Che cosa spinge tremila persone, nel 2023, ad andare a vedere il vecchio Yusuf/Cat Stevens, per di più a prezzi esorbitanti (da 110 a 160 euro)? Nel caso del sottoscritto, oltre al privilegio di poterlo fare per lavoro e alla riconoscenza per l'intera carriera, è stato probabilmente decisivo un flash: Sanremo 2014, tra un acuto straziante di Sarcina e un gorgheggio alla melassa di Giusy Ferreri, spunta sul palco l'incanutito cantautore britannico, che, come un alieno, imbraccia la sua chitarra e intona un'immacolata “Father And Son” commuovendo l'estenuato pubblico del Festival. Quell'apparizione deve essersi instillata in qualche angolo della mente, come un desiderio costante di staccare la spina dalla contemporaneità per abbandonarsi a quel senso di pace e di bellezza senza tempo. Fatto sta che, alle 21 di una calda, ma mite serata romana, mi ritrovo in trepidante attesa tra gli spalti della Cavea dell'Auditorium, gremiti come non capitava di vedere da tempo. Cerco di scorgere qualche vip occasionale, ma intravedo solo un raggiante Pino Insegno, con stampato in faccia il sorriso di chi sa che è arrivato il suo momento (anche se per meriti politici e non artistici, come da prassi Rai). Ecco, Cat Stevens è anche l'antidoto a tutto questo: una boccata di ossigeno, se non d'incenso, che ti traghetta dritto in un paradiso artificiale di peace&love, nell’illusione di poter davvero cambiare il mondo. Almeno per lo spazio di una canzone.
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Entra quasi in punta di piedi, il buon Steven Demetre Georgiou, per gli amici Cat Stevens, che dal 1977, dopo aver rischiato di morire annegato a Malibu, si è convertito all'Islam col nome di Yusuf. Sorride e ostenta carisma e ottima forma, col suo look da mistico sufi casual: capelli e barba imbiancati, giacchetta bianca (di cui si sbarazzerà presto, per via del caldo) e scarpe da tennis. Settantaquattro anni portati con disinvoltura e serafico aplomb. Primi giri di chitarra e siamo subito catapultati negli anni Settanta con “The Wind” e “Moonshadow”, che risuonano nitide con i loro arpeggi fatati nell'antro della Cavea come se si fosse davvero tornati indietro nel tempo. Anche la voce del cantautore britannico si mantiene calda, profonda, e squillante all'occorrenza, accarezzando le tonalità pacate dei brani. Sfodera subito un medley d’autore con tre vecchie hit (“I Love My Dog”/“Here Comes My Baby”/“The First Cut Is The Deepest”). Poi il ritmo sale di giri con la sincopata “Matthew & Son”, title track del suo primo album, e con le intense “Where Do The Children Play?” e “Oh Very Young”. Scorrono sullo schermo le immagini di una notte di plenilunio in una Londra incantata, poi quelle di un cartoon ecologista in cui i bambini fanno risorgere il pianeta dalle macerie d'immondizia nelle quali gli uomini l'avevano lasciato sprofondare (le illustrazioni, anche nel libretto del nuovo album, sono di Peter Reynolds). “Parlo spesso di bambini nelle mie canzoni, perché siamo tutti bambini... Il problema è che poi cresciamo”, commenta sardonico Stevens, che dedica invece alla moglie Fauzia Mubarak Ali, seduta tra le prime file, la sempre toccante “Hard Headed Woman”.
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Il feeling col pubblico si instaura fin dall'inizio, tra sorrisi, ringraziamenti e mezze frasi in italiano. Parla di ambientalismo, di guerra e di pace, di capitalismo e molto altro in un clima di idealismo e spiritualità (ri)costruito con sobrietà, senza proclami, anzi, rifugiandosi spesso nell'ironia: “Ho pensato a una soluzione per il mondo: rinchiudere tutti i politici nello zoo di Londra”, ironizza introducendo “Take The World Apart”, uno dei suoi brani più recenti, tratti da “King Of A Land”, il suo (convincente) diciassettesimo album in studio uscito quest'anno, frutto di dieci anni di lavoro e di riflessione, come spiega più volte l'artista inglese sul palco annunciando le nuove canzoni che porta in scena, da “Highness” a “Pagan Run” fino a “All Rights, All Days”. “Guardando al percorso frastagliato della mia musica, iniziato negli anni Sessanta, direi che questo nuovo disco è un mosaico. Una descrizione molto chiara di dove sono stato e di chi sono”, spiega. E lo mette anche in pratica perché dagli anni Settanta Yusuf/Cat Stevens ha lavorato direttamente nel campo degli aiuti umanitari e dell'istruzione, raccogliendo fondi e sostenendo le vittime di disastri sia naturali che causati dall'uomo attraverso la sua fondazione globale “Peace Train” (dall'omonimo classico, riproposto anche stasera), con la sua missione di nutrire gli affamati e diffondere la pace.
Non mancano ricordi di bambino – la tenera “(Remember The Days Of The) Old Schoolyard” - omaggi in latino alla città che lo accoglie stasera (la struggente “O' Caritas” da “Catch Bull At Four” del 1972 con le immagini del Colosseo alle spalle) e tributi a suoi numi tutelari come George Harrison (con una sentita “Here Comes The Sun”, perfetta per le sue corde) e Nina Simone, paladina dei diritti civili dei neri e maestra di canto: “Mi ha insegnato lei a farlo”, ci confida presentando una versione intimista di “Don’t Let Me Be Misunderstood”.
Ma a risplendere nella notte romana sono soprattutto le sue gemme storiche: “Mi sono innamorato di questa melodia nel 1971 e l'ho fatta mia”, racconta introducendo al piano l'incantevole “Morning Has Broken” (da “Teaser And The Firecat”), rielaborazione di un traditional con testo di Eleanor Farjeon: una meraviglia, con il nitore scintillante dei suoi arpeggi e dei suoi rintocchi, a incorniciare quella magica melodia di cui poi anche tutti noi ci siamo invaghiti per sempre. Quindi, “Tea For The Tillerman”, la brevissima title track del capolavoro del 1970 che portò il folk britannico in cima alle classifiche mondiali, dal quale non può non riproporci due hit colossali come l'ironica “Wild World”, con il suo ritornello latineggiante e irresistibile, e l'epico confronto generazionale di “Father And Son”, “un brano molto importante per me, con un testo che si presta a più livelli di lettura e che spiega come le rivoluzioni spesso nascono in famiglia” - la presenta Yusuf che si cimenta per l'occasione in uno struggente duetto con il Cat Stevens di 50 anni fa, presente sullo schermo con la sua chioma riccioluta e la sua voce originale. È uno dei momenti inevitabilmente più toccanti della serata, celebrato in una polvere di stelle di telefonini luminosi.
I bis si chiudono con una corale “All You Need Is Love”, che non è solo un omaggio ai Beatles ma una sintesi del Cat Stevens-pensiero, e con una frizzante “If You Want To Sing Out, Sing Out”, ripescata dalla colonna sonora del delizioso film “Harold and Maude” dove apparve per la prima volta nel 1971. All'appello dei classici, alla fine, manca solo - seppur dolorosamente - “Lady D'Arbanville”: peccato, sarà per la prossima.
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Il vecchio Yusuf non teme il confronto con il giovane Cat Stevens – immortalato spesso nelle immagini che scorrono alle sue spalle – e sfida il tempo con leggerezza, come a voler coronare un percorso di crescita e di serenità personale, nel quale non sono mancati momenti difficili, di incomprensione con il mondo occidentale, legati proprio alla controversa conversione all'Islam. Uno iato sancito da due decenni di pausa totale, ai quali ne sono seguiti altri due segnati solo da qualche sporadica apparizione in album a nome Yusuf. Ma si fa presto a riaccendere la fiamma dei sentimenti musicali, quando ad animarla c'è un signore di questo carisma e spessore, con le sue melodie gentili e tremendamente orecchiabili, assistito per l'occasione da una super-band composta dal direttore musicale Kwame Yeboah alla batteria e ai tasti, da Luke Smith ai tasti, Stefan Fuhr al basso e Lucas Imbiriba alla chitarra. Tutto perfetto: sound, acustica, misura, gusto. Ecco, forse, la risposta alla domanda iniziale, il segreto di un non così imprevedibile sold-out.
Il concerto romano - primo nel nostro paese dopo nove anni - è l'unica tappa italiana del suo tour, che toccherà anche il Legends Slot del Glastonbury Festival, oltre che Germania e Spagna. Lasciamo la Cavea soddisfatti e pacificati dal sorriso placido di Yusuf/Cat Stevens, ma soprattutto sedotti, una volta di più, dalla malia poetica delle sue canzoni. E, no, non riusciamo proprio a non canticchiarle tutte, riprendendo la via di casa.
Foto dell'autore e © Fondazione Musica per Roma/ Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla