Cat Stevens - Yusuf

Cat Stevens - Yusuf

Le metamorfosi di un menestrello

Malinconico folksinger e sopraffino melodista pop, poi nemico giurato del music business e cantore dell'Islam (con polemiche) nei panni di Yusuf. Quindi, il timido riavvicinamento allo star-system occidentale e il colpo di coda dell'ultimo album "King Of A Land". Le tante vite e incarnazioni musicali di un cantautore leggendario

di Mauro Vecchio

Il modo in cui Cat Stevens ha scritto le sue canzoni è stato per me di grande ispirazione, perché ha influito sul mio modo di farlo in maniera smisurata. Le sue canzoni sono tra le più appaganti da studiare, suonare e interpretare
(John Frusciante)

Per essere ciò che vuoi, devi smettere di essere ciò che sei
(Cat Stevens)
Intro

È il 28 ottobre 1966. La celebre rivista Time pubblica un breve inserto di una sola pagina dal titolo "Rock 'n' Roll: The New Troubadours". Quasi una celebrazione del nuovo songwriting nella musica popolare, che vede emergere una sempre crescente sensibilità ed estetica letteraria, grazie a gruppi come The Mamas and the Papas o a due poco più che ventenni di nome Paul Simon e Art Garfunkel. Appena cinque anni dopo, la penna al vetriolo dell'altrettanto celebre Lester Bangs forgia un saggio di circa 24 pagine dal titolo "Who Put the Bomp", la solita scarica adrenalinica e irriverente dove vengono "marchiati a morte" cantautori come James Taylor. Perché il mondo ha molto meno bisogno di Gesù, di gran lunga più dei Troggs. Tra due punti di vista così apparentemente estremi, c'è nel mezzo una variegata serie di storie e di musicisti, che in appena cinque anni sono riusciti a emergere con le loro chitarre acustiche, la loro voce di protesta e fiumi di poesie in musica.
Inizio dell'anno 1973. Dopo ben sei dischi da milioni di copie vendute, Cat Stevens ha come un rigurgito, è ormai stanco di seguire i gusti del suo stesso pubblico e vuole qualcosa di diverso. Più che un blocco è una vera e propria rivoluzione nel suo sound, ormai andato fuori giri nonostante le vendite a sei zeri. Quando Cat vola in Giamaica per registrare Foreigner è come far piovere dal cielo l'ultimo chiodo sulla bara del culto del cantante e cantautore, nato dalla scena folk americana nei primissimi 60 e poi trasferitosi nel Regno Unito, come un'invasione. Sono canzoni strane, quelle registrate dai songwriter: non sono catalogabili come rock'n'roll, ma non sono nemmeno pop o country. Sono semplicemente canzoni, laconiche, tristi o meglio malinconiche. Lezioni di vita e storie composte da personaggi da psicoanalisi, che permettono agli ascoltatori di psicoanalizzarsi grazie alla musica. Quando Cat Stevens vola in Giamaica per registrare Foreigner, è ormai stufo di essere etichettato come il musicista triste che fa emozionare un pubblico di studenti del college con le sue ballate. È il momento di sconvolgere tutti, davvero. Un momento che viene anticipato durante la leg statunitense del suo tour mondiale nel 1972, quando annuncia al mondo che verrà introdotto “un elemento di shock”.

“Cosa c’è che non funziona dentro di me? Non è questa la ragione per cui ho iniziato”. La mente di Cat Stevens tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973 tende alla paranoia, perché è stufo di suonare sempre le stesse canzoni davanti allo stesso tipo di pubblico. Quasi arriva a odiare il fatto che numerose riviste musicali lo mettano al pari di James Taylor e Neil Diamond tra i migliori cantautori del mondo. Il prossimo Lp dovrà essere davvero nuovo, portare la sua figura lontano da quelle etichette. Lo stesso titolo del disco, Foreigner, suona emblematico, perché viene registrato in una terra lontana e baciata dal sole, in uno studio rilassato e lontano dal trambusto inglese. Addirittura viene fatto clamorosamente fuori il suo fido produttore Paul Samwell-Smith, prima di volare a Kingston per lavorare da solo ai Dynamic Sound Studios. Non c’è spazio nemmeno per il virtuoso chitarrista Alun Davies, in una turnazione di musicisti che vede entrare il meglio dei turnisti da Londra e Los Angeles. Quando viene trasmessa la premiere di Foreigner in diretta alla Nbc, il pubblico è come preso da uno strano stordimento: che è successo a Cat Stevens? La risposta, al di là delle recensioni non propriamente benevoli della critica musicale del periodo, è cristallina: anche Cat Stevens vuole marchiare a morte James Taylor.

West End Boy

Cat StevensPrimavera 1967. Ci sono due tour che stanno scatenando tantissimo hype tra il pubblico britannico: l’addio alle scene dei Walker Brothers, dopo due anni al cuore degli adolescenti d’Albione, e un trio guidato da un chitarrista americano di nome Jimi. Hendrix ha elettrizzato il pubblico britannico con la sua versione incendiaria di “Hey Joe” nel corso dell’ospitata a Top of The Pops a gennaio, pronto a fare letteralmente fuoco e fiamme al Finsbury Park di Londra. Qualcuno grida verso Cat Stevens, che è nel backstage in attesa di salire sul palco, per correre a guardare cosa sta succedendo. Nemmeno ventenne, il giovane cantautore nato e cresciuto nel West End si precipita a cambiare le scarpe, per avere più aderenza dopo il rilascio degli estintori per sedare la furia elettrica di Hendrix. Quando sale sul palco dell’Astoria, in abiti edoardiani, suona solo quattro brani, tra cui le sue prime hit “I Love My Dog” e “Matthew And Son”. Apprezzato dallo stesso Hendrix per i suoi toni pacati e silenziosi, Cat si trasforma dal vivo trasmettendo al pubblico un’energia quasi incompatibile con il suo amore per gli spazi appartati e la lettura.

Steven Demetre Georgiou viene alla luce il 21 luglio 1948 nelle sale del Middlesex Hospital di Londra, nato dall’amore tra Stavros, gestore di una caffetteria di origini greche, e sua moglie Ingrid, proveniente dalla fredda Svezia. Cresce nel cuore del teatro londinese, il West End, frequentando la scuola cattolica St Joseph in Drury Lane, vicino all’attività di famiglia. Teatri, locali notturni, ristoranti alla moda, case e promoter discografici: l’adolescenza di Steven non potrebbe desiderare stimoli maggiori, alla fine degli anni 50. Se il ramo ellenico della famiglia è lontano e devoto al lavoro, quello svedese è più intellettuale, permettendo al giovane di mischiarsi con registi e aspiranti scrittori durante le frequenti vacanze nel Nord. Alla scuola cattolica, Steven ha una passione sfrenata per il disegno e la pittura, divertendosi con le caricature che piacciono molto in famiglia. Frequenti gli invii di disegni a Gerald Scarfe, che dirige la rivista a fumetti Private Eye, mai pubblicati perché ritenuti “belli, ma troppo grotteschi”. Quei disegni sono infatti il frutto di una personalità tendente alla solitudine, che fa crescere molto rapidamente il giovane Steven, che pure non rinuncia al contatto con la strada in un quartiere così stimolante.

Il primissimo contatto con la musica è grazie ai suggerimenti del fratellastro David Gordon, che lo spingono ad acquistare il primo 45 giri, “Peggy Sue” di Buddy Holly. È la prima hit inglese di uno dei pionieri del rock'n'roll a stelle e strisce, che tra il 1956 e il 1958 sconvolge gli adolescenti d’Albione bloccati in un magma di moralismo vittoriano, con band socialmente accettate come quella di Benny Goodman a dominare la scena. Dopo un primo approccio da autodidatta con il piccolo pianoforte di famiglia, Steven convince il padre a comprargli una chitarra acustica per la somma di 8 sterline, iniziando a fare pratica non soltanto con gli accordi, ma addirittura con sue prime canzoni, come “Darling Mary” che è dedicata alla sorella di un suo compagno di classe, un amore mai corrisposto e dunque meritevole di una prima composizione originale. All’età di 12 anni è già un grande appassionato di musical, visto il quartiere dove abita, su tutti “West Side Story” che apre i battenti nel West End nel 1960. La cultura musicale di Steven è perciò più elevata rispetto a tantissimi coetanei: Bacharach, Lieber & Stoller, Gershwin. E poi, a partire dal 1962, l’arrivo di un giovane armato di chitarra e armonica a bocca, tale Robert Allen Zimmerman che ha appena cambiato il suo nome all’anagrafe, the Freewheelin' Bob Dylan. Dylan guida la folk-invasion nel Regno Unito, soprattutto a Londra dove spuntano serate in cui si esibiscono centinaia di aspiranti songwriter. Steven è attirato come una falena verso le apparenti stonature di Dylan, così come i fuori tono di musicisti più navigati come Leadbelly. È ora iscritto alla Hammersmith Art School, perché convinto di avviare una brillante carriera come disegnatore e fumettista, ma gli insegnamenti più apprezzati e introiettati sono quelli di Paul Simon su un giradischi.
Nel 1963 si esibisce per la prima volta davanti a un esiguo pubblico in compagnia dell’amico Peter James, poi ci prova in solitaria presso il Black Horse pub in Rathbone Street.

Steven è solo uno dei tanti aspiranti songwriter che cercano fortuna, non viene particolarmente notato o apprezzato nel suo primissimo vagito da musicista. Prova con un trio chiamato JAS Time, dalle iniziali sue e di due amici, Andrew e Jimmy. Le canzoni eseguite dal vivo vengono giudicate troppo commerciali per il gusto elitario della scena folk inglese, ma le critiche non lo abbattono: perché deve essere necessariamente un male suonare musica commerciale? E se fosse questa la strada per il successo, abbandonare gli studi d’arte? I genitori, separatisi ormai da diverso tempo, non sono d’accordo, ma più Steven viene bloccato, più le sue ambizioni crescono. Nella primavera del 1966 il suo nuovo nome è Steve Adams, quando varca la porta dell’ufficio del produttore Mike Hurst. Hurst è alla ricerca di un nuovo progetto per superare definitivamente l’addio a Dusty Springfield: dopo aver provato con i Methods, è entrato in contatto con uno strano ingegnere del suono californiano di nome Jim Economides. Dalla Capitol a Los Angeles verso Londra, dove Economides si stabilisce per iniziare a lavorare con un ragazzo che si fa chiamare Marc Bolan. Jim non ha abbastanza esperienza come produttore, così invita Hurst a registrare negli studi Decca un brano tolkeniano di Bolan, chiamato “The Wizard”. Un giorno riceve la visita di Steve Adams che senza alcun preavviso, in pausa pranzo, gli propone di ascoltare qualcosa di suo. “Perché no, vai pure”. Suona “I Love My Dog”. “È grandiosa, come ti chiami?”. Il primo nome è quello vero, Steven Georgiou, ma è stato cambiato in Steven Adams. Ma in maniera istintiva c’è ancora un cambio, dopo quella esibizione. “È un nome stupido, Cat Stevens”. “Ma è un nome fantastico – gli dice Hurst – tienilo”.

Best New Act

Cat StevensL’entusiasmo di Mike Hurst viene spazzato via da Jim Economides: “Il ragazzo fa schifo”. Hurst insiste, chiede a Jim di ascoltarlo nuovamente. Interviene il manager di Cat, Bert Shalit, un ricco imprenditore nel settore manifatturiero della carta da parati, che chiede a Mike di produrre il suo assistito. Viene organizzata una sessione ai Pye Studios in Marble Arch, dove viene ovviamente registrata “I Love My Dog” oltre a una nuova canzone chiamata “Here Comes My Baby”, che per Hurst sarà una sicura hit. Il problema è ora trovare una casa discografica intenzionata a scommettere sul ragazzo, impresa non affatto facile. Ma c’è un varco di luce, perché nel frattempo lo stesso Stevens ha strappato un accordo di pubblicazione dei testi con la Dick James Music, nota a Londra per dare opportunità a tantissimi per poi pescare nel mazzo. Ovviamente con questo modello di business Cat non è il solo, nel paniere della DJM c’è anche un giovane talento di nome Reginald Dwight. L’interesse mostrato da Hurst nei confronti di Stevens non ha però lunga durata, perché il produttore decide di accettare un nuovo lavoro alla Vanguard Records, che è a caccia di professionisti esperti in folk-music. Mentre prepara i bagagli per trasferirsi con la famiglia in California, Cat bussa alla sua porta e gli dice francamente: “Sono stato praticamente da ogni casa discografica di Londra e nessuna mi vuole. Sei ancora interessato?”. Hurst è altrettanto franco, spiega a Cat che la sua “I Love My Dog” può essere una hit, ma serve una parte ponte con un ritornello. Aggiunto il dettaglio, si convince a portarlo ai Decca Studios, che sono però molto costosi per le sue tasche. Hurst si presenta dal boss della divisione A&R Dick Rowe e gli chiede un favore prima di partire per gli States: tre ore gratuite allo studio 2 per registrare un brano di Mike D’Abo. I soldi sono così investiti sui musicisti che accompagneranno invece Cat Stevens su “I Love My Dog”. Con l’acetato fresco tra le mani, Hurst torna da Rowe per affrontarlo e dirgli la verità, facendogli ascoltare il brano prima di ripercussioni gravi. Rowe non dice nulla, alza la cornetta per chiamare Sir Edward Lewis in persona. Il capo supremo della Decca scende di un piano per scoprire le novità e quando termina di ascoltare “I Love My Dog”, dice a Mike: “Ragazzo mio, sei un genio”. Per Cat Stevens è pronto un contratto per registrare su etichetta Deram.

Quando esce Matthew And Son, album di debutto nella primavera 1967, Mike Hurst parla di un “atto divino”, negli oltre due minuti di “I Love My Dog” in cui la voce malinconica di Cat Stevens si unisce alla chitarra acustica sotto la pioggia orchestrale scatenata da Alan Tew. Come suggerito dallo stesso Hurst, l’aggiunta del ponte in na-na-na garantisce quel tocco “commerciale” che porta il singolo – che esce alla fine di settembre dell’anno precedente – alla 28esima posizione nella Uk singles chart. Cat si fida di Hurst per il suo passato con gli Springfields, nonostante il singolo resti in classifica solo per alcune settimane grazie a diversi passaggi su Radio London. Ma sembra esserci qualcosa di magico nell’aria: tutti aspettano i Cream per il titolo di Best New Act votato dai lettori della prestigiosa Disc and Music Echo, sorprendentemente battuti proprio da Cat con la sua “I Love My Dog”. Il 26 dicembre 1966 è invitato dal manager dei Beatles, Brian Epstein, allo show di Georgie Fame al London Saville Theatre, ma la sua performance non convince Hurst, che nota una eccessiva rigidità sul palco, pericolosa per un performer che dovrebbe scalare le classifiche inglesi. “Devi essere oltraggioso, devi essere strano”, gli dice Mike.
Dall’album di debutto viene anticipato a fine anno il secondo singolo “Matthew And Son”, che sfodera un approccio più beat-rock con la partecipazione di John Paul Jones al basso e Nicky Hopkins alle tastiere. A differenza di “I Love My Dog”, “Matthew And Son” – il cui titolo è preso da un negozio di mobili vicino alla metro di South Kensington – arriva al numero uno delle rotazioni di Radio London alla fine dell’anno, spinto anche nella Bbc chart dove arriva al secondo posto nel febbraio 1967. Ai due singoli se ne aggiunge un terzo, la versione in chiave pop barocco della “Here Comes My Baby” già portata al successo dai Tremeloes. La Deram spinge sull’acceleratore visti i primi risultati, pubblicando alla fine di marzo un altro singolo, “I'm Gonna Get Me A Gun”, sovrastato dalla conduzione orchestrale che spazia dal western al barocco in una specie di breve colonna sonora. Il brano non convince, ma Cat Stevens sembra un nome magico, tanto che arriva in sesta posizione.
“I’m Gonna Get Me A Gun” finisce al centro delle polemiche sul celebre programma Tv Juke Box Jury, dove il conduttore David Jacobs analizza le uscite più interessanti insieme a diverse celebrità del piccolo schermo e della musica. Le critiche non sono dirette all’arrangiamento discutibile del brano, ma al suo testo che racconta la storia di un giovane uomo che si procura un’arma per vendicare i soprusi subiti sul luogo di lavoro, che potrebbe spingere gli adolescenti alla violenza più estrema. Cat è mortificato, parla con il New Musical Express ammettendo un errore di valutazione nel rush delle sedute di registrazione per l’uscita del variopinto Matthew And Son, che racchiude come un bignami le prime esperienze musicali di Stevens, dalle potenzialità ancora grezze. In “Bring Another Bottle Baby” è stridente il contrasto tra la voce triste di Cat e l’arrangiamento in stile calypso, mentre il fischiettare spensierato di “Portobello Road” è innescato su un folk più tradizionale, sulla scia di Paul Simon.
Dominano gli arrangiamenti ancora in stile pop-western su “I've Found A Love”, mentre si passa forse in troppa scioltezza verso il vaudeville (“I See A Road”) e ritmi à-la Donovan in “Baby Get Your Head Screwed On” e “When I Speak To The Flowers”. Quando parte il sax sul numero soul “Come On And Dance”, è percepibile il talento di un compositore in erba, ancora in bilico tra l’imitazione di sound altrui (“Hummingbird” e la melliflua “Lady”) e la ricerca di una vera identità da songwriter.

Cat vs Mike

Cat StevensEstate 1967. Dopo l’uscita del suo disco d’esordio, Cat Stevens ha ormai abbandonato la passione per l’epopea western, concentrato sull’idea di realizzare brani per un musical sul Messico e la figura del gaucho. Decide così di partire verso l’America Centrale, con destinazione finale Australia. Lontano dai centri di gravità musicale, dalla California hippie alla Swinging london che viene illuminata a giorno dalla band dei cuori solitari del Sergente Pepper. Eppure, la popolare radio pirata Wonderful Radio London trasmette i brani di Cat in alta rotazione, facendogli guadagnare un pubblico sempre più ampio. Mike Hurst crede in lui, nel suo essere così eclettico, parlando di Matthew And Son come di una potenziale colonna sonora di un film di James Bond.
Ma Cat è ombroso, si lamenta spesso del meteo, degli abiti, persino delle sue prime canzoni che ora dovranno cambiare direzione sonica. Propone alla Deram un nuovo singolo, “A Bad Night”, che inizia con un aggraziato folk acustico per poi virare verso arrangiamenti orchestrali e ritmi beat. L’etichetta ascolta il brano e gli propone di riconsiderare la scelta: troppo confusionario e poco commerciale. Stevens non è assolutamente d’accordo, difende il singolo e minaccia di cambiare tutto sul prossimo disco in uscita. Quella di Cat è frustrazione, non solo perché ammetterà pubblicamente che il brano è un esperimento mal riuscito, ma anche dal momento che nessun teatro del West End ha deciso di scommettere un penny sul suo musical messicano.
Mentre lavora al singolo di debutto dell’amico folksinger Peter James Hogan, Stevens non smette di pensare alla sua prossima direzione artistica, così limitata dalle idee spesso contrapposte di Hurst e della Deram. Il rapporto con il suo primo produttore precipita verso l’autunno 1967, quando il fratello di Cat, David, viene minacciato dallo stesso Hurst dopo una discussione piuttosto accesa sulla gestione dei conti. Risentito, Mike fa notare a Cat che si può permettere una Mercedes nuova di zecca senza nemmeno avere la patente, mentre Stevens non ha digerito le minacce al fratello, a cui vorrebbe affidare il ruolo di manager.

Quando a dicembre esce New Masters, la battaglia tra artista e produttore finisce tra le mani degli avvocati, sulle prime note dell’organetto barocco che apre “Kitty”. La difesa legale di Cat provoca Hurst a cui è stato consigliato vivamente di non proferire parola, mentre scivola via la ninna nanna pop “I’m So Sleepy”. Il produttore non ci vede più e sottolinea come il suo artista sia riuscito a guadagnare oltre seimila sterline a settimana grazie a lui, fondando il suo grande successo su un beat-pop romantico ed energico come la nuova “The First Cut Is The Deepest”, versione di un suo stesso originale precedentemente venduto per circa 30 sterline alla cantante soul P.P. Arnold. L’avvocato di Cat se la ride in aula, perché fa notare a Hurst che il suo cliente era minorenne al momento della firma sul contratto, vincolato alla firma di due genitori che poco capiscono la lingua inglese. Quando la corte si esprime a favore di Stevens, Hurst è furente, ripensando alle sedute di registrazione con un musicista che vuole cambiare tutto, non solo a livello manageriale ma soprattutto a livello di sound.
Dalla cavalcata western “Northern Wind” al complesso pop barocco “The Laughing Apple”, New Masters è il frutto di un periodo complicato e pieno di dubbi. La direzione da intraprendere per il futuro non è chiara, divisa tra la pressione subita per sfornare altre “I Love My Dog” e nuove architetture sinfoniche come “Smash Your Heart”. Il singolo folk intimista “Blackness Of The Night” langue in 47esima posizione nella classifica inglese, uno smacco per un artista che nemmeno un anno prima ha piazzato diverse hit sul mercato britannico. Il pubblico non digerisce New Masters, infarcito di scenari da musical americano (“Moonstone”) e arzigogolati barocchismi pop (“I’m Gonna Be King”).

Ottenuta la vittoria in aula contro Hurst, Cat e David festeggiano creando la Doric Management, a cui si aggiungono i membri della band nota come Yellow Rainbow. Rinominato Zeus, il gruppo viene scoperto in un pub di Quinton, approcciato nel backstage con la proposta di seguire Stevens e formare la sua backing band. La nuova formazione inizia a provare nelle sale del Marquee Club, prima di esordire dal vivo al Palais de Sports di Parigi a metà novembre, per una sorta di Love In festival europeo con Soft Machine e Spencer Davis Group. Cat chiede ai membri del suo nuovo gruppo di fornirgli dei demo tape per lavorare su nuovo materiale, ma l’attesa sembra di colpo lunghissima, come se qualcosa si fosse inceppato. Semplicemente, Cat Stevens non ha alcuna idea di quale sarà la sua prossima mossa. Il flop commerciale di New Masters pesa come un macigno, nemmeno l’apparizione al fortunato show televisivo Twice A Fortnight riesce a risollevarne le sorti. A dicembre, il singolo “Kitty” proprio non vuole saperne di salire in classifica, sembra quasi una maledizione lanciata da Mike Hurst contro il prosieguo della sua carriera. Come per schiacciare un panic button, il promoter Harold Davidson convoca Stevens nei suoi uffici e gli dice chiaro e tondo che la sua aura magica è svanita: l’unica soluzione (nemmeno certa) è provare a partecipare a uno degli speciali natalizi che sono tanto amati dal pubblico nei teatri inglesi. Ma Cat è orgoglioso, insieme al fratello David decide di rifiutare per continuare a frequentare l’emergente scena folk inglese, tornare alle origini, chitarra e voce.

La nuvola gigante

Cat StevensFebbraio 1968. Una tosse costante affligge Cat Stevens da mesi, il suo corpo è visibilmente provato. Smette di fumare e, pressato dagli amici, si rivolge a un medico. Diverse lastre diagnosticano una brutta polmonite, ma il suo corpo non risponde bene alle cure specifiche presso il centro in Harley Street. Vengono effettuati così nuovi controlli e la seconda diagnosi è ben peggiore: si tratta di una forma di tubercolosi, che se non curata uccide il 50% dei pazienti affetti. Stevens è ottimista, ne uscirà in tempo per andare a vedere dal vivo il pioniere del rock'n'roll Bill Haley, ma la sua permanenza al King Edward VII Hospital di Midhurst, Sussex, dura tre mesi. L’ottimismo cede il passo alla paura della morte, non soltanto fisica, anche musicale. “Una nuvola gigante sopra la mia testa”, avrà la fortuna di raccontare. Durante la convalescenza legge tonnellate di libri, ascoltando Bach in continuazione, riflettendo sulla sua musica e su come sia passata dal successo pop alle ultime velleità da musical. Medita tantissimo, ascoltando il suo io interiore, arrivando alla definitiva epifania: la sua carriera da popstar è finita, è ora di ripartire come artista.

Per un paradosso del destino, la malattia improvvisa che potrebbe stroncare la sua vita a vent’anni è invece il suo primo viaggio spirituale, che lo porta a una inattesa consapevolezza dopo un disco mediocre. Si fa crescere una folta barba, cambia look e soprattutto inizia a comportarsi come un poeta, lontano parente del creatore di “I Love My Dog”. Studia i movimenti artistici e la matematica, legge la musica per farsi trovare più preparato in sala di registrazione. Ristabilitosi nell’estate del 1968, si concede una breve vacanza a Venezia, in Italia, per poi tornare subito a Londra e recuperare il tempo perduto.
Ad attenderlo c’è la Deram, che vuole affidargli il produttore Mike Vickers (ex-membro dei Manfred Mann) dopo la traumatica rottura con Hurst. Cat si presenta con decine e decine di nuovi brani, frutto del periodo di stop forzato nell’ospedale di Midhurst. Il ritorno alla dimensione live è datato 23 febbraio 1969, in apertura a The Who alla Chalk Farm Roundhouse per una serata benefica organizzata dalla London School of Economics. Stevens è da solo, con la sua chitarra, tremando al pensiero di esibirsi davanti a un pubblico amante del rock più duro e fragoroso. Ma la sua esibizione viene ascoltata con attenzione, alla fine piovono applausi. È la prova che la sua nuova direzione è giusta, tornare alle origini folk reinterpretandole lontano dagli schemi imposti dalla Deram per farlo diventare una star del pop. Al lavoro sul singolo “Where Are You”, ballata malinconica su ritmo marciante, Cat insiste per avere l’inserimento di una intera orchestra, quasi a forzare la mano per far esasperare la Deram. A lavorare sugli arrangiamenti è addirittura Mike Hurst, praticamente obbligato da questioni contrattuali.
Incoraggiato dal suo nuovo manager Barry Krost, Stevens pensa ancora alla composizione di un musical sulla dinastia russa dei Romanov prima della rivoluzione del 1917. Ha già pronti tre brani, “The Day They Make Me Tzar”, “Maybe You’re Right, Maybe You’re Wrong” e soprattutto “Father And Son”, che racconta il rapporto tra lo zar Nicola e il suo figlio più giovane. Altra fonte di ispirazione è la recente rottura dopo due anni d’amore con l’attrice americana Patti D’Arbanville, che ha sempre incarnato in lui il sogno a stelle e strisce.

La Island Records viene lanciata sul mercato inglese nell’estate 1962; è nata dallo spirito imprenditoriale del produttore anglo-giamaicano Chris Blackwell, grande appassionato di ska, reggae e bluebeat. A Londra c’è una crescente comunità caraibica, a cui manca dannatamente il sole, il cibo, ma soprattutto la musica della terra natia. La sfida della Island nel Regno Unito non preoccupa le major, che la vedono inizialmente come una etichetta di nicchia che non durerà. Ma Blackwell è un uomo dalle grandi ambizioni, già manager dello Spencer Davis Group da cui è fuoriuscito il cantante e tastierista Steve Winwood, pronto a formare i Traffic. È l’occasione perfetta per inserire la Island Records nello scenario rock underground inglese, trascinata da gruppi sempre più numerosi e soprattutto innovativi: Mott The Hoople, King Crimson, Fairport Convention. A conoscenza dell’imminente rottura con la Deram, Blackwell non vuole farsi scappare il nuovo Cat Stevens, nella sua nuova idea di “uomo con la chitarra”. Stevens ha più di un dubbio, cosa ci farebbe lui tra band così elettriche e visionarie? Ma la proposta di Blackwell è ghiotta, perché non ci sarà alcun controllo creativo, il limite è fissato a un solo disco all’anno. Nessuna pressione per bissare eventuali nuovi successi commerciali, Cat potrà seguire il suo istinto che ora lo porta verso il concentrarsi sulle canzoni, come un narratore di storie per bambini. La posizione di Stevens è però chiara nei confronti di Blackwell: non ci sarà alcun tentativo di piacere ai vecchi fan, si cercherà un pubblico completamente nuovo.
Per creare questa magia della semplicità è necessario lavorare con un nuovo produttore che capisca perfettamente la direzione da prendere. Il produttore in questione si chiama Paul Samwell-Smith, ex-membro degli Yardbirds passato al lato opposto della console in studio. Samwell-Smith ha già fatto pratica con i Renaissance – con Keith Relf e Jim McCarty – lavorando in particolare nel circuito folk inglese. Per Cat è come scommettere sulle corse dei cavalli, non ha alcuna prova che Paul sarà perfetto per lui. Ma la scommessa si rivela vincente, a partire dai musicisti che lo stesso produttore suggerisce a Stevens: Alun Davies (chitarra), John Ryan (basso), Harvey Burns (batteria). In aggiunta, un giovane flautista di nome Peter Gabriel, da una altrettanto giovane band chiamata Genesis che sta provando a registrare dei demo tape per emergere nel panorama progressive. Sul minimale arpeggio folk di “Katmandu”, un nervosissimo Gabriel appoggia con dolcezza dei sussurri a fiato, mentre la chitarra acustica cambia di tonalità con delle precise accelerazioni.

Mona Bone Jakon è l’insolito titolo del primo disco pubblicato da Stevens con la nuova formazione su etichetta Island, un nome quasi esoterico per descrivere il suo pene. Grazie alla ritrovata flessibilità offerta dalla casa discografica di Blackwell e dal produttore Samwell-Smith, Cat è finalmente libero di esprimersi dopo gli anni di buio. Fin dai primissimi accordi acustici della mediterranea “Lady D'Arbanville” – una delle composizioni composte durante la degenza e in seguito alla rottura sentimentale – la nuova direzione stravolge completamente gli stilemi del pop barocco finora prodotto. Un flamenco terribile e desolato, come a descrivere in musica un uomo perso nel deserto andaluso, accompagnato solo da voci in coro degne di un western spettrale. Sull’album è centrale il contributo del chitarrista di origini gallesi Alun Davies, che ha iniziato la sua carriera con l’ukulele tra cover di Lonnie Donegan e marce skiffle. Passato alla chitarra, Davies ha lavorato con Jon Mark su etichetta Decca, dedicandosi quindi alle esibizioni su navi da crociera e successivamente al ruolo di sessionman per Marianne Faithfull e altri artisti della Fontana Records.
Il lavoro di Alun Davies in studio di registrazione aiuta Stevens ad arricchire e perfezionare la resa delle sue nuove canzoni. Brani come “I Think I See The Light”, ad esempio, sono il prodotto di una band perfettamente oliata, dalle tastiere oscure e martellanti a una interpretazione vocale da predatore, in stile Ian Anderson. Le due chitarre che si rincorrono tra stomp, folk e blues in “Pop Star” raccontano in musica il nuovo manifesto di Stevens, che abbandona i grandi palcoscenici per un approccio più direttamente intellettuale. Dal vaudeville scheletrico di “Maybe You’re Right” all’intimità acustica di “Trouble”, il suo canzoniere diventa adulto, raccontando con voce penetrante il travagliato vissuto personale. Il disco evidenzia così la nuova dimensione intimista e tragica, con tonalità da blues delle paludi (“Mona Bone Jakon”), atmosfere pop beatlesiane (“I Wish, I Wish”) e reminiscenze melodic-folk à-la Paul Simon (“Fill My Eyes”).

L’ora del tè

Cat StevensIl singolo scelto dalla Island per il lancio di Mona Bone Jakon è “Lady D’Arbanville”, che raggiunge la posizione 8 nella classifica inglese dei singoli ed è il primo brano che riesce a ottenere una discreta rotazione tra le radio statunitensi. Il pezzo vende oltre un milione di copie, trascinando le vendite del disco e così sancendo il ritorno di Cat Stevens nella musica che conta, considerato anche un articolo apparso su Rolling Stoneche lo descrive come l’unico cantautore capace di competere con l’Elton John del capolavoro “Tumbleweed Connection”. Mentre tutti attendono un suo convinto ritorno sulla scena live, Stevens va ancora una volta controcorrente: vuole partecipare al solo Plumpton Festival nell’agosto 1970, e solo con Alun Davies in formazione a due. “Questa è la canzone che mi ha reso nuovamente una star del pop”, dirà al pubblico prima di attaccare il suo nuovo singolo. Lo show manda in visibilio spettatori e critica, tanto da spingerlo a considerare una seconda partecipazione al Bilzen Jazz Festival, in Belgio. Il suo rifiuto verso un tour più corposo è giustificato dall’intenzione di tornare subito negli studi londinesi per produrre insieme a Samwell-Smith un secondo album, nonostante l’assoluta mancanza di vincoli da parte della Island. Ma Cat ha tantissime canzoni provate e riprovate durante la convalescenza, vuole dimostrare al mondo che il suo nuovo successo, questa volta, sarà duraturo.

Tea For The Tillerman esce a soli cinque mesi di distanza da Mona Bone Jakon, registrato con la stessa formazione di musicisti dopo i tentennamenti di Alun Davies a cui è stato offerto un posto alla chitarra dal vecchio compagno Jon Mark in procinto di unirsi a John Almond.
Se Mona Bone Jakon è una potente riflessione in musica sulla morte, Tea For The Tillerman è la ricerca di una più profonda spiritualità all’interno di un mondo in costante evoluzione. Nelle dolcissime pennellate acustiche dell’iniziale “Where Do The Children Play?” il primo manifesto d’intenti, interrogarsi sull’effettivo valore del progresso umano. L’album ridefinisce i confini del folk-pop britannico con l’approccio più gentile e melodico possibile, come nel mutare di atmosfere nell’agrodolce “Hard Headed Woman”. Con l’irresistibile latineggiare di “Wild World”, Stevens cala il suo primo asso, soffermandosi ancora una volta sulla fine della relazione d’amore con Patti D’Arbanville, da un punto di vista che verrà poi accusato di misoginia su alcune riviste di settore.
Il disco è come una galleria di opere d’arte sonica, dalla tenera ballad pianistica “Sad Lisa”, a narrare le sorti di una donna ai limiti della psicosi, amplificata dal finale cameristico per archi. In contrasto con il rock più aggressivo tanto in voga agli inizi degli anni 70, Tea For The Tillerman è come un fiore di cristallo che non potrà mai spezzarsi, trattando temi per certi versi “violenti” nei confronti della società contemporanea con un candore quasi imbarazzante. Persino quando i ritmi accelerano (“Miles From Nowhere” e “On The Road To Find Out”) l’interpretazione di Stevens e della sua band resta decisa a proseguire sul sentiero del nuovo folk inglese, capace di attingere da altre fonti geografiche come il Medio Oriente. Se la metropoli contemporanea sembra caotica, inquinata e piena di conflitti, il disco suona come un caldo rifugio tra etica e ambientalismo, offrendo all’ascoltatore diversi spunti di riflessione interiore sui cori dall’Africa profonda di “Longer Boats” guidati dagli accordi cristallini della chitarra acustica.
Cat Stevens diventa come un antico menestrello dell’anima, quando medita in musica sull’aria struggente “Into White” o dipinge brevi acquerelli sonici, in “But I Might Die Tonight” e sul finale pianistico in chiave gospel della title track. Arrivando al climax del disco, “Father And Son”, che vede la voce di Cat addirittura sdoppiarsi per raccontare le tantissime difficoltà di comunicazione tra un padre e suo figlio. Inizialmente composta per il musical “Revolussia” – coinvolgendo la figura dello zar Nicola nelle vesti del padre – “Father And Son” colpisce il mondo per la sua melodia universale, trascinando Tea For The Tillerman in cima alle classifiche sia inglesi che americane, portando alla vendita di oltre tre milioni di copie nel paese a stelle e strisce.

L’uscita di Tea For The Tillerman apre la strada al successo negli Stati Uniti, dove Cat Stevens assolda l’avvocato Nat Weiss e il nuovo manager Peter Asher per tutte le attività di coordinamento e gestione dei prossimi tour. L’artista inglese sbarca per la prima volta negli Usa nel novembre 1970, quando si esibisce al Fillmore East prima di Hammer e Traffic. Una mezz’ora intima e minimale come l’ultimo disco, senza elettricità, solo due chitarre acustiche in compagnia di Alun Davies. Si esibiscono mentre il pubblico ancora sta cercando posto, terminando il set con una standing ovation. Il vero battesimo americano arriva però in occasione di un concerto da solista al Gaslight di New York, dove Cat conosce un imprenditore e manager discografico di nome David Geffen. A lanciarlo sul mercato ci pensa però la A&M, ovvero l’etichetta che gestisce le pubblicazioni statunitensi della Island, che mette in pratica una efficace strategia di marketing: regalare ad ogni nuovo abbonato alla rivista Rolling Stone una copia di Tea For The Tillerman.
Nella primavera 1971 Cat Stevens piazza ben tre dischi nelle classifiche di Billboard, a compensare le performance commerciali più deboli nel Regno Unito. Mentre Chris Blackwell ammette pubblicamente che il nuovo album è di gran lunga “il migliore che abbiamo mai prodotto”, Cat Stevens cavalca l’onda di una popolarità crescente sulle due coste americane, con un tour insolitamente lungo, che affascina pubblico e critica.

Figlia del presidente della casa editrice Simon & Schuster, Carly Simon ha da poco pubblicato il suo disco di debutto su etichetta Elektra. Un lungo percorso musicale iniziato negli anni 60 insieme alla sorella Lucy – le Simon Sisters – nel minuscolo circuito delle coffehouse del Massachusetts. Trasferitasi nel fervente Greenwich Village, Carly ha provato a sfondare per conto proprio, prima di incontrare l’imprenditore e manager Jerry Brandt, proprietario dell’Electric Circus dove si è esibito diverse volte Andy Warhol. Dopo l’uscita del primo disco omonimo, Carly Simon lavora a una canzone intitolata “These Are The Good Old Days” – poi “Anticipation” – da registrare insieme a Paul Samwell-Smith, artefice dell’incontro con l’uomo a cui è dedicata.
La nuova storia d’amore nella vita di Cat Stevens questa volta non è solo umana, perché con Carly seguono diverse esibizioni insieme sulla scena a stelle e strisce, per gran parte del 1971. È negli studi Paramount di Los Angeles che infatti viene registrato il successivo Teaser And The Firecat, che vede il ritorno della squadra vincente degli ultimi due dischi. A cambiare è però ancora una volta l’approccio di Stevens alla sua musica: se Mona Bone Jakon e Tea For The Tillerman sono album di riflessione interiore, in Teaser And The Firecat viene messo in musica un pensiero rivolto verso l’esterno, perché Cat vuole “aiutare gli altri trasmettendo la mia esperienza”.
Ai lavori per il nuovo disco partecipano anche facce nuove, garantendo al sound di Stevens un maggior arricchimento corale. Del Newman, conduttore d’orchestra già esperto del mondo pop e rock, guida gli archi sull’esotica “Peace Train”, uno dei momenti più alti nell’invito a una ricerca spirituale più profonda. Andreas Toumazis e Angelos Hatzipavli, maestri del bouzouki sulla danza sirtaki “Rubylove”. Il prodigio delle tastiere Rick Wakeman, attuale membro della band folk e progressive The Strawbs, sull’acquerello pastorale “If I Laugh” e con il pianoforte lirico della splendida “Morning Has Broken”, impreziosita da una melodia sopraffina e da un testo della scrittrice inglese Eleanor Farjeon.
Sul sentiero artistico di Farjeon – specializzata in letteratura per bambini – Teaser And The Firecat è anche il titolo di un libro scritto e illustrato dallo stesso Stevens, che vede protagonisti il piccolo Teaser e il gatto Firecat, nel tentativo di far tornare la luna al suo posto dopo un’improvvisa caduta sulla terra. La favola per bambini è lo storytelling trick per riproporre gli aspetti più gentili e melodici del suo sound, dalla breve meraviglia acustica “The Wind” alla filastrocca folk “Moonshadow”. A metà strada tra Tim Hardin e la tradizione peruviana, “Moonshadow” è una delle hit di un disco più ritmico e contaminato dei precedenti, tra influenze caraibiche (“Tuesday’s Dead”), percussioni spensierate (“Bitterblue”) e ruggenti inni corali (“Changes IV”).

Straniero

Cat StevensDisco più estroverso e cosmopolita, Teaser And The Firecat non bissa il successo clamoroso di Tea For The Tillerman, ma garantisce a Stevens di piazzare altre hit in classifica, sia negli States che soprattutto nel Regno Unito dove è rimasto indietro dopo “Lady D’Arbanville”. Forte dell’ottimo risultato di “Moonshadow”, “Peace Train” e “Morning Has Broken”, Cat si esibisce a fine anno al celebre programma tv Old Grey Whistle Test, incluso nella colonna sonora del film del regista polacco Jerzy Skolimowski, “Deep End”. Diversi suoi brani vengono selezionati dal regista americano Hal Ashby nella black-comedy “Harold and Maude”, inclusi nella soundtrack in versioni demo, mentre Cat insiste per portarle a termine e confezionarle ad hoc. A dicembre si esibisce al Theatre Royal in Drury Lane, per un evento benefico organizzato dall’associazione Cure come raccolta fondi per la riabilitazione dalle droghe pesanti. Si apre così una nuova stagione di eventi live, prima negli Stati Uniti e poi Australia e Nuova Zelanda nell’estate del 1972.

Cat evita interviste e pubbliche esternazioni, preferisce concentrarsi sulla sua musica che è pronta ad una nuova rivoluzione nel successivo Catch Bull At Four, in cui continua a esplorare temi più universali con un approccio più duro e sperimentale, dopo aver deciso di condividere la guida con i suoi musicisti. Le tonalità uptempo diffuse nell’album – a partire dalla potente “Sitting” con un grande lavoro in produzione sull’eco sincopata di piano – affascinano la critica che parla di “melodie meravigliose”. Gli accordi cristallini di “Boy With A Moon & Star On His Head” tornano sul sentiero del folk ipnotico, stravolto in “Angelsea” con la fusione di chitarra spagnola e trame di sintetizzatore su cui volano cori da savana. Il sound accelera sull’esotismo multiculturale, con la nuova danza mediterranea “O Caritas” tra flamenco spagnolo e sirtaki. In “Can't Keep It In” c’è una nuova foga espressiva da parte di Cat, che mescola i ritmi acustici tipo stop-and-go per costruire architetture sperimentali per tastiere. Sono brani meno dolci e melodici, ai limiti dell’ansia nevrotica come nell’aspra “18th Avenue (Kansas City Nightmare)”, sconfinanti in un quasi hard-rock nella successiva “Freezing Steel”.
Catch Bull At Four è così un disco che sorprendentemente non piazza alcun singolo in classifica, non essendo proprio strutturato per avere delle hit. Stevens è stanco di essere incasellato in un genere, inizia a sperimentare e modificare le sue ballate più classiche (“Ruins” e “Sweet Scarlet”) con effetti magari stranianti sul pubblico abituale, ma con il coraggio tipico dei grandi artisti.

Intervistato dalla stampa musicale inglese, Cat Stevens parla di Catch Bull At Four come dell’ultimo di quattro dischi in cui ha voluto approfondire diversi temi interiori ed esteriori a partire dal folk e dal pop. Qualcuno ha già scritto che le sue canzoni sono ormai molto simili e questo tipo di critiche (pur rispedite prontamente al mittente) lo stanno portando a vedersi come un pupazzo creato da lui stesso. La sua musica è diventata veramente prevedibile? Ha messo forse un autopilota a livello compositivo? È davvero diventato uno di quei bardi con la barba lunga che intrattengono il pubblico seduti su uno sgabello con una dolce chitarra acustica tra le braccia? Bisogna intervenire, allora. Rinnovarsi, evolvere. Per farlo, Cat ha un piano ben preciso: allentare il rapporto professionale con Paul Samwell-Smith, producendosi da solo. Scegliere nuovi musicisti, più adatti al radicale cambio di genere che ha in mente, tornare a una delle sue prime influenze musicali, il rhythm’n’blues della tradizione afro-americana. Dopo essersi trasferito in Brasile per questioni fiscali, Stevens viaggia verso la Giamaica per sfruttare i calorosi Dynamic Studios a Kingston, portandosi dietro una band nuova di zecca, con musicisti selezionati accuratamente per una piena immersione nel nuovo sound. Jean Roussel alle tastiere, Phil Upchurch alla chitarra elettrica, Paul Martinez e Herbie Flowers al basso. E poi Bernard Lee "Pretty" Purdie alla batteria, uno dei musicisti più quotati in ambito soul e funk, famoso in patria per una sua personalissima tecnica ritmica chiamata Purdie Shuffle.

Sin dal titolo, Foreigner è il disco che mette Cat Stevens al centro delle sue stesse ambizioni, un artista straniero che ripudia ciò che lo ha portato al successo per trovare nuova linfa sonica. In quasi venti minuti, “Foreigner Suite” è il tentativo estremo di immergersi nel black sound, con un’attitudine progressive applicata a generi come soul, funk e rhythm’n’blues. L’opera spiazza gli ascoltatori e la critica, pronta a sottolineare come la suite risulti fin troppo indulgente. Sulla falsariga di gruppi come Jethro Tull, Yes e The Who, Stevens vuole dare libero sfogo ai suoi nuovi desideri di misurarsi con qualcosa di totalmente estraneo. Da un lato squisitamente tecnico, nulla da eccepire – ottimo il lavoro del trio femminile ai cori guidato da Patti Austin – ma resta un utilizzo forse eccessivo degli strumenti e degli arrangiamenti, finendo con il seppellire l’evidente bontà dell’intera suite sotto tonnellate di note.
La seconda facciata del disco è invece composta da brani più standard e meno ambiziosi, dal gospel-soul di “The Hurt” alle venature country di “100 I Dream”. La sensazione è che anche nel formato canzone da circa quattro minuti l’approccio di Stevens risulti troppo stratificato negli arrangiamenti, finendo con l’appiattirsi nella ballad “How Many Times” o diventare eccessivo nel pur intrigante mix tra funk e folk orchestrale “Later”.

Nonostante un buon ritmo di vendita – Foreigner raggiunge il podio di entrambe le classifiche in Uk e Usa – il nuovo album riceve più di una critica tra gli addetti ai lavori. Cat decide di non portare il disco in tour nell’estate del 1973, concentrandosi all’inizio dell’anno successivo sul lavoro in studio, che vede il ritorno di Samwell-Smith in cabina di regia e dell’amico Alun Davies alla chitarra. Buddha And The Chocolate Box esce nella primavera del 1974, diviso sin dal titolo tra una sempre crescente esigenza di spiritualità e la mai sopita passione per i beni materiali. Dall’ouverture per tastiere “Music”, Cat Stevens abbandona le sofisticate stratificazioni della “Foreigner Suite” per una rinnovata dichiarazione d’amore per lady music, come in preda al bisogno interiore di tornare su sentieri più (e meglio) battuti. La preziosa melodia pop “Oh Very Young” è la decisa virata verso l’easy-listening, non a caso salirà al secondo posto nella classifica dedicata di Billboard negli States. L’approccio più acustico nel folk esotico “Sun / C79” o nel country spensierato “Ghost Town” è bilanciato da numeri più spirituali come il breve gospel “Jesus”, con una progressiva elevazione al lirismo religioso in “King Of Trees”.
L’album è comunque un evidente tentativo di ritrovare una certa semplicità compositiva dopo le ambizioni di Foreigner, come nella corale “Ready” e con il ritorno di certi barocchismi pop (“A Bad Penny”). Sulla conclusiva “Home In The Sky”, Cat mescola organi ecclesiastici, tastiere liturgiche e cori gospel-pop per un aggiornamento spirituale della sua vecchia musica, mancando però quelle vette di immediatezza e universalità sonica precedentemente raggiunte.

Non ho mai voluto essere una star

Cat StevensA pochi mesi dalla pubblicazione dell’ultimo disco, Cat Stevens torna in tour e nel giugno 1974 si esibisce con la sua band al Sunplaza Hall di Tokyo, registrando in presa diretta un primo disco live. A novembre, Saturnight viene distribuito dalla A&M sul solo mercato giapponese, includendo in scaletta i grandi classici – “Wild World”, “Lady D’Arbanville”, “Father And Son” – e la cover della hit di Sam Cooke “Another Saturday Night”. Mentre crescono dubbi e inquietudini sul suo ruolo di music-star in un mondo sempre più materialista e superficiale, Cat Stevens inizia a lavorare su un progetto ancora più ambizioso di Foreigner. Un concept-album che metterà in musica l’odissea spirituale in un pianeta fittizio chiamato Polygor, dove troneggiano un castello distopico e la sua macchina dei numeri, costruita con il proposito di disperderli ai quattro angoli di una galassia lontana. La placida e monotona vita dei nove abitanti di Polygor viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo di uno schiavo, Jzero, a rappresentare il numero (zero, appunto) del vuoto, mai esistito nella numerazione della macchina che va da 1 a 9.
La verità rivelata in Numbers, anche noto con il sottotitolo di “A Pythagorean Theory Tale”, è la stessa cercata a livello interiore da Cat, che agli occhi del mondo inizia a somigliare più a Diogene di Sinope che a una star del rock internazionale. Il fantastico viaggio siderale inizia sulle delicate atmosfere guidate da organo e sintetizzatori in “Whistlestar”, seguite dal lirismo classico di “Novim's Nightmare” e dalle tonalità jazz-funk in “Majik Of Majiks”. L’elevazione verso la verità divina soffre di uno slancio musicale in stile Broadway, con cambiamenti ritmici repentini quanto confusi, passando dai cori soul in “Drywood” a incomprensibili cadenze più orecchiabili come nel country caraibico “Banapple Gas”. Se il disco può avere un suo senso da un punto di vista di concept e storytelling, musicalmente è un patchwork di stili e generi, dal madrigale in “Land o' Freelove & Goodbye” al folk gitano in “Jzero”. La ricerca del divino sulle voci angeliche di “Monad's Anthem” rispecchia così i dubbi esistenziali del suo autore, perso tra modernità e nuove verità interiori.

Come da attese, Numbers spiazza critica e pubblico per la totale assenza delle solite melodie, penalizzando i risultati in termini di vendite. Negli Stati Uniti è viva la preoccupazione della A&M Records, i cui vertici si interrogano sulla possibilità di risolvere il contratto con Cat prima dei due album restanti. Stevens non è d’accordo con le critiche e rifiuta l’idea di dover fare dischi solo per il mercato, distanziandosi dall’etichetta e dalle logiche classiche di promozione. Per che cosa è oggi importante fare musica? Finora per i soldi, per il successo e la fama planetaria. Ma la musica è spiritualità, ricerca della verità: fare musica è per il divino. È quel tipo di sonorità che nel mondo arabo e musulmano scatena la chiamata alla preghiera, personalmente interiorizzata da Cat durante un viaggio in Marocco. I pensieri di Stevens sono già rivolti al divino quando arriva nella sua vita uno dei classici turning point o anche epifanie. Ed è un episodio quasi biblico datato 1976, quando rischia di annegare troppo al largo della costa di Malibu, in California. Lo stesso Cat dirà di aver invocato Dio, promettendogli di diventare un suo umile servitore in cambio di un improbabile soccorso. Dal nulla, miracolosamente, un’onda poderosa si alza in mare per trasportalo sano e salvo a riva. Già appassionato di buddismo, astrologia e tarocchi, Cat intensifica i suoi studi religiosi, approfondendo i testi del Corano grazie a una copia donatagli dal fratello David dopo un pellegrinaggio a Gerusalemme. È così che si innesca un passaggio graduale ma potente, dai principi religiosi ortodossi appresi grazie alle sue origini greche verso la figura del profeta islamico Yūsuf, salvato per intervento divino dopo essere stato acquistato e venduto sul mercato degli schiavi. Facile capire perché Cat si ritrovi tanto in una figura del genere, dopo il successo commerciale e i recenti dissapori con la A&M dopo il criptico Numbers.

Con l’anima in tumulto, raccoglie la provocazione della A&M a cui chiede un forte investimento economico per registrare Izitso tra il settembre 1976 e il marzo 1977, con decine di musicisti coinvolti tra cui Chick Corea e Ringo Starr. Il nuovo album vedrà un ritorno alle sonorità richieste dalla casa discografica, con l’intenzione di sperimentare senza freni e allo stesso tempo di denunciare dall’interno una situazione diventata insostenibile. “(Remember The Days Of The) Old Schoolyard” diventa una hit, synth-pop ante-litteram con il ritmo martellante del Polymoog e soprattutto il duetto vocale con la cantante inglese Elkie Brooks, in cima alle classifiche con i successi “Pearl’s A Singer” e “Sunshine After The Rain”. Stevens rivisita il formato ballad tra l’acustico e il progressive in “Life”, scatenando il groove funky in “Killin' Time”, prima di ripescare dalla tradizione mediterranea in salsa synth (“Kypros”).
Sulla melodica “Bonfire” interviene il piano caliente di Chick Corea, mentre l’autobiografica “(I Never Wanted) To Be A Star” denuncia il music-business con riferimenti rapidi ai suoi primi successi. Se brani come “Crazy” e “Sweet Jamaica” proseguono sulla falsariga dello stile Broadway, la robotica “Was Dog A Doughnut?” anticipa elementi della dance music tra sequenze elettroniche sintetizzate e primi vagiti hip-hop. Un disco nato come sfida al business in un momento di mutazione diventa così il più avanguardistico tra gli ultimi lavori di Cat, che potrebbe aver trovato una direzione sonica più chiara per il futuro.

Pochi mesi dopo l’uscita di Izitso, nel dicembre 1977, Cat Stevens completa il suo lungo percorso di conversione alla nuova fede religiosa. Per cambiare radicalmente vita c’è bisogno di una nuova identità, così decide di adottare il nome Yusuf – Joseph, in arabo, dal profeta che lo ha guidato spiritualmente – dopo aver varcato la soglia della grande moschea al Regent’s Park di Londra per abbracciare formalmente l’Islam. È l’anti-vigilia di Natale del 1977, Stevens ha da poco ricevuto il Sun Peace Award alla sede delle Nazioni Unite di New York, per il suo evidente contributo alla diffusione di messaggi di pace tramite canzoni universali. Il fu Steven Georgiou prende ufficialmente il nome di Yusuf Islam nell’estate del 1978, a colloquio con l’Imam di Londra per definire il proprio futuro nel delicato rapporto tra l’essere un credente e allo stesso tempo una star internazionale. I leader religiosi alla moschea di Londra sono però divisi: c’è chi è d’accordo con il prosieguo di una prestigiosa carriera con “canzoni moralmente accettabili” e chi invece vede la musica incompatibile con i principi islamici. Già stanco del business musicale, non più adeguatamente ispirato, Yusuf decide di tagliare la proverbiale testa del toro e farla finita con il mondo delle sette note.

Ma c’è un ultimo disco che il fu Cat Stevens deve alla Island / A&M per onorare il suo contratto, così decide di riunire i vecchi compagni Paul Samwell-Smith, Del Newman e Alun Davies per celebrare l’addio alle scene. Le sedute di registrazione dell’ultimo Back To Earth sono programmate per la fine del 1978 tra Londra, New York e la Danimarca, in un clima surreale tra frequenti stop per pregare e un’atmosfera dimessa. Pubblicato a dicembre – nello stesso giorno della morte del padre Stavros – il disco azzera la sperimentazione intrapresa in Izitso e propone un ritorno malinconico alle tonalità di Tea For The Tillerman, a partire dal classico formato ballad dell’iniziale “Just Another Night” in cui denuncia ancora l’industria musicale per il trattamento subito, a dispetto dei milioni di dischi venduti. In “Daytime”, scritta con Alun Davies, tornano anche tematiche familiari come quella dell’infanzia, mentre il più robusto rock-blues “Bad Brakes” non riesce a scalare le classifiche anglo-americane. Non funziona commercialmente nemmeno la tenera ballata orchestrale “Randy”, intervallata da momenti strumentali tra folk e funk esotico (“The Artist” e “Nascimento”).
Come in un cerchio che deve chiudersi, “Father” torna sul rapporto con la figura paterna su un ritmo soul, mentre l’acustica “Never” ripropone quel tipo di sound delicato, intimo e diretto che lo ha reso famoso ai quattro angoli del globo. L’album non soddisfa il palato dei fan, mentre Yusuf annuncia che non ci saranno più tour, a parte la sua ultima apparizione dal vivo nel corso di un maxi-evento benefico al Wembley Stadium di Londra, il 22 novembre 1979. Cade infatti la ricorrenza dell’ International Year of the Child, organizzato e promosso dall’Unicef. Con una lunga barba scura, Yusuf sale sul palco per ripercorrere i principali successi della sua carriera, come in quello che è effettivamente un concerto d’addio. L’ultima canzone è la malinconica “Child For A Day”, con la partecipazione di David Essex alla voce.

Yusuf

Cat Stevens - Yusuf IslamDopo la pubblicazione di undici album, alla fine del 1979, Yusuf Islam sparisce nella fede, dedito alla preghiera e allo studio dei principi islamici. È ormai arrivato a un punto di rottura definitiva con lo star system, non ha più nulla da cantare e suonare dopo aver registrato dischi non altezza del periodo d’oro tra il 1970 e il 1972. Il suo pensiero è ormai rivolto unicamente a Dio e alla moglie, Fauzia Mubarak Ali, sposata alla moschea di Regent’s Park il 7 settembre. Il flusso di denaro che continua a scorrere – anche grazie a diverse compilation di successo pubblicate da Island e A&M nel decennio successivo – viene parzialmente riversato su progetti filantropici a scopo educativo all’interno della comunità musulmana. Nel 1983 fonda la Islamia Primary School nella zona di Queen’s Park, seguita quasi dieci anni dopo dalla Association of Muslim Schools e dalla Small Kindness a sostengo delle vittime della fame in Africa e degli orfani tra paesi balcanici e Medio Oriente.

Lontano dalle scene artistiche, Yusuf torna al centro dell’opinione pubblica alla fine di febbraio nel 1989, in seguito alla fatwa emanata dall’ayatollah Khomeini nei confronti dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, da poco uscito sul mercato editoriale mondiale con i suoi “The Satanic Verses”. Il 21 febbraio, invitato a parlare della sua conversione agli studenti del Kingston Polytechnic, Yusuf dichiara pubblicamente che “Salman Rushdie deve essere ucciso”, reo di aver diffamato il Profeta. La stampa occidentale apre il fuoco, spingendolo a dichiarare il giorno dopo che nessuno deve diventare “un vigilante”, semplicemente il Corano prevede una reazione del genere. Due mesi dopo, nel corso di una intervista a Geoffrey Robertson all’australiana Abc, Islam parla per ipotesi, sottolineando come l’omicidio di Rushdie possa essere possibile dietro “obbligo di un giudice o di una autorità”. Vedendo l’effigie bruciata dello scrittore ammette: “Avrei sperato nella realtà”. Le dichiarazioni di Yusuf fanno il giro del mondo provocando reazioni di sdegno. I 10,000 Maniacs tolgono la loro versione di “Peace Train” dall’album “In My Tribe”, mentre negli Stati Uniti sono tantissime le radio che decidono di non passare più canzoni di Cat Stevens. Tom Leykis, conduttore all’emittente KFI-AM di Los Angeles, propone addirittura un rogo di massa dei suoi dischi, poi trasformato in un più civile boicottaggio. Yusuf modificherà molti anni dopo le sue dichiarazioni in diverse interviste, rivendicando un grosso fraintendimento delle sue parole, semplicemente legate all’interpretazione fedele ai versi del Corano. Fino a un tweet nell’agosto 2022 in seguito all’attentato nei confronti di Rushdie a New York, in cui si dichiara “triste e sconvolto” augurandogli una rapida guarigione.

Il primo ritorno negli studi di registrazione è alla metà degli anni 90, quando sull’etichetta da lui stesso fondata, Mountain of Light/ Jamal, viene pubblicato The Life Of The Last Prophet. Primo disco a nome Yusuf Islam, è una collezione di 34 incisioni di spoken word, dove si raccontano le origini del Profeta e si insegnano ai bambini l’alfabeto arabo e ovviamente i sacri principi del Corano. Yusuf inizia così la sua attività di proselitismo nei confronti dei più giovani, sfruttando il nuovo nome per generare almeno una prima curiosità all’ascolto. Nel 1997 torna sul palco per un evento benefico a Sarajevo dopo la morte dell’amico musulmano Irfan Ljubijankic, ministro degli Esteri della Bosnia e Herzegovina, ucciso da un razzo lanciato dall’esercito serbo. Prima di morire, Ljubijankic ha consegnato a Yusuf una cassetta con la prima versione di una sua canzone dal titolo “Have No Cannons That Roar”, con l’intento di portarla al grande pubblico in supporto alla causa bosniaca. Islam si mette al lavoro dopo il concerto di Sarajevo in memoria dell’amico Irfan, a cui è dedicato il disco appunto intitolato I Have No Cannons That Roar. È di fatto il ritorno alla vera musica nel 1998, dall’etereo minimalismo di “Mother, Father, Sister Brother” all’estesa reinterpretazione di temi tradizionali bosniaci come in “When Adhans Are Called” con il canto di Senad Podojak. L’unico brano originale scritto da Yusuf è la preghiera in spoken-word “The Little Ones”.

Nel settembre 1999 viene pubblicata una nuova raccolta di du’as (suppliche) del Profeta Maometto, Prayers Of The Last Prophet. Il suo intento educativo prosegue nell’estate 2000 con la pubblicazione di A Is For Allah, un denso doppio disco dedicato alla prima figlia Hasanah, registrato a partire da una composizione risalente alla sua nascita nel 1980. Insieme a un libretto a colori che vuole spiegare a tutti i bambini l’alfabeto arabo di 28 lettere, l’album è assimilabile agli inni nasheed, generalmente cantati nel mondo islamico a cappella o con alcuni strumenti a percussione. Sul disco Yusuf si affida al canto del sudafricano Zain Bhikha.

Mentre la raccolta The Very Best Of Cat Stevens guadagna il disco d’oro negli States a oltre vent’anni di distanza dall’ultimo album di materiale originale, Yusuf riceve il via libera da parte della comunità islamica per rompere un lunghissimo silenzio. L’obiettivo è ricongiungersi anche solo a parole con i suoi vecchi fan, per meglio spiegare le ragioni profonde di una rottura del genere. Islam partecipa persino a un documentario in due parti prodotto dalla VH1 per la serie “Behind the Music”, mentre spiega meglio alla stampa il suo percorso interiore che lo ha portato a una decisione così apparentemente repentina. Nell’ottobre 2001 partecipa a un pre-show registrato da VH1 prima del Concert for New York City, condannando gli attacchi al World Trade Center con una versione a cappella di “Peace Train”.
Parte dei suoi guadagni dalle royalties delle numerose compilation fatte uscire dalla Island nel corso degli anni viene destinata al Forum Against Islamophobia and Racism, che appunto lotta contro la paura del mondo occidentale nei confronti dell’Islam ingigantitasi dopo l’11 Settembre 2001. Il timido riavvicinamento di Yusuf allo star system occidentale vede la reinterpretazione del singolo “Peace Train” nel 2003, ormai diventato inno di pace universale. Islam si esibisce alla Royal Albert Hall di Londra e poi durante uno dei concerti 46664 in sostegno di Nelson Mandela, dove rispolvera l’altro grande classico “Wild World” con l’amico Peter Gabriel.

Le fugaci apparizioni in pubblico portano alla pubblicazione di Majikat, disco live a nome Cat Stevens dall’omonimo tour mondiale nel 1976. Registrato durante la tappa del 22 febbraio al William & Mary College di Williamsburg, in Virginia, il concerto vede la partecipazione di Alun Davies alla chitarra e Jean Roussel alle tastiere, ovviamente guidato dalla limpida chitarra acustica di Stevens a ripercorrere alcune delle principali hit della sua carriera. Da “The Wind” all’inno “Peace Train” – lo stesso Cat rivela al pubblico che la canzone è stata composta letteralmente su un treno, pensando al maestro del brivido Alfred Hitchcock – lo show americano è un’ottima fotografia di un uomo ancora legato alle diverse sfumature della musica occidentale. Dalla meravigliosa elegia pianistica “Sad Lisa” alla filastrocca folk “Moonshadow”, parte della folgorante carriera di Cat Stevens è spiegata nelle tenere ed eleganti versioni live del Majikat Earth Tour 1976.

Ritorno all’Occidente

Cat Stevens con la moglie Fauzia Mubarak AliSettembre 2004. Yusuf Islam viaggia con un volo United Airlines diretto a Washington, perché ha concordato un incontro con la leggenda del country Dolly Parton. Parton ha già inciso la sua versione di “Peace Train” e ora vuole inserire un altro brano di Cat Stevens all’interno del suo prossimo disco. Il volo procede tranquillo, finché non viene dirottato a Bangor, nel Maine, su ordine della United States Transportation Security Administration. Yusuf scopre che il suo nome è all’interno della famigerata No Fly List, immediatamente trattenuto dagli ufficiali della Homeland Security al suo atterraggio. Il motivo del suo immediato rimpatrio è facile da immaginare: la sicurezza nazionale ha serie preoccupazioni per il suo presunto legame con il terrorismo islamico. Accuse che sono già piovute quattro anni prima dal governo israeliano, secondo il quale Islam avrebbe finanziato l’organizzazione palestinese Hamas. L’accaduto porta a uno scambio di dichiarazioni piccate tra gli esteri inglesi e quelli statunitensi, con il Segretario di Stato Colin Powell che vuole vedere bene la “watch-list” in cui è finito Islam. Lo stesso Yusuf dichiarerà in seguito di essere stato vittima di uno scambio d’identità, con un tale Youssef Islam, e infatti verrà fatto entrare regolarmente dalla dogana a stelle e strisce due anni più tardi. L’accaduto lo spinge a scrivere un nuovo singolo, la danza country-pop “Boots And Sand”, che verrà registrato e pubblicato solo quattro anni dopo, con la partecipazione straordinaria di Paul McCartney e proprio Dolly Parton.

Mentre è impelagato in una causa per diffamazione contro gli editori di The Sun e The Sunday Times – rei di aver pubblicato alcuni articoli in supporto alla recente espulsione dagli States per quelli che sarebbero dei reali collegamenti con il terrorismo islamico – Yusuf riceve il premio “Man of Peace” dal World Summit of Nobel Peace Laureates. È l’ennesimo problema scatenato dalla sua nuova fede, spiegata a voce ancora più alta durante un’intervista prima di un concerto programmato ad Abu Dhabi per celebrare il compleanno del Profeta. Yusuf rivendica la sua nuova direzione musicale per sconfiggere l’ignoranza e gli stereotipi del mondo occidentale, mentre la comunità islamica si interroga sull’utilizzo di strumenti come la chitarra che non sono “regolamentati” nei testi coranici. Gli imam arrivano alla conclusione che, nei modi e nelle sedi opportune, la chitarra può essere un’arma potentissima per spargere il credo, soprattutto se nelle mani di un musicista famoso in tutto il mondo. Il breve intervento di Yusuf nel corso delle celebrazioni emiratine presenta il nuovo brano “The Wind East And West”, in cui riabbraccia con rinnovata convinzione il suo strumento per un sound R&B con tanto di cori africani. È di fatto l’inizio di un ritorno a canoni sonici più occidentali, raccontato pubblicamente dallo stesso Yusuf come “un cerchio che si chiude” dopo anni di indecisione causati da un normale ambientamento al nuovo credo.
All’inizio del 2005 esce il singolo “Indian Ocean”, ipnotica ballad in salsa raga in compagnia del compositore indiano A.R. Rahman, con il tastierista degli a-ha Magne Furuholmen e il batterista dei Travis Neil Primrose. Il ricavato del brano è devoluto agli orfani di Banda Aceh, Indonesia, tra le aree più colpite dal terribile tsunami nell’anno precedente. Il brano convince per eleganza e struttura, mentre Yusuf è felice di annunciare al mondo che ha finalmente ritrovato “un piccolo spazio nell’universo della musica”.

Dopo aver suonato la chitarra sulla versione di Dolly Parton della sua “Where Do The Children Play?”, Yusuf si mette al lavoro per il disco che segnerà un attesissimo ritorno alla musica secolarizzata, nella primavera del 2006. Sulla copertina di An Other Cup si legge il solo nome Yusuf, con la specifica dicitura formerly known as Cat Stevens, come a voler proporre agli ascoltatori una terza identità che vada a collegarsi con gli ultimi lavori “commerciali” fermatisi al 1978. La tazzina da caffè rappresentata nell’artwork andrebbe riempita dallo stesso ascoltatore con i propri gusti musicali, se ritrovare il vecchio Cat o seguire la nuova direzione di Yusuf. La Atlantic Records, che distribuisce il disco negli Stati Uniti, si mostra entusiasta, elogiando il lavoro del produttore Rick Nowels (già al lavoro con Celine Dion e Dido) e il ritorno di grandi amici e professionisti come il chitarrista Alun Davies e il tastierista Jean Roussel.
Se l’ultimo Back To Earth ha lasciato un artista tormentato e disilluso, Another Cup riporta in vita un uomo profondamente cambiato dalla fede religiosa. Con voce calda e matura, Yusuf parte con i fiati soul di “Midday (Avoid City After Dark)” per un gradevole ritorno alla semplicità di Catch Bull At Four. Non a caso viene scelta come singolo la ballad pop “Heaven/Where True Love Goes”, come a far capire a tutti che “il precedentemente noto come Cat Stevens” è davvero tornato. E infatti la successiva “Maybe There’s A World” è quella tipica melodia purissima che soddisfa i vecchi fan, nuovamente commossi sull’arpeggio etereo di “One Day At A Time”. Il pellegrinaggio spirituale di Cat porta oggi a canzoni più mature (“In The End”), ritrovando anche una certa gioia nel misurarsi con le cover di brani storici, nella versione orchestrale di “Don’t Let Me Be Misunderstood”. O addirittura nella riscrittura di classici come la jazzy “I Think I See The Light”, prima della danza per fisarmonica “The Beloved” e la cinematografica “Greenfields, Golden Sands”.

Rinvigorito dal ritorno, Yusuf promuove attivamente il suo nuovo disco, entusiasta nel corso di varie interviste della scelta fatta. Spiega il motivo per cui ha deciso di abbandonare il secondo nome Islam, che non deve diventare uno slogan, tornando a parlare del fu Cat Stevens per ovvie ragioni di notorietà. Yusuf torna più insistentemente a suonare dal vivo, nella primavera 2007 per la serie Bbc Sessions alla Porchester Hall di Londra; in estate a Bochum, in Germania, per un evento benefico a supporto del Peace Center e della Milagro Foundation di Carlos Santana. Le sue apparizioni in pubblico sono così legate principalmente a cause nobili, da quella per l’ambiente (“Live Earth”) a quella più universale per la pace (“Peace One Day”). Non mancano però nuove polemiche: nell’estate 2008 viene pubblicato un articolo dal World Entertainment News Network che lo accusa di non rivolgere la parola a donne prive di velo, ad eccezione di sua moglie. Yusuf reagisce per vie legali e ottiene le scuse pubbliche da parte del network, donando tutto il ricavato della causa alla sua associazione Small Kidness.

All’inizio del 2009 viene pubblicato un nuovo singolo, “The Day The World Gets Round”, i cui proventi saranno destinati in aiuto della popolazione infantile a Gaza. La folk-ballad in elettro-acustico è una versione firmata da Yusuf con il bassista tedesco Klaus Voormann, dal repertorio di George Harrison. Per l’occasione, Voormann – già al lavoro con i Beatles – disegna la copertina del singolo sulla falsariga di quella di “Revolver”, attirando ancora di più l’attenzione del pubblico che potrà supportare associazioni come Unrwa e Save the Children. Non mancano le critiche da parte del governo israeliano che accusa Yusuf di pensare solo a una parte del conflitto sulla Striscia. Il singolo apre la pista per il lancio di un secondo disco, intitolato Roadsinger, che segna il ritorno su etichetta Island con il nuovo produttore Martin Terefe, precedentemente al lavoro con James Morrison e KT Tunstall.
L’album prosegue deciso sul sentiero già tracciato dal precedente An Other Cup, grazie a una produzione ancora più elegante a seminare nuovi germogli sonici, con un occhio sempre rivolto al passato come nell’intro di “Sitting” che apre la beatlesiana “Be What You Must”. Nella title track, tenero acquerello country-folk, Yusuf invita l’ascoltatore a chiedersi dove potersi rifugiare quando la luce della verità è svanita e tutte le strade sono bloccate.
Sembra così che l’età avanzata abbia restituito tonalità intense come sul sassofono notturno di “Dream On (Until...)” o sula chitarra acustica in “All Kinds Of Roses” a lanciare un inno di tolleranza. Quando partono gli accordi ipnotici di “Welcome Home”, l’ascoltatore è rapito da una sensazione quasi assurda, come se stessimo parlando del successore di Catch Bull At Four o Teaser And The Firecat. Dal pianoforte struggente di “Shamsia” alle atmosfere celtiche di “World o' Darkness”, Roadsinger è come un conforto per l’anima, canzoni brevi e dirette a dimostrazione che il ritorno di Yusuf il pellegrino non è un bluff.

On the road again

Cat Stevens - YusufPreceduto dalla pop-ballad “Thinking ‘Bout You”, l’ultimo Roadsinger viene presentato in anteprima alla Bbc, prima di diverse ospitate e interviste alle due sponde dell’Atlantico. Yusuf partecipa al The Chris Isaak Hour e al Tonight Show di Jay Leno, poi da altri grandi dell’intrattenimento televisivo come Stephen Colbert e Jimmy Fallon. Nell’agosto 2009 porta alcuni brani del disco come ospite all’annuale Cropredy Convention organizzata dai Fairport Convention, con il ritorno di Alun Davies alla chitarra. Sul suo sito web viene annunciato addirittura un tour mondiale, il primo dalla fine degli anni 70, in partenza alla Highline Ballroom di New York. La data viene però posticipata a causa di un intoppo burocratico con il visto statunitense, ma non ferma la macchina del “Guess I'll Take My Time Tour”, che tocca diverse date tra Stati Uniti, Europa e Australia. Il 2 marzo 2011 esce per il download gratuito sul sito ufficiale il singolo “My People”, altro inno pop-folk in nome della pace dopo i movimenti di protesta noti come Primavera Araba. Un anno dopo, al Princess Theatre di Melbourne, debutta il suo musical “Moonshadow”, incentrato sui grandi classici del passato. Gli show australiani ricevono recensioni molto contraddittorie tra critica e pubblico, chiudendo i battenti dopo appena un mese. Alla fine del 2013, riceve la nomination per entrare nella Rock and Roll Hall of Fame, presentato da Art Garfunkel al Barclays Center di New York nella primavera successiva.

Il terzo disco a nome Yusuf esce nell’ottobre 2014 con la regia di Rick Rubin e la partecipazione di diversi ospiti d’eccellenza, dal bluesman Charlie Musselwhite al gruppo tuareg Tinariwen. Tell 'Em I'm Gone è un disco diviso tra il recupero di blues e R&B, in omaggio a due generi di grande influenza artistica, e la proposizione del classico mix tra pop e folk targato Cat Stevens. Più baritonale e calda del solito, la voce di Yusuf ammalia sulla preghiera blues acustica “I Was Raised In Babylon”, in coppia con la chitarra piangente di Richard Thompson. L’album omaggia Luther Dixon nella versione jazzy di “Big Boss Man” e il polistrumentista americano Edgar Winter sulla ballata pianistica “Dying To Live”. Yusuf sembra ormai suonare esclusivamente per divertimento, quando guida la versione country-western di “You Are My Sunshine” e ospita l’elettrica di Matt Sweeney sulla sincopata “Editing Floor Blues”. Su “Cat & The Dog Trap” si torna alle più familiari atmosfere favolistiche, mentre la swingante “Gold Digger” protesta contro lo sfruttamento nelle miniere africane e la title track rielabora il traditional “Take This Hammer” con il soffio del desert-blues.

Con tre nuovi album alle spalle, Yusuf riprende le attività dal vivo: prima un breve tour europeo, seguito da alcune date in Nord America alla fine del 2014. Nel giugno 2016 esce il singolo “He Was Alone”, malinconica ballata pop scritta dopo una visita ai campi profughi siriani nel sud della Turchia. I proventi sono destinati alla sua campagna #YouAreNotAlone, così come gli incassi della successiva esibizione alla Westminster Central Hall di Londra. Pochi mesi dopo ha inizio il “A Cat's Attic Tour”, nuovo giro di concerti tra Canada e Stati Uniti per celebrare il cinquantesimo anniversario dall’uscita del singolo “I Love My Dog”. Yusuf torna a esibirsi a New York dopo svariati decenni, con versioni intime e acustiche dei suoi più grandi successi, a supporto dei rifugiati dalla guerra in Siria.

Un nuovo disco esce alla metà di settembre 2017, dopo l’ennesimo cambio d’identità – ora si fa chiamare artisticamente Yusuf / Cat Stevens, tornando al nome originale dai tempi di Back To Earth – dal titolo The Laughing Apple. In cabina di regia c’è il ritorno dello storico produttore Paul Samwell-Smith, con cui avviene il recupero di alcuni brani dal periodo del secondo disco, New Masters. Dal folk minimale “Blackness Of The Night” alla ninna nanna in tonalità celtica della title track, il nuovo disco è l’ambivalente ritorno del fu Cat Stevens. Diviso tra semplice rielaborazione in chiave western di brani già ascoltati (“Northern Wind”) e nuova brillantezza folk-pop nelle originali “See What Love Did To Me” e “Olive Hill”. Ma l’album è per lo più un semplice divertissement, lontano da forza e convinzione mostrate negli ultimi tre dischi a nome Yusuf. Ci si limita così a tenere ballate per chitarra (“Mighty Peace”) e filastrocche per bambini (“Mary And The Little Lamb”). Il disco ha però successo e viene nominato ai Grammy Awards per il Best Folk Album dell’anno.

Dopo alcuni live benefici in Nuova Zelanda e Regno Unito, nel settembre 2020, Yusuf celebra il cinquantesimo dall’uscita del capolavoro Tea For The Tillerman, reinterpretando e riarrangiando i brani dello storico disco. Dal titolo da saga cinematografica, Tea For The Tillerman 2, l’album mantiene la tracklist originale con l’intento di offrire al nuovo pubblico una chiave d’ascolto più moderno. Come spesso succede proprio nel cinema – dove il sequel raramente apporta un miglioramento al concept originale – la ristrutturazione sonica di Tea For The Tillerman non funziona, a partire da una versione disinnescata della potente “Where Do The Children Play?”. Con l’eccezione di “Longer Boats”, che include il rap di Brother Ali per un effettivo ammodernamento, il resto del disco è una riproposizione in salsa scaduta soft-rock. Non era quindi necessario ascoltare capisaldi come “Wild World” in chiave jazz-tango, così come la versione notturna di “Sad Lisa” è sospesa in un limbo tra la vecchia splendida ineluttabilità e nuovi tocchi di piano sintetizzato.

Nel giugno 2023 si esibisce per la prima volta al Glastonbury Festival, dopo alcune date in Europa tra Berlino e Roma. Passato alla Bmg Rights Management, Yusuf ha già rilasciato due nuovi singoli tra marzo e aprile, le filastrocche acustiche “Take The World Apart” e “King Of A Land”, seguite subito dopo da un video dello stornello country-pop “All Nights, All Days”.
Il disco King Of A Land viene descritto dallo stesso Yusuf come una chiusura del cerchio, dopo una gestazione durata quasi dieci anni. Aperto dalla melodia orchestrale “Train On A Hill”, l’album include musica pensata per i bambini, inframezzata da motivi religiosi e i sempre attuali messaggi di pace universale. La critica musicale apprezza il disco, sottolineando una verve ritrovata dopo gli ultimi passi falsi, ad esempio sull’elegante armonia per fiati e chitarre elettriche in “Pagan Run”. Yusuf torna a sperimentare sul sintetizzatore che apre l’ipnotica “Another Night In The Rain”, mentre in brani come “Things” si ripercorrono vecchi sentieri tra folk minimale e aperture pop. In “Son Of Mary” il messaggio religioso viene amplificato tra le trame d’organo barocco, mentre il coro gospel di “Highness” conduce un’atmosfera da musical, da sempre nelle ambizioni di Stevens. Ecco perché King Of A Land è effettivamente la summa degli stili di una vita intera: dalle pennellate acustiche ai messaggi universali, tra melodie pop e derive orchestrali. Quando la voce matura di Yusuf intona la sbilenca melodia di “The Boy Who Knew How To Climb Walls” sembra quasi che non sia passato poi così tanto da quando il giovane Steven Demetre Georgiou conquistava il British folk in maniera così diretta e malinconica.

Cat Stevens - Yusuf

Discografia

CAT STEVENS

Matthew And Son (Deram, 1967)

6

New Masters (Deram, 1967)

5

Mona Bone Jakon (Island, 1970)

7.5

Tea For The Tillerman (Island, 1970)

8,5

Teaser And The Firecat (Island, 1971)

7,5

Very Young & Early Songs (antologia, Deram, 1972)

7

Catch Bull At Four (Island, 1972)

7

Foreigner (Island, 1973)

6.5

Buddha & The Chocolate Box (Island, 1974)

6

Saturnight (A&M Japan, 1974)6
The View From The Top (Deram, 1975)

Greatest Hits (antologia, Island, 1975)

Numbers (Island, 1975)

4,5

Izitso (Island, 1977)

7

Back To Earth (Island, 1978)

5

Morning Has Broken (antologia, Island, 1981)

Footsteps In The Dark: Greatest Hits, Vol. 2 (antologia, Island, 1982)
Classics, Volume 24 (antologia, A&M, 1987)
The Best Of Cat Stevens (antologia, A&M, 1989)
The Very Best Of Cat Stevens (antologia, Island, 1990)
Bitterblue (ITM Media, 1995)
Remember Cat Stevens – The Ultimate Collection (antologia, Island, 1999)

The Very Best Of Cat Stevens (antologia, Island, 2000)

Cat Stevens – In Search Of The Centre Of The Universe (antologia, Island, 2001)
Majikat (Eagle, 2004)7.5

Gold (antologia, Island, 2005)

Tea For The Tillerman: Live (live, Weiner, 2008)

4 Original Albums (Island, 2010)

Icon (antologia, Universal, 2013)
YUSUF ISLAM
The Life Of The Last Prophet (Jamal, 1995)

I Have No Cannons That Roar (Jamal, 1998)

Prayers Of The Last Prophet (Jamal, 1999)

A Is For Allah (Jamal, 2000)
Bismillah (Jamal, 2001)
In Praise Of The Last Prophet (Jamal, 2002)
I Look I See (Jamal, 2003)
Night Of Remembrance (Jamal, 2004)
Footsteps In The Light (Jamal, 2006)
I Look, I See 2 (Jamal, 2008)

The Story Of Adam And Creation (Jamal, 2014)

YUSUF (FORMERLY KNOWN AS CAT STEVENS)

An Other Cup (Polydor, 2006

6,5

Roadsinger (Island, 2009)

7

Tell ‘Em I’m Gone (Legacy, 2014)

6,5

YUSUF/ CAT STEVENS

The Laughing Apple (Cat-O-Log, 2017)

5
Tea For The Tillerman 2 (Cat-O-Log, 2020) 5
King Of A Land (Bmg, 2023)7
Pietra miliare
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