“Quando ero ragazzo, più di ogni altra cosa al mondo, non volevo essere ordinario. Ero deliziato quando, a scuola, mi dicevano che, in effetti, ero un po’ diverso. Era così fantastico per me perché mi guardavo attorno e pensavo: “In qualsiasi modo tu sia fatto, non voglio essere come te, così se tu pensi che io sia privo di equilibrio allora non può che farmi piacere”. Tutto questo è stato sempre dentro di me e, in realtà, molto era dovuto ai miei primi eroi musicali. Erano sempre drammatici nella loro ambiguità sessuale, specialmente nei primi anni 70.
Fino ad allora, le classifiche pop erano per tutta la famiglia, piene di artisti che emozionavano nonni, genitori e ragazzini. E poi, all’improvviso, comparvero questi personaggi sovversivi come Marc Bolan che, sebbene normalmente accettati oggi, non erano affatto visti di buon occhio allora. Erano visti come esseri corrotti e, ovviamente, pensavo che il tutto era assolutamente fantastico.
Volevo solo appartenere a loro. Stare con i corrotti”.
Morrissey
Intro
Prima di essere glam…
David Bowie è David Jones, aspirante star del pop nel nascente circuito mod londinese.
I suoi King Bees pubblicano un singolo, “Liza Jane”, nel 1964, ma David li abbandona subito dopo per unirsi ai Manish Boys con i quali registra “I Pity The Fool”.
Nessuno dei due brani, tuttavia, sale in classifica e, così, il vagabondo Jones passa ai Lower Third. “Can’t Help Thinking About Me” esce su etichetta Pye nel 1966, ma nessuno sembra notare il nuovo pezzo.
Sconfortato, David decide di dedicarsi solo a se stesso e, nel 1967, ottiene dalla Deram il permesso di registrare un primo album. Da “David Bowie” viene estratto il singolo “Love You Till Tuesday” che, prevedibilmente, non riesce a guadagnare alcun riconoscimento.
La svolta, tuttavia, arriva ad agosto quando David incontra l’artista-mimo Lindsay Kemp e, ispirato dal capolavoro di Stanley Kubrick “2001: Odissea Nello Spazio”, inizia a scrivere nuovo materiale per un album successivo.
Quando, nel 1968, viene pubblicato l’immaginifico singolo “Space Oddity”, le riviste specializzate entrano in fermento così come le vendite, spinte dalla trovata della Bbc di usare il brano come colonna sonora dell’atterraggio sulla luna da parte degli Stati Uniti.
Sulle ali dell’entusiasmo, Bowie forma una nuova band, gli Hype, nel 1970 e pubblica, dedicato a sua moglie Angie, il singolo “Prettiest Star”. E’ il preludio all’inquietante disco “The Man Who Sold The World” sulla cui copertina David indossa uno sgargiante vestito femmineo. La Grande Confusione è alle porte.
Marc Bolan è Marc Feld, esuberante modello per la rivista Town con una sola ambizione: essere lo specchio patinato della nuova tendenza mod. La sua prima incarnazione musicale è Toby Tyler per poi trasformarsi nuovamente in Marc Bolan e firmare un contratto per la Decca, pubblicando il singolo “The Wizard” nel 1965. Il brano va a vuoto nelle classifiche così come i successivi “The Third Degree” e “Hippy Gumbo”.
Nel 1967 Marc firma per la Track e si unisce ai John’s Children, band imbevuta di pop psichedelico, diventando subito il loro principale autore. “Desdemona” viene apprezzato dagli addetti ai lavori, ma non ottiene alcun esito commerciale, costringendo i John’s Children a sciogliersi.
Bolan si unisce, così, al percussionista Steve “Peregrine” Took e forma un duo acustico a nome Tyrannosaurus Rex.
Le influenze hippy dell’estate dell’amore si fanno immediatamente sentire nel singolo di debutto “Debora” e nel relativo album “My People Were Fair And Had Sky In Their Hair, But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brow”. Il folk visionario, contaminato da scorie psichedeliche, sembra attirare le orecchie inglesi che mandano il singolo al numero 34 e l’album nei Top 20.
Apprezzato dal dj John Peel, il duo realizza una seconda piccola hit, “One Inch Rock”, che anticipa il successivo Lp “Prophets, Seers And Sages, The Angels Of Ages”.
La formula magica funziona e, nel 1969, Bolan e Took fanno il botto con il disco “Unicorn” che arriva a sfiorare la Top 10 inglese.
Nel 1970 Took abbandona il compagno e viene sostituito da Mickey Finn che lavora al disco “A Beard Of Stars”, ultimo lavoro a nome Tyrannosaurus Rex. Nell’ottobre, infatti, Bolan decide di firmare per la Fly Records e di abbreviare il nome nel più immediato T-Rex, ma, soprattutto, di elettrificare la sua musica.
“Ride A White Swan” è l’alba di questo nuovo corso e, di fatto, l’alba del glam-rock.
Rod Stewart è Roderick David Stewart, giovane calciatore del Brentford Football Club poi busker in giro per l’Europa e beatnik in lotta nella marcia anti-nucleare di Aldermaston, Berkshire. Meglio conosciuto come “Rod The Mod”, il ragazzo possiede evidenti doti canore, entrando nella scena inglese prima con i Long John Baldry & The Hoochie Coochie Men e poi con il Jeff Beck Group.
Il punto di svolta arriva nel 1969 quando Rod si unisce ai resti degli Small Faces, rimpiazzando Steve Marriott e, abbandonato lo Small, firmando per la Warner Brothers.
Qualche mese più tardi, i Faces spopolano e Rod si esalta con il suo disco “Every Picture Tells A Story” e il relativo singolo “Maggie May” che scalano le classifiche sia inglesi che americane.
Come un fulmine a ciel sereno, il glam sembra ormai dominare il mondo.
Elton John è Reginald Dwight, martellante pianista rock and roll pronto all’incontro della sua vita. Grazie al paroliere Bernie Taupin, Elton abbandona i Bluesology e si avvia verso una solare carriera solista a partire dalla hit del 1971 “Your Song”.
La sua vera e stravagante personalità, tuttavia, viene fuori solo nel maggio 1972 quando si unisce alla corrente e pubblica un brano chiamato “Rocket Man”.
Gary Glitter è Paul Gadd, aka Paul Raven, rocker fallito dopo aver abbandonato il mondo della musica alla metà degli anni 60 per lavorare tra spot commerciali e il programma pop “Ready, Steady, Go!”. Il ritorno sulle scene avviene all’inizio del nuovo decennio sotto il nome di Paul Monday & Rubber Bucket, ma è una sua apparizione nella colonna sonora del film “Jesus Christ Superstar” che lo porta, per la prima volta, all’attenzione del grande pubblico. Paul Raven si trasforma in Gary Glitter e, grazie al singolo “Rock And Roll”, inizia la scalata verso il nuovo mondo ambiguo del rock and roll.
Roy Wood è Ulysses Adrian Wood, membro fondatore del gruppo beat-pop The Move. Dopo una serie di brani più o meno innovativi tra cui “Night Of Fear”, “I Can Hear The Grass Grow” e “Flowers In The Rain”, la band si dissolve e Wood vola via per formare la Electric Light Orchestra con cui militerà fino al 1972.
Nello stesso anno, infatti, il suo nuovo progetto è un gruppo pop-centrico e stravagante a nome Wizzard.
Alice Cooper è Vincent Furnier, giovane cantante che vagabonda tra piccoli gruppi come The Earwigs, The Spiders e The Nazz. L’ordinarietà di queste prime esperienze, tuttavia, viene ferocemente scossa quando Alice inizia, sul palco, ad accarezzare pitoni e soffocare bambole. Signore e signori, il perverso spettacolo del Grand Guignol apre i battenti.
Capitolo Uno
1970-1972
Cavalca il cigno bianco
E’ l’alba di un nuovo fenomeno nel variopinto mondo del rock and roll. Una strana situazione che nasce da un’attesa di tre, quattro anni in un autentico limbo post-Beatles. Nuovo, vero fenomeno, attentamente supervisionato dal solito giro degli affari, ma estremamente gradito da un nascente tipo di pubblico, pronto a farlo crescere al di là di ogni misura. T.Rex, Faces e Slade attirano progressivamente l’attenzione di una considerevole fetta di una platea stanca degli eccessi dei “brani di oltre venti minuti” o, più semplicemente, ancora legata ai banchi di scuola.
In questo secondo caso, i nuovi ragazzini anglofoni possono avere il loro primo, verginale assaggio di rock and roll. Sono, di fatto, i fratelli/sorelle minori dei vecchi fan degli Stones e di Dylan, dei Led Zeppelin e degli Who. Ragazzini che non sono stati programmati dalle regole “accettate” di un comportamento “rock” ormai diventato snob. Tutto quello che vogliono è sentire l’emozione e la forza grezza di un rock reso sempre più cerebrale dalle vecchie generazioni. Come la mette Marc Bolan, vogliono sentire il “boogie”. Reagire dal punto di partenza.
Se, allora, gli artisti pop da classifica sono troppo anziani per legare con questa nuova ondata di consumatori pop, la risposta soffia nel vento di band come Slade e T.Rex. In questo vento torna a spandersi l’eco elettrica dei giorni in cui Beatles e Rolling Stones guerreggiavano a colpi di singoli rivoluzionari.
Quando si scopre che “Telegram Sam” e “Look Wot You Dun” verranno pubblicati nello stesso giorno, l’etichetta degli Slade decide saggiamente di rimandare l’uscita di una settimana, impaurita dallo scontro con il titano da classifiche Marc Bolan. E il singolo dei T.Rex, infatti, non ci pensa su due volte e vola in alto nei cieli stellati del glam, sempre più vasti e luminosi nel loro ritornare all’essenzialità di successo del rock. A contemplarli, un’adolescenza che non si ferma ad ascoltare, ma è pronta a gridare istericamente il nome di nuovi idoli musicali.
L’immagine carismatica sovrasta il genere musicale e il beat irriverente e perverso si guarda allo specchio per controllare se ogni capello è al suo posto. La lezione del passato rivive attraverso la trasgressione patinata. Non a caso, infatti, c’è una similarità fondamentale tra i primi singoli fragorosi degli Who e quelli degli Slade: il successo arriva nel momento in cui una band riesce a lanciare un messaggio forte, creando un senso di identificazione con il movimento giovanile del suo tempo. Un giorno erano mod, oggi vanno in cerca del loro ambiguo essere.
Parliamo di glam, signore o signori.
L’importanza di chiamarsi singolo
All’alba del 1970, Marc Bolan è pura energia cosmica. La strana legge del destino vuole che questo sia il tempo dei suoi T.Rex, pronti a divorare le classifiche inglesi, sebbene aiutati da massicci investimenti in promozione della loro nuova etichetta, la Fly Records. Cosmo o capitale, gran parte della scalata la spinge l’irresistibile singolo “Ride A White Swan” che introduce un nuovo stilema schizoide tra un handclapping balbettante e uno sfondo coloratissimo di chitarre e archi.
E’, di fatto, un nuovo vagito beat, liricamente simbolico, melodicamente accattivante al limite dell’ossessione. L’elettrificazione della melodia è la forza non troppo nascosta di Bolan, che lavora su quello che vuole la sua gente, cibandosi di messaggi mediali da Radio 1 a Top Of The Pops. Risorge, così, la passione per il singolo da classifica che, per Marc, “piace a tutti perché è facile da realizzare e veloce da registrare”. “Energia. E’ di questa che è fatto un singolo. Tutto quello che rimane da fare è entrare in uno studio e registrare l’emozione, l’eccitazione che c’è dietro un brano”.
Eccitazione che, all’inizio del 1971, trasforma Bolan in un stella che brilla, vestita d’argento sul palco del Lyceum di Londra. Il pastiche di rock and roll e poesia, arrangiato con minimale tecnica strumentale viene acclamato da oltre duemila persone, pronte a scatenarsi sul “la la la” dominante del nuovo successo “Hot Love”. La soluzione, qui, è ancora più commerciale e la grezza semplicità del brano è la chiave per un’assodata popolarità, spronata da un altro pulsare assolutamente irresistibile.
Prima di Ziggy…
David Bowie - “The Man Who Sold The World” (Rca, 1970)
Schizoide, perverso. Un giovane effeminato in un incubo di carte da gioco. Vestito sgargiante, David Bowie firma le sue prime, rilevanti nove canzoni, pronto a vendere il mondo o, in casi estremi, a vendersi ad esso. Fra nichilismo, superomismo alla Nietzsche e psicoanalisi, i suoi incubi esistenziali abitano qui, evidenziati da suoni lancinanti e claustrofobici che esasperano un hard-rock in via di immediato sviluppo. La sua voce è già isterica, per ora solo corteggiatrice della chitarra selvaggia di Mick Ronson in “The Width Of A Circe”. L’orrore di “All The Madmen” bacia il folk scheletrico di “After All” fino alla ripetizione sinistra della title track.
Bowie, tuttavia, mostra di non trovare pienamente se stesso in questo disco e la melodia di “The Man Who Sold The World” sembra presagire un nuovo, radicale cambiamento.
The Faces “Long Player” (Warner Bros, 1971)
Una band inglese può avere un cuore americano. Intrappolata con il blues di Memphis, con il rock and roll delle radici progressivamente indurito, ma sensibile al fascino del reame Motown.
I Faces sono impetuosi, rumorosi, brillanti nel loro vivo funky, ma soprattutto sono un’entità collettiva immediata al di là del passato individuale dei suoi musicisti. Il caracollare della voce di Rod Stewart e la chitarra slide di Ronnie Wood, la potenza della sezione ritmica Lane/Jones e le tastiere di Ian McLagan. Lo spirito della Band mescolato alla potenza grezza dei Rolling Stones.
La formula è matura e appare in “Sweet Lady Mary”, pompata dalle fibrillanti versioni dal vivo di “Maybe I’m Amazed” e “I Feel So Good”. Non manca il lato più lirico con la nostalgia di “Richmond” e la toccante “Tell Everyone”.
Le radici del nuovo corso d’Albione passano anche di qui.
Rod Stewart “Every Picture Tells A Story” (Mercury, 1971)
Quando un musicista non sbaglia un colpo. Ovvero il dono naturale di essere capace di scegliere tutto con perfezione, abbinato a un’innata dote soul.
“Every Picture Tells A Story” è l’opera che meglio inquadra il fenomeno emergente di Rod, che si accinge a conquistare i grandi mercati internazionali. Autoprodotto con l’aiuto di Ronnie Wood, questo disco sembra essere una prova evidente di esuberanza e controllo delle proprie virtù. C’è, certamente, malizia e una piccola vanità di fondo, ma il cantante riesce a esporre il meglio di sé in dieci brani, ora ruvidi e focosi, ora garbati e melanconici come nel mandolino struggente di “Mandolin Wind”.
Traspare, così, un sentimento vero per una certa musica acustica che sa di sano autobiografismo quando partono le cover di una vita tra Dylan, Tim Hardin e Temptations. Siamo, tuttavia, all’alba di una nuova era di costume e, così, il primo posto in classifica lo conquista la strana storia di “Maggie May”, primizia commestibile di un diverso pop che conquisterà il mondo.
Violenza e stravaganza
Tra la fine dei 60 e gli inizi dei 70, gli Ambrose Slade passano il tempo a rincorrere la fama nei piccoli club di Wolverhampton, aiutati dal manager Chas Chandler che cerca di lanciarli nel grande circuito del rock and roll.
Abbreviata in Slade, la band fiuta una possibile apertura nell’emergente movimento giovanile degli skinhead e, così, si taglia i capelli e adotta un’immagine dura e violenta. La scelta, tuttavia, si trasforma in una continua pubblicità negativa, fomentata da un’ipotetica associazione con i pericolosi hooligan da stadio. Un grosso problema in più, quindi, per Chandler che è determinatissimo nel mostrare alla nazione quello che i suoi ragazzi stanno facendo. Nessuno, tuttavia, vuole gli Slade che faticano a trovare offerte per suonare dal vivo i loro accordi adrenalinici.
All’inizio del 1971 appare chiara una cosa: bisogna lasciare che i capelli ricrescano e cavalcare il cigno bianco insieme a Bolan. In questo modo, la filosofia basilare “Io, Tarzan, tu, Jane” dei quattro può sfogarsi al meglio, rivestita secondo gli stravaganti nuovi dettami del glam-rock.
Il singolo “Get Down And Get With It” sintetizza chiaramente questa ulteriore scelta-compromesso. Il rock and roll belligerante va a passo di danza con il coro pop e l’attitudine aggressiva viene mascherata con zeppe, lustrini e papillon. E’ questo, oggi, il viatico per il successo.
Il guerriero elettrico
C’era una volta la magia e portava stelle tra i capelli. In una sola notte si può cambiare, passare dalle luci di un mondo fantastico a quelle artificiali di un locale stracolmo di ragazzini. Marc Bolan è, ora, una stella del business e ha una sola, precisa aspirazione: trasformarsi nell’unico guerriero elettrico del rock and roll.
Dopo il disco “A Beard Of Stars”, i Tyrannosaurus Rex si disperdono e, con loro, i melliflui toni orchestrali e le strane storie hippy. Nessuno, nel primissimo 1970, riesce a immaginarsi Marc Feld trasformato in un urlante chitarrista hendrixiano. Poi arriva “Hot Love” che è soltanto una primigenia estensione del suo approccio basilare al nuovo pop inglese. L’evoluzione naturale porta uno scapestrato duo flower-power nel luccicante reame delle classifiche.
E’ l’era del boogie-woogie e, per i T.Rex, significa pane quotidiano. Nel 1971 esce il nuovo singolo “Get It On” che, istantaneo numero uno, lega perfettamente la vecchia maniera con il nuovo corso tra arrangiamenti à-la Sun, i soliti archi di Tony Visconti e l’irresistibile chitarra gommosa e fruttata. Volendo esagerare, il suo furore elettrico non si discosta poi molto dall’azzardo di Dylan al Festival di Newport. Se, tuttavia, il bardo del Minnesota viene accolto da una pioggia di fischi impietosi, il guerriero elettrico si trova perfettamente in linea con i suoi tempi che, profeticamente, erano già dati in via di cambiamento.
Prima di Ziggy…
The Faces “A Nod’s As Good As A Wink To A Blind Horse” (Warner Bros, 1971)
Vecchi, sferraglianti accordi per una brillante direzione rock and roll. Non c’è variazione nella formula dei Faces e questo disco è forse il loro lavoro più rappresentativo. Catturati dalle mani esperte del produttore Glyn Johns, Wood e soci sanno offrire prestazioni lucide e intense (al di là della loro fama di bevitori casinisti) di grandissimo livello tecnico.
Il fuoco divampa in “Miss Judy’s Farm” e “Stay With Me” fino al travolgere di “That’s All You Need”. La malinconia si appropria di “Love Lives Here” con Ronnie Lane che si dimostra autore pregevole grazie all’elegante “Last Orders Please” e l’incanto di “Debris”.
I Faces sono una band, ormai, matura e la rilettura di “Memphis” riesce a dimostrarlo con precisione.
Singoli. Nel 1971 gli Sweet salgono in classifica con “Co-Co”, pop solubile che sa di Archies e di musica bubblegum. Un sound latino si spande attraverso una batteria morbida e conquista, così, le folle inglesi più discotecare. Meglio, tuttavia, il beat più solido e orchestrale di “Alexander Graham Bell”.
Dopo il belluino grido di “Get Down And Get With It”, gli Slade sembrano affinare la verve proletaria e sboccata in “Coz I Luv You” che si distende, più rilassata, tra chitarre saltellanti e ricami per archi.
Gli stilemi glam, insomma, iniziano a farsi più definiti.
Il profeta della nuova generazione
Alla fine del 1971 i T.Rex portano in trionfo un tour inglese di diciassette date e nell’aria gira una voce sempre più insistente: questo è il gruppo che prenderà il posto dei Beatles. Il fenomeno è, certo, ampliato da un successo commerciale senza precedenti. Tre singoli pubblicati in un anno hanno venduto più di quanto abbiano fatto Who e Jimi Hendrix messi insieme per un totale di oltre tre punti percentuali dell’intero mercato discografico britannico.
Non è, tuttavia, solo una questione di soldi. L’atmosfera generale che si respira tra la folla a un loro concerto è molto simile a quella che accoglieva gli Stones e i Beatles nei primi anni. Il disc jockey Bob Harris parla con sincerità: “La spiegazione? Marc è, per i ragazzi di oggi, esattamente quello che erano i Beatles nel 1964: la proiezione di tutte le loro più grandi fantasie. E’ un uomo molto bello e le sue canzoni sono estremamente comunicative per i ragazzi. Nessuno è riuscito a catturare lo spirito di questi tempi come ha fatto Marc Bolan”.
Alla metà degli anni 60 i Beatles non sono soltanto una fantasia, ma riescono a incarnare la figura del ragazzo della porta accanto. In altre parole, sono la prova vivente che l’avere quindici o sedici anni significa qualcosa. Il gigantesco appeal di Bolan sta nel dare forza alla sua generazione, un senso di identificazione attraverso crudi accordi rock and roll. Non è affatto strano, quindi, che il suo pubblico sia composto per lo più da ragazzine tra gli undici e i sedici anni perché Bolan sembra esattamente uno/a di loro. Da qui il suo bisessuale aspetto felliniano, tra scarpe sgargianti, eye-liner e cappotti di pelliccia. Il suo aspetto mistico, tuttavia, non riempie completamente il fenomeno.
Quando John Peel riceve l’acetato di “Hippie Gumbo” e lo passa nel suo programma riceve in brevissimo tempo oltre quattromila richieste da parte degli ascoltatori. Il suo primo libro di storie e poesie, “Warlock Of Love”, ha finora venduto ventimila copie.
Marc Bolan, quindi, è visto come un autentico poeta moderno, diviso tra materialismo rock ed evanescenza spirituale. Tutto questo è genuino T.Rex sound che emerge ancora nel ritmo barcollante del singolo “Jeepster”, che apre la strada al disco meglio riuscito (fino ad ora) della band.
"Electric Warrior" (Fly, 1971) è il passaggio fondamentale da un rock and roll adolescenziale a un asessuato misticismo spaziale. La carrellata di influenze musicali porta in tavola la dieta perfetta per ogni ragazzo rock del 1971 che si nutre di un’ideologia smaccatamente trash. Non c’è più Chuck Berry, Elvis Presley o Phil Spector, né i sobborghi di Nashville o Memphis. Gli archi di “Cosmic Dancer” sono qualcosa di frullato, ma completamente nuovo per un geniale feticcio glam. Il blues della Sun potrebbe suonare così com’è, ma non lo fa e “Jeepster” ne è la dimostrazione.
Bolan, così, firma brani a loro modo immortali ai quali non si riesce a dire di no inspiegabilmente.
Era vulgaris
Andare a vedere gli Slade dal vivo è come partecipare a un party ad alto tasso alcolico. C’è tanta gente e fa molto caldo, ma non vuoi assolutamente andare via. Quello che distingue la band da ogni altra è il fatto che si diverte a comunicare bilateralmente con il suo pubblico. Come un circolo virtuoso, se la folla si diverte, allora i quattro vanno giù con maggiore energia e frenesia sboccata.
Si tratta di pop, certamente, ma negli Slade vive una rozzezza di fondo difficilmente limabile. Come dice il leader Noddy Holder: “In ogni caso, trattiamo il nostro pubblico come se fosse un gruppo di compagni di scorribande”.
Gli Slade, quindi, capiscono al volo che gli spettatori sono stufi di stare seduti ad ascoltare, ma hanno bisogno di sfogarsi, gridando e battendo energicamente i piedi. Il ritmo che batte impetuoso, infatti, diventa come un proprio marchio di fabbrica, drammatizzato dalle tastiere horror del nuovo singolo “Look Wot You Dun”.
Tutto questo sarà pure volgare, ma il glam mostra anche questo volto.
Mutamenti
Alla fine degli anni 60 David Bowie crede fermamente nel verbo dylaniano: un musicista può cambiare il volto del mondo con una penna e una chitarra acustica. Eppure nel piccolo successo “Space Oddity” scrive: “Il pianeta terra è triste e non c’è nulla che io possa fare”.
Bowie, tuttavia, sembra davvero serio in quello che fa anche a costo di risultare noioso con epici brandelli hippy di nove minuti. Almeno fino a quando non decide di prendersi una vacanza negli Stati Uniti. L’elettricità deviata e suburbana di New York provoca, in lui, un fortissimo scossone e, alla fine, lo convince che è inutile parlare di se stessi nelle proprie canzoni. Basta chiudere gli occhi e scrivere tutto quello che passa nella propria testa. Lasciare viaggi cosmici e derive à-la Arthur Clarke per scendere nei sobborghi oscuri della mente umana.
Ritorna, così, il suo passato al sapore di jazz e di blues vecchia maniera, allo stesso tempo lontano dai soliti standard. Dalla partecipazione al festival di Glastonbury a un imminente mini-tour europeo, David suona con aria informale pezzi retrò come “It Ain’t Easy” di Ron Davies e la “Port Of Amsterdam” di Jacques Brel.
Tutto quello che vuole, in fondo, è essere un nuovo intrattenitore di altri tempi. Eppure nessuno può fare a meno di notare i vestiti da diva di Hollywood, le scarpe luccicanti con la zeppa, le acconciature anni 30.
David Bowie si dichiara omosessuale, ma (chissà perché) non ha molto tempo per il movimento Gay Liberation. Forse perché non vuole essere un leader. Forse perché rifiuta nettamente qualsiasi categorizzazione.
Un ex figlio dei fiori che cerca di preservare il suo bisessuale individualismo.
Chi o cosa è, allora, David Bowie?
David Bowie è uno, nessuno e centomila, un surreale personaggio da fumetto portato alla vita per affascinare i nuovi pargoli del rock truccato.
“Hunky Dory” (Rca, 1971) è una boccata d’aria fresca per lo schema classico della canzone cantautorale. Una ridefinita estetica decadente che lega insieme melodie irresistibili, arrangiamenti pieni di mistero e testi su più livelli tra narrazione, filosofia e allegoria. Nel piano melodrammatico di “Oh! You Pretty Things” l’avvento di un homo superior che canta ritornelli inquietanti quanto orecchiabili. Bowie mette in mostra il suo gusto kitsch per la parodia e, dopo aver deriso il vibrato di Bolan in “Black Country Rock”, osa fare il verso al suo nuovo nume Lou Reed nella scomposta e sfacciata “Queen Bitch”.
Musicista, intrattenitore o splendido attore? Semplicemente uomo effeminato privo di direzioni precise e, così, il perfetto pop di “Changes” diventa quasi un manifesto d’intenti. L’inconscio intellettuale sembra impadronirsi di canzoni ora scheletriche (“Quicksand” e la terrificante “The Bewlay Brothers”), ora scintillanti (i fiati di “Fill Your Heart” e la chitarra languida di “Andy Warhol”).
Un po’ come prendere la mente di Syd Barrett e farla sfogare con la pelle deviata di Lou Reed. Difficile parlare di glam, difficile parlare di pop.
Gioventù ribelle
E’ un martedì pomeriggio come gli altri al Granada di Londra e in molti sono venuti solo per il bingo. Per i Roxy Music, tuttavia, è un martedì pomeriggio molto importante perché David Enthoven, manager di Elp e King Crimson, verrà ad ascoltarli.
Ci sono molti modi, per una band, di entrare nel regno dorato del business rock. Molte lavorano per anni in piccoli club con piccoli manager prima di abbandonarli una volta sbarcati in tv o alla Roundhouse. Quello, invece, che vogliono i Roxy Music è saltare questo lungo passaggio, arrivando direttamente al top.
Il motivo è semplice: sono bravi e, soprattutto, sanno perfettamente di esserlo. L’unico problema è rendere pienamente il loro sound dal vivo, superando notevoli difficoltà tecniche dovute all’uomo che gioca con sintetizzatori VCS3, registratori, mixer a otto canali e altre diavolerie elettroniche.
Eppure i Roxy Music mostrano un sound fresco e flessibile che batte la noia di molte altre band esistenti, abbinato ad una conoscenza rara delle radici storiche del pop. Tra chitarre vibranti, sassofoni rochi e armonie doo-wop, la formula sonora della band appare deliziosa nella sua mancanza dell’ordinario. Merito, in parte, dell’immaginazione del cantante Bryan Ferry, laureato in belle arti all’università di Newcastle, dove inizia a suonare con una band di soul chiamata Gasworks. Trasferitosi a Londra, Bryan si destreggia tra varie attività, insegnando, guidando camion e rilassandosi con dipinti e sculture. Nella capitale si unisce al vecchio amico bassista Graham Simpson e all’insegnante amante del jazz Andy Mackay (sax, oboe).
A completare il nucleo della band c’è il pallido Brian Eno, genio dell’elettronica che prende subito posto nelle retrovie per abbagliare gli accordi dei Roxy Music con il suo sintetizzatore astrale. Successivamente viene inserito l’ex chitarrista prodigio dei Nice, David O’ List e Dexter Lloyd alla batteria che lascerà presto il mondo del rock per quello della musica classica, sostituito dal giovane veterano Paul Thompson.
Con questa prima formazione, la band inizia a sperimentare il suo naturale, inconscio approccio all’armonia pop, brillando al programma Top Gear del dj John Peel all’inizio del 1972.
Dall’Humphrey Bogart di “2HB” all’onda sintetizzata di “The Dream Of Olwen”, il modo di porsi dei Roxy Music è del tutto inaspettato. Un po’ come se John Cage iniziasse a comporre pop per le nuove folle del glam.
Prima di Ziggy…
Singoli. All’inizio del 1972 i T.Rex non hanno alcuna intenzione di staccarsi dai primi posti delle classifiche inglesi. Il successo di massa è, ormai, solido e maturo e, per Bolan, non sembrano esserci motivi validi per cambiare rotta.
Come tutti i precedenti singoli, “Telegram Sam” nasconde un’irresistibile insidia da immotivati ascolti ripetuti. Chitarre pacchiane, fiati balbuzienti e ricami per archi: la formula vincente continua a essere questa.
Contemporaneamente, si intravede il formidabile fiuto comunicativo della coppia Elton John-Bernie Taupin che conquista i mercati del mondo con una trovata sonora di grande efficacia. Il piano melodrammatico di “Rocket Man” porta il pop nello spazio e racconta un’altra storia di astronauti, aprendo la strada all’imminente scoperta di Marte da parte del rock.
L’alieno sta, ormai, per sbarcare sul nostro pianeta.
Capitolo Due
1972-1973
L’uomo delle stelle
Perché amare Marc Bolan…
Inghilterra, 1972. Diario di una qualsiasi ragazzina di quindici anni. “Un tempo mi piaceva Keith Emerson. Ora, per me, esiste solo Marc Bolan. Il modo in cui si muove, i suoi riccioli selvaggi. Non potrebbe essere più sexy di così. Quello che riesce a fare meglio è pomparti dentro veri sentimenti ed emozioni, mentre ti lasci completamente andare. I suoi vestiti sono fantastici. Molte persone guardano solo il fatto che indossa scarpe da donna, ma, in realtà, mette solo quello che gli sta bene addosso perché a lui non importa di quello che pensa la gente. La sua musica è originale ed è un brillante poeta. Marc crede davvero nelle persone comuni e le aiuta a ricordare che possono esistere mondi completamente differenti. Ecco perché, per me, esiste solo Marc Bolan”.
Chiunque al di sotto dei vent’anni – forse anche dei trenta – rimane aggrovigliato nelle catene melodiche di “Metal Guru”, attraente monotonia da spiaggia tra swing e boogie. Basta un brandello di diario delirante per spiegare il successo dell’idolo Bolan, sempre più Elvis del glam, e del suo nuovo singolo spacca classifiche (e cuori).
…Perché amare gli Slade
Con il piccolo aiuto dell’amico manager Chas Chandler, gli Slade potrebbero, nel mezzo del 1972, essere addirittura paragonati ai Rolling Stones del 1964.
Se Marc Bolan, con il suo tremendo appeal pop, è l’erede glam dei Beatles, allora i quattro di Wolverhampton incarnano quasi alla perfezione il ruolo dei più classici anti-eroi. Per dirla in termini psico-sessuali, le brave ragazze amano Bolan, le cattive gli Slade. Non sono più skinhead, certo, ma l’aura luciferina intorno alla band è rimasta viva e il dimenarsi animalesco e osceno del cantante Noddy Holder non si distanzia poi tanto dalle crude maniere di Mick “Mefistofele” Jagger.
Ancora una volta è l’estasi erotica a fare da sfondo e non sorprende che la Polydor chieda agli Slade di cambiare alcuni passaggi lirici della provocatoria “Do You Want Me”.
La filosofia del singolo di successo, teorizzata da Bolan, è molto apprezzata dal gruppo che preferisce costruirsi con calma, passo dopo passo. “Get Down And Get With It” è puro rock and roll sparato a cento all’ora mentre violino e piano sviluppano un sound più elaborato in “Coz I Luv You” e “Look Wot You Dun”.
Con il nuovo brano “Take Me Bak ‘Ome” la saga degli Slade procede inarrestabile con ben tre chitarre in bella vista al seguito del cantato urlato, affogato in un suono al limite del rumore. Questo rock and roll torna direttamente alla primigenia semplicità e legittima, così, l’amore di tutte le cattive ragazze per questa band.
Aspettando l’uomo
Il 21 giugno del 1972, l’astronauta alieno in stile Vogue porta la sua odissea spaziale sul palco della Civic Hall di Dunstable, Inghilterra.
I giornalisti del pianeta terra sono pronti, penna alla mano, a descrivere uno dei più importanti punti di svolta nell’incredibile storia di David Bowie. Alcuni sono già pronti a definirlo “la cosa più grande che c’è attualmente in circolazione”.
Il problema è che, sul palco, non c’è l’ex David Jones, ma una strana, affascinante creatura in tuta bianca e capelli rossi. E’ l’alba dell’alieno polveredistelle che inizia il suo show come una qualsiasi puttana del rock and roll prima di parlare dei suoi mille cambiamenti. L’apocalisse di “Five Years” è il suo messaggio, memore di viaggi acustici interstellari e idoli più o meno deviati.
Ziggy non è soltanto il suo volto scavato e androgino e l’energia cosmica del suo singolo-manifesto, “Starman” non vede l’ora di librarsi in volo in cerca di nuovi, isterici orizzonti pop.
E’ il turno dei bis sul palco della Civic Hall di Dunstable, Inghilterra.
Partono gli accordi drogati di “Waiting For The Man” e l’esplosivo chitarrista Mick Ronson si avvicina lascivo all’alieno. I giornalisti del pianeta terra non sono affatto pronti perché la penna è caduta chissà dove dopo aver visto uno dei più espliciti esempi di fellatio praticata a uno strumento musicale.
Signori, l’ascesa di Ziggy Stardust e dei Ragni da Marte.
Il suono della sorpresa
La formula dei Roxy Music è semplice quanto sorprendente, miscuglio compresso di liriche affascinanti, accordi raffinati e sense of humour tipicamente britannico.
Tutto questo sembrerebbe banale revival rock, ma non lo è affatto, nonostante in molte delle loro canzoni abbondino riferimenti a una musica pop da età della pietra.
Bryan Ferry è loquace: “Sembra davvero bello creare qualcosa che sia ricco e vario, riportare alla luce molte cose del passato che ora sono dimenticate. Portare sul palco veri violini a suonare ‘Will You Love Me Tomorrow’. Siamo eclettici, certamente e i nostri vari elementi sono usati con un fine ben preciso. E’ questa la vera forza del nostro gruppo”. Quello che, sicuramente, sorprende il cantante e i suoi compari è come questi ricordi musicali basilari si adattino così bene a un pubblico troppo giovane per averne memoria.
Nel 1972 tutto procede a doppia velocità per i Roxy Music. Solo pochi mesi prima la band non aveva un manager né un agente, limitandosi a sparute esibizioni in piccoli club. Ora, con un bassista nuovo di zecca (Rik Kenton), apriranno lo show di Alice Cooper all’Empire Pool di Wembley. Merito del ritmo sensuale del singolo “Virginia Plain” che, tra strambi effetti sonori, apre la strada all’omonimo album di debutto dei Roxy Music.
“Roxy Music” (Island, 1972) è l’agglomerato sonoro che tradisce le vere intenzioni della band, tra atmosfere morbide e vitamine elettriche. Il rock diventa incalzante, immaginifico e riesce a vibrare nella terra di mezzo di stili e citazioni.
“Re-Make/Re-Model” è il posto giusto dove incontrare la loro magia insolente, tra bolle di sintetizzatore e liriche à-la Lou Reed. Chitarre e sax per leggere il lato più ironico di Beatles, Robert Moog e Duane Eddy. A partire dalla copertina erotica/esotica fino ad arrivare al nightclub marocchino di “2HB”, il disco evoca le più calde fantasie (“Sea Breezes”) in un substrato strumentale estremamente intelligente. Il rumore di “The Bob (Medley)” balla sul doo-wop di “Would You Believe” e diventa apocalisse nella chitarra di “Ladytron”, non esattamente classica canzone d’amore.
Il punto principale è abbastanza evidente: i Roxy Music non hanno alcuna intenzione di rimanere imbambolati davanti a una formula sonora.
Piccola lezione per Marc Bolan.
Il teatro degli orrori
La scena è a Wembley ed è un tiepido venerdì sera all’Empire Pool. Il sole sta tramontando e, all’interno dell’auditorium, oltre settemila ragazzi dall’aspetto strambo attendono che, sui loro occhi, cali la tenebra più profonda. Una voce dall’accento americano grida: “Ecco a voi il leggendario Alice Cooper”.
Il fantomatico stregone che tanto turba i genitori di mezza America vive il suo momento più magico, prodotto di massa di una rancida sottocultura giovanile. Il suo film dell’orrore si sviluppa su un rock potente e aggressivo, abbinato a testi bizzarri e, il più delle volte, morbosi.
Non è affatto un caso che, nel 1971, l’album “Love It To Death” abbia scatenato la protesta di adulti e critici musicali tanto da essere bandito in tutti gli Stati Uniti.
Alice Cooper vuole proprio questo e il suo successo, così, è assicurato.
Quando partono gli accordi rock and roll di “I’m 18” la platea è già in visibilio, ennesima testimonianza di quanto conti il contatto empatico con le nuove generazioni di ascoltatori. Non importa, quindi, che la band suoni in maniera mediocre, perché lo show passa per altri lidi metaforici come la mutilazione selvaggia di una bambola con un’ascia.
L’organo sale, circondato da un fumo mefistofelico e Alice inizia a dimenarsi sulle note perverse di “Killer”. A rubare la scena, tuttavia, è l’incredibile apparizione di un boa constrictor che si muove flessuoso intorno al collo del cantante prima di finirgli direttamente in bocca.
L’hard-rock da gita scolastica del singolo “School’s Out” è la “My Generation” dello stregone americano, ma non riesce a definire qualcosa che sappia veramente di nuovo. Quello che Cooper fa è giocare sull’incompatibilità viscerale tra giovani e adulti, ma, in fondo, i Rolling Stones lo facevano già dieci anni prima. Eppure i ragazzi del 1972 scoprono, in zia Alice, un nuovo eroe generazionale e questo basta ampiamente per farla diventare una nuova leggenda del pop.
Un po’ di glitter
Gli inizi di Gary Glitter non sono poi tanto diversi da quelli di un qualsiasi intrattenitore. Un giovane freak che si guarda allo specchio posando su un disco di Buddy Holly.
Mentre gli uffici di collocamento cercano di inserire i liceali inglesi in “scatole-lavoro”, l’estroverso Paul Raven si alza in classe blaterando sul suo futuro da star della musica. Il ragazzo è oltraggioso, modella la sua immagine sui miti di Elvis e Ray Charles, e, sorprendentemente, riesce a registrare un primo disco a quattordici anni con una band di rock and roll.
Tra il 1965 e il 1969, Glitter insegue il successo in Germania, suonando ore e ore in locali come il Top Ten Club prima di dividere il cartellone con vecchie star come Little Richard, Bill Haley e Tony Ashton.
In uno dei tanti piccoli ritorni in Inghilterra, Gary fa una felice apparizione sulla colonna sonora del film “Jesus Christ Superstar” e incontra il produttore Mike Leander della casa discografica dell’album, la Mca. Leander si appassiona allo strambo Glitter e decide di mettere su disco l’energia umile degli show tedeschi. Il risultato è “Rock and Roll Part I & II”, jam di quindici minuti che viene sforbiciata per ricavarne due pezzi singoli più attraenti da un punto di vista commerciale.
Il suo tribale glam quasi strumentale viene pubblicato nel 1972 e ottiene un clamoroso successo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Glitter, così, si inserisce con furbizia nella reazione generale contro la vecchia era del progressive, tra un aspetto da star del rock anni 50, pellicce esorbitanti e calzini pacchiani. Il suo “rock and roll show” sembra apprezzato da un pubblico quasi nostalgico, ma, soprattutto, è la sua immagine sul palco che si adatta perfettamente al gusto del tempo con verve teatrale e melodrammatica.
E’ nata una stella
Luglio 1972. Alla Royal Festival Hall di Londra il decadente e ambiguo viaggio stellare di David Bowie compie, forse, il suo passo più intenso e significativo.
Capelli rossi e abiti succinti, l’alieno delle stelle si presenta come un vero e proprio flashback vivente, ricordando le più oltraggiose e teatrali star del pop, frutto proibito della passione sfrenata del suo pubblico.
L’aspetto affascinante e intoccabile di Bowie si nutre del vizio sotterraneo, accogliendo sul palco l’inaspettata figura di Lou Reed. L’ammirazione reciproca partorisce una jam che è parte di un’epoca, tra le derive elettriche di “White Light/White Heat” e “Sweet Jane”. E’ solo un piccolo riassunto della magistrale lezione dei Velvet Underground che, attraverso l’estro di David, ottengono parte di un riconoscimento tardivo e ingrato. Lo show di Londra, tuttavia, appartiene tutto alla nuova entità astrale e al suo disco-manifesto.
“The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” (Rca, 1972) è l’indecifrabile Dna sessuale dell’art-rock anni 70. Cantautore futuristico, David Bowie indossa i suoi panni glamour, spingendo l’acceleratore su un nuovo decadentismo musicale, tra pop à-la Marc Bolan ed estetismo marca Oscar Wilde.
A partire dalla ballata apocalittica “Five Years”, nascono canzoni dall’impatto dirompente, teatrali e umorali, che coniugano il duro riff chitarristico (“Hang On To Yourself”) con agrodolci partiture sinfoniche (“Starman”). Le invenzioni sonore si susseguono sul filo delicato del paradosso, ma ad emergere è soprattutto un virulento rock and roll che deflagra grazie al lavoro di Mick Ronson in “Suffragette City”.
Gemma perversa e sensuale, il disco riesce nel preciso intento di fare di Bowie una superstar, ma nasconde il suo animo instabile fino alla spietata autoeliminazione in chiave blues di “Rock And Roll Suicide”.
E’ una inquietante e precisa mistura di fragilità ed intensità disperata che trasforma un dotato musicista inglese in una stella fumante del nuovo pop mondiale.
Con Ziggy…
Singoli. Brillante esibizione pop, “All The Young Dudes” è la canzone che rilancia i Mott The Hoople di Ian Hunter che, sotto l’ala dorata di Bowie, puntano tutto su un rock muscolare dalle candide allusione omosessuali. Il nuovo corso musicale paga bene nella sua ambiguità e, di fatto, il brano diventa inno delle generazioni glam.
Gli “young dudes”, infatti, sono una generazione di neo-fricchettoni che trasformano i noiosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch. Che sia "peace and love", insomma, ma senza più vincoli ideologici o politici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel, stivali e tutine spaziali.
Sempre più vistosi e chiassosi, gli Slade non perdono tempo, rincorrendo il primato assoluto in fatto di stile. Il riff rollingstoniano di “Mama Weer All Crazee Now” assicura ai quattro un altro numero uno nelle classifiche, confermando la generale eccitazione nei confronti del mercato a 45 giri.
La formula vincente di Marc Bolan è, ormai, riconoscibile al primo accordo. Questa volta sono i giovani soldati della “Teenage Westland” a portare al successo “Children Of The Revolution”, melange corale a base di ossessivo riff orchestrale.
La mano “invisibile” del produttore Tony Visconti è marchio di fabbrica e i T.Rex non sembrano minimamente preoccupati di replicare a oltranza il modello, violando ancora il limite di velocità in “Solid Gold Easy Action”.
A voler diventare presidente di tutto ciò è l’oscuro, schizzato Alice Cooper che, dopo aver messo le scuole anglo-americane a ferro e fuoco, punta direttamente alla casa bianca del rock and roll androgino.
“Elected” ringhia e si dimena, ma paga il pedaggio allo spirito di Jimi Hendrix e, soprattutto, ricalca più che fedelmente le partiture sinfoniche di “Tommy” in un altro finale corale e ribelle (per le classifiche).
Guerre in pelle di leopardo
Estate 1972.
Giornalista: “E’ stata una coincidenza la veloce pubblicazione di “Never A Dull Moment” nella stessa settimana del nuovo disco di Bolan, “The Slider”?
Rod Stewart: “Volevano farlo uscire prima che tornassi negli Stati Uniti, in modo da portarlo in giro sul palco”.
Giornalista: “Non eri a conoscenza del fatto che sarebbero usciti nello stesso giorno”?
Rod: “Non fino al momento in cui ho letto il vostro giornale dove il mio disco ha una buona recensione al contrario di quello di Bolan”.
Giornalista: “Pensi che tu e Bolan siate in guerra per lo stesso mercato”?
Rod: “C’è, ovviamente, competizione, ma è quello che accade per molte altre professioni”.
Nonostante la cattiva recensione, “The Slider” riesce, per un breve periodo, a distaccare leggermente il nuovo lavoro solista di “Hot Rod” nelle classifiche inglesi.
Rod: “Bastardi. Conosco un posto dove Bolan non mi batterebbe mai: gli Stati Uniti”.
“The Slider” (Emi, 1972) corre sulla scia del successo del precedente “Electric Warrior” e, in breve, diventa il disco più amato e popolare dei T.Rex.
Il motto “ripeti te stesso” sembra essere un dogma per Marc Bolan, ma tutto può essere perdonato a un lavoro che, nel bene e nel male, è il secondo capolavoro del glam-rock dopo “Ziggy Stardust”.
Le idee di base non sono propriamente nuove di zecca (citazioni più o meno smaccate di Led Zeppelin e Frank Zappa), ma il risultato è un tutto debordante, caricaturale, cabarettistico, come impone la legge del rock decadente inglese. Il trash sinfonico di “Metal Guru”, le viziose ballate “Mystic Lady”, “Rabbit Fighter” e “Ballrooms Of Mars”, il balbettio camp di “Rock On”, il blues in fondotinta della title track. Bolan raggiunge il massimo livello di oltraggio al pudore, prendendo per i fondelli Elvis in “Baby Boomerang”, creando una sorta di hard-rock mordi e fuggi con “Buick Mackane” e rimpolpando i dettami glam con “Telegram Sam” e “Baby Strange”.
Se “The Slider” è il gridolino ossessivo del nuovo corso inglese, “Never A Dull Moment” (Mercury, 1972) è il gabbiano che vola sui mercati a stelle e strisce.
Il quarto disco solista di Stewart è un altro lavoro certosino, fatto a mano che si concentra sulla sensibilità del cantante come arrangiatore e interprete di materiale proprio e altrui.
Mentre i dischi dei Faces sembrano, alla fine, assomigliarsi in maniera vistosa, la forza di Rod sta nel saper raccontare delle buone storie, rispettando l’identità primigenia della “Angel” di Jimi Hendrix e dell’ennesima cover di Bob Dylan (“Mama You Been On My Mind”).
E’ la prova del singolo che scalda il pubblico, beccandosi l’applauso con un mix di dolcezza e grezza intensità. Il rock acustico di “You Wear It Well” è d’impatto immediato e lancia il “caldo Rod” nel vero business marca uessei.
Idoli della classe operaia
Noddy Holder, Dave Hill, Jim Lea, Don Powell. Quattro giovani uomini per un’eccitazione grezza, cruda che rivitalizza un periodo di relativa stagnazione nel mondo dei singoli pop dopo la caduta dei Beatles.
Il discorso album, per gli Slade, rimane un’incognita, ma è anche vero che il loro primo disco dal vivo, “Slade Alive!” (Polydor, 1972), diventa uno dei principali bestseller dell’anno.
Dal frastuono tribale di “Hear Me Calling” al rock and roll di “Keep On Rocking”, il sound della band è unico nel suo genere, infarcito di slang e liriche focose per un approccio decisamente operaio che viene molto apprezzato dalla maggior parte dei giovani europei.
La frenesia erotica si impossessa di ogni loro concerto con l’urlo sgraziato di Holder che cerca di stabilire un vero, primitivo contatto con i fan.
Un crescendo che esplode con “Get Down And Get With It” dove migliaia di piedi fanno tremare la sala all’unisono prima della liberazione finale, tra i bis, sulla cover pirotecnica di “Born To Be Wild”.
A fine concerto, gli Slade abbracciano i loro ragazzi e, autografo su autografo, li aiutano a sopportare meglio una vita quotidiana dura ed insoddisfacente.
Più morto che vivo
“Sento di questi gruppi che dichiarano di essere influenzati dalla mia musica, ma non vedo assolutamente la cosa. Ho mandato loro dei questionari chiedendo se capiscono veramente il mio lavoro e mi hanno risposto di no”.
E’ difficile che il viso pallido di Lou Reed riveli qualcosa. Il tipo d’uomo che ride raramente e, se lo fa, non potrebbe apparire più sinistro. La sua perversione viene direttamente dai profondi sotterranei del rock metropolitano.
Reed non ha modelli – se non se stesso – eppure il nuovo mondo del rock inglese gli deve molto. Parlando dei suoi ultimi dischi, David Bowie equipara l’influenza dell’uomo di New York a quella di Chuck Berry sugli Stones. Impossibile ignorare il suo tipico stile distaccato nelle inflessioni vocali di Bryan Ferry, così come le dichiarazioni di Brian Eno a proposito di un prossimo album dei Roxy Music in linea con il minimalismo deviato di “White Light/White Heat”.
Tutti, da Alice Cooper a Iggy Pop, parlano di Lou Reed con una certa reverenza di fondo. E basterebbe la storia del travestito “Sister Ray” per capire quanto i Velvet Underground abbiano anticipato di parecchi anni l’ambiguità che caratterizza l’odierno rock and roll.
“Il punto sul mio nuovo album è che tutte le sue canzoni sono canzoni d’odio. Il mio primo disco da solista era fatto completamente di canzoni d’amore. Ora sono soltanto canzoni d’odio”.
“Transformer” (Rca, 1972) è il lavoro che promuove definitivamente Lou Reed al rango di unica “drag queen” del rock decadente.
David Bowie e Mick Ronson, appassionati cultori dell’arte schizoide dei Velvet Underground, riescono nella facile impresa di caratterizzare un suono già urbanizzato, focalizzato interamente sull’ambiguità sessuale. Il Frankenstein gay in jeans, t-shirt bianca e banana in erezione si presenta (per la prima volta) alle masse con un disco meravigliosamente irritante, collezione di brani triviali, tristi e warholianamente frivoli.
Il rock crudo e affilato di “Vicious” e “I’m So Free” cede sovente il passo alle atmosfere più agrodolci e teatrali. “Satellite Of Love” e “Goodnight Ladies” sono gemme di un modo diverso di intendere il glam-rock, ossessivo e disperato.
Nel cuore nero di quest’odissea della trasgressione svettano veri e propri capolavori. La melodia commovente di “Perfect Day” sposa, così, la swingante “Walk On The Wild Side”, struggente déjà vu dedicato ai personaggi della Factory.
La cosa più dolce
Nel suo modo d’essere, “Blockbuster” è qualcosa che potrebbe anche essere definito capolavoro. Il primo singolo numero uno degli Sweet è rumoroso, sintetico e tremendamente ottuso, intonandosi con grazia inquietante a un tipo di pop music molto vicino alla filosofia “usa e getta”. Il brano possiede un appeal irresistibilmente banale che, nel giro di qualche mese, perderà tutta la sua forza, in attesa di un degno (?) successore.
Gli Sweet assemblano un rock morbido, triviale e artisticamente insussistente, ma arrivano al top grazie a varie apparizioni televisive per le bocche fameliche dei teenager inglesi. Mick Tucker, batterista, afferma senza paura: “Gli Sweet sono la band che tutti hanno paura di amare”.
Sarà anche come dice, ma l’album “The Sweet” (Rca, 1973) non riesce a vendere come il relativo singolo e i quattro continuano a ripetere che la loro visione consiste nel creare quante più hit possibile. Tutto il resto, quindi, risulta secondario e la band è sempre più circondata da autori, produttori e consulenti d’immagine per rimanere sulla lunga e stretta via per il successo.
Il disco, tuttavia, si rivela fin troppo pretenzioso nella sua veste di album di concetto, imbevuto di un hard-rock collegiale tra Chuck Berry, Elvis e Deep Purple. Questa musica da masticare piace ai fan più giovani, ma, per ora, non riesce a uscire da un tranquillo sabato sera di follie in discoteca.
Con Ziggy…
Film. “Born To Boogie” è una pellicola estremamente narcisistica e decisamente pretenziosa. Gran parte di essa riprende il magniloquente concerto dei T.Rex a Wembley, seguendo ossessivamente la figura chiave di Marc Bolan. E’, praticamente, un one-man show con il resto della band che sembra scomparire dietro una coltre di lustrini e abiti sgargianti.
Il pubblico è in visibilio e l’isteria di centinaia di ragazzine vestite come il loro idolo non può che riportare alla mente l’era felice del primo pop beatlesiano. Ringo Starr, regista e fan, esagera i toni surreali del concerto con Bolan a prendere il tè durante l’intermezzo acustico, ispirato ad Alice e al suo paese delle meraviglie.
La musica, insomma, passa in secondo piano, pronta a rientrare in scena solo quando lo stesso Ringo ed Elton John raggiungono la band per una straripante versione di “Tutti Frutti”.
Singolo. All’inizio del 1973 sono in molti a pensare che i T.Rex abbiano perso l’iniziale smalto, limitandosi a ripetere all’infinito uno schema musicale ormai consolidato e di sicuro successo. Bolan, in realtà, prepara un album diverso dagli irresistibili stilemi di “Electric Warrior” e “The Slider”, lavorando su un sound più adulto e oscuro.
La chitarra tonante di “20th Century Boy” inizia a discostarsi dalla semplice melodia pop e, tra inquietanti cori gospel, cerca di dimostrare al mondo che, si, si può cambiare. Quello che non cambia, per ora, è il successo del gruppo che continua a cavalcare, così, il caro cigno bianco del glam-rock.
Chi amerà il saggio Aladino?
Al Russell Harty Plus show è giorno di rock and roll.
Stivali e pantaloni gialli, David Bowie si prepara per lo spettacolo, dando gli ultimi ritocchi al suo viso scavato da insetto.
I Ragni da Marte sono posizionati dietro il microfono e si muovono coordinati al nuovo tempo schizoide di “Drive-in Saturday”, singolo in uscita per il 1973.
L’occhio psichico di Bowie alza i volumi, andando via da solo sul numero di Jacques Brel, “My Death”. La teatralità è ulteriormente ridefinita dato che la line-up del gruppo si espande a fiati, pianoforte e voci di sottofondo. Qualcosa sta, insomma, cambiando ancora una volta. Ma, soprattutto, la sensazione è che l’alieno polveredistelle stia subendo una radicale metamorfosi, cibandosi del nuovo alter ego di Bowie.
La creatura dall’occhio psichico si chiama Aladdin Sane, capelli color carota e linee sottili al posto delle sopracciglia. “C’è una sensazione generale nel mio prossimo album che non riesco ancora a spiegare; una sensazione che non ho mai riprodotto su un mio disco. Penso che sia il lavoro più interessante che abbia mai realizzato”.
Probabilmente, la sensazione di cui parla Bowie riguarda il suo nuovo personaggio, meno caratterizzato e più musicale di Ziggy Stardust. Eppure i capelli sono gli stessi, così come certi pezzi di deviato rock and roll.
Scritta a New York durante il trionfale tour americano, “The Jean Genie” è un blues elettrico abbastanza tipico, memore della versione di “I’m A Man” degli Yardbirds. La voce di Bowie prosegue con il suo tono isterico, sessualmente attratto dalla chitarra ruvida di Mick Ronson. Eppure si avverte che David inizia a stancarsi della gabbia smaltata in cui è entrato.
La trappola, tuttavia, continua a essere benigna, riempita d’entusiasmo nel giorno di San Valentino per lo show al Radio City Music Hall di New York. Bowie sfoggia il suo nuovo costume, Ronson urla con la chitarra elettrica ed enormi globi d’argento creano un’atmosfera da sbarco del Capitano Kirk. Il fascino extra-terrestre vuole che gli uomini sul palco non siano soltanto stelle teatrali, ma vere e proprie figure al di là della volgare normalità. Tra questi, la forza aggiunta Mick Garson al pianoforte che serve all’alieno per rendere più sofisticato il crudo rock and roll con nuovi numeri come “Time” e “Aladdin Sane”.
“Questa è per Mick”. La cover di “Let’s Spend The Night Together” è fin troppo di maniera e, insieme al rock-blues di “The Jean Genie”, mostra quanto Bowie abbia bisogno di cambiare pianeta. La gente, tuttavia, impazzisce totalmente per l’esile creatura e non la smette nemmeno dopo l’uscita della band dopo il corto circuito elettrico di “Suffragette City”.
Tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, il mondo sembra avere bisogno di David Bowie ed è una donna dal nome warholiano – Cherry Vanilla – che viene incaricata di divulgare a questo mondo quello che fa e pensa David Bowie. Quello che, forse, il mondo non sa è che Ziggy-Alladdin è stufo della sua vita e della sua musica e che, presto, realizzerà il suo proposito ultimo: un suicidio rock and roll.
Con Ziggy…
Album. “Billion Dollar Babies” (Warner Bros, 1973) è un passo in avanti sulla strada del successo per Alice Cooper. Meno oltraggioso dei precedenti, il disco è più ragionato, elaborato e, di fatto, cerca di operare una sorta di passaggio verso toni più pop e commerciali.
Quello che colpisce l’immaginazione del suo pubblico è il tentativo di fondere hard-rock e teatro, tra il canto a squarciagola di “Hello Horray” e la perversione di “Sick Things” e “I Love The Dead”. La provocazione raggiunge livelli esasperati e la voglia di riff sovversivi e inni generazionali (“Elected” e “No More Mister Nice Guy”) sembra essere direttamente proporzionale al desiderio di fama mondiale. I veri necrofili, infatti, non avrebbero un minuto di tempo per un qualsiasi suo album.
Con “Tanx” (Emi, 1973), i T.Rex cercano di avvicinarsi all’apoteosi creativa di “The Slider”, ma finiscono soltanto per raccoglierne i frutti, producendo una serie di brani-cloni ottimi se serviti in classifica.
Più che vero e proprio album, “Tanx” è un paniere di canzoni, colte con calma dalla terra solida della fama mediatica e artistica. La penna di Bolan sembra più matura, circondata da un alone oscuro che, da lì a poco, segnerà la sua vita insieme a quella del glam-rock stesso.
La dolce melodia per archi di “Lectric Slim And The Factory Hen” è un modo per percorrere all’indietro un’intera carriera, risalendo addirittura al mito beatlesiano in “Tenement Lady”.
Icona di un popolo, Marc Bolan si diverte a prendere tutti per i fondelli con brani che si presentano come vere e proprie “glammarate”. “Rock Shock” diventa, così, atto d’accusa nei confronti delle nuove leve glamperforza, finte, plastificate. “Se sai fare rock, non hai bisogno di shockare”.
“Tanx”, in definitiva, è un disco piacevole, ma svela al mondo che la corsa dei T.Rex ha il fiato corto.
“For Your Pleasure” (Island, 1973) è il progetto di un gruppo, ma è anche il parto di Bryan Ferry che, firmando da solo gli otto brani, si impone come unico direttore artistico dei Roxy Music.
Non si vive di soli pedaggi da pagare e, allora, diventa fondamentale un suono nuovo che, solco dopo solco, si esprima con classe genialoide. La band è agilmente in equilibrio su un filo sottile: il disco non è insieme di canzoni nello stesso stile del debutto e non è un cambio di direzione. E’, semplicemente, un disco dei Roxy Music, forse meno sperimentale, ma, sicuramente, più compatto e coerente se non addirittura maturo.
L’allucinata “Do The Strand” è l’inno futuristico di una nostalgia musicale, creazione di un gruppo di liceali sparato nel ventunesimo secolo. Sempre più esteta decadente, Ferry sembra uscito da un film di Hollywood degli anni 30 e la sua voce alimenta brani disperati come “In Every Dream Home A Heartache”.
La lezione deviata dell’uomo che ha venduto la terra impregna l’album verso la sua conclusione, tra il martellare romantico di “Grey Lagoons” e, soprattutto, l’apoteosi paranoica di “The Bogus Man” che, sotto forma di collage impazzito, mette in scena tutti i frammenti sonori di Ferry e soci.
Un tris di guru
Brian Eno, Todd Rundgren, John Cale. Per loro il glam è solo una delle infinite variabili di un approccio onnivoro, gettato a capofitto all'inseguimento d'ogni possibile sperimentazione sulla popular music. Un po’ padri nobili, un po’ a loro volta contagiati dal nuovo clima, partoriranno opere che, seppur non rigidamente catalogabili nel filone, saranno in qualche modo riconducibili al clima di quegli anni.
Pioniere negli intrepidi Roxy Music, Brian Eno entra in collisione con Bryan Ferry sui futuri progetti del gruppo, così molla tutto e si mette in proprio. Se il sodalizio col re cremisi Robert Fripp (“No Pussyfooting”) è pura full-immersion avanguardistica, lo spirito di "Here Comes The Warm Jets" (E.G. Records, 1973) risente ancora dell'ubriacatura glam dei primi Roxy. "Needles In The Camel’s Eye", ad esempio, risfodera le chitarre taglienti di Phil Manzanera (anche co-autore del brano), affogando in languidi deliqui bowiani. "The Paw Paw Negro Blowtorch" è un altro bozzetto assurdista: follia teatrale e tastiere impazzite a suggellare una piece torbida. E ancora la malia fifties virata acida di "Cindy Tells Me", il free-glam tastieristico di "On Some Faraway Beach", la stupefacente performance al sax dell'altro Roxy, Andy MacKay, su "Some Of Them Are Old", l'inno psichedelico di "Baby's On Fire" e l'apoteosi chitarristica della title track. Tutte gemme di un (post)glam ormai deragliato lungo le "strategie oblique" del non-musicista di Woodbridge.
Passa un anno. E la nuova impresa si chiama "Taking Tiger Mountain (By Strategy)” (Island, 1974), con Robert Wyatt alle percussioni e Phil Manzanera alle chitarre. Sempre con ironia distaccata da dandy, Eno combina le nuove tecniche di studio e il cerebrale dadaismo di Wyatt, coniando un autentico "trattato musicale" post-moderno. Si susseguono pastiche surreali, come il valzer marziale di "Back In Judy's Jungle" e il coro da pub della title track, ma anche esperimenti ambiziosi ("Fat Lady Of Limbourg", "Great Pretender" e "China My China"), che sposano tradizione orientale (nenie giapponesi, bacchette cinesi, gong etc.) e strumentazione rock. A completare il lotto, filastrocche nevrotiche, come "Mother Whale Eyeless" e "Burning Airlines", dal refrain ossessivo, interpretate con un canto distaccato da androide. Eno declina la lingua dell'avanguardia con elementi pop e retrò, giocando in modo spericolato su suoni e astrazioni.
Todd Rundgren è uno dei primi e più grandi stregoni del rock, capace appena diciassettenne di farsi largo nel frastagliato universo garage psichedelico degli anni 60 coi Nazz, di sfornare autentici capolavori melodici come solista all'inizio dei 70 e nel contempo di lanciarsi nel più sfrenato "hard-prog" sotto la sigla Utopia. Tutto questo, concedendosi nel frattempo il lusso di produrre una serie sterminata di album degli artisti più disparati.
La sua musica è avanguardistica e, al contempo, involuta, perché proprio nel bel mezzo di una suite proto-punk riflette su stessa, e si compiace e si amalgama in un break repentino dominato da atmosfere da romantico ballo sotto le stelle.
Rundgren anticipa il punk di qualche anno, si prende gioco dell'hard-rock. Con lui, il surf riprende a volare sulla cresta delle onde. Al glam dà praticamente del tu. E la musica progressiva assume con lui nuove forme. Gli orpelli e i barocchismi, infatti, vengono messi in un angolo, in favore di un suono che va a scandagliare nel futuro. Il pop più puro e melodico si eleva a forma d'arte senza finalità di musica usa e getta. Il cabarettismo trae nuova linfa, coniugandosi con il rock, come in una recita di una nuova Hollywood.
Tutto questo è "Something/Anything?" (Bearsville, 1972). Per Rundgren rappresenta il sogno di una vita: quello di plasmare e manipolare in un tutt'uno generi, sottogeneri, stili e mode passate. Ecco allora eleganti saggi di pop beatlesiano ("I Saw The Light", "It Takes Two To Tango"), numeri soul ("It Wouldn't Have Made Any Difference", "Sweeter Memories"), torrenziali r&b ("Wolfman Jack", "Slut"), ballate romantiche ("Cold Morning Light", "Torch Song"), bizzarri esperimenti elettronici ("Breathless"), caroselli di teatrini circensi ("The Night The Carousel Burnt Down"), mini-suite ("Song For The Viking"), assalti chitarristici ("Little Red Lights", "Some Folks Is Even Whiter Than Me").
La sua carriera proseguirà tra alti e bassi, ma la ricerca di nuove fonti gli permetterà di reinventarsi e risorgere sempre.
Così come il movimento glam era stato ispirato dal rock oscuro dei Velvet Underground, le due principali menti di quel gruppo trovano nei primi anni 70 a Londra nuovi stimoli artistici negli esponenti più validi del glam stesso: Lou Reed trova un mentore nell'icona David Bowie, John Cale entra in stretto contatto con la cerchia degli altri alfieri del rock decadente, ovvero i Roxy Music, nelle persone di Brian Eno e di Phil Manzanera.
Un anno prima, però, Cale aveva già espresso una personale variazione sul tema con “Paris 1919” (Warner, 1973), frutto della perfetta fusione tra il suo animo “classico” e quello rock. Si va dal pop quasi beatlesiano di "A Child's Christmas In Wales" alla mini-suite da camera della title track, dalle atmosfere folk rarefatte di "Hanky Panky Nohow" e "Andalucia" al country hard-rock di "Macbeth", dall'enfasi orchestrale della drammatica "Endless Plain Of Fortune" alle atmosfere sognanti di "Antarctica Starts Here", capolavoro del disco, guidata dal piano elettrico e dalla voce sussurrata di Cale, per poi aprirsi in un crescendo di harmonium e batteria, prima di spegnersi subito dopo. La maturità compositiva di Cale fa leva su uno spiccato senso della melodia e arrangiamenti curatissimi, anche se a volte un po' troppo ridondanti.
Messo sotto contratto dalla Island Records, Cale dà alle stampe tre album cruciali per la sua carriera (racchiusi nella raccolta “The Island Years”, uscita nel 1996), in cui la sua arte di songwriter si fonde con certe istanze elettroniche e rumoristiche, influenzate dalla collaborazione con Eno e Manzanera. Tutto ciò è evidente soprattutto nel primo di questi lavori, “Fear” (Island, 1974), la cui title track è forse la sintesi massima della sua arte: una ballata pianistica che sfocia in puro delirio, rumori e urla convulse e psicotiche, in cui sono racchiuse quella paranoia e quel senso di claustrofobia che l’hanno sempre accompagnato. Oltre alla forte ascendenza del lavoro di Eno, nel disco è presente anche una delle maggiori influenze di Cale, i Beach Boys, omaggiati su "The Man Who Couldn't Afford To Orgy".
Capitolo Tre
1973
Suicidio rock and roll
La stella più bella
A quasi un anno dalla sua esplosione, David Bowie è estremamente prolifico nello scrivere di sé come artista rock. La sua candida bisessualità e i vestiti luccicanti provocano una vera e propria spaccatura, tra adulazione al limite dell’isteria e intolleranza ortodossa nei confronti di tutto uno showbiz volutamente artificiale. Diventa, così, impossibile rifiutare o accettare la sua stilosa e triviale immagine.
“The Man Who Sold The World”, “Hunky Dory”, “Ziggy Stardust”: la creatura dietro questo trio di album intellettuali è lontana anni luce dalla tradizionale considerazione poetica di un songwriter. Un po’ Colin Wilson, Bowie insegue l’obiettivo primario di disconnettersi da una pulsante umanità per analizzare valori assoluti piuttosto che noiosi problemi quotidiani.
E’ un interesse vivo per il futuro, per le possibilità di concetti astratti come la filosofica definizione di “sano” o la nozione di evoluzione mentale e sesto senso. Ed è proprio questo desiderio di disconnessione che irrita maggiormente la fazione anti-Bowie, unita contro il suo essere più che pretenzioso, spazialmente egocentrico.
David spezza il continuum folk di Bob Dylan e porta nel rock and roll un intellettualismo che è vera e propria rivoluzione: un pensiero originale combinato con una musica eccitante. Come dire che “Life On Mars?” abbia più cose in comune con Sartre che con Chuck Berry.
Il nuovo cabaret malinconico della vita mette in scena l’agonia di Ziggy Stardust con un susseguirsi delizioso di alti e bassi.
“Aladdin Sane” (Rca, 1973) è il sonoro comitato di benvenuto al prossimo alter ego di Bowie che macina riff per compiere la sua metamorfosi.
l rock and roll polveredistelle è ancora presente nelle vene di Ziggy e la chitarra di Ronson ruggisce perentoria fin dall’inizio in “Watch That Man”. Nella title track, tuttavia, il piano di Mike Garson crea un’atmosfera plumbea e inquietante e, più che su un palco di luci, sembra di stare in un night-club il giorno dopo una catastrofe atomica. La voce di Bowie è malinconica, ma recupera subito un tono nervoso nel pop inquieto di “Drive-in Saturday” e nel miscuglio Stones-Yardbirds di “Panic In Detroit”.
La nuova direzione sembra, insomma, guardare al futuro con gli occhi dietro la schiena, tra la solita storia di anziane star del cinema marca Lou Reed (“Cracked Actor”) e illuminanti intuizioni brechtiane (“Time”). Il sentimentalismo di “The Prettiest Star” e “Lady Grinning Soul” viene intervallato dall’energia perversa della fedele cover di “Let’s Spend The Night Together” e dal proto-garage di “The Jean Genie”.
In “Aladdin Sane”, quindi, non c’è soltanto bisessualità e voglia di provocare, ma una più ricercata raffinatezza autoriale per un nuovo cambio d’abito musicale.
Con Ziggy…
Album. La East Coast americana alla scoperta del nuovo sound britannico.
"A Woofer In Tweeter’s Clothing" (Bearsville, 1973) è il secondo arrivato in casa Sparks, stralunato progetto dei fratelli di Los Angeles Ron e Russel Mael. I due rimangono folgorati sulla via dell’art-glitter-rock inglese e si mettono progressivamente al lavoro per sviluppare un music-hall nevrotico e futurista, ricco di humour nero e sfumature cabarettistiche.
Gli insegnamenti di Marc Bolan possono essere davvero preziosi e, così, il falsetto di Russell si insinua perfettamente in brani come “Girl From Germany” e “Beavy O’Lindy”. Il senso della melodia si avvicina al dadaismo: “The Louvre” e “Angus Desire” vanno al di là di Bolan, prendendo spunto dalle atmosfere esotiche di Ferry ed Eno. In questi termini verrebbe da ammettere che il capellone e lo strano tizio Hitler-Chaplin siano semplicemente dei coraggiosi ammiratori.
Gli Sparks, tuttavia, sono molto di più e questo disco ce lo fa già intravedere.
Singoli. Escluso dal secondo album, “Pyjamarama” è l’ulteriore, sensuale tassello nell’intelligente mosaico sonoro dei Roxy Music. Aperto in stile Who, il brano si snoda tribale, selvaggio, ma allo stesso tempo sofisticato e terribilmente pop. Uno squarcio, tuttavia, apre la sua trama e il sax lacerato disturba/delizia per ribadire che la band di Ferry ha una marcia in più nel panorama musicale del momento.
C’è, infatti, chi si attiene rigidamente alle regole. Gary Glitter cerca di cavalcare l’onda di “Rock And Roll Part 2” e si limita al copia-incolla del suo stesso schema. “Hello! Hello! I’m Back Again” ripropone un suono tribale al limite della robotica mentre “I’m The Leader Of The Gang” scimmiotta vecchi inni generazionali per gioventù ribelli.
Meglio, almeno, il talento sexy e divertito di Suzi Quatro, che assapora per la prima volta il successo con “Can The Can”. Il brano è palesemente strutturato sulla linea di Glitter, resa ancora più blues da cartoline americane dei Canned Heat di “On The Road Again”. Suzi, tuttavia, sembra non interessarsi alla cosa per godersi semplicemente il suo primo pezzo da classifica.
Alle classifiche continuano a pensare gli Slade che tornano ad armonie vocali anni 60 in “Skweeze Me, Pleeze Me”, molto vicina alla recente “Elected” di Alice Cooper.
La sensazione è che una grande confusione sta per abbattersi sul glam-rock: con “Hell Raiser”, gli Sweet cercano di attirare l’attenzione di un pubblico più duro e metallico.
Grida ed esplosioni di chitarra tradiscono, tuttavia, un inconscio tentativo di seguire il nuovo Bowie.
Ha forse, allora, ragione Marc Bolan?
Roxyrama
I Roxy Music amano gli alberghi di lusso, ma non inseguono il denaro, soprattutto se si deve parlare di musica. I biglietti verdi piovono dalle vendite dei dischi e, di conseguenza, un tour è soltanto spettacolo, messo in piedi per divertirsi e presentare al pubblico nuove canzoni.
La band è a Parigi e Amanda Lear, sensuale protagonista della copertina di “For Your Pleasure”, vuole organizzare un incontro con un certo Salvador Dalì. L’intellettualismo di Ferry passa sicuramente anche di qui. Dal surrealismo al fantasma di Edith Piaf, i Roxy entrano nella cultura pop del 1973, aspettando dietro le quinte nella vecchia sala da ballo dell’Olympia. Lo show ha inizio e, con esso, l’attenzione ricercata per il dettaglio sonoro che rende grande questa band.
La chitarra trattata e l’alto sax di “Do The Strand”, le sviolinate di sintetizzatore di “Editions Of You”, il controllo vocale in “Beauty Queen”.
Bryan Ferry è, ormai, l’incontrastato mastro cerimoniere dell’arte dei Roxy, ammaliante animale da palcoscenico, eccentrico carisma umano. Non si può, quindi, parlare più di meteora, di canzoni ordinarie, di musicisti medi. Il concerto di Parigi è, sostanzialmente, lo stesso dell’ultimo tour inglese, ma è la politica generale del gruppo e nasconde una grande preparazione alla base.
Al Rainbow di Londra i Roxy dimostrano di saper controllare a memoria le loro canzoni, rafforzando uno spettacolo che vede solo come un pallido ricordo i tentativi coraggiosi di un anno prima.
Quello che fa tanto glam – le giacche luccicanti, la seta – diventa qualcosa di futile perché, ovviamente, la cosa più importante è la musica. E, qui, l’esitazione è svanita, seguendo le mosse feline di Ferry tra tastiere, microfono e chitarra. La sirenetta pallida Brian Eno, l’autorità della Gibson di Manzanera, le tempeste di sax di Mackay.
"Re-Make/Re-Model" fa venire giù il teatro e la gente non sembra minimamente intenzionata a uscire, non prima di aver ascoltato il bis di “Virginia Plain”.
La Roxyrama è in trionfo.
Suzi Q
Quando il singolo “Can The Can” arriva al numero sei della Pop 30 di Melody Maker, la piccola Susan Kay Quatrocchio da Detroit, Michigan si presenta raggiante alla scrivania del suo boss.
All’inizio degli anni 70, Mickie Most vola negli Stati Uniti per produrre un disco di Jeff Beck e, nei ritagli di tempo, ascolta un concerto di una band femminile a nome Suzi Soul & The Pleasure Seekers.
Leader del gruppo, Suzi Quatro è stanca di essere relegata in un angolo dal maschilismo musicale e parla con Most a proposito della sua voglia di dimostrare di essere brava quanto un uomo.
Nel 1971 la musicista molla le ragazze, fa le valigie e attraversa l’oceano per entrare direttamente in uno studio di registrazione di Londra. Suzi, tuttavia, ha fame di palcoscenico, acuta osservatrice del fermento musicale del momento e per nulla intimorita dalla concorrenza, ambigua, ma pur sempre “fallocentrica”. La sua band è, questa volta, di sesso opposto e, basso tra le gambe, la ragazza vuole suonare un rock and roll duro e crudo, senza intellettualismi, senza ego. Solo Suzi e i suoi uomini.
Dopo il fallimento del primo singolo “Rolling Stone”, Most la affida alla coppia d’autore Nicky Chinn/Mike Chapman: “Can The Can” arriva al numero uno in mezza Europa. E’ il trampolino di lancio verso la fama, alimentata da un tour con gli Slade e, soprattutto, da continue dicerie che la vogliono risposta con le tette a Marc “cignobianco” Bolan.
L’ultimo spettacolo
Londra, 3 luglio 1973.
Sul palco dell’Hammersmith Odeon si accende, per l’ultima volta, il falò delle vanità di Ziggy Polveredistelle o Saggio Aladino o, semplicemente, David Bowie. Si celebra l’ultimo atto nella vita di una stella, di un genio melodrammatico, di un mastro di cerimonie rock and roll.
Con gli ultimi due spettacoli londinesi, Bowie salva se stesso e, uccidendo la sua creatura aliena, salva il futuro di milioni di seguaci in tutto il mondo.
Il mostro dai capelli carota non la smetteva, infatti, di bere dalla tazza vitale della decadenza, annullando l’individualità di tutti i suoi giovani adepti, pronti a seguirlo in qualsiasi galassia.
Se Mick Jagger è vero, sanguigno ribelle, David Bowie sembra tirare giù nel baratro ogni possibilità di rinascita individuale. Come guardare “Arancia Meccanica” e picchiare a morte un barbone o lasciarsi ipnotizzare dall’occhio orwelliano di “1984”.
Bowie capisce che la perversione non è più divertente e, così, fa esplodere la stella aliena nello show degli orrori dell’Hammesmith Odeon.
L’adrenalina collettiva viene catturata e polverizzata sulle note solenni di Ludwig Van.
A Londra emerge, quindi, la vera identità di un artista carismatico, intelligente, non umano. In semplici jeans, Jeff Beck sembra quasi una nullità, pur magnifica nella parentesi più blues di “White Light/White Heat” e “The Jean Genie”.
La tensione vanesia punta soltanto Bowie che medita sull’imminente suicidio artistico. “Questo non è soltanto l’ultimo concerto del tour, ma anche l’ultimo concerto che faremo”. “Rock And Roll Suicide” è la Piaf che si fuma una sigaretta sul tetto del mondo del pop. Persino le lacrime delle ragazzine sembrano deliziosamente, minuziosamente programmate.
Con Ziggy/Aladdin/Bowie muore un organo vitale del glam, ma è il ragno Mick Ronson che spiega razionalmente cosa succederà dopo. “No. Non abbiamo neanche iniziato. David ha bisogno di cambiare, non può essere sempre lo stesso. Ci mancheranno le folle adoranti e il glamour, ma continuare non sarebbe giusto. Bowie deve diventare una leggenda e questo è l’unico modo per farlo”.
Capitolo Quattro
1973-1974
Furia giovanile
“Proviamo a rappresentare un cambiamento nel comportamento dei ragazzi che adesso sono più consapevoli di essere arrabbiati. E’ una critica sociale e parla del fatto che i ragazzi sentono di essere una forza autonoma e che possono avere un impatto sulla vita delle persone al di là di ogni aspettativa. E va considerato che hanno più denaro e, quindi, un maggior potere d’acquisto. Parliamo di ragazzini tra i quattordici e i sedici anni più che di diciannovenni che hanno già un lavoro e uno stile di vita consolidato e che, probabilmente, sono già usciti dal periodo di cui parliamo nella canzone. Gli autori scrivono per un mercato e si rendono conto di quello che accade intorno. Realizzare un pezzo come ‘Teenage Rampage’ è come dire ai ragazzi che sono riconosciuti e, soprattutto, rispettati nella società odierna. Non conosco Marc Bolan e, forse, ci ha addirittura copiati, ma nulla è accaduto al sogno giovanile perché non è assolutamente un fenomeno che sta per morire”.
Nicky Chinn (co-autore di “Teenage Rampage”, ultimo successo degli Sweet)
“Penso che “Teenage Rampage” degli Sweet sia un pezzo grandioso. Non solo perché adoro gli Sweet, ma perché parla di una vera e propria rivoluzione guidata dai giovani sulle generazioni più vecchie”.
Linda, diciassette anni da Cardiff
In piedi per la regina
All’inizio dei 70, i due amici Freddie Mercury e Brian May mettono su una band istrionica, convinti di poter portare il glam-rock su un nuovo livello, sviscerandolo dall’interno.
La prima musica dei Queen suona particolarmente dura, aggressiva e, quindi, decisamente mascolina. Non ci sono colori volutamente omosessuali, ma una inquietante opposizione di bianco e nero che, nella mente dei quattro, rappresenta una doppia natura di buio e luce. Fin dagli inizi vacillanti degli Smile, la band insiste su questo concetto più o meno originale, ma non può ignorare il fatto di essere, forse, arrivata troppo tardi nel panorama musicale inglese.
Sono i produttori John Anthony e Roy Baker che spingono i Queen a registrare alcuni demo, ma la difficoltà nel trovare un’etichetta è enorme. Almeno fino alla decisione fatidica della Emi.
May e compagni, tuttavia, lavorano sodo per entrare nel gran calderone dello showbiz glam e hanno la giusta presunzione di piacere nonostante Bowie e Bolan abbiano già spopolato con l’immagine stereotipo del periodo.
“Il concetto che anima i Queen è l’essere regali e maestosi. Il glamour è parte di noi e vogliamo essere dandy. Vogliamo shockare ed essere oltraggiosi. Non ci interessa se la gente ci ama o no, ma che si formi una determinata opinione quando ci viene a vedere”.
Il primo disco dei quattro, “Queen” (Emi, 1973), rappresenta, in modo confuso, i loro intenti artistici ed è una serie di canzoni differenti tra loro. Il rock and roll sparato viene ammorbidito da dolci ballate malinconiche e, più che Beatles e Rolling Stones, a venire in mente sono certi manierismi degli Yes e sfuriate deviate dei Black Sabbath.
Il riff cromatico di “Keep Yourself Alive” è il manifesto originale (?) di una band che non vuole limitarsi a ripetere gli stilemi del glam-rock commerciale. Eppure la forza del singolo profetizzata da Bolan resta importante per i Queen nonostante straparlino di andare oltre il pop degli Sweet.
Dopo Ziggy…
Singoli. Sulla scia del successo internazionale di “Can The Can”, Suzi Quatro accelera i tempi, pubblicando un nuovo tormentone, “48 Crush”. La premiata ditta Chinn/Chapman, tuttavia, si adagia sul divano rock and roll e le variazioni rispetto al tribalismo del precedente sono davvero minime.
Più che una Bolan con le tette, la Quatro si avvicina agli stilemi pacchiani di Gary Glitter e, infatti, il successivo singolo “Daytona Demon” è una versione horror di “Leader Of The Gang”. Un po’ troppo tardi, quindi, per potersi permettere di ripetere lo stesso schema, ma la sensualità aggressiva della ragazza conquista e funziona benissimo in classifica.
Gli Slade, nel frattempo, sembrano aver perso l’iniziale mordente proletario, concedendosi a un pop sempre più blando e commerciale. Il vecchio “stomping” viene diluito in “My Friend Stan”, ma la marcetta beatlesiana di “Merry Xmas Everybody” ha un appeal perfetto, accompagnando con calore il Natale del 1973.
Continua, poi, l’indurimento degli Sweet che arrivano ancora al numero uno con il proto-punk “Ballroom Blitz”.
Eccentrici solisti del glam, David Essex e Gary Glitter consolidano un appeal pacchiano e privo di pudore. “Rock On” va al di là di qualsiasi logica musicale, tra basso, bonghi e voce in riverbero che potrebbero provocare le ire funeste di qualsiasi musicista anni 50. “I Love You Love Me Love” è, invece, il frutto di ubriachezza molesta nel tentativo di intonare una antica ballata doo-wop.
Il declino di un certo tipo di glam esagerato e fin troppo fittizio preoccupa e deprime il talento naturale di Marc Bolan, che non può far altro che continuare a ripetersi in “Truck On (Tyke)”.
La giusta dose di freschezza viene, invece, portata dai Roxy Music che, con “Street Life”, confezionano un pop nervoso e isterico degno del miglior Lou Reed.
Il rock del coccodrillo
Sul palco dell’Hollywood Bowl di Los Angeles, Elton John supera se stesso e regala a un migliaio di spettatori uno dei concerti più intensi e variopinti della sua carriera. Il suo stile selvaggio e oltraggioso fa da apripista alla musica, tra occhiali improponibili, cappelli a cilindro e gilet luccicanti. Un perfetto personaggio per una storia surreale di Lewis Carroll.
Linda Lovelace, star del controverso film a luci rosse “Gola Profonda”, introduce sensuale: “Signore e signori, nella tradizione della vecchia Hollywood lasciate che vi presenti la regina d’Inghilterra”. Scende, così, Elisabetta II, seguita a ruota da Elvis Presley, Batman e Robin, Frankenstein, Groucho Marx e Mae West. Solo attori per anticipare l’ultimo attore dello show, Elton John.
Il pubblico è in delirio, sovrastato da cinque pianoforti colorati e circondato dalle prime note di “Elderberry Wine”. La pantomima è finita e la musica prende posto nella sala per un concerto tirato di due ore, tra vecchie e nuove canzoni fino al doppio bis con la cover di “Honky Tonk Women”.
Elton è come un rullo compressore e le sue intuizioni hanno almeno il pregio dell’immediatezza, della semplicità, del piacere ludico. Non si cerca, insomma, l’ipotesi rivoluzionaria, ma basta il divertimento puro come nella tenera “Daniel” o nella buffa e irresistibile “Crocodile Rock”. E’ un pop ameno e populista, formato da brani a presa rapida che, in notti come questa di Los Angeles, sa conquistare occhi, orecchie e cuori.
Pin-Ups
Dopo il suicidio/omicidio dell’alieno polveredistelle, David Bowie torna a piede libero nel mondo del rock.
Come per catturare la vera essenza della sua gloria, una truppa della rete televisiva americana Nbc sbarca al Marquee di Londra in vista di una puntata con i fiocchi di “Midnight Special”.
Ci sono un po’ tutti attorno all’esile David che, nonostante la trovata drammatica dell’Hammersmith Odeon, continua a cavalcare l’onda del successo. Marianne Faithfull intona “As Tears Go By”, i Troggs pestano duro e un trio di ballerini – gli Astronettes – rende lo spettacolo più arioso e teatrale.
Mick Ronson e Trevor Bolder legano ancora Bowie al recente passato, accompagnati dal nuovo batterista Aynsley Dunbar, già con John Mayall e Frank Zappa. Il primo brano è una versione spiritata del vecchio classico dei Mojos, “Everything’s All Right”. Poi parte il riff di “I Can’t Explain” degli Who.
Forse per rifiatare dopo la sarabanda aliena, Bowie pubblica “Pin Ups” (Rca, 1973), disco interamente composto da cover di classici più o meno conosciuti. L’album è una boccata d’ossigeno fra i miti giovanili ed è, inoltre, un modo per celebrare la creatività dell’età dell’oro del rock tra il 1963 e il 1967.
Verso la metà degli anni 70, tuttavia, il business musicale cambia repentinamente e sparisce un modo di fare musica veloce, diretto, pieno d’azione. Sparisce la vecchia incertezza delle classifiche che, ora, sono fondamentali in un continuo miraggio da terra promessa.
Vedere Slade. Vedere Sweet. Vedere Suzi Quatro.
“Pin Ups” segue le regole del 1973, consegnando al popolo glam chicche come “Shapes Of Thing” (Yardbirds) e “Where Have All The Good Times Gone” (Kinks).
Dove, appunto, vanno a finire i bei tempi? Perché l’album è mediocre e, soprattutto, non riesce a giustificare la sua necessità.
Bowie, tuttavia, sul palco del Marquee sembra sereno nella sua ispirazione.
“Abbiamo scritto un musical e questa è la canzone omonima, “1984”.
Dopo Ziggy…
Album. Con “Stranded” (Island, 1973), le ambigue scatole cinesi dei Roxy Music si aprono nuovamente e, questa volta, c’è la voglia di lottare per diventare vera e propria band rock and roll. La sinistra sperimentazione sembra sprofondare con gli abissi della mente di Brian Eno che lascia il gruppo a causa di una diversità inconciliabile di vedute artistiche.
Senza diavolerie elettroniche, il mefistofelico Bryan Ferry può correre a briglia sciolta, seguendo liberamente il suo umore decadente, regnando incontrastato sulle tante ossessioni liriche. Il Grande Scontro, in pratica, trasforma i Roxy in una generale idea sonora ad immagine e somiglianza di Ferry.
Prevedibilmente, “Stranded” è, così, un disco più classico, meno azzardato e sperimentale, molto più vicino al formato-canzone. Tutto questo, ovviamente, non significa che il terzo lavoro ufficiale del gruppo sia da bollare come “minore”. “Stranded” è, forse, il disco più a lungo cercato da Bryan Ferry che pone, in questo modo, fine al gioco sonoro delle scatole cinesi per atmosfere forti, confidenziali, sinuose.
E’ un vecchio-nuovo senso di spazialità, guidato dal sintetizzatore del violinista Eddie Jobson (ex-Curved Air) nel melodioso singolo rubacuori “Street Life”. E’ l’immediatezza della voce di Ferry che predilige, ora più che mai, delicate ballate come “Just Like You” o infinite architetture oscure come “Psalm”.
Il disco rimane, tuttavia, un compatto lavoro di gruppo: “Amazona”, primo parto creativo di Manzanera, allarga le maglie dei Roxy, virando verso un funk sensuale. Sensualità romantica, disperata che si arrampica sull’inno poliglotta e un po’ spectoriano di “A Song For Europe” e raggiunge la sua piena grandezza in “Mother Of Pearl” che, tra Beefheart e Stones, sale corale con genio e ambizione.
l 1973 sarebbe sicuramente un anno più povero senza questo disco.
Stelle o meteore?
Chi è Alvin Stardust, il misterioso Elvis che, all’improvviso, scala le classifiche inglesi a velocità furiosa? Con una band di stramboidi in magliette attillate, Alvin realizza un brano a presa rapida, “My Coo Ca Choo”, il cui frivolo sapore rock and roll anni 50 spopola tra i palati più commerciali.
Shane Fenton, alla guida dei Fentones, gusta un primo successo agli inizi dei 60 con due brani, “Moody Guy” e “Cindy’s Birthday”. Star del “Saturday Club”, l’uomo in guanti neri termina il suo percorso musicale con l’ultima hit “It’s All Over Now”.
Il 1973, tuttavia, si rivela ottimo terreno per rinascere, rendendo più glamour il nome e ritagliandosi una piccola parte nel grande cabaret del glam-rock.
La risposta al suo rock and roll vecchio stile sorprende tutti – in primis lo stesso Alvin – e, così, una nuova stella si ritrova a brillare senza nemmeno essere presente sulle mappe. Sarà, come dice Jerry Brandt, una questione di stile, gusto, eleganza e bellezza. Qualità dimenticate, insiste, in un mondo dominato dalla bruttezza e dalla volgarità.
Brandt è il folle manager e mentore di una creatura plastificata che porta il curioso nome di Jobriath. “Il motivo per cui mi sono lasciato coinvolgere, la fonte di tutta la mia eccitazione, è la possibilità di trasformare questo casino generale in qualcosa di bello, artistico, teatrale. Una sorta di favola. Jobriath è la fata di questa favola”.
La fata americana Bruce Wayne Campbell sembra avere molti volti e, forse, nessuno: compositore, arrangiatore, cantante, ballerino, pittore, mimo, uomo, donna. Più semplicemente – e realisticamente – una delle prime star di massa del pop dichiaratamente gay ed esplicitamente pubblicizzata fino al disgusto.
Licenziato dal musical “Hair”, Bruce attira l’attenzione dell’ambizioso promoter Jerry Brandt che, convinto di aver scoperto la Greta Garbo del pop, gli offre un contratto di mezzo milione di dollari con la Elektra Records. I due volano verso il fermento glam di Londra per registrare un primo, insignificante album, “Jobriath” che dovrebbe fare di Bruce “il più grande artista del mondo”.
“Jobriath è Crosby, Sinatra, Presley e i Beatles messi assieme”. Sarà anche vero, ma la Garbo del pop arriva tardi: il sipario sul glam-rock stesso sta calando inesorabilmente.
Le bambole di New York
A smaltare le unghie del rock and roll col rossetto ci pensano, nel 1973, i/le New York Dolls, band viscerale di travestiti in piena regola.
Il complesso si forma a New York nel 1971 quando gli Actress del chitarrista maledetto Johnny Thunders incontrano il cantante sboccato David Johansen nei club più degradati ed equivoci della città. Completato dal basso à-la Bo Diddley di Arthur “Killer” Kane e dalle rasoiate della chitarra di Syl Sylvain, il gruppo adotta uno stile da Rolling Stones in overdose, presentandosi sul palco come un insieme di battone da marciapiede.
L’oltraggio visivo si accompagna a quello sonoro con uno spirito esecutivo selvaggio e feroce, memore delle nevrosi epilettiche degli Stooges e delle carneficine degli MC5. Il rock per omosessuali delle New York Dolls è il volto degenerato e suburbano della decadenza inglese, tra riff sparati a mille, distorsioni telluriche e urla tribali.
“New York Dolls” (Mercury,1973) è la sintesi corale e perfetta del beat sporco anni 60 e del rock maledetto anni 70, calcando oltre ogni limite la mano del glam e del kitsch. Un pugno (allo stomaco) di canzoni prodotte da Todd Rundgren e destinare, tra devianza e vomito incontrollato, un’epoca.
Il vecchio riff di Chuck Berry e poi degli Stones viene stravolto e trasformato in dinamite come nella vertigine di “Subway Train”. Le bambole prediligono l’inno epilettico, marziale e velenoso e il trittico “Personality Crisis” – “Looking For A Kiss” – “Trash” ne sviscera senza sosta le possibili espressioni.
Otto brani, quindi, per un incontro musicale cruciale: la decadenza dei Velvet Underground con la follia violenta degli Stooges, le pose di Marc Bolan con il furore degli MC5. In una sola parola, punk.
Nella fabbrica di hit
Al sesto piano di un esclusivo palazzo nel cuore di Mayfair lavora la coppia di autori del momento che, negli ultimi dodici mesi, ha collezionato un numero impressionante di successi pop da classifica. L’australiano Mike Chapman e il benestante Nicky Chinn non sembrano avere mezze misure, scrivendo brani come dei veri perfezionisti, artigiani del glam-pop al servizio di piccole star come Suzi Quatro, Sweet e Mud.
La visione esplicita di un’attuale rivoluzione giovanile prende forma nel pop and roll marziale di “Teenage Rampage” che lancia definitivamente lo pseudo-hard-rock da collegiali degli Sweet. Il brano è solo una copia sbiadita e plastificata dei vari inni generazionali in musica, ma Chinn e Chapman sono più che mai decisi. “E’ il brano che riassume tutto quello che sta accadendo. I ragazzi stanno imparando molto velocemente e, nell’aria, c’è molta aggressività, tensione. Scrivendo brani aggressivi riusciamo a cogliere i veri sentimenti di questi ragazzi che, così, possono sfogarsi ballando”.
E’ per ballare, infatti, che viene lanciata “Tiger Feet” dei Mud, il cui boogie artificiale spopola nel programma Top Of The Pops, ma soprattutto, nelle discoteche di mezza Inghilterra. E’ Chapman a continuare il solito discorso: “E’ l’immenso riconoscimento che devono avere, oggi, i giovani. C’è un vero movimento giovanile nella musica. Ognuna di queste canzoni rappresenta uno stato d’animo giovanile. Tutto quello che facciamo è dare ai ragazzi la possibilità di riconoscere se stessi attraverso le canzoni. Uno specchio per vedere se stessi”.
Regalità rock
Freddie Mercury è un ragazzo sensibile e delicato, ma, soprattutto, attento nei dettagli. Lo smalto nero su una sola mano simboleggia la doppia natura dei Queen che, nella sua visione, non hanno alcun bisogno di lottare per diventare grandi perché, semplicemente, lo sono già. Nonostante Nick Kent dell’Nme parli – a proposito del primo album – di “urina musicale”, i quattro sono al secondo posto, tra i migliori gruppi emergenti, nel sondaggio della stessa rivista. Quello che veramente importa, in fondo, è il successo di pubblico e la fuga impetuosa per piano di “Seven Seas Of Rhye” sembra piacere tanto a molti in Inghilterra.
Le prime architetture soniche dei Queen, certamente, non si distinguono per originalità, tra derive elettriche di stampo sabbathiano/zeppeliniano e ghirigori barocchi e progressivi à-la Yes. La forza decadente e dandy, tuttavia, affascina gli ascoltatori che apprezzano i toni alti, ruvidi mescolati a certe morbidezze liriche.
In “Queen II” (Emi, 1974), le idee ambiziose della band si sviluppano ulteriormente, facendo emergere una certa predisposizione alla ridondanza nella marcia regale di “Procession”. Il rock duro degli Who viene filtrato sotto l’ombra tragica di un manicheismo cromatico che oppone la tenerezza ipnotica di “White Queen” all’inquietante pop barocco di “The March Of The Black Queen”. Due diversi approcci sonori uniti da cori in falsetto, accordi oscuri e stornelli melodici per una maggiore consapevolezza dei propri mezzi al limite dell’egocentrismo collettivo.
I Queen stanno creando, in sostanza, un marchio di fabbrica riconoscibile, una propria idea del rock a tinte glam, ma ancora riescono a perdersi nel turbinio delle idee come nel rock and roll singhiozzante di “The Loser In The End” o nel tambureggiare pop di “Funny How Love Is”.
Dopo Ziggy…
Singoli. Nel 1974, Suzi Quatro continua la sua battaglia femminista a colpi di hit da classifica. In sexy e attillato completino di pelle, la piccola ragazza americana dimena il suo basso come un fallo, dando ordini ai suoi musicisti come un vero leader rock and roll. Al di là del fascino, tuttavia, c’è un nuovo singolo, “Devil Gate Drive”, che ripercorre minuziosamente gli stessi passi rock and blues tribali di “Can The Can” e “48 Crash”.
Più intrigante, allora, la sensualità algida di Lulu, donna-uomo à-la Bowie e piccola star in diretta dagli anni 60. A colpire l’immaginazione è la cover di “The Man Who Sold The World” che, tra sax funky e toni distaccati, rende più esotica e ballabile l’inquietudine dell’alieno.
Preso nella morsa tentatrice del pitone del mercato, Alice Cooper tenta ancora la strada maestra dell’inno generazionale. Sembra sparita, tuttavia, la foga elettrica di “School’s Out” o la perversione megalomane di “Elected”. “Teenage Lament ‘74” è un insensata ballata doo-wop da parte di un improbabile idolo anni 50.
In confronto, “Teenage Rampage” è la “My Generation” degli Sweet.
Il pop inizia a prendere direzioni strane, tra mancanza di originalità e folle corsa verso il primato.
Gary Glitter tocca il fondo con “Remember Me This Way”, allucinante lamento per occhi languidi in cerca del quasi fantasma di Elvis Presley.
I Bay City Rollers scatenano una verve r&b qualitativamente demenziale con “Shang-A-Lang” che diventa, tuttavia, un tormentone per stupide ragazzine urlanti.
Fortunatamente, l’ex-alieno-aladino David Bowie si appresta a tornare sulla terra con l’esasperante riff rollingstoniano di “Rebel Rebel”, che ricorda vecchie dispute generazionali e nuova androginia transessuale. Il brano sembra una riscrittura di “Satisfaction”, ma Bowie è più lontano che mai dagli schemi di “Aladdin Sane” e, con il disco in uscita, segnerà un primo, progressivo distacco dal rock and roll col rossetto.
Scintille
Un gentleman in pullover dall’aspetto curioso metà Charlie Chaplin, metà Adolf Hitler. Un clone dai denti rotti di Marc Bolan, capelli sconclusionati e vestaglia bianca. Strana coppia questa formata dai fratelli Ron e Russell Mael, direttamente da Los Angeles, California per suscitare nuove sensazioni sonore in terra inglese.
Gran parte del merito va al ritmo sconclusionato ed irresistibile del singolo “This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us” che corre via, arrembante, tra fulmini di tastiere e voce in falsetto.
Gli Sparks iniziano come Halfnelson nel 1968 mentre i due fratelli Mael studiano alla UCLA disegno grafico, letteratura e cinema. Il gruppo registra alcuni brani e li spedisce a Todd Rundgren che, immediatamente, decide di produrli in vista di un primo album a nome “Halfnelson”. Il disco passa inosservato e i due fratelli abbandonano il progetto, riprovandoci in maniera più decisa con un nuovo nome.
“Sparks” (Bearsville, 1971) è, in realtà, lo stesso lavoro con una copertina differente, ma i suoi brani stralunati, carichi di humour nero e sfumature cabarettistiche, riscuotono un ottimo successo di pubblico.
I tempi, evidentemente, sono cambiati e strizzano l’occhio alla creatività della band che, all’inizio del 1973, pubblica il secondo album “A Woofer In Tweeter’s Clothing” (Bearsville, 1973).
Gli Stati Uniti, tuttavia, non amano le atmosfere glam come l’Inghilterra e, quindi, il substrato pop europeo degli Sparks ha bisogno di altri lidi. E’ John Hewlett, fondatore dei John’s Children, che aiuta i fratelli Mael a mettere in piedi un tour europeo e, soprattutto, a firmare per la Island Records.
Il duo vola, così, a Londra e forma una nuova versione degli Sparks con musicisti inglesi, sotto la direzione attenta di Muff Winwood, già con lo Spencer Davis Group. E’ un vero e proprio colpo di fortuna: la neonata band ha la possibilità di respirare a pieni polmoni e di realizzare il primo, grande album della sua carriera.
Detroit Glam City
L’estetica glam che spopola in Inghilterra, figlia dell’ambigua, perversa bellezza di primi eroi come Mick Jagger e Brian Jones, non penetra fino in fondo nel nuovo mondo a stelle e strisce. Gli Stati Uniti non abbracciano la consapevolezza sfacciata dell’androginia rock con lo stesso gusto decadente dei cugini oltreoceano.
L’hard-rock americano è ancora imbevuto di accordi à-la Deep Purple o sporcato dal blues di band come gli Allman Brothers. La nuova corrente di “Hang On To Yourself” e “Suffragette City” guadagna, certo, popolarità, ma non scardina fino in fondo una certa ideologia macho nel rock and roll. Ecco perché gli Sparks volano a Londra per dare sfogo a una verve in falsetto da music-hall.
Gli Stati Uniti non sembrano, quindi, possedere una profonda padronanza della nuova estetica dell’eleganza, forse perché hanno avuto Scott Fitzgerald e non Oscar Wilde. La depravazione mascherata di Alice Cooper, insomma, non va al di là di un ripasso minuzioso del passato e, soprattutto, di trovate sceniche studiate a tavolino.
E’ vero, tuttavia, che la devianza suburbana di città più europee come New York prova maggiore empatia verso il concetto di rock androgino. David Johansen è il vero erede di Jagger e le sue Dolls rappresentano il crudo senso di un travestitismo delirante e selvaggio che spalanca le porte anarchiche e furibonde del punk.
E’ questo il lato più innovatore e avanguardista dell’America, che sale dai bassifondi in memoria dei Velvet Underground.
Solo un cristallino demente come James Newell Osterberg Jr, al secolo Iggy Pop, riesce, così, a dimenarsi impazzito su di un palco, nudo, truccato e grondante sudore.
La filosofia del “sex, drugs and rock and roll” urla dalle fogne di Detroit fin dal 1966 di “Kick Out The Jams”. Nel 1973 l’iguana del rock, sempre più drogato, arriva a Londra per completare una trinità profana e perversa con Lou Reed e David Bowie.
E’ il quasi-Aladino che aiuta Iggy a risollevarsi, lavorando con lui su un album non ancora solista, non più a nome Stooges.
“Raw Power” (Columbia, 1973) è il marciume sonoro di Detroit che tenta una strada più lussuosa ed elegante. Le due voglie, tuttavia, non trovano un accordo e le sirene modaiole del glam non riescono a incantare “il padrino del punk” che ribadisce la sua attitudine animalesca verso un rock and roll ultrasonico e velenoso.
“Search And Destroy” e “Raw Power” sono assalti proto-punk alle coronarie e il tribalismo allo stato brado di “Shake Appeal” poco si confà all’intellettualismo di Bowie.
Iggy Pop è dinamitardo, selvaggio nel suo trucco, ma il senso della melodia non va oltre l’aspra, ipnotica ballad “Gimme Ranger”. La vestaglia pop di Bowie, insomma, ingabbia la furia animale tanto che lo stesso Iggy, finalmente lucido, rimetterà mano al disco per renderlo più rumoroso e lancinante.
Da un tentativo all’altro, tornando sulla sponda opposta dell’oceano.
Alla fine di gennaio del 1973, i Kiss del bassista Gene Simmons e del chitarrista ritmico Paul Stanley tengono il loro primo concerto nel Queens di New York davanti a un pubblico di tre persone. Affascinati dalle pose delle New York Dolls, i quattro iniziano a fare curiosi esperimenti con la loro immagine, tra trucchi pesanti, costumi di pelle e varie trovate sceniche.
Nei club della Grande Mela il rock decadente dilaga, spinto dal successo commerciale di Alice Cooper. In questo modo, i Kiss possono esprimere al meglio un heavy-metal perverso, imbevuto di sesso e, fondamentalmente, privo di qualsiasi connotato sociale o esistenziale.
In “Kiss” (Casablanca, 1974) emerge il riff granitico, brutale e monocorde che si espande in energia pura ma che tradisce una certa inesperienza tecnica. La forza della band sembra provenire, piuttosto, da un esibizionismo macabro che si allaccia direttamente al grandguignol della Zia Alice. “Strutter” e “Black Diamond” sono piccoli classici del puro, menefreghista divertimento giovanile.
L’album ottiene un successo clamoroso e spinge Simmons e soci a registrare a velocità da record un nuovo lavoro, “Hotter Than Hell” (Casablanca, 1974). Il disco è virtualmente identico al precedente, ma la fretta con cui è registrato rovina parte della freschezza di brani, che sembrano soltanto scarti. L’epos metallico viene, in sostanza, ammorbidito da un easy-listening di fondo che arriva a sfiorare la demenzialità pop della bubblegum.
In altre parole, una variante metal del glam-rock.
E a infettare con germi glamorous l'America - San Francisco, nella fattispecie - saranno anche i Tubes, musicisti-teatranti, autori di performance oltraggiose e surreali. Le loro pantomime vivono sui travestimenti del cantante Fee Waybill, nei panni di improbabili personaggi, come Cowboy Fee, parodia del country & western, e Quay Lewd, per l’appunto glam-star. Tra navicelle spaziali, ballerine, catene, fruste altri armamentari sadomaso, si consuma una sagra del kitsch sapientemente orchestrata dal satiro Fee.
Il loro omonimo album d'esordio, "The Tubes" (1975), è uno shock, con la sua miscela di pop-rock parodistico, guidato dalla sapiente mano di Al Cooper in cabina di regia. I gioielli abbondano, dal power-pop di "Haloes", ovvero Todd Rundgren in rotta di collisione con i Roxy Music, alla verve chitarristica di "Boy Crazy", dall’inno “White Punks On Dope” alla bislacca cover del flamenco di "Malagueña Salerosa". I fiati e gli arrangiamenti d'archi di Dominic Frontiere conferiscono spessore al sound, senza mai appesantirlo eccessivamente. L’unico limite resterà la difficoltà di tradurre su vinile il dirompente impatto delle loro esibizioni dal vivo.
Capitolo Cinque
1974-1975
Di notte all’opera
L’anno dei cani di diamante
Nell’estate del 1973, David Bowie annuncia al mondo il suo ritiro dalle scene, ammettendo in privato di essere stufo dei tradizionali concerti rock e di voler sperimentare maggiormente con il teatro. Nasce, così, l’ambiziosa idea di un musical ispirato al noto romanzo “1984” di George Orwell che, tuttavia, si tramuta in uno dei suoi album più paranoici.
Alla metà del 1974, David Bowie mette in piedi un rock and roll show di grande impatto che attraversa in lungo e in largo il Nord America che, questa volta, sembra apprezzare la trovata. Forse perché il nuovo album schizza al diciannovesimo posto delle classifiche. Forse per via del gigantesco palcoscenico che si eleva tra palazzi futuristici in alluminio, effetti di sangue e inquietanti ponti metropolitani.
Non si tratta più di alieni e ragni da marte. Le calze di Mick Ronson sono, ormai, un ricordo. La nuova visione di Bowie è licantropia per le masse, incubo futuribile che guarda al Grande Fratello e all’ultimo uomo sulla terra di Richard Matheson.
E’ l’anno dei “Diamond Dogs” (Rca, 1974), aperto dall’ululato metà uomo, metà animale che annulla il rock and roll per un imminente genocidio. Il vecchio alieno è ora un mutante sonico che trasforma il glitter in un infinito “after dark”, apocalisse post-atomica che prende “Drive-In Saturday” e “Panic In Detroit” e le spara a miglia e miglia fuori città.
David torna agli incubi di “The Man Who Sold The World” più che all’eleganza filosofica di “Life On Mars?”, ma non vuole rinunciare al rock and roll rollingstoniano, dal riff della title track all’inno “Rebel Rebel”. Nel mezzo, il lungo melodramma di “Sweet Thing/Candidate”, nuovi spunti à-la Isaac Hayes in “1984” e la coralità fantasma di “Big Brother”. Il sabba di ossa rotte e voci freak di “Chant Of The Ever Circling Skeletal Family” chiude il cerchio e, su un loop ossessivo, fagocita l’intero disco.
Teatro rock o rock and roll teatrale? Il dubbio è immediato: Bowie dice di voler fare teatro, ma il suo vero talento è nel rock and roll.
A metà tra “Ziggy Stardust” e “Diamond Dogs”, il doppio album dal vivo “David Live” (Rca, 1974) è la cronaca di un concerto di luglio al Tower Theatre di Philadelphia. Il disco non offre una gran qualità di suono, ma, soprattutto, diffonde un’aria di distacco da parte di un canto rauco e lacerato che non riesce a essere immediato.
Bowie, in realtà, è stanco dei suoi stessi successi e sembra che questi abbiano perso l’originale significato, affogati in una pesante teatralità per non risultare completamente impotenti. “Moonage Daydream” diventa quasi auto-parodia e l’inno glam “All The Young Dudes” viene ribaltato con uno smaccato retrogusto soul.
Evidentemente, Earl Slick non ha la potenza grezza di Ronson, ma questo pare non importare a Bowie che calca la mano su teschi amletici, maschere di carnevale e arrangiamenti per fiati. C’è, tuttavia, ancora parte della vecchia magia cosmica con il piano melodrammatico di Mike Garson su “Sweet Thing” e “Changes” e la tragedia greca di “Rock And Roll Suicide”. Richiami, comunque, inutili perché Bowie non cerca più l’infernale rock and roll di Londra o Santa Monica, ma un più morbido calore soul. Vedere la trascinante cover di “Knock On Wood”.
Dopo Ziggy...
Album. Dopo il flop commerciale dell’omonimo disco di debutto, Jobriath decide di riprovarci, assemblando brani provenienti dalle sue prime sessioni di registrazione. In “Creatures Of The Street” (Elektra, 1974), la varietà di stili è indubbia, ma l’omosessuale alieno del pop non sembra altro che un plastificato surrogato di Aladdin Sane. Tormentata da pose teatrali ed esasperate, la musica resta solo sullo sfondo, ricreando atmosfere già sentite anche per il glam-rock. “Heartbeat” e “Street Corner Love” fanno il verso a Bowie che fa il verso a Jagger. In “Liten Up”, rivive il piano estatico di Mike Garson e, in “Good Times”, si torna persino a vecchie armonie vocali à-la Page/Plant. Troppi tasselli sonori, alla fine, rovinano la raffinatezza di un mosaico.
Singoli. Incurante di qualsiasi pudore musicale, l’opera generazionale degli Sweet continua, spremuta fino all’osso dalla premiata ditta Chinn/Chapman. In “The Six Teens”, tuttavia, l’iniziale goliardia sembra svanita e i quattro cominciano a prendersi troppo sul serio, tra svisate pseudo-hard e voce da calcio ai testicoli. Forse troppo anche per ragazzini arrabbiati.
Che lo spirito del glam inizi a svanire lo conferma anche la progressiva perdita di lucidità di Marc Bolan che, con “Zip Gun Boogie”, dimostra quanto sia attualmente annoiato il mondo del pop. La chitarra si insinua viziosa su un tappeto d’organo e l’appeal pare assicurato, ma dopo ripetuti ascolti il brano esaurisce la sua attrazione e questo non è mai stato un problema per i T.Rex.
Più fresco, allora, il rock and roll oltraggioso di “The Bitch Is Back” con cui Elton John continua la sua scalata commerciale, inseguito dalla indemoniata Suzi Quatro che abbaia, ma non morde in “The Wild One”.
Mr. Soft
Il giovane Steve Harley inizia la sua carriera nei tardi anni 60, suonando in giro per le strade di Londra insieme al chitarrista vagabondo John Crocker.
La vera e propria svolta arriva nel 1972 quando i due si aggregano al batterista Stuart Elliott, al bassista Paul Jeffreys e al tastierista Milton Reame-James.
Dopo soli cinque concerti, i Cockney Rebel firmano un succulento contratto con la Emi, pubblicando immediatamente il singolo “Sebastian”. L’epica ballata ottiene un grande successo in tutta Europa, ma non riesce a scalare le classifiche inglesi.
Sulle tracce dell’intellettualismo di David Bowie e dei Roxy Music, il gruppo esaspera l’ambiguità sessuale sulla scia di un cabarettismo di stampo mitteleuropeo.
Il disco di debutto “The Human Menagerie” (Emi, 1973) viene accolto positivamente dalla critica, tra esplosioni elettriche e aperture sinfoniche. Su tutte, spicca l’elegia camp di “Sebastian”, cui fanno da corollari il rock and roll straniante di “Crazy Raver” e i minuetti folk-trash di “Loretta’s Tale” e “Muriel The Actor”.
Nonostante le critiche positive, la personalità schizoide di Harley prende il sopravvento, scagliandosi in maniera irritante ed egocentrica nei confronti della stampa e, soprattutto, considerando la sua band come un semplice accompagnamento strumentale. Non importa, quindi, che anche “Judy Teen” diventi una hit, così come “Mr. Soft”, che anticipa l’uscita del secondo album dei Cockney Rebel.
In “The Psychomodo” (Emi, 1974), la voce dylaniana di Harley ribadisce le sue voglie estetizzanti con il cabaret circense di “Mr. Soft”, i jazzismi di “Singular Band”, il rock and roll sinfonico di “Sweet Dreams” e l’ammiccante profumo glam della title track. Memorabile l’epilogo decadente di “Tumbling Down”.
Alla fine, tuttavia, di fortunato tour inglese, la band decide che la misura è colma e abbandona in blocco Harley a cui rimane il solo Stuart Elliott. I Cockney Rebel vanno avanti, ma si capisce chiaramente che, ormai, è solo un progetto solista di Steve.
“The Best Years Of Our Lives” (Emi, 1975) è un disco dalle tante ombre e dalle poche luci, nel quale, tuttavia, spicca la splendida orecchiabilità del singolo “Make Me Smile (Come Up And See Me)”, che, questa volta, scala le classifiche a tempo di record.
Non mancano, comunque, piccole gemme glam come “Mr. Raffles” e “The Best Years Of Our Lives”. I migliori anni, appunto, perché da qui in poi il talento di Steve Harley scomparirà pian piano dalle scene.
La casa e il kimono
Nel 1974 gli Sparks vengono generalmente considerati, in Inghilterra, come un cosmico risveglio nel mondo del rock, catturando finalmente l’immaginazione dei giovani e delle classifiche. A parlare è il cantante Russell Mael: “Amiamo questa sorta di confusione e diversità. La cosa veramente straordinaria è che le persone non hanno nemmeno bisogno di parlarne. E’ davvero eccitante perché, per noi, si tratta soltanto degli Sparks che fanno le stesse cose di cinque anni fa. Suoniamo con musicisti diversi, certamente e siamo in Inghilterra cinque anni dopo, ma l’essenza è la stessa, gli Sparks sono gli stessi ed è davvero strano ricevere questo entusiasmo”.
L’originalità dello straordinario singolo “This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us” porta, in pratica, una ventata d’aria fresca nel glam-pop da classifica, anticipando l’uscita di quello che potrebbe essere senza dubbio considerato il capolavoro degli Sparks.
"Kimono My House" (Island, 1974) è il colpo da novanta dei fratelli Mael che, così, giustificano il volo oltreoceano e l’aggancio al movimento glam. Pedinando un’idea secondo la quale il pop e il rock devono fare leva su sonorità decadenti, realizzano un disco di impeccabile eleganza, che amalgama impasti vocali à-la Beach Boys, chitarre elettriche dalla decisa impronta hard e arrangiamenti orchestrali fra cabaret e music-hall.
Come mettere insieme Brecht e Marlene Dietrich.
“Kimono My House” contiene pezzi che danno una nuova svolta estetica al glam, come l’arrembante singolo d’apertura o la teutonica “Thank God It’s Not Christmas”, le atmosfere mitteleuropee di “Amateur Hour” o le carezze di “Equator”.
Rollermania
Leslie Richard McKeown è un ragazzino di diciotto anni, viso pulito, maglioncino leggero con collo a V, pacato nei modi e timido nelle parole. Ogni volta che tenta di parlare con qualche giornalista arriva il suo manager-patrigno, Tam Paton, che gli spiega esattamente cosa dire, come e perché.
I Bay City Rollers vengono formati a Edinburgo nel 1967 dai fratelli Alan e Derek Longmuir e, per puro caso, vengono scelti dalla Bell Records. Nel 1971 pubblicano la loro prima hit da classifica, cover del successo dei Gentrys, “Keep On Dancing” che arriva al numero nove e scatena le voglie del produttore-impresario pop Jonathan King.
I ragazzi incarnano subito uno spirito pop di facile ascolto che non ha alcun intento se non quello di girare il mondo, far soldi e diventare idoli delle fan. All’inizio del 1974, il nuovo singolo “Remember (Sha La La La)” fa il botto, seguito da una serie impressionante di smielati pop commerciali, da “Shang-A-Lang” a “All Of Me Loves All Of You”.
Esplode, così, la “Rollermania” che trasforma una cover dei Four Seasons, “Bye, Bye, Baby” in singolo spietato da un milione di copie vendute nel 1975. Il paragone con i Beatles si consuma in una serie di concerti da isteria totale, con ragazzine tra i dieci e i quindici anni che gridano, piangono e si spingono a vicenda.
L’abilità tecnica dei cinque è pressoché nulla e i loro show sono pianificati a tavolino come un qualsiasi prodotto di massa, ma il fenomeno è imponente e non può essere ignorato dagli – giustamente – sprezzanti critici musicali.
“Bye, Bye, Baby” e “Give A Little Love” sono i brani che consegnano la corona del pop ad un gruppo di sbarbatelli di Edinburgo.
Regina assassina
Nel settembre 1974, “Queen II” supera le centomila copie vendute, divenendo disco d’argento. I Queen godono di una considerazione sempre crescente, smentendo nettamente le fosche previsioni della stampa musicale.
Con due facciate A, il terzo singolo “Killer Queen/Flick Of The Wrist” ottiene un successo enorme, trasformandosi nel primo, vero hit della band. Le recensioni sono stranamente entusiastiche e spingono i quattro ad affrettare i preparativi per un nuovo tour inglese, registrando, per l’occasione, una versione elettrica dell’inno nazionale da usare come enfatica conclusione di tutti i concerti. Dopo quest’ultimo ritocco alla loro identità regale, May e soci sono, ormai, pronti a conquistare la vetta dell’olimpo del rock, partendo dalla pubblicazione, a novembre, del terzo disco ufficiale.
In “Sheer Heart Attack” (Emi, 1974) la fusione dei generi cari ai Queen si fa più concisa, strizzando l’occhio a una maggiore orecchiabilità. Lo stile musicale della band è, ora, più definito e coraggioso e l’iniziale formula ibrida sembra trovare un’identità più sentita e personale. Emblematico, così, il singolo “Killer Queen” che tradisce, tra cori da vaudeville e una chitarra al limite del pacchiano, la direzione sonora che può dare al gruppo la gloria commerciale. E’ una gustosa scommessa artistica che passa per l’ascensione progressiva delle stridule voci angeliche di “In The Lap Of The Gods” o per il melodrammatico finale di “In The Lap Of The Gods…Revisited” che sale, pirotecnico, tra cori da stadio e chitarre solenni. E’ vero, tuttavia, che i Queen non sanno rinunciare alle loro accelerazioni furenti, trascinati dal riffone heavy-metal di “Stone Cold Crazy” e dal boogie ad alta velocità di “Now I’m Here”. Brian May, in effetti, continua con la sua trasformazione in “guitar hero”, guidando la melodia hard del mini tour de force per echoplex di “Brighton Rock”.
Il “lato bianco della regina” vira verso la ballad marziale di “Tenement Funster”, giocando con riverberi elettro-acustici à-la “Tommy” che rimbalzano nella sinfonica “She Makes Me”. Anche in “Sheer Heart Attack”, quindi, si può notare una sorta di approccio manicheo con il lato oscuro di Mercury a scaraventare l’ascoltatore in una tenera dimensione da incubo. L’eccesso teatrale ama entrare in scena in pompa magna, come nella progressione di “Flick Of The Wrist” che balla sull’equilibrio tra morbidezze pop e inquietudini rock.
E’ la sensibile anima di un mostro rifiutato da tutti che, come in un romanzo ottocentesco, parla con la voce salmodiante della tenerezza per piano di “Lily Of The Valley” e piange, in solitudine, la lacrima gospel di “Dear Friends”. Come nella vita, il dramma può trasformarsi in gioia improvvisa e, allora, “Misfire” porta la sua allegria zingaresca da spiaggia a cui si accoda il deja vu anni 30 di “Bring Back That Leroy Brown”.
Il senso di tutto questo, certo, appare nuovamente ridondante e, a tratti, fuori luogo, ma l’album è ben fatto e dimostra chiaramente che i Queen hanno intenzione di rimanere a lungo sulle scene del loro teatro musicale.
Il ritorno della puttana
Nel 1973, Elton John estrae il coniglio da uno dei suoi cilindri, pubblicando il doppio album “Goodbye Yellow Brick Road” (Mca, 1973), acclamato dalla critica e impetuoso nelle classifiche anglo-americane.
Il disco trasforma il pianista in una vera e propria star del glam-rock, inanellando una serie impressionante di classici istantanei, melensi e orecchiabili. La dolcemente nevrotica “Bennie And The Jets” si piazza al numero uno, seguita da melodrammi pop come la title track e, soprattutto, “Candle In The Wind” e “Funeral For A Friend”.
La versatilità di John non viene, tuttavia, ripetuta in “Caribou” (Mca, 1974), che spacca nuovamente le classifiche, ma in una veste sonora molto meno raffinata. L’energia di “The Bitch Is Back” e il pop orchestrale di “Don’t Let The Sun Go Down On Me” salvano la faccia al cantante, così come una frenetica cover di “Pinball Wizard”, che appare nel film di Ken Russell, basato sulla rock opera “Tommy” degli Who.
Alla fine del 1974, la “puttana del rock and roll” si gode il trionfo al Madison Square Garden di New York che, tuttavia, verrà ricordato non soltanto per lustrini, occhiali e tre ore di pianoforte. A raggiungerlo sul palco è John Lennon che manda completamente in delirio la folla con l’elettricità nevrotica di “Whatever Gets You Thru The Night”.
La vecchia e la nuova star si guardano deliziati, toccando le rispettive anime musicali per “Lucy In The Sky With Diamonds” e l’inaspettata “I Saw Her Standing There”. La verve impegnata di Lennon sposa, così, il grande divertimento di Elton John, artista che non parla alla sua generazione, ma che invita tutti a non prendersi troppo sul serio. In una sera al Madison, insomma, due artigiani del pop che sembrano darsi il cambio definitivo sul tetto del mondo del rock and roll.
Dopo Ziggy…
Album. Per “Country Life” (Island, 1974) i Roxy Music ripongono nell’armadio pailettes, sete e acconciature d’altri tempi, in nome di un nuovo stile casual. Bryan Ferry, l’esteta decadente, trasforma l’ideologia camp in qualcosa di più semplice e vigoroso, che colga un’immediatezza sonora al di là di lunghe, nevrotiche sperimentazioni. “Three And Nine” è il brano che mostra questa ritrovata semplicità, diretta verso un cuore-canzone morbido e scioglievole.
I Roxy, tuttavia, non sembrano abbandonare del tutto il passato in lustrini. La ballata “The Thrill Of It All” rinnova antichi sapori musicali, così come “Bitter Sweet” e “Casanova”, che abbracciano quello che si presenta come un fantasma di sperimentazioni e romanticismo europeo.
Un disco, insomma, che paga un’incertezza sul futuro da parte di una band in bilico tra quello che non è più e quello che sarà.
Singoli. Stretto nella morsa Stewart-Wood, nel 1973 Ronnie Lane lascia i Faces, sostituito dall’ex Free Tetsu Yamauchi.
La band è una vecchia creatura in agonia, ma ruggisce per l’ultima volta con il singolo “You Can Make Me Dance… Sing… Anything” che colpisce il solo pubblico inglese con il suo coro irresistibile.
I Bay City Rollers, nel frattempo, portano a compimento le strategie del manager Tam Paton, conquistando il mondo del pop con due soli brani. Le atmosfere femminili fifties di “Bye, Bye, Baby” e il languore nauseabondo di “Give A Little Love” conquistano il mercato dei ragazzini che si preparano a fare dei cinque di Edinburgo la boy-band per eccellenza del glam-pop.
Piuttosto inutile, quindi, l’ennesimo tentativo degli Sweet che, con la pseudo-baldanza di “Fox On The Run”, cercano di imitare gli Slade senza averne i mezzi.
Maggiormente intrigante, invece, il lavoro dell’egocentrico Steve Harley, che frulla insieme canto loureediano, chitarre acustiche e cori beatlesiani per “Make Me Smile (Come Up And See Me)” che diventa, in breve, il suo brano più acclamato.
Se i Cockney Rebels richiamano la sofisticazione intellettuale di Bowie e Ferry, i Queen giocano con la furia punk degli Who e il riff à-la Led Zeppelin. “Now I’m Here” si sviluppa dinamitardo su un tappeto boogie supersonico, lanciando, violento, il chitarrismo eccessivo di Brian May.
Soul Man
Nel mezzo del cammino tra il 1974 e il 1975, l’emaciato e paranoico David Bowie nasconde i suoi occhi dietro un cappello ben piazzato sulla chioma rosso-carota. Gli zatteroni colorati hanno lasciato il posto a più sobri stivaletti con tacco, la vecchia tuta spaziale si è trasformata in un casual retrò à-la Buster Keaton.
L’incubo dei cani di diamante sembra essere passato, così come le ultime tracce di rossetto, svanite sulle note ripetitive di “Rebel Rebel”. La spugna pirandelliana è, ora, pronta ad assorbire nuovi umori di nuovi continenti.
Non è più il tempo per ballate spaziali, cabaret kurtweilliano e distorsioni hard. Bowie fuma sigarette nei Sigma Sound Studios di Philadelphia e medita su un nuova trovata scenica, nuovo gioco di prestigio. Il sassofonista David Sanborn e il corista Luther Vandross non sono con lui per puro caso.
Con “Young Americans” (Rca, 1975), David Bowie si trasforma nell’uomo del soul, stella americana di strada che di glamorous, ormai, ha solo il fascino e il look.
L’ipnotico ritmo di “Fame” è il colpo decisivo per conquistare la terra di Colombo, numero uno esagerato e nevrotico. Fiati, cori gospel e funky di colore sono la nuova, azzardata direzione, tracciata esplicitamente nella title track e nell’incedere di “Win” e “Fascination”.
Soul music, insomma, per gente pallida che gioca con falsetti (“Somebody Up There Likes Me”) e cori equivoci (“Can You Hear Me”). Tutto studiato e prodotto con precisione maniacale, ma, in fondo, meno genuino e complesso dei vecchi inni spaziali e decadenti.
John Lennon, quindi, non basta a rendere grande una cover confusa e sbandata come quella di “Across The Universe”. Meglio, a questo punto, l’emotività viscerale di Elton John.
Ma David Bowie è un falso perché sa perfettamente che un disco come “Young Americans” è fatto per piacere alla gente. David Bowie è un falso perché ha, forse, già in mente di scappare da Philadelphia e rifugiarsi in un nuovo incubo europeo.
Alla fine del 1975, la robotica funky di “Golden Years” sfrutta proprio la scia soul del disco, ma, in realtà, apre a un qualcosa di completamente diverso che seppellisce una parte della vita e, soprattutto, il suo fare glam.
Sirene
Nel 1975 il leader del “gruppo rock più elegante del mondo” parla con un giornalista inglese, alla vigilia dell’apertura, in una discoteca di Liverpool, del nuovo tour europeo. “Per me, ‘Stranded’ e ‘Country Life’ sono molto diversi dai nostri primi album. I primi due sono eccitanti, immediati mentre gli altri tentano di essere di qualità, diciamo professionali. Il nostro prossimo lavoro, ‘Siren’, non rinuncia al tocco professionale, ma possiede anche l’eccitazione e la potenza dei primi due album”.
“Siren” (Emi, 1975) è, per certi versi, il trionfo e, per altri, il colpo di grazia del rock artistico e intellettuale dei Roxy Music. Apparentemente più unita che mai, la band continua con il nuovo look casual e affina ulteriormente un sound pulito e perbenista.
Il playboy Bryan Ferry guida, così, un disco che strizza l’occhio all’emergente fenomeno disco, sinuoso e sexy. E’ la sua idea personale su Donna Summer che viene fuori nel successo da classifica, “Love Is The Drug”, brano quantomai danzereccio che lancia il gruppo nella stardom internazionale. Non proprio una svendita, non proprio un’azzardata sperimentazione.
L’album, in realtà, tenta di definire un nuovo stilema dandy, tra l’easy-listening di “End Of The Line” e le atmosfere romantiche di “Sentimental Fool”. Brani come “Whirlwind” e “She Sells” mettono in mostra il talento strumentale di Manzanera e soci, ma il tutto ha un sapore piuttosto incolore.
I Roxy puntano all’apice commerciale nello stesso momento in cui la genuina ispirazione va in esaurimento. Lo stesso Ferry è, ormai, un dandy squisito e glaciale alla ricerca di piaceri proibiti, con i fasti della sperimentazione decadente che sono soltanto un dolce, sensuale ricordo.
Di notte all’opera
Nel 1975 i Queen abbandonano la Trident dopo alcuni dissapori finanziari, rendendosi liberi di trattare senza intermediari con Emi ed Elektra con la supervisione di John Reid. Il nuovo manager resta di sasso quando il gruppo gli presenta, in ottobre, il brano che intende utilizzare come nuovo singolo, quasi sei minuti di musica simil-operistica dal titolo di “Bohemian Rhapsody”. Reid spiega che non è possibile pubblicare a 45 giri una canzone tanto lunga, ma i quattro sono inamovibili e rifiutano la proposta di tagliarla. Taylor è amico del dj Kenny Everett e, a titolo personale, gli passa una copia promozionale del vinile chiedendogli espressamente di non passarlo per radio. Everett, ovviamente, cede alla tentazione di proporlo ai suoi ascoltatori e fa letteralmente saltare in aria le sue linee telefoniche.
Il 31 ottobre 1975 viene pubblicato “Bohemian Rhapsody” e il mondo musicale inglese subisce un fortissimo scossone. Un inizio in stile ballata malinconica sfocia in un tripudio di sovrincisioni operistiche per poi concludersi su tonanti cadenze di rock duro: per alcuni straordinario, per altri assolutamente disgustoso.
La stampa si divide, ma, in generale, è concorde nell’affermare che il pezzo è troppo lungo e che non diventerà mai un hit. Non di questo avviso le stazioni radio inglesi che passano continuamente il brano dall’inizio alla fine. Effetto: nel giro di due settimane il singolo vende più di 150mila copie, regalando alla band il primo numero uno nelle classifiche inglesi e anticipando trionfalmente l’uscita del nuovo disco.
Frutto di una produzione maniacale, “A Night At The Opera” (Emi, 1975) oltrepassa senza remore l’ambiziosa linea sonora di “Sheer Heart Attack” e si afferma come la creatura più riuscita dei Queen. Dodici brani slegati si rincorrono per dare forma a qualcosa di unico nel suo genere, una messa in scena che ricalchi, al limite dell’oltraggioso, l’antico teatro musicale dell’operetta. L’acido tuono hard di “Death On Two Legs”, infatti, serve soltanto per dare il via allo spettacolo, nel modo più fragoroso e imponente.
Mercury è sempre più regina del castello e la sua voce dolce e amara ha bisogno di architetture sonore sempre più complesse. Parte del merito va all’astuto Roy Baker che gioca continuamente tra effetti e cori, accompagnati dalla chitarra cromatica e clownesca di May nel vaudeville “Lazing On A Sunday Afternoon. La fama dei Marx si trasforma, qui, in una serie di sketch tra la farsa e la tragedia con l’approccio quasi infantile della filastrocca jazzata per ukulele di “Good Company”, ribaltato nella marcia epica della mini-suite “The Prophet’s Song”, che fa volteggiare ritmi hard e cori gregoriani quasi fosse una “My God” ancora più teatrale.
L’orecchiabilità di “Sheer Heart Attack” subisce una nuova metamorfosi nelle scenette pop di “I’m In Love With My Car” e “You’re My Best Friend” dove piano e chitarra cullano voce e cori nella maniera migliore. La strada dell’hard, glam and roll di “Sweet Lady” cede, quindi, progressivamente il passo alla tenerezza lirica strappalacrime di “Love Of My Life” o al corale acquerello acustico di “39”.
“A Night At The Opera” è tutta la gustosa parodia irritante di “Seaside Rendezvous” che crea una nuova, discutibile forma d’arte incoronata dal tripudio “Bohemian Rhapsody”, tonante collage zappiano per frammenti di musica antica e moderna. “A Night At The Opera” realizza il melodrammatico sogno musicale dei Queen che vivono, così, un periodo di grandissima euforia. L’album procede spedito in una marcia inarrestabile, diventando disco di platino e rimanendo per ben 56 settimane nelle classifiche degli Stati Uniti.
Fra il 29 novembre e il 2 dicembre, quattro serate di tutto esaurito all’Hammersmith Odeon di Londra portano i quattro definitivamente in cima al mondo.
Gli ultimi sussulti
Col 1975 si chiude la stagione più luccicante del glam. Sul campo, resta un mucchio di piume e lustrini, ma l'attitudine glamorous non muore e finirà col rinascere sotto mentite spoglie in era new wave (basti pensare a band come Bauhaus e Japan, ma anche alle varie propaggini synth-pop e new romantic). David Bowie, Lou Reed e Iggy Pop diventano padri nobili, del punk prima e del post-punk poi. Duncan Browne, però, è un tipo sfortunato. Esce infatti col disco giusto nel momento sbagliato. Insieme a Peter Godwin e poi al chitarrista Sean Lyons, aveva formato i Metro all'inizio dei 70, tentando di incanalare il brio art-rock sui sentieri di un formato-canzone pop sì tradizionale, ma altrettanto eccentrico e spiazzante.
Post-glam o un punk già adulto? "Metro" (1976) non è probabilmente né l'uno né l'altro. Ma deve il suo insuccesso commerciale soprattutto al ritardo con cui viene pubblicato. Composte fin da due anni prima, le ballate decadenti di Duncan Browne diventano un contrappunto fuori tempo massimo alle invettive a squarciagola del punk. Peccato, perché il sound di "Metro" è un distillato di pura eleganza glamorous, un melange raffinato, che declina il gusto decadente del glam con la perizia del prog e con l'anima candida del folk. Un pulsante basso funk (a cura di John Giblin) tiene in piedi la sezione ritmica, il moog di Peter Godwin insegue le linee melodiche, ma è soprattutto il gioco di intarsi chitarristici (ora elettrici, ora acustici) a partorire un suono inaudito, lambiccato ma mai stucchevole, sfondo ideale per il timbro oscuro di Godwin.
Un'orchestra in piena era punk: è l'oltraggio della sinfonica "One Way Night", del melodramma di "Black Lace Shoulder", dell'ode romantica di "Flames". Ma l'asso nella manica si chiama "Criminal World", ovvero l'ambiguità sessuale ("the girls are like baby-faced boys") a tinte fosche, tra chitarre fuzz e cori celestiali. Le radio britanniche censureranno il singolo, affondando così anche l'album. Minata dall'insuccesso, la line-up originaria della band si spezzerà. Ma "Metro" resterà il nobile canto del cigno del glam-rock. Nel 1983, David Bowie gli renderà omaggio con una bella cover di "Criminal World" (su "Let's Dance"). La maledizione, tuttavia, si abbatterà ancora su Duncan, dandy poetico e auto-ironico, nell’arte come nella vita: dopo una lunga lotta contro il cancro, morirà nel 1993.
Gli ultimi sussulti del glam-rock arrivano anche dalla remota Nuova Zelanda, patria degli Split Enz di Tim Finn, strambo menestrello col gusto per gli arrangiamenti sinfonici e le atmosfere fiabesche. Nelle loro mascherate, tra costumi e trucchi pittoreschi, confluiscono psichedelia e prog, atmosfere circensi e gothic-horror, surrealismo e cinema espressionista. Il tutto filtrato dall’approccio bizzarro e paradossale di Finn.
Le intuizioni dell'esordio "Mental Notes" (Charisma, 1975) vengono riproposte e perfezionate in "Second Thoughts" (Charisma, 1976), frutto del loro sbarco in Inghilterra e della produzione di Phil Manzanera, rimasto fortemente impressionato dalla performance del gruppo, di spalla ai Roxy Music nel loro primo tour australiano. Ai vocalizzi di Tim Finn si aggiungono quelli del chitarrista Phil Judd, mentre le frasi di tastiera di Eddie Rayner e le percussioni del duo Noel Crombie-Malcom Green contribuiscono a un sound corposo e policromo. Si spazia da soffici ricami acustici ("Titus") a numeri pseudo-prog ("Stranger Than Fiction"), da bozzetti pop ("Matinee Idyll") a piece di stupefacente estro ed eclettismo ("The Woman Who Loves You, Walking Down a Road").
Judd lascerà poi il gruppo, al quale si unirà per un certo periodo il fratello di Tim, Neil, poi destinato a maggior fama nelle file dei Crowded House.
Encore
Children Of The Revolution
All’inizio degli anni 90, l’ideale fil rouge con il glam-rock storico corre sugli accordi degli Suede, band formata a Londra nel 1989 dal bassista Mat Osman e dal cantante Brett Anderson.
Gli undici brani di “Suede” (Nude, 1993) fanno saltare in aria il mercato inglese, aprendo in maniera decisiva alla rivoluzione del brit-pop. La band, tuttavia, cita apertamente il David Bowie dell’epoca Ziggy, con Anderson a replicarne ambiguità e decadentismo, affiancato dal chitarrista Bernard Butler che cita lo stile di Mick Ronson.
I precisi riferimenti al genere restano fermi anche in atmosfere rarefatte e visionarie. Ascoltare “Dog Man Star” (Nude, 1994) per lasciarsi ipnotizzare da melodrammi come “Daddy’s Speeding” e “The Wild Ones”.
Addentrandosi nel decennio, l’estetismo bowiano viene progressivamente reso più pop e, di conseguenza, più vicino alla fruibilità commerciale dei T.Rex di Marc Bolan.
“Coming Up” (Nude, 1996), “Trash” e “Filmstar” sintetizzano bene il nuovo approccio musicale degli Suede. Tutti i pezzi più memorabili del puzzle glam vengono ricomposti dalla band che, in “Head Music” (Nude, 1999), lo nutre con energia punkeggiante. “Savoir Faire” e “Everything Will Follow” rimandano alle atmosfere dei Roxy Music, mentre “Electricity” e “Can’t Get Enough” si riallacciano alle trasgressioni di Bolan e “She’s In Fashion” allo stile “Young Americans” di Bowie.
A tornare in “New Morning” (Epic, 2002), tuttavia, è il romanticismo degli esordi con Anderson a incarnare deliziosamente il sognatore sconfitto che commenta il viavai metropolitano. Una ragazza, una televisione accesa, un flirt inconfessabile: il suo sguardo, perennemente in bilico fra vittoria e sconfitta, è malinconico e disincantato. E la band, in ottima forma, lo segue con tocco raffinato. “Lost In Tv”, “Obsession” e “Astrogirl” entrano dritte nella storia degli Suede.
A celebrare il revival è “Velvet Goldmine” (Uk, Usa, 1998), pellicola di Todd Haynes che ripercorre gli anni d’oro del glam attraverso la storia di un ipotetico cantante di nome Brian Slade che scimmiotta le pose androgine di David Bowie.
La relativa colonna sonora riporta all’attenzione generale gioielli come “Satellite Of Love”, “Make Me Smile” e “Virginia Plain” e spara una cover al fulmicotone di “20th Century Boy”, realizzata dai debuttanti Placebo.
Nel 1996, infatti, viene pubblicato il loro disco d’esordio, “Placebo” (Virgin, 1996) dove emerge l’androginia del cantante Brian Molko, supervisionata da un glam-rock rabbioso e molto fetish.
Anche qui si tratta di fieri discepoli del Bowie ’72-’74, abbinato a un rock alternativo made in Usa, che si trasforma in brani veloci, tesi e smaccatamente orecchiabili. I ritornelli sono sinistri e sprezzanti e sconfinano presto nel buio intimismo di “Without You I’m Nothing” (Virgin, 1998) che impone ritmi più lenti e riflessivi (la title track e “Ask For Flowers” su tutte) per uno pseudo-rock umorale per pseudo-anime tormentate.
Possiamo ragionevolmente pensare che alla fine dei 90 il glam-rock possa ancora avere un significativo seguito di pubblico? E ancora, che in un imperante contesto di "anonimi" indie-rocker di jeans e t-shirt vestiti, si aggiri indisturbato un truccatissimo figuro agghindato di lustrini e pailettes? Non potremmo nemmeno concludere che tra le finalità del personaggio Bobby Conn via sia un intento meramente "trasgressivo", perlopiù già metabolizzato dalla Gran Bretagna di inizio anni Settanta, quella per intenderci dei Roxy Music, dei Cockney Rebel, dei T-Rex, degli americani anomali che rispondono al nome di Sparks e, ovviamente, di Mr. Ziggy Stardust.
Il fatto è che qui stiamo parlando di un americano "doc", e persino di un americano di Chicago, la stessa città che ha visto esplodere il post rock. Il glamorous Bobby sembra piovuto da chissà quale galassia, come una meteora caduta fuori tempo massimo. A qualcuno potrebbe sorgere il dubbio che quella di Conn possa essere un’operazione di pedissequo recupero del passato, sia a livello d’immagine che di stile musicale. Eppure, non ci troviamo di fronte a un blando esercizio stilistico, ma a un complesso intrecciarsi di contaminazioni che rendono il Nostro un caso unico.
Sagoma rigurgitata dagli scarti di pellicola di “Velvet Goldmine”, artista virtuoso, barocco, ridondante, luccicante, Conn è un trucco promiscuo. Come la sua musica, che flirta con tutto quello che fu e che non è più, che sprizza non-hype da ogni poro.
Dal delirio sfrenato di “Bobby Conn” (Truckstop, 1997), in cui arriva a proclamarsi l’Anticristo (“Axis '67”) al concept ambizioso di “The Golden Age” (Thrill Jockey, 2001), dal mare magnum funky-glam-rock di "The Homeland" alla rock-opera cinematografica di “King For A Day” (Thrill Jockey, 2007), quella di Conn è una sfavillante babilonia, tanto variegata che finirà forse con l’accontentare pochi.
Ma all’alba del nuovo millennio il glam sembra anche vivere una fortunata stagione commerciale, trainato, tuttavia, da gruppi plastificati che imitano pedissequamente le vecchie pose e i vecchi accordi.
Gli svedesi The Ark, capitanati dallo sboccato cantante Ola Salo, si impongono nel 2000 con l’album “We Are The Ark” (Virgin, 2000) che, grazie al ritmo melodico del singolo “It Takes A Fool To Remain Sane”, spopola nei mercati internazionali. Il bibitone kitsch è caro al limite della truffa e danneggia l’aura storica del genere con il successivo “In Lust We Trust” (Virgin, 2002).
Ancora più smaccati i The Darkness del cantante-chitarrista Justin Hawkins, che fanno propria un’estetica cock-rock per sintetizzare in maniera folle trent’anni di sfrontatezza rock, giocando con i cliché più eccessivi in circolazione. I sing-a-long di “Permission To Land” (Atlantic, 2003) sminuzzano senza pudore la teatralità dei Queen e le durezze di Thin Lizzy, Cheap Trick e Ac/Dc. “Love Is Only A Feeling” e “Black Shuck” sono brani-minestrone che ridefiniscono il concetto stesso di kitsch, portandolo su territori vicini al ridicolo. Eppure il commercio parafrasa Adam Ant: “Il ridicolo non è nulla di cui ci si debba vergognare”.
Decisamente più meritato, tuttavia, è il successo degli/delle Scissor Sisters che frullano senza paura ritmi discotecari, oltraggiosi funky-glam e ballate à-la Elton John.
In “Scissor Sisters” (Universal, 2004) a far parlare è, soprattutto, una cover dance stralunata di “Comfortably Numb”, che, tuttavia, viene calmata da brani che sembrano usciti direttamente da “Goodbye Yellow Brick Road”, come “Take Your Mama Out” e “Music Is The Victim”. Se, quindi, “Tits On The Radio” fa scatenare culi sulle piste, “Laura” si affida al piano, per un triplo salto mortale nella piscina della seconda metà degli anni 70.
“Ta-Dah” (Universal, 2006), poi, vira ancora di più verso sonorità pop da canto sotto la doccia per un impasto mordi/balla/fuggi.
Outro
Epitaffio: Rock And Roll Heart
A quindici anni, il giovane Marc Feld cerca di infiltrarsi nella periferia musicale di Londra, soprattutto quando non deve aiutare la madre al mercato della frutta di Soho o lavare piatti al Wimpy Bar. Presentato dalla rivista Town come “Re dei mod”, Marc ama frequentare un pub, The Brewmaster, dove, tra una pinta e l’altra, inizia a dichiarare al mondo che: “Un giorno diventerò una grande star e allora tutti voi vorrete conoscermi. Aspettate e vedrete se non ho ragione”!
Durante tutta la sua carriera, Marc Bolan è il primo cittadino di un mondo fantastico. La penna visionaria di Tolkien e gli accordi di Eddie Cochran sono i primi abitanti della sua fantasia, seguiti da Dylan Thomas, James Dean, Jack Kerouac, Chuck Berry e Jimi Hendrix.
Nel 1966, Simon Napier-Bell, manager degli Yardbirds, assolda Bolan e produce il primo singolo “Hippy Gumbo” che fa colpo sul dj John Peel che lo manda a ripetizione nel suo show su Radio London, Perfumed Garden. Due anni dopo, nascono i Tyrannosaurus Rex, duo acustico con Steve Peregrine Took ai bonghi, prodotti da Tony Visconti nel primo album “My People Were Fair And Had Sky In Their Hair But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brow”.
Il disco lancia il duo nel circuito underground londinese e definisce chiaramente una direzione “tolkieniana” che si ripresenta nel successivo “Prophets, Seers And Sages, The Angels Of The Ages”, che consolida un mix di filosofia hippy e primitivismo rock. La formula magica non viene toccata per tutto il 1969, nonostante un disastroso tour americano che convince Took a fare le valigie, sostituito da Mickey Finn.
Il grande cambiamento, tuttavia, arriva giusto un anno dopo quando Bolan imbraccia la chitarra elettrica nel singolo “By The Light Of The Magical Moon/Find A Little Word” e nell’album “Beard Of Stars”. A ottobre, il gruppo abbrevia il nome in T.Rex e sceglie la Fly Records a cui regala il rivoluzionario successo del singolo “Ride A White Swan”.
In tempo per le feste natalizie, Bolan e Finn vengono raggiunti dal bassista Steve Curie e dal batterista Bill Legends per registrare il primo, vero album elettrico “T.Rex”.
Nel giro di poco tempo, quindi, Marc Bolan si trasforma da artista di culto a vero e proprio idolo delle masse al di sotto della maggiore età.
Esplode il fenomeno glam e la sua ambivalenza sessuale, abbinata a una massiccia dose di narcisismo lo porta sulle copertine di mezza Europa, aprendo la strada un po’ a tutti, da David Bowie alle New York Dolls.
Se, tuttavia, Bowie riesce perfettamente a controllare la sua arte, Bolan è vittima del suo stesso successo e le sue pose oltraggiose vengono facilmente imitate da band più aggressive come gli Slade.
Nonostante questo, i “15 minuti di fama” di Marc e dei suoi T.Rex durano quasi tre anni, attraversati da singoli spacca-classifiche – “Hot Love” e “Get It On” – e dal seminale album “Electric Warrior”, che incapsula magicamente un rock and roll cosmico e surreale.
Bolan scopre una nuova formula magica, naive e brillante e le rimane fedele al limite dell’ossessione.
La cosiddetta “T.Rexstasy” raggiunge il suo apice nel 1972 grazie ai tre singoli “Telegram Sam”, “Metal Guru” e “Solid Gold Easy Action” e, soprattutto, all’album “The Slider”, che vende centomila copie prima ancora dell’uscita ufficiale.
A marzo, Ringo Starr riprende gli show dell’Empire Pool di Wembley per la controversa pellicola “Born To Boogie”, che subito alimenta la discesa in picchiata del momento d’oro. Ignorando pubbliche accuse e consigli professionali, Bolan infarcisce i T.Rex con cantanti e sassofoni e pubblica il singolo “Teenage Dream”, che introduce l’imbarazzante disco “Zinc Alloy And The Hidden Riders Of Tomorrow”, presa in giro improponibile di Ziggy Stardust.
Nei successivi show televisivi, il chitarrista sembra una parodia di se stesso, costringendo il fido Tony Visconti a rompere il fortunato sodalizio dopo sette, lunghi anni. E il peggio deve ancora arrivare. Tra il 1975 e il 1976 Bolan rifiuta di accettare la fine inevitabile e, alla stampa, dichiara di avere quattro se non di più numeri uno in cantiere.
Forse. Nel privato, però, inizia a bere pesantemente e ad assumere sempre più droghe. Quando tutto, ormai, sembra perduto, un Bolan ingrassato urla al mondo di essere “il padrino del punk”, partendo immediatamente in tour con i The Damned. Parte della vecchia magia pare recuperata miracolosamente e molti hanno la sensazione che, con un po’ di tempo, il vecchio cigno bianco potrebbe farcela ancora.
Il suo tempo sulla terra, tuttavia, scade inesorabilmente il 16 settembre 1977 quando il fu Marc Feld si schianta con l’auto nei pressi della sua casa a Barnes.
Un enorme cigno bianco veglia sul suo funerale al Golders Green Crematorium.
Nonostante abbia portato tutto e tutti all’esasperazione, Marc Bolan era un brav’uomo che ha vissuto il viaggio fantastico del rock and roll fino alla fine, oltre ogni limite.
Contributi di Claudio Fabretti, Stefano Pretelli, Antonio Puglia, Marco Bercella