Dopo aver mandato definitivamente in pensione i Soft Cell con l'ultimo glorioso concerto (farewell show però fa più figo) alla O2 Arena di Londra - ma attenzione, dalla regia mi segnalano che le due Celle si sono ritrovate per scrivere qualcosa insieme, che non vuol dire necessariamente reunion - Marc Almond torna in pista col suo ventiquattresimo album solista. E lo fa sulla falsariga di quanto pubblicato negli ultimi tempi, ovvero un ritorno a suoni e atmosfere decisamente pop, frutto della collaborazione col pianista e compositore Chris Braide.
Quest'ultimo, produttore di Lana Del Rey, Britney Spears e Kylie Minogue tra le altre, e quindi soggetto ideale per provare ad allargare la sfera di fruibilità di un prodotto, scrive con lui già in "The Velvet Trail" del 2015 e lo affianca anche in un inedito molto radiofonico che fa da apripista alla raccolta "Hits And Pieces" due anni più tardi.
E siccome i risultati di vendita sono soddisfacenti e la critica benevola, perché ai media British piace l'idea di un Almond in pace con il mondo e capace di intrattenere il pubblico di prima mattina nei salotti della Bbc davanti a una buona tazza di tè, dopo il disco di cover "Shadows And Reflections" si arriva a questo "Chaos And A Dancing Star". Il tutto con la benedizione esplicita della Bmg, che gongola per il ritorno della popstar nelle zone nobili della Uk chart (dopo oltre vent'anni, infatti, Marc firma nuovamente con una major per due album).
Il titolo dell'album è parecchio accattivante, ed è mutuato direttamente da una massima contenuta nell'opera di Nietzsche "Così parlò Zarathustra": "Solo chi ha il caos dentro può generare una stella danzante". Cosa dire, se non che la citazione si addice perfettamente all'intero percorso personale e musicale dell'artista: c'è la dance che comunque è stata una componente fondamentale della sua storia - non dimentichiamoci di quella benedetta cover da cui nacque tutto - e per quanto riguarda il caos interno, beh è sufficiente andare a leggersi l'autobiografia "Tainted Life".
Personalità contorta e tormentata, ovvia infanzia difficile, problematiche inerenti all'omosessualità per lungo tempo negata, una capacità innata di farsi del male autoflagellandosi nel corpo (quantità industriali di cocaina ed eroina, per fortuna solo inalate e non iniettate, altrimenti non saremmo qui a scriverne), e pure nell'anima.
Persino nei percorsi musicali da intraprendere, a partire dalla fine ineluttabile di una macchina da guerra come i Soft Cell, annientata scientificamente all'apice del successo.
Un titolo che più di tutti ne descrive alla perfezione la parabola umana, molto più di quel "Fantastic Star" che era invece volutamente ironico, ossimoro di una fase esistenziale davvero complicata.
Con il voto massimo assegnato al titolo siamo persino più benevoli nel giudicare l'opera. Perché se lo scopo era dare alle stampe il disco definitivo, magari non ci siamo, ma "Chaos" si rivela comunque un lavoro riuscito, infarcito di ballad/torch song, etereo in tanti momenti e perfettamente descrittivo dello stato d'animo attuale dell'autore.
Narrano le cronache che avrebbe dovuto avere un'impronta in stile prog-rock - questa almeno era l'intenzione ad avvio lavori - prima che gli aspetti pop melodici prendessero il sopravvento. E così l'unica traccia di questa iniziale impostazione finisce con l'essere il primo singolo "Lord of Misrule", che l'ex-Soft Cell ha scritto avendo decisamente in testa l'amico Ian Anderson dei Jethro Tull.
Non è un grande novità in quanto i due erano saliti insieme sul palco parecchi anni fa, e infatti l'aspetto più bizzarro della vicenda sta tutto nell'accettazione definitiva, da parte di Anderson, che la fine del prog fosse dovuta (anche) a quel synth-pop di cui Almond e Ball erano tra i principali alfieri. Una sorta di sindrome di Stoccolma, con la vittima che si consegna mani e piedi al suo carnefice e provandone pure un certo piacere. Non sorprende che lo stesso Anderson vada da più parti a raccontare di come il catalogo Soft Cell, che ai tempi gli risultava indigesto e insulso, ora invece gli appaia geniale e persino fonte di ispirazione. In ogni caso, la strana coppia funziona alla grande. Sarà pure kitsch, ridondante, tronfia e pacchiana come solo certe cose dei Queen, ma la melodia che ne viene fuori, arricchita da un assolo di chitarra elettrica (costante di molti pezzi lenti dell'album) e il flauto a ricamare un po' ovunque con un lungo outro a sfumare, è una delle vette di "Chaos".
L'album, si diceva, è soprattutto una carrellata di ballad, e per certi versi ricorda l'ottimo "Stranger Things" del 2000. Alcune, vere e proprie torch song, per esempio la riuscita "Black Sunrise" che apre le danze, interpretata da Almond nella sua miglior veste di crooner consumato, melodrammatico e teatrale come solo lui sa essere.
Pochi gli episodi uptempo e sempre in modalità easy pop, per esempio il secondo singolo "Slow Burn Love", gioioso e spensierato inno eighties che ci riporta persino a certe cose più leggere degli Style Council.
"Giallo", altra ballata assassina in stile gotico, ci rivela invece una passione che ancora non conoscevamo, quella per il cinema thriller/horror italiano degli anni 70. A parte il titolo già sufficientemente evocativo, l'outro finale è chiaramente un omaggio a "Suspiria" e quindi ai Goblin autori della colonna sonora.
"Chaos" è un disco in cui non ci sono riempitivi ("Cherry Tree" potrebbe essere di Kate Bush in uno dei suoi dischi migliori), che si chiude in gloria con "The Crow's Eyes Have Turned Blue", lunga suite impreziosita da delicati arpeggi di piano e suoni orchestrali, con un finale inedito cadenzato da drum machine e dal gracchiare di un corvo.
Una sincera e niente affatto scontata dichiarazione d'amore per la natura e gli animali che arriva da un artista da sempre amante della vita frenetica e caotica delle metropoli e dallo stile di vita non proprio salutista.
Old and wise e non più ribelle, per sua stessa ammissione, godiamoci questo Almond ancora capace di regalarci emozioni.
18/02/2020