come 45 giri. Altra ballata, ma dalle tinte più eteree, "Turn of the Century" viene concepita da White su alcune linee chitarristiche di Howe. Il batterista rinuncia al proprio strumento, preferendo puntellare con idiofoni metallici. È sicuramente la sua performance più delicata.
Il problema è "Awaken", sedici minuti in cui gli Yes visitano nuovamente i territori in seguito indicati come new age. È uno dei loro brani più amati, una critica nei suoi confronti viene solitamente vista come blasfemia, tuttavia non si può fingere che regga il paragone con la ricchezza delle suite dei dischi precedenti, già solo per il fatto che reiteri alcuni temi per diversi minuti. L'album nel complesso è comunque solido e i brani più brevi sono tutti irresistibili.

1978

A differenza del resto del mondo, dove il punk è ancora appannaggio di quattro gatti, in casa la band deve combattere l'invasione di creste e chiodi. Se è vero che il punk non fu una reazione al rock progressivo, bensì la naturale evoluzione di generi come il garage-rock e il primo rock'n'roll negli Stati Uniti, o come il glam e il pub-rock in Gran Bretagna, e se pure è vero che l'ala americana del movimento non era interessata alle sorti del rock progressivo, è di contro anche vero che a Londra e dintorni il baraccone attecchì anche grazie alle montature di Malcolm McLaren e della stampa specializzata, che indentificò nel rock progressivo il male da estirpare. Spesso a discapito degli stessi musicisti punk, che in molti casi erano cresciuti col prog e l'amavano - si pensi a Keith Levene, fondatore di Clash e Public Image Ltd, o a Maurice Deebank, chitarrista dei Felt, entrambi fan sfegatati degli Yes. Lo stesso Johnny Rotten si sarebbe svelato di lì a breve ammiratore dei Van Der Graaf Generator, mostrando l'infondatezza di quella teoria una volta per tutte.

Sia come sia, per qualche tempo il nome degli Yes risulta poco accattivante in Gran Bretagna, e questo spiega l'improvvisa flessione nelle vendite riguardante Tormato, che non supera l'ottava posizione. Li consolerà il milione di copie venduto negli Usa, con picco al numero 10.
È un disco controverso, di cui vengono solitamente lodate le canzoni e stroncata la produzione. I brani più aggressivi soffrono in effetti per la mancanza di profondità del suono, ma gli arrangiamenti sono ricchi e inusuali, le dinamiche vorticose, le melodie vincenti e le atmosfere più variegate che mai. Nonostante tutte le critiche ricevute, ancora oggi la band ne esegue i brani dal vivo e il pubblico li acclama, a riprova della bontà del materiale.
È però soprattutto un disco coraggioso, angolare nella storia della band se si considera che rappresenta il momento in cui gli Yes impattano con la new wave, adottandone parte dei suoni. Mettendolo a paragone con un disco come "Secondhand Daylight" dei Magazine, il più progressivo del post-punk inglese, si notano diversi punti di contatto.
"Future Times/Rejoice" è una marcia fiammeggiante di armonie ariose e tastiere fluttuanti, con Anderson a sciorinare le ormai proverbiali profezie su guerre e religioni.
Per sottolineare la nervosa melodia dell'inno ecologista "Don't Kill The Whale", Squire inventa un'inaudita linea di basso, plastica e sincopata, che potrebbe tranquillamente rientrare nel repertorio di Barry Adamson, a riprova di quanto si diceva sulla vicinanza ai sentori delle nuove leve della musica britannica. "Circus Of Heaven" tenta addirittura la carta del reggae, e per quanto la band non risulti a suo agio, la voglia di mettersi in gioco è ammirevole.
In "Arriving Ufo" si può udire ogni tipo di bizzarria: bassi e chitarre filtrati fino a generare risucchi indistinguibili, voci che si trasformano in sibili, scansioni ritmiche dal timbro elettronico ottenute non si sa come, segnali intermittenti, folate di tastiere sinfoniche, ritmi spezzati all'improvviso. È notevole come nonostante tutto il brano riesca a stare in piedi e a mostrare una certa compiutezza pop. A tratti sembra già di sentire i Buggles.
Squire firma il momento più poetico, il superbo lento orchestrale "Onward". "Contenuto in tutto ciò che faccio, c'è un amore che provo per te, proclamata in tutto ciò che scrivo, sei la luce che brucia, brillante". È il testo più comprensibile degli Yes dai tempi di "Time And A Word". Anche se si addice ben poco all'orrenda copertina con pomodoro spappolato, per fortuna l'ultima di Hipgnosis.

Nuova linfa (5)

"Non ho mai avuto problemi nel comunicare con gente di altri paesi. Sono stato sempre coraggioso nella scelta dei compagni di lavoro, non devi per forza essere inglese per fare buona musica. Questa invece è stata una costante nel lavoro degli Yes. Verso la fine degli anni Settanta mi ribellai a quest'idea e dissi che non c'era ragione alcuna per non scrivere musica in senso più ampio" (Jon Anderson).

È così che, dopo averla vista perdere il 1979 intorno a un album prodotto da Roy Thomas Baker, poi cancellato per incompatibilità caratteriali, Anderson decide di mollare la band. A dargli la spinta definitiva è il successo commerciale del progetto Jon & Vangelis, che all'inizio del 1980 piazza una notevole hit con "I Hear You Now".
Irrequieto cronico, Wakeman lascia a sua volta, convinto che per il gruppo non ci sia futuro. Così mutilati, gli Yes sembrano effettivamente al capolinea, se non che stringono amicizia coi Buggles dopo averli conosciuti in uno studio di registrazione.
Caso vuole che i Buggles siano composti proprio da un cantante e un tastierista, Trevor Horn e Geoff Downes, e che siano tecnicamente molto superiori alla media delle band new wave. Hanno appena pubblicato un capolavoro quale The Age Of Plastic, che sposa le sonorità e la forma del nuovo pop con la raffinatezza art-rock di qualche anno prima, nonostante i più lo riducano al solo tormentone "Video Killed The Radio Star". A costoro è caldamente consigliato un ripasso di gemme come "Kid Dynamo", "Clean Clean" e "Johnny On The Monorail". L'album mostra peraltro fieramente l'influenza degli Yes. I due sono dei fan accaniti e non par loro vero di entrare a far parte della squadra, sebbene Horn avrebbe sofferto il fatto di dover rimpiazzare un'icona come Anderson.

1980

Le sessioni scorrono veloci in un clima di entusiasmo, e in agosto Drama è nei negozi. Passata la sbornia punk, nessuno si deve più vergognare degli Yes e le vendite tornano ai livelli passati, con un bel debutto al numero 2 in Gb. Va peggio negli Usa, numero 18 dovuto probabilmente al fatto che alla band manchi su quel mercato ormai da troppi anni un vero singolo d'impatto.
La tournée americana è comunque coronata da diversi sold out al Madison Square Garden. Il che porterebbe a domandarsi dove siano finiti quei soldi, dato che lo storico manager Brian Lane viene licenziato proprio a causa degli scarsi proventi derivati da quella serie di concerti. Magie dell'epoca d'oro del rock, quando i musicisti muovevano soldi a quintali e se li facevano scomparire sotto al naso. O semplicemente li sperperavano, a seconda di quale campana si ascolti.

Tornando all'album, tanto venne stroncato all'epoca quanto rivalutato in seguito. È un vero ibrido prog-new wave, o meglio Yes-Buggles, dai suoni estremamente moderni, con una produzione superiore a quella di Tormato e una copertina, grazie al cielo, di nuovo in mano a Roger Dean.
"Machine Messiah" vanta synth tirati a lucido, riff hard-rock, arpeggi acustici e armonie vocali tanto colorate da far credere che Anderson sia ancora in partita. "Does It Really Happen" contiene una delle più iconiche galoppate di basso nel repertorio di Squire, mentre "Run Through The Light" risente dei coevi lavori dei Police. "Into The Lens" inframezza romanticismi al pianoforte, ritmi marziali e contrappunti vocali filtrati al vocoder, con Howe che sperimenta suoni su tre diverse chitarre.
A dispetto del fatto che è stato composto principalmente dall'ala Yes del gruppo, "Tempus fugit" è il brano più vicino allo stile dei Buggles, almeno dal punto di vista melodico, e testimonia una perfetta fusione fra i due volti del progetto.

La maggior parte del pubblico sembra apprezzare il lavoro dei due nuovi membri, ma Horn rimane molto segnato da un paio di contestazioni subite durante il tour britannico, in cui alcuni facinorosi invocarono Jon Anderson. Un po' questi eventi, un po' il dissesto economico provocato dalle incomprensioni con Lane portarono di lì a breve allo sfaldamento della formazione.

Nuova linfa (6)

Gli Yes cessano di esistere all'inizio del 1981, e per un paio d'anni sembra che la cosa sia definitiva. Squire e White sono tuttavia ancora in contatto. Dopo aver tentato senza successo di coinvolgere Jimmy Page e Robert Plant in un supergruppo, decidono di dare vita a un nuovo progetto, di nome Cinema. Arruolano così un immigrato sudafricano, Trevor Rabin, che nella seconda metà dei Settanta aveva guidato i Rabbitt, band dedita a un prog-rock muscolare e invecchiato piuttosto bene. Il nuovo nucleo ha quindi l'idea di richiamare nientemeno che Tony Kaye per le tastiere, il quale accetta all'istante.
Le registrazioni iniziano alla fine del 1982 e risultano alquanto turbolente. Kaye lascia di nuovo, per lo stesso motivo che l'aveva fatto fuoriuscire una decina d'anni prima: non è a suo agio con le tastiere più moderne. Squire riesce a fargli cambiare idea dopo qualche mese, ma a quel punto gran parte dell'album è già stata approntata e Kaye inserisce solo qualche ritocco di organo e pianoforte. Il resto delle tastiere sono suonate da Rabin e da Trevor Horn, questa volta nel ruolo di produttore esterno.

alan_white.1983

Nonostante l'impegno della squadra, la Atlantic non è ancora del tutto convinta e i costi di produzione iniziano a lievitare. A quel punto Squire incontra Jon Anderson, portandogli un paio di demo e facendogli capire che potrebbe salvare il progetto. Anderson rimane impressionato dalle canzoni e accetta di tornare, a patto che gli venga data la possibilità scrivere qualche verso e modificare alcune melodie. Il gioco vale la candela, il rientro di Anderson convince l'etichetta a sganciare più soldi e a quel punto appare evidente che la band tornerà a chiamarsi Yes.
90125 esce il 7 novembre dell'83, dopo tante tribolazioni. Il successo è enorme: tre milioni di copie negli Usa (numero 5 e un anno di permanenza in classifica), mezzo milione in Germania, 450mila in Francia, 200mila in Canada, 100mila persino in Italia, dove gli Yes non avevano mai attecchito prima, a differenza di altri giganti del prog.
Paradossalmente, farà fatica proprio in Gb, a causa del suono intinto per buona parte nelle dinamiche del rock da arena americano, mai troppo popolare da quelle parti. Piazzandosi al numero 16, sarà il loro disco meno venduto dai tempi di Time And A Word, anche se pian piano riuscirà a toccare le 100mila copie. A ogni modo, nel resto del mondo è festa.

Il trionfo si deve interamente a "Owner Of A Lonely Heart", due settimane al numero 1 negli Usa come 45 giri, uno dei capolavori della musica anni Ottanta. Il video, che spopola su Mtv, è diretto da Peter Christopherson e Storm Thorgerson.
Se nei fatti la canzone si piazza da qualche parte fra new wave e Aor, la sua indole rimane progressiva fino al midollo, gonfia com'è di stop, ripartenze, impennate e trovate ad effetto. La bravura di Horn consiste nel presentarla come un semplice pezzo pop-rock.
Di semplice non c'è proprio niente: apertura con un breakbeat di batteria campionata (probabilmente il primo della storia), parti di tastiera suonate al Synclavier, deformi schizzi fiatistici programmati al Fairlight, suoni che nessuno ha mai udito prima di allora. Anche gli altri si danno un gran da fare, con Rabin che piazza un assolo tagliente come una lamiera e Squire che lo segue con le note allungate del basso fretless, oltre a ideare il celebre ponte in stile Motown. La voce di Anderson che raggiunge altezze imperiose è ultimo ricamo di un pezzo inattaccabile.
Almeno altre due canzoni di 90125 viaggiano a queste altezze. Una è "Changes", elaborato rock d'atmosfera che torna dalle parti dei Police, non prima di aver piazzato un'intro polimetrica di marimba e batteria sincopata, ideata da White. L'altra è "Leave It", di gran lunga il più complesso arrangiamento vocale della carriera, probabilmente con un piccolo aiuto da parte dei campionatori, un labirinto capace di far impallidire i gruppi vocali anni Sessanta. Il relativo video è diretto dalla premiata ditta Godley & Creme.
Il primo e unico Grammy della carriera glielo fa però vincere il tumultuoso strumentale "Cinema", non che una band di questa statura necessiti di simili fanfaronate per essere legittimata.
La copertina è a cura di Garry Mouat e grida anni Ottanta da ogni centimetro. Difficile darle torto.

Sipario?

La parte finale della carriera degli Yes non merita particolari approfondimenti. Dopo quindici anni consecutivi di grande musica, attraverso gli stili più disparati, il capolinea creativo è inesorabile. I cambi di formazione vengono citati solo per completezza, ma plausibilmente non faranno che confondervi, sia per il continuo andirivieni dei vecchi membri, sia perché i nuovi ingressi da questo momento in poi si riveleranno del tutto superflui per la storia della band.

Nel 1987 i cinque di 90125 pubblicano Big Generator (numero 17 in Gb, numero 15 negli Usa, due milioni di copie nel mondo). L'effetto sorpresa è stato smarrito, anche se i singoli "Rhythm Of Love" e "Love Will Find A Way" sono scintillanti bomboniere pop, nonché le ultime canzoni degli Yes veramente note. La scaletta offre purtroppo poco altro.

Nel 1989 Anderson mette in piedi una squadra alternativa con vecchi membri degli Yes. Squire gli nega però l'utilizzo del marchio, e l'album esce a nome Anderson Bruford Wakeman Howe. Niente di miracoloso, prendono però le distanze dal gruppo ufficiale riproponendo un album, per quanto leggero, di rock progressivo.

Nel 1991 è il turno di Union, che cerca di portare l'armistizio fra le due versioni della band, raccogliendo tutti e otto i musicisti. Pur non contenendo materiale di rilievo, vende un milione di copie (numero 7 in Gb e 15 negli Usa). Sarà l'ultimo notevole riscontro commerciale della carriera.
Per il modesto Talk (1994) la formazione si è nuovamente ridotta a cinque membri: è l'ultimo album per Kaye e Rabin.

Nel biennio '96-97 escono due doppi cd (Keys To Ascension 1 e 2), che vedono ricomporsi la brigata di Tales From Topographic Oceans. Le due opere contengono una parte live, con riproposizione di vecchi classici, e una parte di nuove composizioni sorprendentemente dignitose, in uno stile sostanzialmente immutato. I fan cominciano a sperare, ma Wakeman è un ciclotimico ed esce dal gruppo, che lo sostituisce con lo sconosciuto Billy Sherwood.

Nel '97 esce così il leggero Open Your Eyes. Tutti storcono la bocca, ma nel '99 ecco The Ladder, con l'aggiunta di tale Igor Khoroshev alle tastiere. Il disco alterna pezzi dall'orecchiabilità pop e altri in cui ricompaiono i complicati equilibrismi dei tempi andati.

Nel 2001, altro giro altra corsa, si resta in quattro, perdendo i due recenti acquisti per strada e affidando a un'intera orchestra il compito di sostituire le tastiere. Magnification completa così l'opera di rinascita. Ben bilanciato l'uso dell'orchestra, buone le scelte melodiche, complesse il giusto, evidente lo sforzo di rilancio creativo con pezzi di buona sensibilità armonica, anche molto intelligibili, ma sempre sul filo di una tradizione di estrema articolazione e gusto esecutivo.

Su Fly From Here (2011) e Heaven And Earth (2014) c'è poco da dire. Alle tastiere torna addirittura Geoff Downes, ma già il fatto che Jon Anderson sia stato sostituito senza troppi complimenti la dice lunga, e questa volta non da uno della statura di Trevor Horn, bensì da due innocui mestieranti, rispettivamente il canadese Benoît David e lo statunitense Jon Davison. Sono dischi che nascono vecchi, all'insegna di un prog plastificato e privo di idee. La noia prende il sopravvento in pochi minuti.

Il 28 giugno 2015 Chris Squire, l'unico membro presente in tutti gli album, perde la sua battaglia con la leucemia e lascia il mondo del rock in lutto. Il 7 marzo 2013 moriva invece il chitarrista fondatore, Peter Banks.
Nel caso vi siate smarriti, e sarebbe del tutto comprensibile, attualmente gli Yes sono Steve Howe, Alan White, Geoff Downes, Jon Davison e Billy Sherwood, rientrato su richiesta di Squire. Tutto sommato, i primi tre sono membri storici e l'eventuale possibilità di vederli dal vivo non deve essere sottovalutata, a patto che si sia pronti a digerire una controfigura di Anderson come cantante.

The Quest (2021) si presenta subito come album per nostalgici della stagione d’oro del progressive che ricerca sonorità classiche sulla scia della tradizione del rock sinfonico anni 70, in vari tratti debitore di alcune sonorità che ricordano gli Alan Parsons Project, in altri con una marcata presenza di brani acustici. Di certo è un album più interessante di grandissima parte della loro discografia che parte dal deludentissimo Union (1991) in poi, probabilmente l'anno spartiacque dopo il quale (a parte la piacevole eccezione di Magnification) è davvero arduo trovare qualcosa di realmente rilevante.
Si parte davvero bene con l’accoppiata “The Ice Bridge” e “Dare To Know” con un mellotron debitore del Keith Emerson di "Fanfare For The Common Man", per poi proseguire con rimandi a Wakeman e al chitarrismo tipico di Howe che si autocita continuamente, raggiungendo frangenti anche notevoli.
Per il resto si prosegue con un progressive ridotto abbastanza ai minimi, mai pomposo, a volte orecchiabile a volte sonnacchioso dove nulla sembra davvero memorabile. L’album si risolleva nel finale magistrale di Howe di “A Living Island”, con una chitarra epica che è di certo il momento più emozionante di un Lp dove è soprattutto il mestiere a tenere in piedi la baracca. 

Opere correlate


Senza scendere nel dettaglio - servirebbe un articolo a parte - è comunque d'obbligo citare qualche disco importante legato al mondo degli Yes.

The Six Wives Of Henry VIII (1973) rimane probabilmente il parto più rappresentativo di Rick Wakeman, una gagliarda sfilata di virtuosismi tastieristici, stilisticamente più vicina a Keith Emerson che non ai dischi degli Yes. L'unica pecca risiede nell'utilizzo dei cori, forse un po' ingombranti. Ottenne il favore del pubblico (numero 7 in Gb e 30 negli Usa) e spianò la strada al trionfo del successivo Journey To The Centre Of The Earth (1974, numero 1 in Gb e 3 negli Usa), che oggi suona purtroppo alquanto tronfio e duro da digerire.

Fish Out Of Water di Chris Squire (1975) è praticamente un disco degli Yes in forma rilassata, con qualche inserto orchestrale e senza i toni acuti della chitarra di Howe. Le melodie sono delicate e può essere apprezzato da chi preferisce l'incarnazione meno tagliente della band.

Jon Anderson è colui che ha avuto la carriera più notevole per conto proprio. Oltre ai gentili successi synth-pop insieme Vangelis (tutti contenuti nell'antologia The Best Of Jon & Vangelis del 1984), si contano almeno due album di eccellente fattura.
Il primo è Olias Of Sunhillow (1976, numero 8 in Gb), realizzato per intero dal cantante sovrapponendo centinaia di tracce, imbastendo da solo le ricche armonie vocali e aggiungendo alla notevole mole di tastiere, strumenti quali arpa, sitar, flauto dolce, mandolino e chitarra saracena. Con il suo misto di melodie folk, suggestioni esotiche, elettronica cosmica e pacatezze meditative, l'album suona moderno e credibile ancora oggi, forse anche più dei dischi degli Yes immediatamente successivi, pur non avendone la complessità strutturale.
Il secondo è Deseo (1994), del tutto inaspettato essendo uscito dopo anni di prove appannate sia con gli Yes sia come solista. Frutto dell'esplorazione dell'America Latina compiuta dall'artista in quel periodo, è più stimolante di qualsiasi disco degli Yes successivo a 90125. Vi compaiono musicisti cubani, venezuelani e brasiliani, che contribuiscono a una serie di canzoni armoniose al crocevia fra occidente tecnologico e tradizioni locali, con arrangiamenti dinamici e avvolgenti. Spicca "Amor real", duetto con Milton Nascimento.

Nonostante il suo immenso talento, i dischi di Steve Howe non sono particolarmente interessanti se non si suona la chitarra. Sono invece più che interessanti gli Asia, che fondò insieme a Geoff Downes dopo la diaspora del 1981. In formazione altri due giganti del rock britannico, quali John Wetton (King Crimson, Uriah Heep, Family) e Carl Palmer (Elp, Atomic Rooster, Crazy World of Arthur Brown). Almeno l'album di debutto, Asia (1982, numero 1 negli Usa) è un classico dell'Aor, imperdibile per gli amanti del genere.
Andando indietro nel tempo, si può dedicare un po' di attenzione a Tomorrow (1968), psichedelico album di debutto della band omonima. Howe firma la sola "Revolution", ma la sua chitarra lo caratterizza per intero.
Dei Buggles si è già detto, mentre la carriera solista di Bill Bruford, interessante e bizzarra anziché no, viene rimandata a un eventuale approfondimento sui King Crimson, band più affine alla natura del batterista.

In retrospettiva - i protagonisti

Nonostante i continui cambi di formazione gli Yes sono riusciti a mantenere una certa organicità. "Survival" suona certo molto distante da "Owner Of A Lonely Heart", ma solo perché le separano quattordici anni di evoluzioni tecnologiche. Osservando la loro carriera passo dopo passo, ci si rende conto che il mutamento è stato naturale, e che non ci sono mai state rotture traumatiche all'interno del loro discorso.
È impressionante il numero di strumentisti che sono riusciti a lasciare il segno passando per gli Yes, sviluppando stili che sarebbero diventati classici e immediatamente riconoscibili.

Chris Squire è uno dei bassisti rock più celebrati, probabilmente il più determinante a livello melodico e il più tecnicamente evoluto che fosse apparso fino a quel momento. Sarebbe servito Geddy Lee per raccoglierne il testimone, entrambi peraltro maestri nel suonare parti nient'affatto semplici e cantare nel frattempo.
Fra i chitarristi, benché spicchi Steve Howe per motivi i già esposti, non si può non ribadire che Peter Banks, benché operante in dischi ancora un po' acerbi, è stato uno dei fondatori della grammatica progressiva dello strumento. Quanto a Trevor Rabin, rimane uno dei migliori in campo Aor.
Rick Wakeman è paragonabile solo a Keith Emerson per il ruolo che ha saputo dare alla tastiera all'interno di un genere prettamente chitarristico. Tony Kaye, benché poco celebrato, è una colonna dell'organo Hammond, mentre a Patrick Moraz è bastato un disco per lasciare il segno. Il suo stile jazzistico in Relayer è ancora oggi ammirato per la capacità di unire asprezze, estemporaneità e geometrie impeccabili.
Bill Bruford è uno dei batteristi più intelligenti che si ricordino. Ha sempre preferito fare grandi cose di cui si accorgessero in pochi piuttosto che show roboanti per raccogliere facili consensi. Anche se molto duro da gestire caratterialmente, la sua integrità artistica è granitica. Alan White patisce un po' il confronto a livello tecnico, ma non si può che ammirarne la capacità di diversificare il proprio apporto, utilizzando anche strumenti a percussione inusuali, talvolta costruendoli con le proprie mani.
Su Jon Anderson non c'è molto da dire, una mente vulcanica, e la sua voce rimane l'elemento con cui tutti identificano gli Yes.

yessongs_roger_deanIn retrospettiva - l'eredità

Se sulla bravura degli Yes come musicisti non ci sono mai stati dubbi, è invece molto difficile vedere rimarcati gli effetti delle loro opere sull'universo pop-rock.
Un'ammissione è giunta dalla rivista The Wire, che pur stroncandoli - non sia mai che non si rispettino gli stereotipi dello snobismo fino in fondo - ha ammesso la loro centralità nel creare un vasto pubblico rock aperto a influenze piuttosto aliene a quel mondo. E abituandolo a livelli di complessità fino a quel momento inesplorati, viene da aggiungere.
Quello che più sarebbe da rimarcare però, è l'enorme quantità di artisti che hanno subito la loro influenza.
Tralasciando il rock prettamente progressivo, altrimenti sarebbe troppo facile (si pensi ai newyorkesi Cathedral, agli scozzesi Pallas o in tempi recenti ai norvegesi Wobbler, solo per citare i casi più smaccati), band come Styx e Kansas, che negli anni Settanta dominavano con pieno merito le arene americane, cosa erano se non degli Yes che ai libri preferivano la palestra?
Spostandosi sull'universo alternativo, i Mew ne hanno ripreso sia l'intricatezza ritmica, sia le parti vocali angeliche, e ci sono momenti come il recente singolo "Satellites" in cui ne sembrano una reincarnazione.
Mercury Rev più sinfonici, quelli di brani come "The Dark Is Rising" e "Holes", hanno di sicuro dato qualche ascolto a cose come "And You And I".
Wayne Coyne in "The Soft Bulletin" dei Flaming Lips imita Jon Anderson per tutto il tempo, e guarda il caso è il loro disco più barocco, con tanto di Mellotron.
Ricorda Anderson anche il piccolo guru avant-rock Bob Drake, già fondatore dei Thinking Plague. O meglio, ne sembra l'alter ego demoniaco.
Gli Everything Everything sono praticamente riassunti da "Leave It". I loro cugini Field Music hanno pure contratto debiti evidenti, soprattutto per l'album "Plumb", anche se verso gli Yes più pastorali.
Diverse band a metà fra rock chitarristico e chamber pop, con i loro cori femminei, gli arrangiamenti raffinati e i crescendo geometrici, non fanno molto per nascondere la connessione, si pensi a canzoni come "All Day Day Light" dei Morning Benders e "Hanasakajijii" degli Anathallo.
Benché Anderson e soci neanche in due vite penserebbero alle grida forsennate del trio post-hardcore Fall Of Troy, innegabile è l'ingerenza sulle linee vocali più zuccherine, nonché su ritmi e chitarre.

La scena elettronica britannica degli anni Novanta - sezione Idm in particolare - contava diversi nerd del rock progressivo, e gli Yes erano fra le band più amate. Molti dj di quella generazione si sono formati anche giocando con i groove di Squire, White e Bruford. Dj Shadow esplicitò la cosa campionando Rick Wakeman, mentre nel 1995 venne pubblicato The Deseo Remixes, dove l'album di Anderson subiva il trattamento di nomi come Global Communication e Future Sound Of London. I primi in particolare, nel corso della carriera, seppero creare atmosfere idilliache che rendono facilmente comprensibile il loro interesse per gli Yes.

L'ultima parola è però per la band più importante resa possibile dagli Yes, i Rush, nella figura del frontman Geddy Lee, che più volte li ha lodati pubblicamente e ha indicato in Relayer il suo disco da isola deserta.
"Non conoscevo gli Yes finché un amico non mi prestò 'Time And A Word'. Ero sbalordito. Non avevo mai sentito una band come loro e mai ascoltato un bassista così alto nel mix. Le melodie di Chris Squire erano brillanti e assolutamente sopra le righe, ma erano sempre aderenti allo scheletro delle canzoni, non andavano mai fuori contesto. Le sue linee aiutavano a tenere in piedi le canzoni".

Contributi di:
Michele Chiusi (brani: "America", "South Side Of The Sky", "The Revealing Science Of God", "The Remembering", "The Ancient" e parte di "Heart Of The Sunrise". Album: "Anderson Bruford Wakeman Howe" e tutti i titoli dal 1996 al 2001);
Ma
rco Sgrignoli (parte dell'introduzione all'album "Relayer" e consulenze varie);
Fabio Federicis (spunti su Roger Dean)
Valerio D'Onofrio ("The Quest")

Yes

Discografia

Yes(Atlantic, 1969)
Time And A Word(Atlantic, 1970)
The Yes Album(Atlantic, 1971)
Fragile(Atlantic, 1972)
Close To The Edge(Atlantic, 1972)
Yessongs(live, Atlantic, 1973)
Tales From Topographic Oceans(Atlantic, 1974)
Relayer(Atlantic, 1974)
Going For The One(Atlantic, 1977)
Tormato(Atlantic, 1978)
Drama(Atlantic, 1980)
Yesshows(live, Atlantic, 1980)
90125(Atco, 1983)
9012Live: The Solos(live, Atco, 1985)
Big Generator(Atco, 1987)
Union(Arista, 1991)
Talk(Victory Music, 1994)
Keys To Ascension(live+studio, Essential, 1996)
Keys To Ascension 2(live+studio, Essential, 1997)
Open Your Eyes(Eagle, 1997)
The Ladder(Eagle, 1999)
House Of Yes: Live At The House Of Blues(live, Eagle, 2000)
Magnification(Eagle, 2001)
Symphonic Live (live, Eagle, 2002)
Fly From Here(Frontiers, 2011)
Heaven & Earth(Frontiers, 2014)
The Quest(Sony, 2021)
DOCUMENTARI (selezione)
Yessongs (regia di Peter Neal, 1975)
9012Live (regia di Steven Soderbergh, 1985)
DISCHI CORRELATI (selezione)
Tomorrow - Tomorrow (Parlophone, 1968)
Rick Wakeman -The Six Wives Of Henry VIII (A&M, 1973)
Chris Squire - Fish Out Of Water (Atlantic, 1975)
Jon Anderson - Olias Of Sunhillow (Atlantic, 1976)
Buggles - The Age of Plastic (Island, 1980)
Asia - Asia(Geffen, 1982)
Jon & Vangelis - The Best Of Jon & Vangelis (antologia, Polydor, 1984)
Anderson Bruford Wakeman Howe - Anderson Bruford Wakeman Howe (Arista, 1989)

Jon Anderson - Deseo (Windham Hill, 1994)

Artisti vari - The Deseo Remixes (High Street, 1995)

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

"Time And A Word"
(videoclip, 1970)
"Close To The Edge"
(versione di "Yessongs", live 1972)
"Wonderous Stories"
(videoclip, 1977)
"Into The Lens"
(videoclip, 1980)
"Leave It"
(videoclip, 1983)

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