Cat Stevens

Tea For The Tillerman

1970 (Island)
songwriter, folk rock

Il folk britannico nella sua accezione più pura (Shirley Collins e dintorni) non ha mai interessato le grandi classifiche. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta influenzò tuttavia pesantemente la musica rock locale: dai grandi nomi del rock progressivo (Jethro Tull su tutti) alle formazioni più fedeli ai vecchi canoni, per quanto gonfiate da potenti dosi di elettricità (Fairport Convention, Steeleye Span), fino a coloro capaci di miscelare le due tendenze (Strawbs, Pentangle e tanti altri).
Sono tutti nomi che almeno in Inghilterra hanno conosciuto un notevole successo commerciale, alcuni di loro anche qualcosa in più se si pensa all’enorme riscontro americano dei Jethro Tull, il cui linguaggio primario era tuttavia il rock e la cui arma di maggiore impatto erano gli amplificatori.

In un contesto tanto ricco, ma in cui il folk britannico appariva sostanzialmente come sottomesso alla violenza del rock, spuntò a un certo punto questo disco. Non dal nulla in vero, se già negli anni Sessanta Cat Stevens aveva attraversato la top 10 britannica con degli ottimi brani di pop psichedelico e barocco. La svolta verso una musica più spoglia arrivò – in seguito a un lungo periodo di malattia che lo costrinse a letto e gli fece scoprire la meditazione e il misticismo – all’inizio del 1970 con l’album “Mona Bone Jakon”, contenente il classico “Lady D’Arbanville”, ma passato sostanzialmente inosservato come Lp. Nel novembre dello stesso anno giunse infine nei negozi la messa a punto di quella nuova visione: “Tea For The Tillerman”.

È un disco in punta dei piedi, senza chitarra elettrica, dove il tono vocale di Stevens sa essere anche potente e squillante alla bisogna, ma i brani non eccedono mai in foga; una gentilezza fatata e un senso di serenità li pervadono da cima a fondo.
Mentre intorno Roger Daltrey e Robert Plant sudavano e sbraitavano mettendosi in mostra come animali da palco, i Rolling Stones apponevano gli ultimi ritocchi a un blues rock depravato fatto di chitarre uncinanti e linguacce, Elp e Yes erigevano muri di suono polifonici e futuristici, e la Gran Bretagna sembrava diventare il centro nevralgico della capacità aggressiva del rock, per qualche motivo questo album riuscì a trovare spazio negando tutto ciò che gli accadeva intorno.

Più gli altri si approcciavano con ferocia al sesso, più Stevens lo trattava con gentilezza, più gli altri sembravano voler scioccare il pubblico, più Stevens sembrava volerlo far riflettere, più il suono circostante sembrava voler stordire, più Stevens sembrava voler cullare. Non era affatto scontato che potesse funzionare, Nick Drake ne sapeva qualcosa, ma la musica di Stevens era più comunicativa, più luminosa, meno ripiegata su se stessa e soprattutto non temeva di rispondere per le rime agli eventi che stavano sconvolgendo la società dei primi anni Settanta.
La formula funzionò, anche se l’escalation verso il successo fu graduale. L’album si piazzò al numero 20 in Gb, facendo temere un altro lavoro ad appannaggio degli appassionati, ma a sorpresa qualche mese dopo conquistò l’America, spingendosi fino al numero 8 e rimanendo in classifica un anno e mezzo. Da lì in avanti, per circa un lustro, pochi artisti nel mondo avrebbero venduto quanto Cat Stevens.

Il brano che cambiò l’andamento della sua carriera fu “Wild World”, pubblicato anche su 45 giri, ma ben presto l’intera scaletta invase le radio Fm, generando almeno un altro brano di fama universale, quale “Father And Son”, e diversi classici minori (“Hard Headed Woman”, “Where Do The Children Play?”, “Sad Lisa”, “Into White”).
I testi affrontano amori finiti, morte, problemi ecologici e conflitti generazionali, temi non assenti nel mondo del rock in quel momento, ma lo fanno con un approccio diverso e costruttivo, non c’era la volontà di attaccare “l’altra parte”, semmai di sedersi e parlarne. Per questo ancora oggi quelle canzoni sono viste come simbolo della grande utopia immaginata da quella generazione. I testi di Cat Stevens erano così equilibrati, convincenti, rispettosi della condizione umana, che per un attimo all’epoca devono aver davvero dato l’impressione a molte persone di poter cambiare il mondo.
Ci sono versi entrati nell’immaginario collettivo, sia che descrivano scene tangibili, come il figlio che scoppia in lacrime mentre discute del proprio futuro con il padre, al termine di “Father And Son” (“All the times that I've cried, keeping all the things I knew inside, it's hard, but it's harder to ignore it”), sia che si tratti di simboli e metafore, come la luce bianca che domina l’ambiente descritto in “Into White” (“I built my house from barley rice, green pepper walls and water ice, and everything emptying into white”).

Le sessioni furono dirette da Paul Samwell-Smith, storico membro degli Yardbirds e fondatore dei Renaissance, che seppe architettare – insieme allo stesso Stevens e al suo fedele chitarrista Alun Davies – un suono perfettamente bilanciato, dove ogni strumento, senza mai il bisogno di attaccare la spina, godeva di grande profondità e colore. Furono in molti, soprattutto fra coloro che maneggiavano la musica folk, a volere Samwell-Smith come produttore in quel periodo, probabilmente ammaliati dalla perfezione formale delle sue alchimie.
Ogni nota di “Tea For The Tillerman” è un affresco di gusto e misura. Il raddoppio vocale nel ritornello di “Where Do The Children Play?”, i saliscendi interpretativi di “Hard Headed Woman” (con la chitarra prima gentilmente arpeggiata e poi repentinamente stoppata), il contrabbasso felpato e i violini da camera di “Into White”, la toccante ballata pianistica “Sad Lisa” e il suo splendido finale con gli archi in acido, il refrain appiccicoso e latineggiante di “Wild World”, il frammento minimale che intitola il disco, e l’accurato arrangiamento di “Father And Son”, con i cori di Davies a sostenere il canto di Stevens diviso fra le linee acute del figlio e quelle più basse del padre.

Se il senso melodico di questi gioielli è indubbiamente pop, e probabilmente è ciò che li ha resi tanto appetibili, gli arrangiamenti rappresentano lo stato dell’arte del folk britannico, ed è un dato di fatto che nessun altro artista sia mai riuscito a venderli a un pubblico così vasto.

Bissato il successo l’anno dopo col disco gemello “Teaser And The Firecat” e constatato che su quel versante sarebbe stato difficile fare di meglio, Stevens avrebbe quindi tentato altre strade, fino all’approdo nel 1977 a un lavoro sperimentale e incompreso quale “Izitso”, dove affrontò i sintetizzatori, si permise di anticipare l’art pop elettronico di Peter Gabriel e piazzò pure uno strumentale proto-house (“Was Dog A Doughnut?”). Fu l’ultima impennata creativa prima della conversione all’Islam e dell’abbandono del mondo della musica.


Per i cinefili, si segnala la presenza di alcune canzoni di “Tea For The Tillerman” nel film di culto “Harold e Maude” (1971), capolavoro umoristico e sentimentale diretto da un geniale Hal Ashby.

02/08/2015

Tracklist

  1. Where Do The Children Play?
  2. Hard Headed Woman
  3. Wild World
  4. Sad Lisa
  5. Miles From Nowhere
  6. But I Might Die Tonight
  7. Longer Boats
  8. Into White
  9. On The Road To Find Out
  10. Father And Son
  11. Tea For The Tillerman

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